- Significative
concordanze nella recente giurisprudenza sul mobbing
-
- Vengono
esaminate, tra le varie emesse nel 2005, 5 recentissime decisioni della
magistratura di merito, dalle quali si trae il motivato convincimento che
essa abbia oramai ben focalizzato e convincentemente affrontato il
fenomeno del mobbing, in
un’ottica di necessitata supplenza causata dall’incredibile latitanza
del Parlamento presso cui giacciono (da troppo tempo e fin dalla
precedente legislatura) numerosi disegni di legge volti a disciplinare e
reprimere questa degenerazione nelle relazioni interpersonali sul posto di
lavoro.
-
- Premessa
- Il fenomeno (o meglio, la patologia)
del mobbing – tanto esiziale per le vittime quanto dannoso per la
produttività delle aziende – non conosce sosta, come testimonia la
stampa quotidiana, la stessa attenzione dell’Inail (che, tuttavia, ha
dovuto subire l’annullamento dell’ottima
circ. n. 71/2003 sulla cd. “costrittività organizzativa”, ad
iniziativa del Tar del Lazio del 4.7.2005, attivato dai ricorsi delle
Organizzazioni imprenditoriali, Abi inclusa)
ed ancor più le numerose sentenze di merito che si succedono
di mese in mese nelle varie regioni del Paese, confermative del dilagare
della sindrome degenerativa nei
posti di lavoro. Sindrome che viene affrontata
e contrastata dalle vittime con sempre maggior coscienza e coraggio,
nonostante l’effetto frenante delle comprensibili remore alla denunzia,
in ragione delle immanenti difficoltà probatorie in giudizio, accentuate
dall’omertà dei colleghi indisponibili a testimoniare per timore di
realistiche ritorsioni aziendali sulla carriera o per aver, con la loro
colpevole indifferenza, rivestito il ruolo di side
mobbers.
- Assistiamo da tempo a numerosi
ricorsi ai giudici del lavoro – tuttavia eminentemente per i casi più
eclatanti che dimostrano di essere la punta di un iceberg
indiscutibilmente più consistente e sommerso -
che ci convincono del fatto che le vessazioni e le persecuzioni
psicologiche poste in essere in azienda, hanno cessato di beneficiare del
tipico “silenzio del chiostro” per essere rese di pubblico dominio
dalle decisioni di coloro che sono preposti a giudicare della correttezza
dei comportamenti umani. Grazie a coraggiose decisioni vengono riconferiti
alle vittime, per via giudiziaria, quei riconoscimenti morali che ne
ritemprano l’autostima distrutta. Anche se non possiamo nascondere la
realistica constatazione che – sul versante del risarcimento materiale o
monetario – la maggioranza della nostra encomiabile magistratura pecca (ora
più di un tempo) di congenita avarizia (e priva in tal modo le proprie
affermazioni di principio del necessario carattere di deterrenza verso la
reiterazione), lasciando trasparire un “gap” sostanzioso tra le
affermazioni di principio e il ristoro monetario delle sofferenze patite;
“gap” che la confina in
posizione ben distante dalla corrispondente giurisprudenza dei paesi di
“common law”, ove si riscontrano sanzioni esemplari nei confronti
degli autori del fenomeno lesivo degli intangibili diritti della
personalità e della dignità umana, sanzioni
favorite anche dal fatto che i loro ordinamenti hanno accolto la figura
giuridica dei cd. “danni punitivi”, a noi sostanzialmente estranea o
non espressamente contemplata.
- Qualcuno potrebbe osservare che
proprio verso fine luglio 2005 il testo unificato del disegno di legge sul
mobbing ha trovato approvazione da parte della XI Commissione permanente
del Senato e che, quindi, la nostra critica verso i nostri rappresentanti
in Parlamento apparirebbe ingenerosa.
- Non
è così perché – va subito detto – il cd. “testo unificato” è a
nostro avviso tutt’altro che soddisfacente e idoneo a contrastare il
mobbing.
- Infatti
il testo unificato conferisce al mobbing una tipizzazione di
illecito civile – cui si accompagnano responsabilità disciplinari e
risarcitorie di danno – evitando di configurarlo quale delitto, cioè
reato penale autonomo e tipizzato cui si sarebbe dovuta accompagnare la
pena della reclusione, misura quest’ultima che, a nostro avviso, è
l’unica che possiede idoneità deterrente, cioè a dire reale capacità
di scoraggiare incisivamente il fenomeno del mobbing.
