Inosservanza dell'obbligo datoriale di sottrazione del lavoratore da mansioni pregiudizievoli per la salute, illegittimità del licenziamento per superamento del comporto e reato di lesioni colpose

 

Sommario:

1.L'orientamento in tema di repêchage del lavoratore divenuto inabile alle mansioni asserito da Cass. sez. un. 7 agosto 1998, n. 7755

2.L'orientamento in ordine al dovere datoriale di sottrarre il lavoratore da mansioni pregiudizievoli per lo  stato di salute psico-fisica

3.L’illegittimità del licenziamento per superamento del comporto di malattia, correlata alle mansioni e/o condizioni di lavoro (morbigene anche solo soggettivamente), nel caso in cui il datore di lavoro abbia trascurato l’obbligo di ricerca di sollecitate mansioni confacenti con il menomato stato di salute. L’addizionale reato di lesioni colpose. 

 

1. L'orientamento in tema di rêpechage del lavoratore divenuto inabile alle mansioni

 

Per esaminare a fondo la problematica in ordine alla sussistenza (o meno) di un dovere del datore di lavoro di sottrarre il lavoratore da mansioni suscettibili di pregiudicare (o aggravare) lo stato di salute – problematica alla quale, lo anticipiamo per il lettore, forniremo una risposta positiva, con le necessarie argomentazioni di supporto – e, conseguentemente, per giungere ad affermare la sussistenza di un diritto del prestatore allo spostamento da mansioni  pregiudizievoli per la salute ad altre (sempreché  sussistenti in azienda), bisogna partire dall'orientamento inaugurato – dopo molte vicissitudini ed imperando una difforme concezione improntata ad insensibilità – dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998 [1]. Con tale decisione la Suprema Corte, ribaltando un orientamento ultradecennale legittimante il licenziamento del lavoratore, ex art. 1464 c.c., divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli, ha affermato che, anche per tale fattispecie, vige l'obbligo di repechage asserito come condizione propedeutica per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ex art. 3 L. n. 604/1966, quale la soppressione del posto di lavoro, ecc.). Il datore di lavoro, per essere più chiari, prima di poter licenziare per sopravvenuta inidoneità alle mansioni assegnate al lavoratore  deve, quindi, necessariamente  sperimentare la possibilità di un reimpiego del medesimo in altre mansioni più consone al suo stato di salute, sempreché sussistenti in azienda, ed al limite anche in mansioni inferiori – con il consenso dell'interessato – in vista di salvare il bene dell'occupazione, superiore a quello della dequalificazione professionale,  condizione oramai ritenuta valida per non incorrere nel divieto previsto dall'ultimo comma dell'art. 2103 c.c., contemplante la nullità di "patti contrari" finalizzati al declassamento.

Il nocciolo dell'argomentazione delle sezioni unite risiede nella seguente considerazione: «Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev’essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione  dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del codice civile.

Ciò induce a non accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la prestazione lavorativa, il residuo interesse all’adempimento debba essere apprezzato soggettivamente – senza alcuna possibilità di controllo da parte del giudice, interprete del contratto – dall’imprenditore/creditore, a cui spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente situazione di mera soggezione del lavoratore. Ammesso che l’infermità dia sempre luogo ad un’impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi dell’apprezzamento soggettivo di tale interesse è stata seguita in giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita…, ma non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l’oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d’obbligazione nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione  all’imprenditore.

Sarà perciò il giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del prestatore ed all’organizzazione dell’azienda come definita insindacabilmente  dall’imprenditore, valuterà la persistenza dell’interesse alla prestazione lavorativa, secondo buona fede oggettiva».

Sono le medesime conclusioni cui era giunta una parte della dottrina – sebbene con differenti argomentazioni - quando, criticando il vecchio orientamento, asseriva [2] che: «Le conclusioni raggiunte dall’orientamento rigorista, su di un piano di stretto diritto privato, vanno pertanto armonizzate con i principi pubblicistici in tema di promozionalità e difesa dell’occupazione (art. 4 Cost.), di non emarginazione e di integrazione sociale, di non colpevolizzazione delle minorazioni e delle flessioni dello stato di salute, principi tutti implicanti l’adattamento della prestazione – nei limiti di un riscontro organizzativo – alle mutate condizioni di salute del lavoratore. Il che significa che l’azienda non dovrà certo creare – per mero assistenzialismo – posizioni superflue ma che, al verificarsi dell’evento della “inabilità parziale”, essa dovrà verificare al suo interno  se sussistono effettive incombenze o posizioni di lavoro compatibili con la menomazione ove egualmente impiegare, con apprezzabile proficuità, il lavoratore medesimo e, correlativamente dimostrare, nel caso di ricorso al licenziamento per g.m.o.,  che esso si è imposto, quale extrema ratio, per l’assenza di alternative. In tal modo – e secondo noi correttamente – viene inserita una così delicata fattispecie nell’orientamento postulante il repechage, prima   dell’estromissione dall’azienda, orientamento consolidatosi …per legittimare, in caso di ristrutturazioni aziendali, il licenziamento per l’identica causale del giustificato motivo oggettivo».

