Irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti

 

1. Nozione di "danno biologico"

L’onere della prova che incombe su colui che agisca in giudizio per il risarcimento del danno alla persona, assume contenuti diversi in relazione alla natura del danno del quale si pretende il risarcimento, a seconda che si tratti di danno biologico o di danno patrimoniale in senso stretto. Dato che non sempre il danno alla salute si viene a trovare in concomitanza con un danno patrimoniale, ma poiché siamo pur sempre in presenza di un danno, è sorta la necessità di trovare dei criteri equilibrati, generici e sempre applicabili per poter quantificare in termini economici il risarcimento per il danno subìto.

Il danno alla salute o biologico – conseguente a infortunio sul lavoro o a  sinistri da circolazione stradale, demansionamento e forzata inattività, vessazioni mobbizzanti e simili -  è stato recepito nella normativa dell’ordinamento (a seguito della precedente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale) prima dall’art. 13, D. lgs. n. 38/2000 (di riforma dell’Inail), successivamente dall’art. 5,  L. 5.3.2001 n. 57 ed infine dall’art. 138, D. lgs. 7.9.2005 n. 209 (codice delle assicurazioni private) e così identificato: «… per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito».

Quindi presupposto per la sua rivendicazione e per il  suo riconoscimento è il fatto che risulti attestato da certificazione medica specialistica, preferibilmente da relazione medico legale.

Poiché la consistenza del danno biologico si identifica con le conseguenze dell’evento dannoso, una volta dimostrata la lesione ed il nesso di causalità con l’inadempimento, si è anche dimostrata l’esistenza del danno biologico, in quanto il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno si identifica con la lesione stessa, pur permanendo la necessità di provare l’entità della menomazione dell’integrità psicofisica subita e il nesso di causalità. In questo caso il tema probatorio è circoscritto all’esistenza di una lesione personale e di una menomazione a questa conseguente. Per quanto riguarda la prova questa dovrà basarsi – come già detto - su di una perizia medico-legale che accerti il grado di invalidità subito dal soggetto leso.

Negli ultimi tempi, atteso che spesso la menomazione viene quantificata dal medico in termini di percentuale di invalidità (invalidità intesa come incapacità psicofisica di attendere alle normali attività della vita quotidiana), molti tribunali hanno elaborato una tabella che, tenendo conto del grado di invalidità e dell’età dell’individuo, indica una cifra che può venire considerata come base di partenza per determinare il quantum del risarcimento. L’indennizzo tabellare deve, peraltro, essere personalizzato in relazione alla specificità del caso concreto (età, professione, esistenza di postumi, ecc.).

In relazione ai meccanismi risarcitori del danno biologico, la giurisprudenza è concorde nell’ammettere il criterio della valutazione equitativa. Al riguardo Cass., III sez. civ., n. 1130/1985 ha asserito: «Il fatto che il soggetto leso dal fatto illecito non abbia, o abbia perduto, o non abbia mai avuto attitudine a svolgere un’attività produttiva di reddito […] non rileva in alcun modo, in ragione della mancanza di criteri obiettivi per l’esatta quantificazione in denaro del pregiudizio, stante il potere-dovere del giudice di ricorrere ad una stima equitativa, considerando tutte le circostanze specifiche del caso concreto (gravità delle lesioni, durata della invalidità temporanea, eventuali postumi permanenti, età, attività, condizioni sociali e familiari del danneggiato»[1], valutazione equitativa che, di per sé, non esclude l’applicazione di altri criteri, quali il punto tabellare (v. metodo milanese).

Il metodo milanese è il più seguito negli Uffici giudiziari, che hanno provveduto a dotarsi, nel proprio ambito, di apposite tabelle, con lo scopo di razionalizzare ed omogeneizzare la fase della liquidazione dei danni.

Tale metodo si basa essenzialmente su due principi: il principio «progressivo» in base al quale il valore monetario del singolo punto di invalidità aumenta con l’aumentare dell’invalidità permanente complessiva; e il principio «regressivo», in base al quale, invece, il valore decresce con il crescere dell’età dell’individuo leso.

In ogni caso, la giurisprudenza di legittimità (Cass., III sez. civ., n. 6873/2000) ammette che non vi è contrasto tra la valutazione equitativa del danno e i «metodi standardizzati», purché questi ultimi siano criteri flessibili e siano adeguati al caso concreto.