- Nel
testo unificato viene fornita una definizione elastica al mobbing, tale da
ricomprendere tutti i fenomeni di violenza e persecuzione psicologica
caratterizzati da un minimo comune denominatore, costituito da un elemento
oggettivo – ossia la continuità e sistematicità di atti e
comportamenti persecutori tenuti in ambito lavorativo - e da un elemento
teleologico, consistente nella finalizzazione specifica di tali atti a
danneggiare l’integrità psico-fisica della lavoratrice o del
lavoratore. Tale elemento teleologico, per lo meno quando non sia
palesemente eclatante, comporta – in capo al lavoratore che adduce il
mobbing – l’onere della
prova o dimostrazione di una
intenzionalità del mobber di infliggergli le vessazioni; comporta
cioè per il lavoratore l’onere di provare la sussistenza dell’animus
nocendi del vessatore ovverosia il dolo specifico che anima i di lui
comportamenti antigiuridici lesivi della dignità e dei diritti della
personalità del mobbizzato, dolo la cui dimostrazione notoriamente
costituisce per il soggetto destinatario delle iniziative vessatorie e
persecutorie una probatio
diabolica, in quanto attiene
alla sfera volitiva di altri e che proprio per la difficoltà
dell’essere dimostrata è suscettibile di lasciare i mobber indenni da
responsabilità (sia penale che civile)
e di garantire impunità a coloro che hanno posto in essere le
iniziative illecite di inflizione di danni a livello psicologico,
professionale e di salute, con l’effetto deleterio ed indesiderato di
circoscrivere a pochi casi (idiscutibilmente in equivoci) il
riconoscimento, in sede giudiziaria, della fattispecie del mobbing.
- La
tipizzazione del mobbing come illecito civile (caratterizzato da
sola responsabilità risarcitoria) in luogo di una tipizzazione (da noi
auspicata e preferita) quale reato penale nonchè l’accollo al
mobbizzato dell’onere probatorio del dolo specifico del mobber
(dolo che pur non essendo espressamente menzionato emerge dalla previsione
contenuta nel d.d.l. secondo cui, per essere riconducibili alla
fattispecie del mobbing, le iniziative vessatorie debbono essere svolte
con “palese predeterminazione” o “finalizzate” a danneggiare
l’integrità della persona), costituiscono i difetti principali
dell’attuale testo unificato, giacché è a tutti noto che le più
frequenti e durature vessazioni avvengono in situazioni di colpa, per
negligenza, per mancato controllo, per distratta o compiaciuta tolleranza,
senza che sia possibile, per la vittima, dimostrare l’esistenza di una
pervicace intenzione dolosa che si estenda alla previsione specifica di
arrecare danno biologico e volta al fine di allontanare il lavoratore dal
posto di lavoro.
- Questi
sostanziosi difetti dell’emananda disciplina legislativa erano stati
evitati dal d.d.l. del Sen. Magnalbò che, con nostra piena adesione,
aveva proposto di conferire al socialmente dannoso ed antigiuridico
fenomeno del mobbing, rilevanza penale affiancandogli la misura punitiva
della reclusione fino a 4 anni. Addizionalmente il d.d.l. in questione
aveva previsto l’inversione dell’onere della prova (sebbene
solo per la tutela civilistica a fini risarcitori) dal lavoratore-vittima
al mobber. Cosicché sarebbe toccato, quindi, al datore di lavoro
e/o al superiore gerarchico (in caso di mobbing verticale) ovvero al
collega-mobber (in caso di mobbing orizzontale) dimostrare di non aver
voluto nuocere intenzionalmente. Purtroppo l’impostazione del precitato
d.d.l. non risulta essere stata accolta.
- Concludendo
sul tema, esprimiamo la convinzione che per debellare un fenomeno
esiziale, che sempre più va diffondendosi nel mondo del lavoro, la
disciplina legale sul mobbing in corso di approvazione dovrebbe:
-
a) tipizzare la fattispecie del mobbing come reato penalmente rilevante e
sanzionato con la misura punitiva della reclusione (specie nel caso in cui
alla persecuzione psicologica si accompagni danno biologico temporaneo o
permanente, medicalmente accertato per la vittima, id
est reato di lesioni personali);
-
b) sganciarne la punibilità dal riscontro del dolo specifico o
intenzionalità del mobber, prevedendone per legge la punibilità
– sia dal lato penale che della responsabilità civile risarcitoria –
alla ricorrenza della sola colpa, atteso che ciò che rileva per la
vittima é l’aver subito oggettivi e seri pregiudizi (per la salute a
causa di sindromi depressive indotte o di altre malattie psico-somatiche,
a livello psicologico per caduta dell’autostima, sul versante della
professionalità a causa di demansionamento o confinamento in forzata
inattività), pregiudizi riconducibili con nesso di causalità
a comportamenti antigiuridici e colposi del mobber (datore
di lavoro, superiore gerarchico, collega o subordinato);
-
c) trasferire l’onere della prova
dalla vittima al persecutore, in base alla realistica presunzione della
consapevolezza secondo senso comune (da parte del persecutore) della potenzialità
pregiudizievole e dannosa dei suoi comportamenti attivi o omissivi, con la
conseguenza che - una volta che la vittima abbia dimostrato che i
danni subiti sono conseguenza delle iniziative vessatorie o
persecutorie del mobber e ad esso oggettivamente imputabili -
sia il mobber ad essere onerato della prova (a discarico) di
assenza di intenzionalità di nuocere o di una qualsiasi altra colpa, in
mancanza di assolvimento della quale sarà considerato responsabile degli
addebiti mossegli dalla vittima e automaticamente soggetto alle
responsabilità di carattere civile e penale.