In buona sostanza sarà l’azienda a dover dimostrare, come in tutti i casi di licenziamento per g.m.o., l’impossibilità di riutilizzo del lavoratore in altre mansioni - primariamente equivalenti ex art. 2103 c.c. e, secondariamente - attesa l’oramai intervenuta legittimazione di pattuizioni di “declassamento concordato o consensuale” (al solo scopo di evitare il licenziamento) - in mansioni anche non equivalenti ed inferiori [3] ma suscettibili di salvaguardare il bene dell’occupazione  (più che lo stato di salute), potendo l’imprenditore – secondo le sezioni unite – rifiutare l’assegnazione a mansioni equivalenti (o anche inferiori) quando ciò “comporti aggravi organizzativi ed in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido”, precisazione quest’ultima che non inficia assolutamente la posizione della sezione lavoro che aveva suggerito lo spostamento dell’invalido, da attuarsi anche secondo turn-over nelle di lui mansioni mansioni da parte di colleghi meno usurati (così Cass. n. 5961/1997, citata in nota 1).

 

2. L'orientamento in ordine al dovere datoriale di sottrarre il lavoratore da mansioni pregiudizievoli per lo  stato di salute

 

Ora se è stato correttamente affermato che il lavoratore menomato nello stato di salute e divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni contrattuali non può essere licenziato per il venir meno dell'interesse del datore di lavoro alla residua prestazione ma deve essere ricercata in azienda –  senza comportare aggravi organizzativi – la possibilità di un reimpiego in mansioni più consone allo stato di salute che il lavoratore può proficuamente disimpegnare, senza pregiudizio per le sue minorate condizioni, non può non sussistere (peraltro, a monte) un dovere datoriale di "prevenire" il deterioramento psico/fisico del lavoratore medesimo a causa delle mansioni svolte.

Quello che si vuol dire è che – dato per scontato oramai che sussiste un dovere dell'azienda di sottrarre i lavoratori "collettivamente intesi" da mansioni o lavorazioni oggettivamente morbigene – a nostro avviso sussiste anche un diritto del "singolo lavoratore", caratterizzato da una particolare  conformazione organica e da una eventuale fragilità, ad esempio,  dell'apparato cardio/vascolare (soggetti ad ipertensione arteriosa, ecc.), dell'apparato osteo/articolare (scoliotici e simili), dell'apparato respiratorio (asmatici ed allergici, ecc.), dell'apparato neurologico (soggetti labili, ansiosi, depressi, ecc.) ad essere sottratto allo svolgimento  di mansioni "soggettivamente" pregiudizievoli per la salute, da parte del datore di lavoro cui sia stata notificata e documentata (tramite probante certificazione sanitaria) la  potenziale o effettiva dannosità delle mansioni assegnate.

Il problema del "dovere" o "obbligo" datoriale di sottrarre da mansioni pregiudizievoli si sposta dai lavoratori intesi quale "collettività" al "singolo" prestatore di lavoro, giacché determinate mansioni o lavorazioni indifferenti per la collettività – e quindi non oggettivamente morbigene – possono risultarlo per quel "singolo lavoratore", in ragione ed a causa della sua particolare conformazione o struttura organica.

L'esistenza  di tale dovere è desumibile – inequivocamente – dalla  sussistenza in capo al datore di lavoro di un obbligo a contenuto amplissimo ed a connotazione "prevenzionale", costituito dalla  prescrizione dell'art. 2087 c.c. secondo cui «l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che , secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Questo obbligo "prevenzionale" di salvaguardia della integrità psico/fisica si salda e si rafforza con la necessaria lettura dell'art. 32 Cost. che afferma quale  obbligo  dello Stato quello della «tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività».

Non può, pertanto, che essere considerata oscurantista e superata quella giurisprudenza  che afferma che: «nel caso in cui determinate mansioni o condizioni di lavoro, pur non essendo oggettivamente morbigene – ed essendo quindi esclusa una violazione degli obblighi gravanti ex art. 2087 c.c. sul datore di lavoro – siano pregiudizievoli per la salute di un determinato lavoratore, determinandone un ricorrente stato di malattia, il datore di lavoro, salva espressa previsione di legge o di contratto, non è tenuto ad adibire il dipendente ad altre mansioni. Conseguentemente è legittimo il licenziamento di quest'ultimo attuato dopo il superamento del periodo di conservazione del posto» [4].

Queste decisioni – che oltre tutto appartengono, nella quasi totalità,  al pregresso orientamento assertore dell'irrilevanza per il (ed indifferenza del) datore di lavoro nei confronti delle malattie determinanti impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, materia nella quale ha operato una svolta la già citata Cass. sez. un. n. 7755/1998, nel senso di asserire l'obbligo datoriale del reperimento di mansioni compatibili con lo stato di salute e di residua idoneità lavorativa del prestatore d'opera -   non sono affatto condivisibili perché forniscono una lettura restrittiva dell'obbligo prevenzionale contenuto nell'art. 2087 c.c., escludendo che lo stesso possa riguardare il singolo (con le sue individuali fragilità e la sua particolare conformazione organica) e, per contro,  riservando le misure di salvaguardia datoriali solo per  la "collettività" dei lavoratori.

Quanto andiamo dicendo non costituisce affatto una nostra opinione soggettiva, poiché le più recenti e migliori decisioni della Cassazione – che relegano le  opposte opinioni sopra riferite nell'alveo di un orientamento superato o in via di superamento – affermano che: «E’ soggetto  a responsabilità risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni che sebbene corrispondenti alla sua qualifica siano suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) -  di metterne in pericolo la salute. L’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di una interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui all’art. 1375 c.c. – che funge da parametro di valutazione comparativa degli interessi sostanziali delle parti contrattuali – inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione con altro dipendente nei compiti più usuranti. Quando ciò non sia possibile, il datore di lavoro può far valere l’infermità del dipendente quale titolo legittimante il recesso ed addurre l’impossibilità della prestazione per inidoneità fisica – in applicazione del generale principio codicistico dettato dall’art. 1464 c.c. – configurandosi un giustificato motivo oggettivo di recesso per ragioni inerenti all’attività produttiva,  all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute» [5].