Infatti, il giudice, nel riferirsi ai metodi tabellari, dovrà successivamente adeguare la somma stabilita al caso concreto[2], tenendo conto «dell’attività espletata, delle condizioni sociali e familiari del danneggiato».

Qualora il giudice decidesse di discostarsi dai criteri o modelli tabellari in uso, presso l’Ufficio di appartenenza, dovrà motivare esplicitamente l’adozione dei «criteri e metodi diversi», in forza del potere discrezionale affidatogli dagli artt. 2056 e 1226 c.c.

 

2. Responsabilità integrale del danno biologico su soggetto geneticamente predisposto: motivazioni

Importante è evidenziare come il fatto illecito datoriale (demansionamento e forzata inattività, superlavoro, e simili) che determini danno biologico, assume efficacia esclusiva nell’ induzione del danno alla salute, anche in presenza di concause naturali genetiche. Sul punto la Cassazione, sezione lavoro – nella sentenza 5 novembre 1999, n. 12339[3] seguita da Cass., sez. lav., 9 aprile 2003 n. 5539[4] e più di recente da Cass., sez. lav., 26 luglio 2006 n. 17022[5] – ha recepito il consolidato orientamento in sede civile e penale ed ha affermato che la quantificazione del danno biologico ascrivibile all’illecito datoriale non subisce «riduzioni proporzionali» ad opera di concause naturali preesistenti (nel caso dell’infartuato da demansionamento consistente in riscontrata arteriosclerosi coronaria congenita) ma deve essere in toto (al 100%) imputata all’inadempimento o fatto ingiusto datoriale, in considerazione del fatto che «a circoscrivere la responsabilità datoriale non rileva una concausa naturale antecedente, in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass., 1° febbraio 1991, n. 981; Cass., 27 maggio 1995, n. 5924)». Nel caso esaminato da Cass. 12339/1999 è stata cassata la sentenza del Tribunale che, in ragione della valutazione in proporzione di un terzo della concausa naturale, aveva condannato l’azienda ad un danno biologico in ragione dei due terzi residui, affermando che su di essa invece incombeva la liquidazione del danno al 100%. La rilevanza della specifica sentenza (e delle successive conformi) sta nell’aver importato in ambito giuslavoristico il principio della relatività dell’efficienza causale dei cd. fattori naturali, ben noto alla giurisprudenza civile e penale. In linea di principio la giurisprudenza civile non esclude che una pluralità di fatti, di per sé imputabili a più persone, svolgano un’efficacia causativa del danno, fermo restando che uno solo di essi può assurgere al rango di «causa efficiente esclusiva», qualora, inserendosi nella serie causale quale causa sopravvenuta, spezzi il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti ovvero releghi effettivamente le altre cause in posizione di «occasioni estranee» (cfr. Cass., 19 settembre 1996, n. 8348; Cass., 11 febbraio 1988, n. 1473).

Questo principio, definito della equivalenza delle condizioni, è stato di recente ritenuto dalla giurisprudenza applicabile in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (cfr. Cass., 5 febbraio 1998, n. 1196) e viene esplicitato da Cass. 17022/2006 (est. De Luca) con le seguenti motivazioni: «Anche in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti (sia contrattuale, come nella specie, sia extracontrattuale) trova applicazione la regola (di cui all’articolo 41 codice penale), secondo cui – essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni – deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, anche in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale, salvo il temperamento (previsto dallo stesso articolo 41 c.p., cit.), in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni. Ne consegue che l’efficienza causale della condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità civile per l’intero danno che ne consegua, nonostante il concorso di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 c.c., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato)».

La Cassazione, pronunziandosi in materia di responsabilità civile, ha ripetutamente affermato un secondo principio: il confronto fra cause concorrenti, allo scopo di valutarne il diverso grado di incidenza eziologica, può essere operato solamente tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli ma non già fra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1° febbraio 1991, n. 981. La sentenza n. 12339 del 1999 – e poi la successiva Cass. 9 aprile 2003 n. 5539 in diversa fattispecie di danno biologico da sindrome ansioso-depressiva indotta da dequalificazione e illegittimo licenziamento – fa applicazione di tale enunciato in una fattispecie di rapporto di lavoro, con effetti tanto rilevanti quanto condivisibili ai fini del giudicato: la Corte esclude, infatti, la rilevanza causale della situazione congenita del lavoratore, addossando per intero all’azienda la responsabilità (e la relativa quantificazione) del danno biologico prodotto a quest’ultimo dalla patologia cardiaca, nel primo caso, da sindrome neurologica, nel secondo caso.