-
- Esame della recente giurisprudenza di merito
- Riprendiamo il filo del discorso
iniziale per occuparci della recente giurisprudenza di merito, ad
esemplificazione della quale passiamo in rassegna e diamo conto al lettore
di Trib. Bergamo 20 giugno 2005 (est. Bertoncini), Trib. Lecce 4 maggio
2005 (est. Sodo), App. Genova 15 aprile 2005 (est. Ravera), Trib. Forlì
19 maggio 2005 (est. Sorgi) e Trib
La Spezia
1 luglio 2005 (est. Fortunato), decisioni che il lettore interessato ad
una conoscenza integrale può leggere sul nostro sito http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html
(giurisprudenza), ove sono pubblicate in formato .pdf.
- Tutte queste sentenze sono
caratterizzate da una stretta connessione ed uniformità di posizioni,
orientamenti e principi giuridici, sui quali ci intratterremo nelle
conclusioni.
-
- Il
caso deciso da Trib. Bergamo 20.6.2005
- Il
giudice del tribunale di Bergamo ha avuto modo di occuparsi del ricorso di
una lavoratrice con molta anzianità di servizio, che era stata
demansionata e ridotta in stato di forzata inattività (oltre che spostata
fisicamente dal precedente posto di lavoro costituito dall’ufficio
recupero crediti, in una sorta di ripostiglio, con mobili in disuso, senza
PC e telefono per oltre due anni) per aver osato
chiedere al nuovo datore di lavoro (subentrante al vecchio) nel
corso di una riunione del personale quali fossero le sue intenzioni
riguardo al futuro dell’azienda testè acquisita. Per ritorsione e quale
monito per tutto il personale, egli l’aveva trasferita di lì a poco nel
locale ripostiglio, senza mansioni. In presenza di demansionamento
assoluto e protratto ma non accompagnato da altre iniziative vessatorie,
il magistrato ha avuto occasione – basandosi sulla relazione del CTU (lo
psicologo tedesco H. Ege) di effettuare una originale distinzione tra
“mobbing” e “straining” (sforzo o forzatura). Ed ha pertanto detto
che il cosiddetto
mobbing consiste in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente
ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte
oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione
superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità.
Tale fenomeno si distingue dal cd. “straining” che è costituito da una
situazione di stress forzato sul
posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come
conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre
ad essere stressante è
caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è
rispetto alla persona che
attua lo “straining” in persistente inferiorità. Pertanto mentre il
mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel
tempo, per lo “straining” è
sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel
caso del demansionamento).
Pertanto nella
fattispecie, strutturata da solo demansionamento assoluto e protratto (cd.
forzata inattività) per circa 2 anni e mezzo, il comportamento illecito
datoriale è qualificabile come “straining”, determinativo di danno
biologico (stimato dal CTU nel 7-8% e liquidato secondo le tabelle
adottate dal Tribunale), nonché di danno alla professionalità
(equitativamente liquidato con il parametro dell’80% della
retribuzione mensile netta e non del 100%, in considerazione del fatto che
la lavoratrice si è dimessa avendo già raggiunto i requisiti per la
pensione di anzianità e non ha dovuto ricercare una nuova occupazione sul
mercato del lavoro, con conseguente attenuazione del danno alla
professionalità).
- Il
giudice ha altresì riconosciuto come
dovuto il danno morale (liquidato equitativamente in misura pari a circa
la metà del danno biologico) asserendo, del tutto condivisibilmente, che trattandosi
di danno non patrimoniale, riteneva al riguardo di aderire
all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
fornita dalla recente giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità,
secondo cui “il danno non
patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente
alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della
risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata
all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificazione del
fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge
consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere
riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle
previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il
riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla
persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne
esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge,
al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale” (così
Cass. civ. sez. III n. 8827 del 31.5.2003; v. anche Cass. civ. sez. III n.
8828 del 31.5.2003 e Corte Cost. n. 233 del 2003).