In questa decisione fondamentale, riguardante una fattispecie relativa ad un lavoratore, in età non più giovanile, colpito, in dipendenza da  stress causato dall’impegno lavorativo e dalle condizioni di espletamento della prestazione  - dipendenza o causalità accertata da consulenza tecnica d’ufficio -  da infarto miocardico, la Cassazione ha asserito che l’art. 2087 c.c., che tutela, nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, il bene della salute psico/fisica protetto dall’art. 32 Cost., fa si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro (che postula la c.d. ”causa violenta” che determini una brusca rottura dell’equilibrio organico e non un evento lesivo costituente l’effetto lento e progressivo di condizioni gravose di lavoro che abbiano minato gradualmente l’organismo del prestatore, come nella fattispecie esaminata), sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria  per c.d. “danno biologico”, nel caso in cui non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più confacenti con il suo minorato stato di salute, tali da precludere un aggravamento della salute medesima.

L’obbligo  datoriale sussiste compatibilmente con la sussistenza di posizioni di lavoro confacenti  in azienda per il lavoratore inabile – ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato salute - senza naturalmente che la stessa azienda sia costretta a creare  per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo.

E la Suprema corte giunge, nella sopra riferita decisione,  a queste conclusioni adducendo che: «i principi di correttezza e di buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 1375 c.c., richiedono – in ossequio a quanto imposto dall’art. 2087 c.c. – che il datore di lavoro, a conoscenza di un’infermità del lavoratore incompatibile con le mansioni affidategli, deve mettere in atto tutte e misure a tutela dell’integrità psico/fisica del suo dipendente, incorrendo conseguentemente in responsabilità per danni alla salute che il dipendente stesso abbia subito per essere stato indotto a continuare un’attività lavorativa che, per la sua natura e le concrete modalità di svolgimento, sia suscettibile di determinare un aggravamento delle sue già precarie condizioni di salute».

Nello stesso senso – cioè a dire per un obbligo prevenzionale mirato al "singolo lavoratore" – si è espressa, poi,  una successiva decisione della Cassazione del 1 settembre 1997, n. 8267 [6] secondo la quale :«In ottemperanza all'art. 41, comma 2°, Costituzione, secondo cui la libertà di iniziativa economica incontra l'imprescindibile limite di non arrecare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana, il datore di lavoro  non può esimersi dall'adottare tutte le misure necessarie – compreso l'adeguamento dell'organico – volte ad assicurare livelli competitivi di produttività senza compromissione, tuttavia, dell’integrità psico fisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo e di dimensionamento della struttura aziendale. La regola consolidata nell'ambito del'art. 2087 c.c. prescrive che l'attività di collaborazione cui l'imprenditore è tenuto in favore dei lavoratori, non si esaurisca nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge ma si estenda alle altre iniziative o misure che appaiono utili per impedire il sorgere o il deterioramento di una situazione tale per cui lo svolgimento dell'attività lavorativa determini, con nesso di causalità, effetti patologici o traumatici nei lavoratori».Analogo principio è stato riaffermato dalla Cassazione nella più recente decisione del 26 maggio 2005 n. 11092 [7] la cui massima dispone: «Il datore di lavoro, una volta che sia emerso che il lavoratore presenta infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 4, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 626/1994 (cfr. Cass. 22 aprile 1997 n. 3455, 2 agosto 2001 n 10574). L'eventuale impossibilità, sul piano organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non giustifica l'assegnazione a mansioni non compatibili. Salva rimanendo la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello stesso a mansioni compatibili (anche con deroga al divieto ad assegnazione a mansioni di livello inferiore: cfr. Cass. sez. un., 7 agosto 1998 n, 7755). Con la precisazione che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell'illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possano rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto».

Identica irrilevanza delle assenze per malattia imputabile a responsabilità datoriale è stata asserita più di recente da Cass. 22.1.2007 n. 1333[8] secondo cui: «Ai fini del superamento del cd. periodo di comporto non sono computabili le assenze del lavoratore per malattia nelle ipotesi in cui l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità del datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. o di specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore, l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate».

Nella sentenza n. 8267/1999 la fattispecie decisa atteneva ad un Capo Ufficio dell’Ente Autonomo Fiera del Levante di Bari, il quale - a causa della stressante attività cui aveva dovuto sottoporsi (per carenza di organico nell’Ufficio cui era preposto) al fine di fronteggiare il carico di lavoro del medesimo, attività che gli aveva comportato reiterata effettuazione di lavoro straordinario fino al limite (monte ore) annuo consentito contrattualmente delle 500 ore  e rinuncia ai periodi di  ferie annuali - era incorso in un infarto miocardico che la Consulenza Tecnica d’Ufficio aveva accertato essere causalmente conseguente allo stress accumulato, per il cui danno alla salute il lavoratore aveva richiesto il  risarcimento del relativo danno biologico. Tale danno gli era stato poi riconosciuto in misura di 300 milioni dal Tribunale di Foggia in data 12 dicembre 1998– che  la Cassazione aveva designato come sede di rinvio – ma l’azienda aveva sollevato eccezioni (adducendo  sia l’insussistenza di colpa datoriale per mancanza di una imposizione al superlavoro attribuibile  all’azienda sia di un concorso nel danno alla salute ad opera dell’abitudine del lavoratore di fumare 15 sigarette al giorno e della familiarità ipertensiva da parte materna). La Cassazione, di nuovo pronunciatasi con sentenza del 5 febbraio 2000, n. 1307 [9], nel rigettare tutte le argomentazioni ed eccezioni aziendali, riconfermava i principi espressi da Cass. n. 8267 del 1 settembre 1997.