Un’operazione riduzionistica o di delimitazione  proporzionale dell’integrale misura del danno biologico (a monte) e della misura della responsabilità risarcitoria (a valle) a carico del danneggiante, può ritenersi legittima – oltreché nel caso di concorso colposo del danneggiato, sopraenunciato - solo nel caso in cui la vittima sia già stata sofferente della patologia, poi aggravata dal comportamento aziendale.

In giurisprudenza quest’ultima fattispecie è stata esaminata da Cass. 8 giugno 2007 n. 13400 - Pres. De Luca - Rel. Monaci – in un caso in cui – dice la sentenza - «il comportamento vessatorio del datore di lavoro (che pure é stato riconosciuto, e ritenuto non privo di effetti dannosi) é sopravvenuto in una situazione già compromessa, innestandosi non soltanto su un tessuto già fragile e predisposto, ma anche su una patologia depressiva sicuramente già incidente e responsabile di buona parte del successivo notevole aggravamento dello stato del soggetto (…) il danno era preesistente, e si é sviluppato naturalmente generando per forza propria ulteriori contraccolpi pregiudizievoli, che - proprio perché conseguenza di patologia già in atto - si sarebbero verificati in ogni caso indipendentemente dalla condotta del datore. Quest'ultima, anche nel concorso delle altre circostanze, ha generato soltanto un aggravamento ulteriore, una quota addizionale di danno, che poteva essere addebitata, soltanto essa, al datore di lavoro. Di conseguenza, il datore era tenuto al risarcimento soltanto di questo danno aggiuntivo, non dell'intero». Ne è conseguita l’affermazione del seguente principio di diritto: «In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente, i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell'agente stesso per l'intero solo danno differenziale».

 

3. Aggiramento dei principi giuridici da parte di taluni CTU sanitari

Taluni CTU (consulenti tecnici di ufficio nominati dal magistrato nei giudizi per la rivendicazione di danno biologico) - consapevoli (o meno) dell’integrale responsabilità al 100% in capo al danneggiante del danno biologico arrecato da comportamenti contra ius - usano la tecnica di aggiramento del principio giuridico di responsabilità integrale con lo scontare (a monte) il grado percentuale oggettivo del danno biologico, in ragione dei cd. fattori preesistenti asseritamente predisponenti, riscontrati nei periziati. Si tratta di operazione completamente errata ed illegittima in quanto la valutazione percentuale del danno biologico deve essere effettuata sulla base dei riscontri tabellari oggettivi della scienza medica ufficiale e tali valori di invalidità debbono essere – in caso di condotte illegittime del danneggiante ed in ragione del criterio o principio giuridico dell’integralità causativa della condotta a prescindere dai fattori congeniti predisponenti della vittima – attribuiti in toto alla responsabilità del danneggiante. Legittimare una riduzione (a monte) da parte dei CTU della misura percentuale del danno biologico per tali motivi, costituirebbe invero una comoda soluzione aggirante del suddetto principio giuridico, che non può essere assolutamente accreditata.

L’operazione riduzionistica ad opera dei CTU dell’oggettiva misura del danno biologico – giustificata in ragione di fattori congeniti o predisponenti della vittima - la si comprende pacificamente nella sua erroneità quando la si valuti alla luce di questi due assiomi: a) i fattori predisponenti congeniti sono considerati irrilevanti nella causazione del danno, che non si sarebbe realizzato in assenza della condotta illegittima del danneggiante che, proprio perciò,  assume ruolo  giuridico di causa esclusiva con integrale responsabilità  per chi l’ha posta in essere; b) il danneggiante “deve prendere la vittima nello stato in cui si trova” (take your plaitinff as you find him[6]), senza la pretesa che sia integralmente immune da qualsiasi difformità dal modello virtuale dell’uomo perfetto. Allora se così è, appare chiaro che senza l’intervento del danneggiante, la vittima (o periziando per il CTU) si sarebbe mantenuto in piena salute psico/fisica - seppure con i suoi fattori congeniti o tratti asseritamente abnormi della personalità - mentre l’azione illegittima del danneggiante lo ha esposto a subire un ingiusto danno biologico di misura obbiettiva e secondo i parametri della scienza medica, altrimenti insussistente e al danneggiante integralmente ascrivibile, senza che gli sia dato di beneficiare di alcuna, impraticabile, operazione riduzionistica.