- E’
allora evidente che, alla luce di tale recente orientamento
giurisprudenziale, il risarcimento del danno morale, come danno non
patrimoniale, nell’attuale sistema normativo prescinde dalla sussistenza
di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente
ricollegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti.
- Nella
situazione esaminata, venendo in considerazione quella sofferenza di
carattere transitorio atta comunque a determinare un turbamento psichico,
si verte nell’ambito della lesione del diritto all’integrità
psico-fisica tutelata dall’art. 32 della Costituzione. La lavoratrice
infatti, ancora alla data della decisione presentava “disturbi
alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all’isolamento ed
all’esclusività degli affetti, fobia della folla, diffidenza
generalizzata verso gli estranei”, una patologia diagnosticabile
come “disturbo depressivo-ansioso” (così dalla relazione CTU).
-
- La
fattispecie esaminata da Trib. Lecce 4.5.2005
- Il magistrato del Tribunale di Lecce
si è dovuto occupare del demansionamento nel settore del pubblico impiego
di una laureata Responsabile dell'ufficio commercio e polizia
amministrativa (contemplato nel vecchio organigramma del Comune di
Gallipoli) spostata, in un primo tempo e per breve periodo all’ufficio
legale con il compito di istruire le pratiche di liquidazione delle
competenze legali per gli incarichi affidati dal Comune a professionisti
esterni, senza coordinamento di impiegati sottoordinati; quindi si
trattava di compiti di rilevanza molto più circoscritta rispetto a quelli
svolti presso l'ufficio commercio, caratterizzati da minore discrezionalità,
essendo noto che le competenze vengono liquidate in base alle tariffe
forensi approvate con D.M., che prevedono la liquidazione dei diritti in
misura fissa e degli onorari in misura variabile ma entro limiti massimi e
minimi predeterminati. Ancora dopo è stata assegnata ad altra unità
organizzativa comunale, alle dipendenze di un capo ufficio, ove si è
occupata essenzialmente dell'attività inerente alle ordinanze
ingiunzioni, nonché del c.d. plateatico, istruendo cioè le pratiche
relative alle autorizzazioni per gli spettacoli viaggianti quali circhi,
luna park e giostre in genere e del settore della pubblicità. Effettuata
un’istruttoria puntigliosa ed esauriente, il magistrato afferma che
nella fattispecie si ravvisa una evidente riduzione delle mansioni
attribuite alla dott.ssa XY, da un punto di vista quantitativo prima
ancora che qualitativo, con esautoramento progressivo della ricorrente
dalla figura di fulcro dell'ufficio commercio prima rivestita, comprovato
dalla stessa allocazione della sua successiva postazione di lavoro al di
fuori dallo stretto ambito dei locali della U.O. n° 15. Ciò ha
determinato essenzialmente uno svilimento della professionalità e della
personalità della ricorrente, sotto il profilo della lesione della sua
personalità morale che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ex
art. 2087 c.c. e soprattutto una lesione del suo diritto,
costituzionalmente protetto ex art. 2 Cost., alla libera esplicazione
della sua personalità nella comunità di lavoro; senza tralasciare la
circostanza che il principio di efficienza e buon andamento della pubblica
amministrazione esige implicitamente la valorizzazione del bagaglio
professionale dei dipendenti piuttosto che, come avvenuto nella
fattispecie concreta, il suo progressivo ridimensionamento. La diminuzione
qualitativa e, lo si ribadisce, quantitativa del livello delle mansioni
concretamente assegnate alla ricorrente, ha cagionato indubitabilmente un
danno presunto alla professionalità della ricorrente, nonché un danno di
tipo esistenziale (tipo di danno sempre risarcibile secondo la più
recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità – cfr. le già
menzionate Cass. nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e Corte cost n. 233
del 2003 - ogni qual volta vi
sia la violazione di obblighi contrattuali cui sono contrapposti interessi
di rilievo costituzionale), che devono essere necessariamente liquidati in
via equitativa, parametrando cioè il danno patrimoniale da lesione della
professionalità percentualmente alla retribuzione mensile percepita dalla
lavoratrice e proporzionalmente alla durata, entità e modalità del
demansionamento e percentualizzando invece l'ammontare del risarcimento
del danno esistenziale (danno areddituale e dunque suscettibile di
liquidazione uniforme in ossequio al principio costituzionale di
eguaglianza, al pari del danno biologico) all'ammontare del trattamento
massimo mensile di integrazione salariale straordinaria a carico
dell'INPS.