Nello stesso orientamento si pone anche parte della giurisprudenza di merito, tra cui Pret. Roma 14 giugno 1988 [10] secondo la quale : «le misure che l'imprenditore  deve adottare ai sensi dell'art. 2087 c.c. devono essere individuate anche con riferimento a posizioni di singoli lavoratori dotate di tratti di peculiarità. Pertanto, nel caso in cui un lavoratore versi in una condizione patologica che ne determini una particolarissima vulnerabilità alla fatica, il datore di lavoro, in osservanza ai doveri di prudenza e diligenza di cui all'art. 2087 c.c., è tenuto ad attivarsi allo scopo di rintracciare un'adeguata collocazione al dipendente. La violazione di tale dovere determina per l'imprenditore un obbligo di risarcimento di danno, con riferimento non solo alla capacità produttiva di reddito del lavoratore, ma anche al c.d. danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul 'valore uomo in tutta la sua dimensione'».

 

3. L’illegittimità del licenziamento per superamento del comporto di malattia, correlata alle mansioni e/o condizioni di lavoro (morbigene anche solo soggettivamente), nel caso in cui il datore di lavoro abbia trascurato l’obbligo di ricerca di sollecitate mansioni confacenti con il menomato stato di salute. L’addizionale reato di lesioni colpose.

 

Conformi alla impostazione secondo la quale sussiste a carico del datore di lavoro l’obbligo di sottrazione del lavoratore da condizioni e/o mansioni di lavoro pregiudizievoli – anche soggettivamente, in ragione di predisposizione del lavoratore a certe sindromi o patologie insorgenti in capo allo stesso o aggravantesi per mantenimento in mansioni e condizioni ambientali di lavoro, oggettivamente non morbigene, in quanto indifferenti per altri ma pregiudizievoli per quel soggetto a motivo della sua particolare conformazione congenita –  si rivelano le affermazioni di Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572,  la quale ha esplicitamente confermato l’orientamento da noi sopra esposto, con le seguenti significative affermazioni: «L’art. 2087 c.c. impone, all'imprenditore, quale disposizione di chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche indipendentemente dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie lavorazioni, di adottare nell'esercizio della impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa.

E’ giurisprudenza consolidata, in tema di legittimità del licenziamento del lavoratore disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità di altro impiego in azienda, determinata dalle condizioni di salute, che una corretta interpretazione degli artt. 1463, 1464 Cod. Civile e 3 legge n. 604 del 1966 comporta che la sopravvenuta infermità permanente del dipendente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore soprattutto se determinata da patologia strettamente ancorata al tipo di lavorazione, come nella specie, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile, alla stregua di una interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate od a quelle equivalenti (ex art. 2103 Cod. Civile) o, in ipotesi di impossibilità, anche a mansioni inferiori purché accettate dal dipendente, a condizione che detta diversa attività sia utilizzabile nell'impresa secondo i finì programmati dalla stessa e nel quadro dell'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cfr. S. U. n. 7755/1998; Cass.n. 7908/97).

Con il corollario che il datore di lavoro soddisferà l'onere, impostogli dall'art. 5 legge n. 604/1966, di provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che, nell'ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un conveniente impiego dell'infermo non è possibile o, comunque, compatibile con il buon andamento dell'impresa, e fermo restando il contrapposto onere del lavoratore di contrastare la detta prova, indicando a sua volta specificamente le mansioni esercitabili e non nocive per la sua salute, nonché dimostrando la sua idoneità alle stesse» [11].

Il principio è stato espresso in una fattispecie in cui un impiegato esattoriale (con compiti di riscossione coattiva dei tributi, accessi nelle abitazioni dei contribuenti, pignoramenti, ecc.) colpito da sindrome depressiva acuta di tipo nevrotico – in ragione della tipologia del lavoro, riscontrato da specialisti  abnormemente stressante per le di lui capacità di reazione psicologica – sanitariamente documentata (in conseguenza della quale il lavoratore aveva  rivolto reiterate sollecitazioni scritte all’azienda per un mutamento di mansioni, atte ad evitare la cronicizzazione della patologia,  nei cui confronti l’azienda aveva assunto un atteggiamento di indifferenza o trascuratezza  con l’effetto che la permanenza nelle mansioni  aveva indotto il lavoratore  ad assenze superanti il periodo di comporto contrattuale per sommatoria) era così  incorso nel licenziamento ex art. 2110 c.c., licenziamento che,  proprio in ragione dell’inadempienza datoriale al dovere prevenzionale ex art. 2087 c.c., la S. corte ha dichiarato illegittimo. Del tutto condivisibile e degna di attenzione è la lettura dell’art. 2087 – in chiave di obbligo di tutela datoriale del lavoratore personalizzata secondo le di lui “condizioni di salute” – che si riverbera nel dovere per l’imprenditore di «adoperarsi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa». E si sottolinea come non  si tratti di un “obiter dictum”, quanto di una deliberata statuizione tramite cui la S. corte ha  rigettato la tesi della difesa aziendale, incentrata sull’affermazione di un insussistente dovere di attivazione ex art. 2087 c.c., in quanto la ricerca di mansioni non nocive si sarebbe imposta solo ove queste lo fossero state “oggettivamente” nocive, mentre trattandosi nel caso di specie – secondo l’azienda – di “mansioni e condizioni di lavoro non oggettivamente morbigene, ma pregiudizievoli per la salute del ricorrente unicamente per fattori soggettivi e psicologici, determinandone un ricorrente stato di malattia, nessun addebito poteva muoversi a parte datoriale…”. Teoria che la Cassazione, con la motivazione innanzi riportata, ha dichiarato esplicitamente non condivisibile, annullando conseguentemente il licenziamento.