Questo principio è stato fatto proprio - in giurisprudenza, tra le varie sentenze - da Trib. Castrovillari 20 aprile 2006 (est. Ciarcia)[7], secondo cui: «Quanto al danno biologico, vi è da rilevare al riguardo che il c.t.u. ha ritenuto di diminuire la quantificazione del danno (riducendola nella misura del 15%) in considerazione della personalità del ricorrente e di situazioni, preesistenti o concomitanti, attinenti alla sua sfera personale, alle quali ha riconosciuto valore di concausa naturale nella determinazione del danno. Ritiene il giudice di non poter aderire a tale impostazione, poiché, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, applicabili in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, “qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità” (Cass., sez. lav., n. 5539 del 2003). Non è possibile, pertanto, una volta accertata l’effettiva operatività del nesso causale fra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato, effettuare alcuna graduazione in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, dovendo ritenersi il danneggiante responsabile per l’intero dei danni cagionati. Individuato il danno biologico subito dal ricorrente nella percentuale del 20%, deve, pertanto, procedersi alla sua quantificazione in termini risarcitori».

Per la liquidazione del danno biologico – addizionale a quello per lesione della professionalità – è pressoché concorde opinione giurisprudenziale e dottrinaria che debba essere assolto (dal lavoratore ricorrente) un rigido onere probatorio circa la sussistenza di un nesso di causalità (ovvero di concorrenza o concausa) dell’inadempimento o dell’illecito datoriale (dequalificazione, forzata inattività, disconoscimento di diritti legali e/o contrattuali, licenziamento ingiustificato, molestie sessuali, ecc.) ai fini della compromissione dello stato di salute o della serenità psicofisica. Una sentenza della Cassazione, già in precedenza citata, ha stabilito che: «La potenziale dannosità della condotta del datore di lavoro […] non esime il lavoratore che pretenda il risarcimento del danno dall’onere di provare l’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale, anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico, tale sussistenza (non ricavabile da presunzioni semplici) costituendo il presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa»[8].

Non è mancato, nella giurisprudenza di merito, chi ha sostenuto, peraltro, che: «circa il nesso causale tra l’evento ‘licenziamento-destituzione’ e la lesione del diritto alla salute, appare adeguato ad un criterio di normalità sociale che l’esaurimento nervoso e lo stress indicato siano riconducibili alla causa-licenziamento»[9], senza pretendere una puntuale dimostrazione, dal lato medico, del nesso di causalità del licenziamento ai fini dell’insorgenza e della determinazione dell’esaurimento nervoso. Ma si tratta di opinione isolata, assolutamente non accreditata né accreditabile, correttamente preferendosi dal magistrato il ricorso alla perizia medico-specialistica.

 

4. Casistica giudiziaria

Nella “cronaca”  giudiziaria si registrano numerosi episodi di comprovata afflizione del sistema nervoso, conseguenti a pratiche dequalificatorie, che hanno occasionato una liquidazione del danno biologico – sempre su base equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c. e 113 e 432 c.p.c. – in misura direttamente proporzionale alla durata della sindrome psiconevrotica, all’età o anzianità di servizio del danneggiato ed alla sua retribuzione. Tra i casi meno recenti ma significativi, si ricorda quello della rimozione di un alto dirigente della Banca nazionale del lavoro dalla responsabilità dell’area commerciale con conseguente messa a disposizione della Direzione generale, quale «assistente» con incarichi di assoluta inconsistenza contenutistica e qualitativa, caduto consequenzialmente in depressione – con causalità comprovata da certificazione specialistica – al quale il magistrato romano ha liquidato (senza necessità di Ctu) cumulativamente per il danno alla professionalità e biologico, la somma all’epoca di 500 milioni[10].

