I  requisiti della conciliazione in sede  sindacale

 

Con la decisione  n. 13910 dell’11 dicembre 1999 (1), la Suprema corte ha riconfermato i requisiti formali e sostanziali necessari affinché una conciliazione sindacale – raggiunta nella materia dei diritti inderogabili del lavoratore ex art. 2113 c.c. – sia sottratta al regime della successiva impugnabilità da parte dei sottoscrittori.

Nella vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione – e per quanto si riesce a desumere dal testo della decisione in commento -  taluni lavoratori in mobilità  avevano sottoscritto con la datrice di lavoro e con l’assistenza di un sindacato diverso da quello cui erano iscritti, in occasione della percezione di emolumenti retributivi, degli atti di rinuncia agli interessi e rivalutazione monetaria, contro  la volontà del rappresentante sindacale dell’organizzazione Cgil in cui militavano, il quale si era rifiutato di sottoscrivere la conciliazione in quanto ritenuta pregiudizievole degli interessi dei lavoratori.

Nei termini codificati nell’art. 2113 c.c., i lavoratori impugnavano la rinuncia/transazione, a causa della mancata  presenza e sottoscrizione da parte del rappresentante sindacale dell’organizzazione di fiducia Cgil, vedendosi respinta l’impugnazione da parte del Pretore di Vicenza, in primo grado, e da parte del Tribunale di Vicenza in sede di appello, che condivideva la tesi pretorile secondo cui: “l’atto abdicativo degli accessori retributivi era venuto a collocarsi nell’ambito di una procedura di conciliazione sindacale, svolta con la concreta assistenza dei rappresentanti del sindacato, idonea tanto a colmare ogni eventuale posizione di inferiorità contrattuale del singolo lavoratore, quanto a fornire la necessaria informazione, a ciascun lavoratore, sulla portata dell’atto che si accingeva a porre in essere e sulla efficacia reale dello stesso”. Anzi specificava addizionalmente il Tribunale che la tesi degli appellanti era inficiata dall’erroneo presupposto che il sindacato sia il soggetto negoziale dell’atto abdicativo, sicché questo, senza la sottoscrizione di un rappresentante sindacale, sarebbe invalido per mancanza di un elemento essenziale. All’opposto, secondo il Tribunale, l’atto abdicativo raggiunto tramite conciliazione in sede sindacale, ex art. 411 c.p.c., era pienamente valido perché “il sindacato non è agente contrattuale ma garante esterno della parità di posizione delle parti (e, quindi della genuinità della formazione della volontà dei lavoratori), giustificando, con tale apprestata assistenza, la validità e la inoppugnabilità degli accordi suddetti pure per la parte in cui contengono rinuncia a diritti derivanti da norme inderogabili” (2).

La Corte di Cassazione nella decisione che si annota non condivide l’impostazione soprariferita e mette in evidenza come il regime di inimpugnabilità (ex art. 410 e 411 c.p.c.) delle rinunzie e delle transazioni afferenti  a diritti inderogabili dei lavoratori – ex art. 2113 c.c., 4° comma – presuppone che i tre tipi di conciliazione tipizzati dal legislatore (conciliazione giudiziale, in sede  amministrativa presso l’Uplmo – ora Direzione provinciale del lavoro – e in sede sindacale) siano caratterizzati dall’intervento di un “soggetto terzo”, rispettivamente “il giudice, la commissione provinciale di conciliazione ed il sindacato, ritenuti dal legislatore idonei a tutelare il lavoratore nel genuino formarsi della sua volontà transattiva  o di rinuncia”. La conciliazione giudiziale, dati gli effetti processuali e sostanziali che ne derivano (art. 420, 3° comma, cp.c.) deve rivestire la forma scritta, essere consacrata in un processo verbale, sottoscritto dalle parti, dal giudice e dal cancelliere (artt. 185, 130 e 420 c.pc.; 88 d.a.c.p.c.). Analoghe garanzie presiedono alla realizzazione della conciliazione dinanzi alla Commissione in sede  ex Uplmo, della quale pure viene redatto processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal presidente del Collegio che ha esperito il tentativo, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti (art. 411, 1° comma c.p.c.). Non minori debbono essere – pertanto, secondo la Cassazione – le garanzie formali in caso di conciliazione sindacale, per la quale pure si deve pretendere che essa risulti da un documento sottoscritto dalle parti e dai “rispettivi” rappresentanti sindacali, anche al fine di verificare – con la loro contestuale sottoscrizione – il rapporto fiduciario intercorrente, sicché il requisito della fiduciarietà può ritenersi normalmente integrato dalla “firma contestuale del lavoratore e del rispettivo rappresentante sindacale”.