Ad analoghe conclusioni - in ordine all’illegittimità del licenziamento per superamento del comporto di malattia, in un caso similare in cui l’azienda aveva fatto “orecchio da mercante” a fronte delle richieste di mutamento di mansioni di un’addetta alle pulizie affetta da sclerosi multipla (certificata ed accompagnata da invito sanitario di collocazione in mansioni meno usuranti) – è giunto, quasi contemporaneamente, in sede di merito, Trib. Pisa 10 gennaio 2002, che ha statuito che:«La malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l’infermità abbia avuto causa, in tutto o in parte, nella nocività insita nella modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare l’incidenza, in adempimento dell’obbligo di protezione ed eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate(Cass. n. 5066/00). Ne consegue che dalla durata della malattia vanno scomputate le assenze imputabili a negligenza o colpa aziendale, riveniente, in fattispecie, dal fatto di non aver l’azienda preso in alcuna considerazione, ex art. 2087 c.c., le reiterate richieste della lavoratrice (affetta da sclerosi multipla) di essere spostata, sussistendone le condizioni organizzative, ad altre mansioni meno usuranti»[12].

Va addizionalmente evidenziato che qualora dall'omissione delle cautele e misure prevenzionali discendenti dall'art. 2087 c.c. (a tutela dell'integrità psico/fisica e della personalità morale) discenda a carico del lavoratore un infortunio od una malattia professionale (o comunque un tangibile pregiudizio all’integrità della salute), la giurisprudenza è pacificamente consolidata per l'automatica ricorrenza del reato di "lesioni colpose", asserendo che: «l'accertamento che l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale sono stati determinati da negligenza o inosservanza delle disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c., implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del reato di lesioni colpose» [13] ex artt. 590 e 583 c.p. Il principio era stato in precedenza affermato dalla Cassazione [14] secondo la quale: «in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (e delle malattie professionali, n.d.r.) il disposto dell'art. 2087 c.c. ha carattere generale e non contrattuale come si desume dallo stesso titolo (tutela delle condizioni di lavoro) nonché dal suo particolare contenuto normativo, per cui, quantunque la predetta norma sia inserita nel codice civile, essa pone specifici doveri di comportamento antinfortunistico a carico del titolare dell'impresa, la cui effettiva inosservanza integra il delitto di cui al 2° comma, art.590 c.p.», riscontrabile e procedibile d’ufficio, come ha riconosciuto Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 [15]. Ed ancora la Cassazione in una antecedente sentenza [16] ha sostenuto: «in tema di misure  antinfortunistiche (e a tutela delle malattie professionali, n.d.r.) l'art. 2087 c.c., laddove impone all'imprenditore l'adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, determina un obbligo di comportamento che trova la sua fonte nella Costituzione (…).Ne consegue che la violazione del prefato obbligo da parte dei destinatari della normativa a tutela dei lavoratori integra il precetto penale ogniqualvolta ne derivi un danno agli addetti», con diritto per quest’ultimi – dal lato civilistico - al risarcimento del danno biologico e del danno morale (riconducibile ex art. 2059 c.c., a reato), come ha recentemente sancito  la già citata Cass. n. 4012 del 20 aprile 1998 e come più di recente ha confermato Cass. 22 marzo 2002 n. 4129 [17], la quale si è così inequivocamente espressa: «Nel danno sopportato dal lavoratore in conseguenza della mancata osservanza da parte del datore di lavoro (o del soggetto comunque tenuto a garantirne la tutela)) degli obblighi di sicurezza impostigli dall’art. 2087 c.c., rientra anche il danno morale quante volte da quell’inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore di lavoro anche un rilievo penale che giustifica l’attribuzione del risarcimento ex art. 2059 c.c.» (danno morale, dopo Corte cost. n. 233/2003, spettante indipendentemente dal riscontro penalistico, sufficiente la lesione di diritti costituzionalmente garantiti, quali la salute, ex art. 32 Cost.).