-
- Il caso preso in esame da Trib. Forlì 19.5.2005
- La fattispecie decisa dal giudice monocratico del Tribunale
di Forlì atteneva ad un
ricorso di una lavoratrice con un’anzianità nel settore oreficeria di
16 anni, mantenuta sempre nello stesso livello di inquadramento e
demansionata attraverso lo spostamento dal reparto oreficeria di un punto
di vendita in Cesena, in cui la stessa era elemento di riferimento per la
clientela – spostamento per
la ricorrente dettato da ritorsione sindacale, secondo l’azienda per
superare l’atteggiamento conflittuale della ricorrente nei confronti
delle due colleghe – al reparto bricolage, a lei professionalmente
estraneo, di minor autonomia, impegno professionale e senza il disimpegno
dell’attività di formazione verso altri addetti. A conclusione
dell’istruttoria, il magistrato accoglie la richiesta di inquadramento
nella superiore categoria o livello e quella del risarcimento del danno
alla professionalità, nella forma del danno non patrimoniale di tipo
esistenziale. Il giudice afferma che le sentenze della Corte di Cassazione prima (Cass. nn.
8827 e 8828/2003) e della Corte Costituzionale in seguito (Corte cost. n.
233/2003), dal 2003 hanno rivitalizzato l’articolo 2059 c.c.
evidenziando il triplice profilo del
danno morale soggettivo, direttamente rinvenibile dall’art. 185 c.p.,
del danno biologico, come si ricava dai recenti interventi normativi
definitori dello stesso come danno alla salute, e di un terzo danno
relativo alla lesione di diritti costituzionalmente
protetti, che parte della dottrina e dei giudici definiscono come danno
esistenziale. Sostiene, pertanto che, nel
caso in esame, ci si trova di fronte ad una tipologia di danni
riconducibili alla categoria del danno esistenziale, posto che nella
condotta della parte convenuta non sono rinvenibili ipotesi rilevanti
penalmente e, d’altro canto,
la CTU
ha escluso rilevanza sulla salute della ricorrente della condotta
illegittima evidenziata. Occorre, dunque, verificare se ci troviamo di
fronte ad un profilo di danno relativo alla lesione di diritti
costituzionalmente protetti e, sotto questo profilo la lettura dei
principi fondamentali della nostra Costituzione, che indica la stessa
Repubblica Italiana fondata sul lavoro e dichiara di voler garantire il
pieno sviluppo della personalità umana e di voler tutelare il lavoro in
tutte le sue forme e manifestazioni, appare chiara ed univoca in senso
affermativo.
- Il diritto costituzionalmente
protetto è quello della professionalità del lavoratore, valore
attraverso il quale si esplica la personalità del lavoratore stesso, e il
danno esistenziale derivante dalla lesione di tale diritto è stato già
riconosciuto in molte decisioni anche dalla Corte di Cassazione che in una
recente sentenza proprio sul punto scrive :« tale
danno attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto
dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto
fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità
nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per
legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore
di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente
a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di
relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima
nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare, sia in termini di
perdita di chances per futuri lavori di pari livello….la valutazione di
siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della
patrimonialità, non può che essere effettuato dal giudice che alla
stregua di un parametro equitativo , essendo difficilmente utilizzabili
parametri economici o reddituali » (Corte di Cass., n.10157/2004).
Questa fulgida pagina della nostra giurisprudenza – afferma
esplicitamente il giudice - chiarisce alcuni punti fondamentali della
materia oggetto della presente sentenza.
- In primo luogo, con riferimento alla
prova del danno, con l’indicazione che i provvedimenti illegittimi
immancabilmente ledono la dignità del lavoratore,
la Corte
intende aderire all’orientamento che ritiene non necessaria la prova del
danno una volta provata la lesione del diritto costituzionalmente
garantito (sul punto, per altro,
la Corte
di Cassazione è stata chiamata a risolvere la questione a sezioni unite
dopo la rimessione della sezione lavoro
con l’ordinanza 4/8/2004). In secondo luogo,
la Corte
chiarisce trattarsi di un danno non patrimoniale e come tale da liquidare
equitativamente su parametri areddituali. Il giudice concorda anche con
questa seconda osservazione ed al riguardo offre come parametro di
valutazione per la liquidazione equitativa del danno
la durata della lesione stessa.
- Calcolando che il trasferimento
dichiarato illegittimo e lesivo della professionalità della ricorrente è
avvenuto nel febbraio 2004, alla data della sentenza saranno passati circa
quindici mesi che, calcolando il dato medio di trenta giorni, portano a
calcolare in 450 giorni il dato complessivo. Utilizzando come parametro
economico di riferimento il valore medio dell’indennità totale
temporanea (ITT) di € 40,00 si arriva ad una valutazione complessiva di
€ 18.00,00 che il giudice stima equa riparazione del danno alla
professionalità della ricorrente conseguente all’illegittimo
trasferimento. Trattandosi di danno calcolato già con valori attualizzati
su tale somma dovranno essere corrisposti esclusivamente gli interessi
legali dalla data della sentenza.