La Cassazione, nell’odierna decisione, conferma quanto statuito in precedenza da Cass. n. 11167 del 1991 (3), la quale  - in un caso similare di conciliazione sindacale raggiunta con la presenza di un sindacalista di  una organizzazione diversa da quella cui il lavoratore era iscritto – negò alla conciliazione così raggiunta il carattere  della inimpugnabilità e definitività, asserendo che per possedere tali caratteristiche il lavoratore doveva essere sottratto da qualsiasi stato di inferiorità che solo poteva essere garantito dalla presenza del sindacalista dell’organizzazione cui aveva ritenuto di affidarsi ed in cui aveva riposto fiducia e non già di sindacalista di altra e diversa organizzazione, la presenza del quale occasionava quella “generica assistenza sindacale” che già in precedenti occasioni la Cassazione (4) aveva giudicato inidonea a realizzare l’assetto protettivo e garantista della genuinità dell’atto abdicativo compiuto dal lavoratore nei confronti dei propri diritti inderogabili.

Poiché l’opinione della Cassazione appare  centrata sull’esigenza della “presenza, assistenza  e sottoscrizione contestuale” dell’atto di rinuncia – nella sede conciliativa sindacale – da parte del sindacalista dell’organizzazione di fiducia del lavoratore, non possiamo dare a questo orientamento una lettura contraria a quella posizione precedente della Suprema corte (5),  espressasi per l’irrilevanza “della circostanza che l’Uplmo o la commissione di conciliazione od i conciliatori nominati dalle rispettive organizzazioni di categoria abbiano attivamente partecipato alla composizione dell’atto, ovvero si siano limitati a registrare (id est, avallare o ratificare, n.d.r.) l’accordo intervenuto direttamente tra le parti, dato che , in entrambe le ipotesi, la presenza di detti organi è idonea a sottrarre il lavoratore ad una condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro”.

Quand’anche il lavoratore abbia raggiunto in proprio col datore di lavoro un determinato assetto di interessi, il fatto che questo assetto venga poi portato all’esame ed alla valutazione  di “soggetti terzi” (il giudice, la Commissione di conciliazione, i conciliatori sindacali) garanti di sottrarlo da qualsiasi timore riverenziale con il proprio consiglio, assistenza, approvazione o dissociazione – mediante rifiuto di sottoscrizione o ratifica  contestuale al verificarsi della quale ipotesi la conciliazione sindacale non si attualizza e non raggiunge il suo scopo -  sembra ragionevolmente possa essere considerato sufficiente garanzia di un’assenza di coartazione della volontà del soggetto più debole, anche perché in presenza dei “terzi garanti” della sua libertà volitiva egli ha sempre la possibilità, dietro consiglio ed assistenza specialistica,  di rimettere tutto in discussione.

Questa impostazione è stata espressa in giurisprudenza eminentemente a proposito dell’assistenza da prestare al lavoratore  da parte delle Commissioni provinciali di conciliazione, asserendosi “che tali organismi adempiono al compito che è stato loro affidato dalla legge, non soltanto quando partecipano attivamente alla composizione della controversia, ma anche quando, non occorrendo la loro partecipazione attiva perché le parti hanno già deciso di comporre la controversia stessa, si limitano a constatare che la volontà del lavoratore non è stata coartata in alcun modo e, quindi, a registrare in apposito atto  la composizione che gli interessati hanno già raggiunto, tra loro direttamente. Ciò in quanto l’intervento di detti organismi o la loro presenza è idonea e sufficiente a sottrarre i lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro che rende sospette di prevaricazione da parte di quest’ultimo le transazioni o rinunzie intervenute nel corso del rapporto in ordine a diritti stabiliti da norme inderogabili” (6). Ed è una impostazione pacificamente estensibile – secondo noi -  alle conciliazioni raggiunte in sede sindacale.

