I limiti della collaborazione nell' impresa

1.La deprecabile dismissione dei doveri del cittadino

Diversi anni fa ci colpì la tesi prospettata, (molto prima di "tangentopoli" ad un Convegno su "Mafia e criminalità"), dall'allora direttore della Vigilanza creditizia della Banca d'Italia ed ora Direttore Generale della stessa, Dr. V. Desario, finalizzata all'inserimento nei Collegi sindacali delle società (finanziarie, immobiliari, industriali, commerciali, ecc.) di un sindaco effettivo e di uno supplente non scelto dagli amministratori ma di provenienza "esterna", per designazione da parte del Tribunale al fine di "prevenire gli illeciti di gestione".

L'esigenza sottesa alla condivisibile proposta, oggi dopo "tangentopoli" ancor più attualissima, era (ed è) - secondo l'autorevole esponente della Bit - quella di "...poter contribuire non poco ad assicurare, in una giusta posizione dialettica (del collegio sindacale così strutturato, n.d.r.) con gli altri organi sociali, una corretta e sana gestione aziendale, nell'interesse dei soci, e la generale trasparenza della conduzione societaria, negli interessi collettivi tutelati dall'ordinamento".

I motivi per cui tale esigenza fu (e resta attualmente) sentita, scaturivano (e scaturiscono, a tutt'oggi) evidentemente dall'obiettiva constatazione che le aziende necessitano di una più incisiva vigilanza nel pubblico interesse, in quanto non poche di esse si sono organizzate ed operano - come i processi di "mani pulite" hanno pubblicamente evidenziato - come nuclei socio-economici corporativamente avulsi dal tessuto connettivo statuale, in cui a torto o a ragione fanno difficoltà ad integrarsi o non intendono affatto esserne componenti organiche. Piuttosto che considerarsi tessere costitutive di un mosaico alla cui delineazione concorrono tutte le comunità intermedie, sia sociali sia imprenditoriali, anche quest'ultime - per la verità né più e né meno di altre strutture con diversi od opposti interessi - attivano i tipici meccanismi ostruzionistici del "soggetto passivo non consenziente", cioè di difesa dalla struttura e dalla indiscutibilmente imperfetta ed inappagante macchina statale, per sottrarsi più o meno lecitamente ai "lacci e laccioli" da essa predisposti, suppostamente nell'interesse collettivo risultante dalla mediazione e dal contemperamento delle multiformi istanze di segno diverso, cioè a dire per la realizzazione di una finalità qualitativamente superiore alle singole rivendicazioni corporative.

Ma la soprariferita proposta era (e resta) emblematicamente confermativa di un deprecabile aspetto del comportamento dei cittadini-prestatori di lavoro nell'impresa, sul quale desideriamo intrattenerci.

Per essere più chiari del fatto che i prestatori di lavoro - ai vari livelli di collaborazione e di responsabilità - tendono, una volta inseriti nell'impresa ed in ragione dello status di subordinazione e delle limitazioni reali o supposte a tale status riconducibili, a dismettere i loro doveri di cives dello Stato. Di rado liberamente, e più spesso perché in azienda si sono create le condizioni psicologiche e materiali ostili all'attivazione, i prestatori di lavoro subordinato brillano per dimenticanza (a danno della collettività) di quei doveri individuali dei quali la nostra Costituzione - sempre più relegata a foglio impunemente lacerato e vilipeso - ha caratterizzato ciascun membro della comunità, nel momento in cui, all'art. 2, gli ha richiesto "...l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale", in senso specifico ed in senso lato, in congiunzione inscindibile con l'impegno dello Stato a "riconoscergli e garantirgli i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (impresa inclusa, n.d.r.) ove si svolge la sua personalità".