Va dato altresì conto di un recente orientamento della Cassazione, manifestato nella decisione del 5 agosto 2000, n. 10339 [18] secondo cui: «Il lavoratore certificato parzialmente inidoneo alla mansione - nella fattispecie di operatore unico aeroportuale, caratterizzata intrinsecamente e principalmente dal carico e scarico bagagli e zavorra - non può pretendere di permanere nella stessa mansione venendo esonerato dal compito principale e gravoso del carico e scarico, eventualmente eliminabile dall'azienda con l'adozione, non già di mezzi in dotazione, ma di strumenti ad hoc offerti dalle nuove tecnologie, non essendo configurabile un obbligo dell'imprenditore di  acquistarli ed adottarli per porsi in condizione di cooperare all'accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di garantire la sicurezza imposta dalla legge (d.lgs. n. 626/'94). In caso di impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, sussiste invece - come affermato da Cass. sez. un.  n. 7755/'98, di cui si condivide l'orientamento - il diverso diritto di assegnazione a mansioni diverse ed equivalenti (sempreché sussistenti in azienda) ed anche inferiori, dietro manifestazione di consenso del lavoratore alla dequalificazione finalizzata alla salvaguardia del superiore interesse dell'occupazione, per la cui richiesta al datore di lavoro anche il lavoratore deve attivarsi precisando le residue attitudini professionali tali da rendere possibile all'azienda una diversa collocazione all'interno».

Le riflessioni che abbiamo sviluppato e l'orientamento  che si sta imponendo – nel senso dell'obbligo datoriale di spostamento del lavoratore da mansioni e lavorazioni "soggettivamente" pregiudizievoli per la salute ad altre più consone, in conseguenza sia del dovere "prevenzionale" ex art. 2087 c.c. sia del più generale dovere di cooperazione, scaturente da correttezza e buona fede del creditore-datore di lavoro , finalizzate a consentire al debitore dell'obbligazione lavorativa che questa venga resa  in aderenza al suo carattere contrattuale – ci sembrano le più corrette, moderne e rispondenti a rispetto dell'individuo e solidarietà verso le posizioni dei più deboli e meno fortunati (gli ammalati, i disabili, le figure sociali reclamanti naturalisticamente protezione quali la lavoratrice, nel  particolare periodo della gravidanza e del puerperio, e simili).

Ciò detto ci spiace veramente dover invece leggere – ancor oggi – opinioni espressive di impostazioni più “crude” che considerano  ancora lo stato di malattia come condizione non già di bisogno ma di «colui che ha la fortuna di essere malato (in verità la prova ufficiale è estremamente facile – dice l’autore – data la notoria compiacenza dei sanitari)»[19], per il quale non si vede la ragione per cui debba fruire del «privilegio nel confronto con il lavoratore non ammalato», di non essere licenziato, come il sano, per giustificato motivo soggettivo ex art. 3 L. n. 604/1966, ma solo per giusta causa ex art. 2119 c.c. Fino ad arrivare,  lo stesso autore, alla conclusione che «forse c’è spazio per sollevare una questione di legittimità costituzionale in termini di ragionevolezza nel confronto che ne deriva…tra lavoratori a seconda che siano malati o no. Come si spiega il privilegio dei malati? Solo la Corte costituzionale potrebbe con autorevolezza spiegarlo»[20].

Non credo sia necessario disturbare i Giudici della Consulta né difficile, per chi non sia affetto da pregiudizi, rendersi conto che le situazioni delle c.d. “fasce deboli” necessitano e sono meritevoli – da parte di una Costituzione, di un legislatore e di una interpretazione giurisprudenziale – di una impostazione di favore, anche se acquisisce carattere di anomalia apparente (come nel caso esaminato, nella fattispecie, dell’art. 2110 c.c.). Impostazione di favor non già immotivata ma “pienamente motivata” e meritoria per il suo carattere progressista e solidaristico che trova fondamento,  riscontro e riconferma quotidiana nelle parole degli eredi migliori dei nostri padri costituenti e degli esponenti della dottrina sociale cattolica (e non).

Altre frasi del precitato articolo  dell'autore  – cui lasciamo il beneficio del dubbio dell'essere, forse, da noi mal comprese – lasciano a dir poco perplessi, e tra queste la domanda: «A mio avviso ci si deve chiedere se, in questa zona di protezione rispetto agli eventi della malattia e della gravidanza, il datore di lavoro sia ‘espropriato’ della possibilità di gestire al meglio i rapporti di lavoro, in particolare potendo liberarsi dei soggetti il cui rapporto sia valutabile in termini solo negativi» (pag. 157), ovvero:«La periodica disoccupazione, con la conseguenza delle necessità elementari di vita, possono ben servire a raddrizzare il cervello di persone non disponibili a fruttuosa collaborazione. Del resto, dopo tanto vociare contestatario, l’aspirazione diffusa è quella di poter tornare a gemere sotto il dominio del capitale» (pag. 158).

Non credo che sia rispettoso per i nostri giovani rappresentare la loro legittima aspirazione al diritto al lavoro come professione di sottomissione incondizionata ai datori di lavoro solo perché hanno in mano (e non è certo poco!) le loro “opportunità d’impiego” (e di formarsi una famiglia), né ritengo che l’auspicata disponibilità alla “fruttuosa collaborazione” vada barattata dai nostri giovani con la dismissione dei propri diritti civili e sindacali, in una parola costituzionali, dismissione che “sembrerebbe” essere presupposta (anche se inespressa) dal precitato autore come indefettibile modalità per dimostrare che  si è ad essi “raddrizzato il cervello”.