-
- Il
caso posto all’attenzione di Corte App. Genova 15.4.2005
- In sede di appello la corte genovese
si è trovata di fronte ad una dequalificazione di un dirigente, direttore
generale della Società, con età di 46 anni e 13 di anzianità di
servizio in una Azienda di
trasporti nazionale, il quale faceva riferimento diretto inizialmente
all’Amministratore delegato; poi, iniziata la dequalificazione, era
stato posto alle dipendenze del direttore commerciale del Gruppo con
compiti di organizzazione e responsabilità delle portinerie;
successivamente a seguito di dimissioni del Direttore commerciale da
ultimo prepostogli, gli veniva affidata la responsabilità della direzione
commerciale del marketing; infine in una riunione cui non era stato
invitato veniva approvato un nuovo
organigramma in cui egli era declassato da direttore commerciale a
responsabile degli obbiettivi; infine era stato licenziato con l’accusa
del tutto infondata di aver compiuto scorrettezze e danneggiato
l’immagine aziendale all’esterno.
La Corte
d’appello accoglie pienamente il ricorso, giudica ingiustificato il
licenziamento (obbligando l’azienda a corrispondere al dirigente
l’indennità supplementare contrattuale) e risarcisce il danno alla
professionalità da demansionamento (sub
specie di danno esistenziale) basandosi sulla giurisprudenza della
Cassazione, secondo la quale l’art. 2103 c.c. fonda un diritto del
lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di
lavoro.
La Cassazione
motiva tale suo convincimento sia con il tenore testuale della norma
citata, la quale dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del
lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno,
ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai
sensi degli artt. 2, 1 comma, 4, 1 comma, e 35, 1 comma, Cost.. Pertanto
la lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto
soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una
determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da
parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere
le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da
dequalificazione professionale.
- Tale principio di diritto, trova poi
ulteriore fondamento giuridico, nel carattere del rapporto di lavoro
subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e
1321 cod. civ., perché, coinvolgendo la persona del lavoratore,
costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 cod.
civ.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la
collaborazione nell'impresa devono necessariamente coniugarsi con i
precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora.
Inoltre, il principio di esecuzione di buona fede del contratto di
assunzione (art. 1375 cod. civ.) e
l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la
formazione continua come essenziale caratteristica dell'attuale momento
storico - economico, valorizzano la funzione della prestazione lavorativa
in tal senso.
- Il demansionamento assurge quindi a
fattispecie plurioffensiva che può ledere diversi diritti soggettivi,
procurando così danni di natura diversa che di volta in volta il
lavoratore deve allegare.
- Nel caso in esame il ricorrente ha
allegato un danno alla professionalità, alla personalità e
all’immagine. Trattasi di situazioni giuridiche non patrimoniali,
posizioni esistenziali non biologiche, per le quali l’evento lesivo non
è dimostrabile in rerum natura.
Si tratta di beni eterei ed immateriali,
per i quali la prova della loro lesione
potrebbe al più essere data attraverso presunzioni. Peraltro, come
osservato dalla dottrina, «tali presunzioni (…) che
si fondano su regole d’esperienza incentrate sui criteri di normalità e
di tipicità sociale, in verità sono tutte interne alla dimostrazione
dell’inadempimento o del fatto illecito in quanto ruotano intorno alla
gravità, all’intensità, alla durata della condotta illecita o alla
condizione soggettiva del danneggiato, cioè agli stessi elementi che
servono per giudicare l’effettiva sussistenza del comportamento
antigiuridico e per liquidare il danno effettivamente subito, ossia per
stimare l’entità, il quantum del pregiudizio occorso (…) Meglio
sarebbe allora abbandonare la struttura classica dell’illecito e la
conseguente ripartizione del carico probatorio, ritenendo assorbita la
prova dell’evento lesivo nella prova della violazione dell’interesse
tutelato e concentrare l’attenzione su quest’ultima, richiedendo
parametri rigorosi della sua dimostrazione e facendo scattare la soglia
dell’antigiuridicità solo in presenza di comportamenti realmente
offensivi del bene normalmente tutelato».
- Deve inoltre osservarsi che molto
spesso i danni non hanno proiezione esistenziale esterna, non inibiscono
cioè al lavoratore di fare qualcosa ma incidono invece sull’essere cioè
su una dimensione dell’uomo riconosciuta anch’essa dalle norme
costituzionali, e per questi ultimi non è possibile dare la dimostrazione
della loro lesione. In sostanza una
volta accertata la condotta vietata e riscontrata la sua potenzialità
lesiva, i danni alla dignità morale (2087 c.c.) e professionale devono
seguire automaticamente, rilevando eventuali indicatori (diminuzione
rendimento lavorativo, stress emotivo, grado di risonanza all’interno e all’esterno
dell’azienda del fatto illecito, ecc.) quali elementi non fondativi di
ricorrenza dell’evento lesivo subito dal danneggiato, ma rappresentare
circostanze che connotano la vicenda per definire il quantum debeatur, elementi quindi utili per determinare
l’ammontare effettivo del risarcimento e calibrare il giudizio
equitativo al caso concreto.