2. Scusabili fraintendimenti e abbandono volontario dei principi etici

Non vi sarebbe infatti un grosso bisogno, a valle della gestione aziendale, di controllori o garanti operativamente rispondenti al pubblico potere (giudiziario nella specie) se gli stessi prestatori di lavoro a monte ed in seno alle aziende operassero in direzione della prevenzione di eventuali illeciti o comunque nell'ottica etica della correttezza gestionale interna ed esternamente rilevante, confortati dalla consapevolezza che ciò che può essere legittimamente da essi preteso in ragione di un rapporto di lavoro è una collaborazione tecnica (quantunque improntata a diligenza specifica) e non una dedizione assoluta, assorbente, acritica e totalizzante, tale - se del caso e patologicamente - da confondersi (con) o sconfinare nell'omertà. A titolo esemplificativo, nel campo della gestione dei diritti e delle aspettative dei lavoratori, la Direzione del Personale dovrebbe atteggiarsi ad organo (imparziale) di magistratura interna, non già ad appendice ossequiente ed attuativa di direttive (eventualmente) clientelari e del tutto atecniche di una Presidenza o Direzione Generale compromessa con i poteri politici od economici e sollecitata esternamente da lobbies di varia natura o configurazione. Analogo discorso vale per gli Uffici tecnici delle Direzioni Bilancio, per quelli preposti alla concessione dei fidi e dei crediti, ecc.

Varie sono le ragioni per cui il prestatore di lavoro, a livello direttivo più che ai livelli inferiori, chiude un occhio (o tutti e due) in certe occasioni, sopravvalutando il diffuso convincimento che - in disgraziata ipotesi - sarà chiamato a rispondere agli organi preposti esclusivamente il rappresentante legale dell'impresa e sottovalutando correlativamente quel principio giuridico per cui la responsabilità penale è personale e si estende a chi tecnicamente ha cooperato a maturare "incaute" decisioni (e la memoria corre ai dirigenti Montedison, prima, ed ai collaboratori di Ventriglia al Banco di Napoli, poi, a carico dei quali sono state intentate azioni di responsabilità). Quando poi non si assiste addirittura alla "beffa" posta in essere dai difensori del legale rappresentante - per sminuirne le imputazioni - col prospettare al magistrato inquirente tesi di atecnicismo dell'esponente di vertice, onde scaricare sul collaboratore professionalmente qualificato la responsabilità di aver taciuto, mal rappresentato o parzialmente omesso rilevanti aspetti o situazioni per una valutazione altrimenti obiettiva e per una decisione conseguenzialmente corretta (il caso non è affatto teorico: basta por mente alle vicende giudiziarie - o scorrerne gli atti - relative ad amministratori o presidenti di società e finanziarie, coinvolti in dissesti a danno dei privati e della finanza pubblica).

Tra i motivi della collaborazione del prestatore di lavoro nei confronti della "cultura della trasgressione", stanno primariamente le sue caratteristiche da Don Abbondio per necessità indiscutibilmente esistenziali (conservazione dell'occupazione, non emarginazione) ma, talaltra, valutazioni del tutto prosaicamente egoistiche ed amorali (progredire più di altri nella carriera, partecipare alla spartizione di benefici premianti connivenza, disponibilità, docilità e simili), in un contesto che ha fatto dire ad un autorevole studioso scomparso "dell'essere in un'epoca caratterizzata dalla separazione del potere da un'etica che ne giustifichi l'esercizio. Così vi è una frenetica esaltazione del pragmatismo e della realpolitik...Insomma viene praticata una specie di etica della "non etica", il cui vuoto di valori viene pienamente avvertito dalle nuove generazioni. E' naturale che in questo panorama ci si dedichi intensamente alla prassi che Foucault individua con i verbi "sorvegliare e punire". Correlativamente il consenso viene perseguito facendo ricorso ad un fiorente uso degli strumenti di coercizione: dai privilegi agli adepti, alle ricompense agli arresi, dalle censure a chi resiste ai premi a chi s'adegua"(Cessari, in Riv. it. dir. lav. 1983, I,417, nota 30).

3.Vizi e distorsioni di una totalizzante concezione fiduciaria

Spesso la collaborazione del prestatore alle trasgressioni ed inadempienze datoriali risulta, tuttavia, forzata in ragione di un malinteso senso del dovere di obbedienza, alla luce del quale il rifiuto o la resistenza alle disposizioni (illegittime) gli appaiono suscettibili di infrangere quella fiducia, il cui venire meno legittima la risoluzione del rapporto per giusta causa ex art. 2119 c.c.