Mario Meucci

 

 

Roma, 14 maggio 2005

(pubblicato in Lav. prev. Oggi 2000, n. 1, p.13, e aggiornato in Confronti e Intese n. 206/2005)


 

[1] Pubblicata, tra l’altro, in Lav. prev. Oggi, 1998, n. 11, 2012 con nota adesiva di M. Meucci, Obbligo di ricollocazione in altre mansioni del lavoratore colpito da sopravvenuta inidoneità, ibidem 1998, 2059. La decisione soprariferita è stata preceduta, in senso conforme, da Cass. 23 agosto 1997, n. 7908, in Mass. giur. lav. 1997, 871, con nota di A. Riccardi e da Cass. 3 luglio 1997 n. 5961, in Lav. prev. oggi, 1997, 2375 con commento adesivo di M. Meucci a pag. 2398.

[2] Così M. Meucci, nell'articolo Il diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall'art. 2103 c.c. all'impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità psico/fisica, in Riv. crit. dir. lav. 1996, 35.

[3] Cfr., ex plurimis, Cass. 7.9.1993, n.9386, in Mass. giur. lav. 1993, 639 con nota di A. Riccardi.

[4] Così Cass.  sez. lav. 10 novembre 1995, n. 11700, in Mass. giur. lav. 1996, 247; Cass. sez. lav. 13 dicembre 1996, n. 11127, ibidem 1997, 269; Cass. sez. lav. 6 novembre 1996, n. 9684, in Not. giurisp. lav. 1996, 918; Trib. Roma, 20 aprile 1994, ibidem 1994, 391; Cass. 14 maggio 1994, n. 4723, in Mass. giur. lav. 1994,597; Cass. 20 marzo 1992, n. 3517, ibidem 1992, 210. Secondo Cass. n. 11127/'96,  mentre la tutela ex art. 2087 c.c. riguarderebbe la collettività dei lavoratori, nessuna norma di legge prescrive, invece, a carico del datore di lavoro l'obbligo di apprestare «per ciascun singolo lavoratore, un ambiente di lavoro idoneo ed acconcio alle sue particolari ed individuali patologie».

[5] Così  Cass. sez. lav. 3 luglio 1997, n. 5961, cit. in nota 1.

[6] In Lav. prev. oggi, 1998, 367, confermata da Cass. n. 1307 del 5.2.2000, ivi 2000, 818.

[7] Inedita in cartaceo, a quanto consta. Leggibile integralmente in http://dirittolavoro.altervista.org/ricerca_mansioni_consone.html .

[8] In Not giurisp. lav. 2007, 189. Conf. Cass. 30.8.2006 n. 18711, ivi 2007, 54; Cass. 25.11.2004 n. 20458, ivi 2005,215; Cass. 7.4.2003 n. 5413, ivi 2003, 580.

[9] In Guida al lavoro, 2000, n.11, 24 e in Lav. prev. oggi, 2000, 818.

[10] In Dir. lav. 1989, II, 473, con nota di  Ziliotti.

[11]  Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572, trovasi in Not. giurisp. lav. 2002, 259; Riv. crit. dir. lav. 2002, 426; Riv. it. dir. lav. 2002, II, 865 con nota di P. Albi.

[12] Inedita in cartaceo; leggibile integralmente in http://dirittolavoro.altervista.org/ricerca_mansioni_consone.html .

[13] Così Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356, in Riv. giur. lav. 1991, II, 143 con nota di Andreoni; conf. Pret. Milano 11 ottobre 1995, in Riv. crit. dir. lav. 1996,192.

[14] Vedi Cass. 23 gennaio 1986 n. 378.

[15] In Riv. it. dir. lav. 1999, II, 326 annotata da Mautone (con amputazione della parte afferente l'essenziale rilevanza penalistica). Integralmente può leggersi al link: http://dirittolavoro.altervista.org/cass_4012_98.html .

[16] Cass. 8 marzo 1988, n. 316;  conf. Pret. Torino 10 novembre 1995, in Riv. crit. dir. lav. 1996, 727.

[17]  In Lav. prev. oggi 2002, 450; Lav. giur. 2002, 746  con nota Bertocco.

[18]  In Lav. prev. oggi 2000, 2083; in Mass. giur. lav. 2000, 1208 con nota S. Figurati.

[19] Cfr. Pera, in  Malattia e licenziamento, in Riv. it. dir. lav. 1999, I, 153.

[20] Così Pera, op. cit. in nota. precedente.

 

Sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni di assunzione ed obbligo di repechage. Nota a Cassazione, Sez.Lav., 10 ottobre 2005, n. 19686

 

La sentenza della Corte di Cassazione n.19686 del 10 ottobre 2005 chiude la vicenda giudiziale di un lavoratore subordinato divenuto, nel corso del rapporto di lavoro, fisicamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni per le quali era stato assunto.

Il lavoratore, giunto davanti al Tribunale di Napoli, chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento con il quale era stato destinato a mansioni inferiori e congiuntamente pretendeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito.

Il giudice di primo grado, sulla base di una perizia tecnica, accoglieva il ricorso del lavoratore e dichiarava il suo diritto allo svolgimento di altre mansioni all’interno del livello contrattuale di appartenenza e, di conseguenza, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno cagionato.

Deve essere specificato che il lavoratore era divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni di giuda, comprese nel sesto livello contrattuale, e le nuove mansioni di assegnazione corrispondevano ad incarichi dissimili a quelli previsti per un conducente ed inclusi in un livello inferiore.