- Ed allora venendo alla
quantificazione deve rilevarsi che anche se il demansionamento è durato
pochi mesi il ricorrente ha subito uno svuotamento di compiti che è stato
particolarmente grave sia
perché egli era al vertice dell’azienda (e ciò da molti anni) sia
proprio per la repentina spogliazione di compiti ed emarginazione che
hanno reso ancora più visibile all’interno dell’azienda l’avvenuto
demansionamento. Del resto gli stessi colleghi, escussi come testi, hanno
concretamente avvertito tale esautoramento. Ritiene pertanto il Collegio
che, avuto riguardo a tali elementi e tenuto conto della retribuzione
mensile percepita dal ricorrente, si debba liquidare ad oggi in via
equitativa la somma di € 7000,00.
-
- Il
caso esemplarmente deciso da
Trib.
La Spezia
1.7.2005
- Il giudice
monocratico locale si è occupato di un emblematico caso di mobbing –
divenuto di pubblico dominio per la denuncia dell’interessata, tra
l’altro, alla trasmissione televisiva “Mi manda Rai tre” condotta
all’epoca dal Dr. Marrazzo – compiuto da personale della Marina
militare a danno di una economa, con anzianità nella mansione di 15 anni,
di un circolo sottufficiali, la quale dopo aver denunciato ai superiori
gerarchici anomalie nella gestione della cassa e nella tenuta della
contabilità, era stata – al termine di un periodo feriale – impedita
dal rientrare nel posto di lavoro, alla cui porta d’accesso era stata
nel frattempo cambiata la serratura. Ne era seguito il diniego di consegna
della nuova chiave, la chiamata sul
posto da parte dell’esclusa dei carabinieri (che avevano redatto un
inattendibile verbale a favore dell’amministrazione pubblica) e dopo
incredibili vessazioni e persecuzioni psicologiche era stata fatta
“passare per matta”, con la conseguenza che una visita all’Ospedale
militare dall’interessata
richiesta per ottenere il riconoscimento come malattia professionale della
sindrome depressiva indotta aveva sortito quale effetto increscioso quello
dell’essere dichiarata “permanentemente inidonea al servizio e
affetta da malattia non compatibile con l’idoneità alla guida …con
segnalazione alla Motorizzazione civile e alla Prefettura”, che
prontamente le avevano ritirato la patente di guida. Ne erano seguiti
ricorsi gerarchici senza alcun successo, il rapporto di lavoro veniva
risolto per infermità (pur trattandosi di malattia per cd. causa di
servizio) ed infine veniva nuovamente adito il magistrato del lavoro che,
svolta l’istruttoria con escussione testimoniale, individua nella
fattispecie vessatoria il c.d. mobbing.
- Il magistrato evidenzia come la
ricorrente era stata costretta a proporre
un nuovo ricorso ex art. 700 c.p.c. in quanto, pur essendo in
malattia (causata come si dirà in seguito
dal comportamento del datore di lavoro), non percepiva alcun
emolumento mensile e nonostante il provvedimento del giudice in data
3/4/2001 era stata costretta a proporre vari ricorsi per decreti
ingiuntivi per ottenere il pagamento dello stipendio. Il magistrato non può
nascondere la propria stizza a fronte della deliberata indifferenza della
pubblica Amministrazione, giungendo ad affermare:«E’ la prima volta che questo giudice in 20 anni di lavoro vede un
accanimento così pervicace nei confronti di una lavoratrice da parte di
funzionari della pubblica amministrazione che si rifiutano anche di
adempiere l’ordine del giudice “ di
regolare con urgenza dal punto di vista economico la posizione della
ricorrente che dall’Ottobre 2000 non percepisce alcun emolumento”.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte deve
quindi essere confermata, senza ombra di dubbio, la responsabilità civile
dei funzionari civili e militari preposti alla direzione ed alla
sorveglianza del Circolo Sottufficiali… per violazione dell’art. 2087
c.c. in relazione ai danni subiti dalla ricorrente a causa delle condotte
vessatorie realizzate nei suoi confronti. Non si è trattato
infatti di azioni vessatorie singole ed estemporanee
ma di una vera e propria strategia coerente e premeditata ai danni di una
vittima ben precisa con l’intento lesivo di distruggerla, allontanarla,
degradarla».