Senza intento alcuno di voler accrescere la casistica degli atti di insubordinazione in azienda, ma nell'ottica di assolvere ad una funzione educativa e di consapevolizzazione, va detto che il prestatore di lavoro è - per dovere civico - tenuto e giuridicamente legittimato a disattendere prescrizioni datoriali aggiranti o elusive di normative legali (fiscali, previdenziali, valutarie, ecc.) o volte a dar corpo ad atti gestionali contrastanti con i principi etico-giuridici della correttezza ed imparzialità. In tali evenienze i lavoratori - accentuatamente coloro che operano in posizioni di responsabilità - debbono riscoprire ed esaltare i loro convincimenti morali ed il loro ruolo di cittadini della più ampia (e più elevata, nella scala dei valori) comunità statuale, legittimati a porre in sottordine - per l'occasione - la loro condizione di prestatori di lavoro subordinato cui sono stati sospinti e nella quale versano eminentemente per necessità di sopperire agli indifferibili bisogni economici piuttosto che per scelta libera e finalizzata alla realizzazione delle loro aspirazioni spirituali.

Certo è che, fintanto che si mantiene viva e si rinsalda - a danno dell'educazione civica, del senso morale e del progredire delle acquisizioni a favore dei diritti della personalità - quella concezione imperante (con sottili puntualizzazioni per i soli addetti ai lavori) secondo la quale per effetto di un lavoro subordinato si dilaterebbero sul lavoratore non i soli obblighi di cooperazione tecnica e professionale finalizzati all'adempimento corretto, diligente e leale dell'oggetto del contratto ma indefiniti ed aprioristicamente indeterminabili obblighi di fare e di astenersi dal fare, riconducibili ad una ampissima ed equivoca nozione di "fedeltà" o "fiduciarietà", risultano veramente esigue le possibilità che il prestatore di lavoro possa evitare di far violenza alla propria dignità ed al tempo stesso concorrere ed impegnarsi, senza rischi troppo elevati, nell'opera civilmente e socialmente meritoria di favorire il conseguimento dell'obbiettivo della correttezza e trasparenza gestionale.

Anche se nessun benpensante potrebbe negare, in teoria, la liceità della resistenza o dell'avversione del prestatore ad avallare (con il proprio apporto professionale) comportamenti datoriali disdicevoli o illegittimi per contrarietà a norme imperative, contrattuali o gestionali interne autolimitative (nell'ottica della prevenzione, da parte dei gestori pro-tempore, di abusi nell'esercizio di privati poteri), la deliberata cappa di silenzio calata sopra questa categoria di diritti di "obiezione di coscienza" ha fatto radicare e rigogliosamente crescere nell'animo dei prestatori di lavoro l'erroneo ed immobilizzante convincimento di poter incorrere in atti di insubordinazione così come, correlativamente, nel datore di lavoro privato o pubblico ha preso consistenza, a dismisura, il presunto diritto di poter pretendere dal lavoratore la dedizione del "socio in affari".

4. Sola collaborazione tecnica ad una corretta gestione aziendale

Nell'odierno assetto di inattuazione dell'art. 46 Cost. - che notoriamente prefigura la soluzione partecipativa dei lavoratori alla gestione delle aziende - l'attuale prestatore di lavoro non è obiettivamente associato ai fini ed alle sorti dell'impresa. Su di lui gravano doveri di collaborazione in senso tecnico (art. 2094 c.c.), di diligenza (art. 2104 c.c.) e di fedeltà nel senso specificato dal contenuto dell'art. 2105 c.c. (ad onta di un'infelice rubrica), sostanziantesi nel divieto di concorrenza e di violazione del segreto professionale. In un campo oramai arato da più di un ventennio da norme soppressive della discrezionalità del recesso (subordinato a causali incidenti sul contenuto degli obblighi contrattuali, di obiettivo riscontro) e dai principi dello Statuto dei lavoratori, queste affermazioni sembrerebbero di pacifica condivisibilità.