Ancora si registra il caso di un dipendente della Compagnia italiana turismo, confinato per ben 11 anni nell’inattività – riconosciuta dal Consulente tecnico d’ufficio quale concausa preponderante della «angoscia destrutturante e della psicosi ossessiva» che lo aveva colpito – a favore del quale il magistrato ha liquidato, quale risarcimento del danno biologico, la somma di 200 milioni, tenuto conto che l’infermità in questione comportava una riduzione della capacità lavorativa specifica del ricorrente in misura del 70%, considerate l’età ed il reddito all’epoca del verificarsi del danno, avuto riguardo, sia pure a titolo di riferimento, alle tabelle di capitalizzazione elaborate dalla dottrina in materia antinfortunistica ed approvate con r.d. 9 ottobre 1922 n. 1043, nonché ad una percentuale del 20% per lo scarto tra la vita fisica e la vita lavorativa[11]. Più remota, e non condivisibile, una (negativa) sentenza della Cassazione[12] che ha, invece, disconosciuto il risarcimento del danno biologico per «sindrome psiconevrotica a sfondo irreversibilmente ipocondriaco»acclarata peritalmente come indotta da un sistematico disconoscimento datoriale del diritto ad inquadramenti contrattuali superiori che aveva comportato un lungo periodo di amarezze, delusioni e frustrazione – in quanto, a detta dell’estensore della decisione, il manifestarsi del disturbo doveva essere considerato «eccezionale» ed «assolutamente imprevedibile».

Pacifica è l’affermazione che grava sul datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., un obbligo alla preservazione della salute del lavoratore dipendente[13], la cui dismissione è fonte di responsabilità risarcitoria.


Mario Meucci

Roma, 14 aprile 2009 (pubblicato su Confronti e Intese n. 249/2009)


[1] Così Cass., III sez. civ., 11.2.1985, n. 1130, in Giur. it. 1985, I, 1, 1180 (con nota); conformi: Pret. Roma 3.10.1991; Pret. Livorno 27.2.1992 e in dottrina, D. Pajardi, Il danno psicologico in materia di lavoro, ecc., in Dir. lav. 1991, I, 340.

[2] Ex plurimis, da ultimo Cass., III sez. civ., 11.1.2007 n. 394, leggibile in http://dirittolavoro.altervista.org/cass_394_2007_danno_tabellare_personalizzato.html.

[3] Cass., sez. lav., 5.11.1999, n. 12339 può leggersi in Guida al lavoro 2000, 11, 22 con nota di M. Ricci, ivi 28, nonché al link: http://dirittolavoro.altervista.org/cass_12339_99.html.

[4] Leggibile in http://dirittolavoro.altervista.org/cass_5539.html 

[5] Leggibile in http://dirittolavoro.altervista.org/cass_17022_07_danni_integrali.html  e in Riv. crit. dir. lav. 4/2006, 1117 con nota di M. Orlando, Danno da demansionamento in presenza di concause: al dipendente spetta il risarcimento integrale. In senso conforme dopo Cass. n. 5539/2003 si sono espresse Cass. 22.8.2003 n. 12377, Cass., 11.3.2004 n. 5014, Cass., 18.7.2005 n. 15107, Cass., 9.9.2005 n. 17959.

[6] Così in dottrina, P. Cendon – F. Bilotta, Fatto illecito doloso, danno psichico, danno esistenziale, nota a Trib. Alba 9 agosto 2004, pubblicata il 20.9.2005 in http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/001413.aspx.

[7] Leggibile in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_dipendente_comunale.html.

[8] Così Cass., 13.8.1991, n. 8835, cit. Conformi: Cass., 18.4.1996, n. 3686, cit.; Trib. Roma 19.10.1993, cit.; in dottrina, sul danno biologico, v., esaurientemente, M. Lanotte, Danno biologico: natura giuridica e sua risarcibilità, in Mass. giur. lav. 1995, 259 e bibliografia ivi citata.

[9] Così Pret. de L’Aquila 10.5.1991, in Foro it. 1993, I, 317.

[10] Così Pret. Roma 17.4.1992, in Lav. prev. oggi 1992, 1172 con nota adesiva di M. Meucci: Risarcimento per dequalificazione e per danno biologico; conforme: Cass., 24.1.1990, n. 411 ivi 1990, 2387, con nota di M. Meucci: Condotta illegittima datoriale e danno psichico al lavoratore.

[11] Così Pret. Roma, 3.10.1991, in Riv. crit. dir. lav. 1992, 390.

[12] Cass., 20.12.1986, n. 7801, in Riv. it. dir. lav. 1987, II, 578, con nota decisamente critica di M. Meucci, Sistematico disconoscimento datoriale di meriti e diritti e danno alla salute psichica del lavoratore.

[13] Affermato, tra le molte, da Cass., 6.4.1990, n. 7191; Cass., 25.4.1985, n. 3212; Pret. L’Aquila 10.5.1991, cit.

 

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