Certo è che una conciliazione “ottimale” postula che si realizzi direttamente nella sede ad hoc  (e non in precedenza tra le parti), con una fattiva ed attiva partecipazione dei soggetti (sindacalisti, nel caso di conciliazioni sindacali) ed organi legislativamente tipizzati (nelle conciliazioni giudiziali e amministrative) - tant’è vero che non sono mancate  isolate decisioni che hanno asserito che “deve considerarsi tamquam non esset una conciliazione, redatta presso l’ufficio provinciale del lavoro, la quale, invece di costituire, con l’attivo ministero del pubblico ufficiale la composizione di una vertenza in atto, costituisce la mera ricognizione o reiterazione di un accordo già raggiunto dalle parti”(7) – ma non si può negare che la  sussistente possibilità di convalidare o sottoporre nelle sedi ad hoc al proprio sindacalista di fiducia (o agli organismi legislativamente tipizzati)  un già realizzato assetto di interessi  al fine di riceverne l’approvazione, il consiglio,  l’assistenza e l’eventuale rimessa in discussione prima che acquisti carattere di definitività con la sottoscrizione contestuale di tale conciliatore, costituiscano condizioni idonee e sufficienti a garantire una libera  determinazione della volontà del lavoratore.

Né ci sembra poi che si possa ancorare (o far dipendere) l’inimpugnabilità (o meno) della conciliazione sindacale dal comportamento “attivo” o “passivo” tenuto dal sindacalista – sempreché appartenente all’organizzazione di fiducia del lavoratore -   nella sede conciliativa, giacché spetta al sindacato ed ai suoi rappresentanti decidere con quali modalità tutelare gli interessi dei propri rappresentati, né il giudice può esercitare un sindacato su tale aspetto comportamentale (troppo evanescente ed inaffidabile) per giungere a conclusioni di “carenza di assistenza” nei confronti del lavoratore da parte del soggetto ad essa legislativamente tenuto.  Sul punto specifico merita, pertanto, di essere condivisa l’opinione secondo la quale: “compete, infatti, al sindacato ed ai suoi rappresentanti decidere in che modo tutelare non solo l’interesse collettivo, ma anche  l’interesse individuale del lavoratore subordinato in  sede di tentativo di conciliazione e, pertanto,  fino a quando  il loro comportamento resta nei margini fissati dalla legge, non può essere oggetto di critica o di rilievo da parte del giudice e, di conseguenza, incidere sulla validità o invalidità della raggiunta conciliazione. Nella ipotesi, dunque, di un atteggiamento passivo dei rappresentanti sindacali di fronte ad una conciliazione addirittura già raggiunta dalle parti, prima ancora di comparire innanzi a loro, non può il giudice escludere che tale atteggiamento passivo sia stato, nel caso concreto, il più conforme all’interesse del lavoratore, perché non può ‘sindacare’ il modo con cui i rappresentanti sindacali hanno deciso di assistere il lavoratore” (8).

Mario Meucci

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi n. 3/2000, p.561)

 

NOTE

(1)               In Lav. prev. Oggi, n. 3/2000, p. 555.

(2)               In tal senso aderendo all’opinione manifestata da Cass. 25 gennaio 1992, n. 827, in Mass. giur. lav. 1992, 249;  Cass. 26 luglio 1984, n. 4413, ibidem 1984, 509 ed ivi 1985, 139 con nota di Cipressi, Sulla conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro; Cass. 13 maggio 1987, n. 4408, in Not. giurisp. lav. 1987, 511; Cass. 20 febbraio 1988, n. 1804, ibidem 1988, 266

(3)       Cass. 22 ottobre 1991, n. 11167 trovasi in  Mass. giur. lav. 1992, 163, con nota di Sbrocca, In tema di assistenza sindacale nella conciliazione di cui all’art. 411, 3° comma, c.p.c.

(4)          Per l’insufficienza,  ai fini dell’inimpugnabilità delle conciliazioni in sede sindacale, della “generica assistenza sindacale” (id est presenza di un sindacalista qualsiasi, anche se diverso da quello dell’organizzazione di fiducia), vedi Cass. 17 gennaio 1984, n. 391, in Mass. giur. lav. 1984, 89.

(5)       Asserito da Cass. 26 luglio 1984, n. 4413, cit. e Cass. 20 febbraio 1988, n. 1804, cit.

(6)       Così Cass. 19 maggio 1982, n. 3903; Cass. 2 aprile 1982, n. 2039, in Not. giurisp. lav. 1982, 464; Cass. 9 marzo 1982, n. 1482, in Mass. giur. lav. 1982, 434

(7)          Così Cass. 23 giugno 1984, n. 3700, in Mass. giur. lav. 1984, 165.

(8)       Così Cipressi, Sulla conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro, cit., 147.

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