Così invece non è, poiché sacche di intrinseca arretratezza culturale - o riproposte sub specie mimetica di liberismo economico/gestionale selvaggio - ed istinti di prevaricazione mai dismessi, vengono posti non infrequentemente in luce dalla stessa giurisprudenza (per tacere di quelli che si realizzano in silenzio, senza giungere all'esame giudiziale), che anche non molto tempo addietro si è trovata a stigmatizzare l'illegittimità (rectius, l'indegnità) del licenziamento irrogato a due lavoratori da un tal Rabbiosi (è il reale cognome del datore di lavoro "intollerante") rei di aver azzardato intraprendere e vincere contro di lui un giudizio per ottenere la qualificazione del rapporto di lavoro ed il riconoscimento di pretese retributive. Correttamente la Cassazione (n. 4241 del 29 giugno 1981, in Mass. giur. lav. 1982, 67; conf. recentemente Cass. 3 maggio 1997 n. 3837, ibidem 1997, Mass. Cass. , 44, n. 132, che ha qualificato "discriminatorio" e, quindi, nullo ex art. 4 l. n. 604/'66, il licenziamento datoriale a fronte di iniziative giudiziarie intraprese dal lavoratore) ebbe a qualificare "vendetta" il comportamento di ritorsione datoriale al ricorso dei due prestatori agli organi istituzionalmente preposti ad acclarare la correttezza delle azioni, la fondatezza delle pretese ed a dirimere le private contese. E quante imprese meditano, ancor oggi, ritorsioni - fino al licenziamento - nei confronti di coloro che, in costanza di rapporto, si rivolgono alla magistratura per l'accertamento dei propri diritti, nonostante che addirittura nell'oscura epoca corporativa fosse già acquisto dalla Cassazione il principio per cui "l'essere la società convenuta innanzi al magistrato dal dipendente per chiedere di diritti inerenti al rapporto di cui si reputava leso (e risultati poi infondati) non costituisce legittima causa di licenziamento per l'essersi rivolto all'organo che la legge appresta per la risoluzione delle controversie di lavoro; ed anche se la pretesa sia stata giudicata infondata...non può certo affermarsi che il solo esperimento giudiziale sia di tale gravità e legittima causa d'incompatibilità...da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto" (Cass. 31 gennaio 1930, in Mass. giur. lav. 1930, 18).

In un caso non dissimile, ancora la Cassazione (n. 1476 del 26 aprile 1976, in Mass. giur. lav. 1977, 120, m.) ha dovuto riprecisare come "il lavoratore socio di impresa a struttura societaria che aveva presentato una denuncia penale contro il presidente della stessa, si era costituito parte civile nel relativo processo ed aveva proseguito un procedimento civile, promosso da altri soci, contro la stessa società, non aveva commesso illecito disciplinarmente sanzionabile col licenziamento avendo, all'opposto, esercitato un proprio diritto, sia pure con un comportamento contrario agli interessi di fatto del datore di lavoro". E di recente, a conferma dei principi asseriti, la Cassazione (n. 11138 del 5 novembre 1998) ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dirigente che aveva preannunciato all'azienda un'azione giudiziaria, affermando espressamente il principio di diritto secondo cui: "L'azione giudiziaria costituisce un diritto insopprimibile per chiunque e pertanto il suo preannuncio non basta a giustificare un licenziamento; tale comportamento infatti non è idoneo a causare perdita di fiducia, ben potendo il dirigente (e il dipendente in genere) da un lato tenere al riconoscimento dei suoi pretesi diritti e dall'altro conservare e confermare il suo attaccamento al posto di lavoro".

Ed ancor più di recente, in sede di merito, si è correttamente stabilito che: "Non viola l'art. 2105 c.c. - in tema di obbligo di fedeltà - il lavoratore che consegni alla guardia di finanza copia della distinta di spedizione della merce "a nero", con conseguente apertura di procedimento penale e inflizione di sanzioni pecuniarie a carico del proprio datore di lavoro. La denuncia penale, d'altra parte, costituiva l'unica strada del lavoratore per sottrarsi al rischio di un coinvolgimento personale, in veste di coimputato, negli illeciti fiscali, penalmente rilevanti, dei quali non solo era genericamente al corrente, ma per i quali era anche deputato dall'imprenditore a custodire la relativa documentazione "a nero". D'altronde tutti i soggetti che operano nell'impresa - che non costituisce un universo a se stante nel quale operano regole diverse e difformi da quelle valide per tutti i componenti dell'ordinamento - sono in ogni caso tenuti all'osservanza dei principi generali dell'ordinamento medesimo, a maggior ragione ove siano contenuti in norme cogenti ed inderogabili tra le quali rientrano anche quelle che disciplinano gli obblighi fiscali e che vietano, e sanzionano anche penalmente, le relative violazioni. E' illegittima pertanto la sanzione del licenziamento alla cui invalidità consegue l'obbligo di reintegra ex art. 18 L. n. 300/'70 "(così Trib. Trani, 29.7.1999, n. 659, Pres. ed Est. Pica, Dragonetti c. Elite s.r.l.). 