La Corte d’Appello riformava la decisione del giudice di primo grado affermando l’esigenza della prova, da parte del lavoratore, dell’esistenza nell’organico aziendale di posti scoperti per addetti a diverse mansioni nello stesso livello al cui espletamento il lavoratore si reputava idoneo. In altri termini, il lavoratore non doveva limitarsi a sostenere la capacità di svolgere mansioni incluse nel sesto livello, ma anche provare la sussistenza concreta di posizioni ricopribili in quel livello.

La Corte di Cassazione, a sua volta, stabiliva il principio di diritto secondo cui “Il datore di lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art.2697 c.c., pur con le ragionevoli limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio”.

La Corte di Cassazione, nel motivare la sua decisione, elogiava l’insegnamento impartito dalle  Sezioni Unite che, con sentenza del 7 agosto 1998 n.7755, componendo il contrasto insorto nella Sezione Lavoro in ordine alla licenziabilità del dipendente divenuto parzialmente inidoneo alla prestazione per la quale era stato assunto, affermava che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità di esecuzione della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi degli artt. 1 e 3 della legge n.604/66, se risulti ineseguibile non solo la concreta attività del dipendente, ma sia anche esclusa la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere una diversa attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti secondo quanto disposto dall’art. 2103 c.c. e, persino, in mancanza di altre soluzioni, a mansioni inferiori compatibili con le residue capacità del lavoratore, purché l’azienda non debba operare un mutamento dell’assetto organizzativo.

Merita di essere ribadito che l’intervento delle Sezioni Unite, nel valutare le due posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul tema delle conseguenze che l’aggravarsi delle condizioni di salute del lavoratore comportano sul piano lavorativo (dove una posizione maggioritaria sosteneva la possibilità per l’azienda di procedere automaticamente alla risoluzione del rapporto, ed una posizione minoritaria individuava invece nel licenziamento l’alternativa estrema), risolveva il conflitto rafforzando la validità della tesi secondo la quale il datore di lavoro, per procedere al licenziamento, deve fornire la prova di aver esperito ogni utile tentativo per individuare una nuova  collocazione per il lavoratore.

La sentenza della Corte di Cassazione riaffermava dunque il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, eventualmente derivabile dal consenso ad un patto di dequalificazione consistente per l’appunto nell’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente espletate.

Va rilevato che l’orientamento favorevole alla conservazione del posto di lavoro e perciò alla validità del patto di dequalificazione, muove dalla premessa che non si tratti di una deroga all’art.2103 c.c., bensì di un adeguamento del contratto ad una nuova situazione di fatto.

L’onere probatorio gravante sul datore di lavoro recedente dal contratto si sostanzia nella giustificazione oggettiva dell’impossibilità di assegnare il lavoratore inidoneo alle mansioni abituali, ad altre mansioni equivalenti nello stesso livello, o a mansioni intermedie fra le precedenti e quelle di fatto attribuite.

E’ da tener conto che la sopravvenuta inidoneità del lavoratore ai compiti per i quali è stato assunto dà luogo ad una specifica responsabilità in capo al datore di lavoro, dal momento in cui egli dovrà  assumere una decisione in merito alla nuova situazione di fatto, considerando tanto l’interesse del lavoratore alla salvaguardia del suo posto di lavoro secondo modalità confacenti alle sue residue capacità, quanto agli specifici interessi dell’azienda relativi ai presumibili costi derivanti dall’impiego del lavoratore inidoneo ma anche attinenti l’eventualità di dover  stravolgere l’apparato organizzativo per concepire la ricollocazione del lavoratore.

In adempimento all’obbligo di cooperazione il datore di lavoro sarà tenuto alla predisposzione delle condizioni materiali necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa ed anche impiegare appieno le capacità del lavoratore anche fuoriuscendo, in ragione del consenso del lavoratore, dai limiti imposti dall’art.2103 c.c.

E’ dunque ormai consolidato che il dovere datoriale di ricollocazione del dipendente in azienda debba essere praticato antecedentemente l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ove, però, la ricollocazione non risultasse fattibile e dato il divieto di impiegare il lavoratore in mansioni pregiudizievoli il suo stato di salute,  è concesso al datore di lavoro far valere l’infermità del lavoratore e giustificare il recesso in ragioni inerenti l’attività produttiva ed organizzativa.

Risulta tuttavia intuibile che l’assegnazione ad altre mansioni si configuri come un’operazione agevole solo allorquando sussistono in azienda reali posti vacanti nel medesimo livello o altre posizioni in cui collocare il dipendente, anche a livelli inferiori.

Il che vale a dire che il datore di lavoro non dovrà, per puro assistenzialismo, creare posizioni superflue ove impiegare il dipendente addossandosi, per conseguenza, il costo di una posizione di lavoro caratterizzata da una vana proficuità.

Si vuole pertanto sottolineare che il dovere datoriale di tutela dell’interesse del lavoratore, nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità alle mansioni di assunzione, esuli dall’imposizione di operare uno stravolgimento dell’assetto organizzativo e perciò dalla ridistribuzione dei compiti o  dalla creazione di una nuova figura professionale ad hoc cui adattare le residue capacità del lavoratore menomato.

Per concludere, mi preme ribadire che il dovere datoriale di ricollocazione deve mirare fondamentalmente alla tutela del superiore interesse dell’occupazione ma non certamente nella sconvolgente riconfigurazione dell’apparato organizzativo per porre in essere la condizione di cooperare all’accettazione della prestazione.

 

Veronica Passarella

Dottore in Scienze Politiche, specializzazione in Consulenza del lavoro

ver.pass@tin.it

 

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