Tale sentenza di merito è stata confermata nella specifica affermazione di principio da Cass., sez. lav.,  n. 519 del  16 gennaio 2001 (est. Lamorgese) che ha statuito: "L’obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. – riferibile soltanto alle notizie “attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione industriale”, e non estensibile sino a comprendere nel divieto anche notizie inerenti agli aspetti amministrativi e commerciali della vita dell'impresa  - e quelli ad esso collegati di correttezza e buona fede, devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività “lecita”dell'imprenditore, non potendosi di certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell'ambito del dovere di collaborazione con l'imprenditore, anche quando quest'ultimo intenda perseguite interessi che non siano leciti, quale appunto quello di evadere il fisco occultando le vendite delle merci prodotte. Tale obbligo non può, infatti, essere configurato nel senso più ampio di fedele dedizione del lavoratore al perseguimento degli interessi dell’imprenditore, sì da imporre al primo l’obbligo di astenersi da qualsiasi comportamento che possa essere in contrasto con quegli interessi. Ne consegue che, nel caso di specie, è legittimo  e non sanzionabile il comportamento del lavoratore che abbia consegnato alla guardia di finanza  fotocopia della distinta della spedizione di  merci vendute a terzi  senza la relativa documentazione fiscale, in quanto esercizio di un diritto soggettivo pubblico di denuncia di un fatto penalmente rilevante, a salvaguardia di un interesse pubblico, qual è quello che ogni cittadino adempia al carico tributario cui è tenuto in ragione della propria capacità contributiva, interesse che è avvertito nell’opinione pubblica in un  contesto in cui l’evasione fiscale è notoriamente elevata, almeno in alcune categorie di contribuenti, tanto che il combatterla rientra tra le linee programmatiche di ogni Governo della Repubblica ".

A conferma di quanto innanzi evidenziato, a determinare i surriferiti comportamenti o provvedimenti aziendali censurati in quanto giuridicamente illegittimi non è certamente estranea una malintesa concezione "fiduciaria", totalitariamente intesa, responsabile di aver fatto ritenere, erroneamente, le legittime iniziative di reazione del prestatore di lavoro come "irreversibilmente vulnerative della fiducia che il datore di lavoro deve costantemente poter riporre nel proprio dipendente che è il presupposto della permanenza del rapporto tra di essi intercorrente". Principio azionabile solo nei confronti di atti datorialmente corretti ed ineccepibili - legittimanti obblighi contrattuali di adempimento da parte del lavoratore - e che, invece, pacificamente non si attaglia alle reazioni o ai rifiuti del prestatore di collaborare al compimento di atti aziendali non contemplati dal contratto ovvero disdicevoli e contra legem (in tal senso, Cass. n. 5643 dell'8 giugno 1999).

E', al riguardo, infatti applicabile la considerazione espressa da Prezzolini, secondo cui: "l'arbitrio che viene dall'alto legittima, quantomeno, la disobbedienza che viene dal basso" (Codice della vita italiana, Quaderni della voce, serie II, n. 45, Firenze 1923), che è poi la traduzione letteraria del brocardo"inadimplenti non est adimplendum"che costituisce la ratio dell'art. 1460 c.c.

Mario Meucci

(già pubblicato, senza i necessari aggiornamenti giurisprudenziali, in D&L, Rivista critica di diritto del lavoro, 1997, n. 4, p. 695).

Roma, 18 marzo 2001

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