-
- a)
Il cd. mobbing
- Il
magistrato, nella lunga e meditata sentenza, si fa carico di definire il
mobbing rifacendosi ad H.Ege – lo psicologo tedesco che l’ha
approfondito nel nostro paese – il quale
dice nel suo libro “Mobbing
conoscerlo per vincerlo” « che spesso le strategie del mobbing si
basano sulla menzogna, si mettono in giro false voci per danneggiare la
reputazione di una persona,….poi vi è una progressione dei
fatti….dalle calunnie si arriva alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Il maggior numero di casi di mobbing colpisce la donna in una fascia di età
compresa tra i 41 e i 50 anni con alle spalle un’anzianità di servizio
superiore agli 8 anni». Secondo il “metodo Ege
2002”
vi sono infatti sette parametri fondamentali per l’individuazione del
mobbing: l’ambiente lavorativo; la frequenza; la durata; il tipo di
azioni; il dislivello tra gli antagonisti; l’andamento secondo fasi
successive; l’intento persecutorio.
- A parere del giudice risulta
evidente che tutti questi parametri ricorrono nel caso in esame.
- Ma cos’è il mobbing?
- Va premesso che il giudice concorda
con l’Avvocato dello Stato nell’auspicare che, in un testo legislativo
regolante tale fattispecie, si coni un altro vocabolo più felice e più
aderente alla nostra cultura di origine greco-romana anche se oramai la
parola mobbing è diffusa in tutto il mondo e differenziandoci finiremmo
con essere isolati rispetto alle altre culture giuridiche.
- Ma…. a parte queste considerazioni
personali, per far comprendere anche all’uomo qualunque cos’è il
mobbing, il giudice dice che basta ricordare la figura del ragionier
Fantozzi, relegato in un sottoscala dal tirannico capoufficio. Si tratta
sicuramente del più famoso “mobbizzato” d’Italia che tuttavia non
ha mai saputo di esserlo perché negli anni in cui la trasposizione
cinematografica delle sue avventure divertiva gli spettatori, il mobbing
non era ancora studiato come fenomeno sociale in grado di causare gravi
danni alla salute dei lavoratori.
- L’espressione mobbing deriva dal
verbo della lingua inglese to mob
che significa assalire, aggredire ed è ripresa dalla scienza
dell’etologia e descrive il comportamento di un gruppo di animali che si
accaniscono contro uno di essi per espellerlo dal branco. Il primo ad
usare tale termine fu negli anni sessanta Konrad Lorenz e successivamente
tale concetto fu ripreso dalla psicologia del lavoro quando si è trovata
nella necessità di esprimere quel medesimo fenomeno di aggressione
nell’ambiente di lavoro.
- L’attuale psicologia del lavoro (i
primi studiosi sono stati Hans Leymann ed in Italia Harald Ege) indica con
questo termine una situazione
lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante
progresso all’interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati
e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, la reputazione e/o
la professionalità della vittima.
- In ogni caso, gli studiosi del
fenomeno sembrano concordare che due sono gli imprescindibili elementi
dello stesso: la reiterazione delle condotte (costituite da negozi, atti,
meri comportamenti), non necessariamente illecite se considerate in sé,
per un arco di tempo apprezzabile (almeno sei mesi, secondo alcuni
studiosi) e la loro intenzionalità (da non considerarsi come coscienza
specifica del fine ma come finalità riprovevole in relazione alla lesione
dei beni della dignità personale e della salute psico-fisica).
- Queste considerazioni sono oramai
entrate anche nel bagaglio giuridico degli operatori del diritto, dopo che
alcune pronunzie dei giudici di merito hanno riconosciuto l’esistenza
del fenomeno e lo hanno anche, in alcuni casi, sanzionato (cfr. Trib.
Torino 16 novembre
1999, in
“Riv. it. dir. lav.”, 2000, II, p.102; Id. 11 dicembre
1999, in
“Foro it.” 2000,I, c.1555; Trib. Milano 20 maggio
2000, in
“Or. giur. Lav.”,2000, 959; Id. 16 novembre 2000, ibidem, 962; Trib.
Como 22 maggio
2000, in
“Lav. Giur.”, 2002, p.73; Trib. Forlì 22 marzo
2001, in
“Riv. it. dir. lav.”, 2002, II, p. 521, ove, in motivazione, sono
riportate le definizioni del fenomeno elaborate dalla contemporanea
psicologia del lavoro; negativamente, v. Trib. Venezia, 26 aprile
2001, in
“ Riv. giur. lav.”, 2001, p. 88).
- Il fenomeno in esame non è stato
ancora tipizzato legislativamente (ed a ciò si è appellato il Tribunale
di Venezia nella sua sentenza del 26 aprile 2001 succitata per negare la
configurabilità giuridica del mobbing e la sua risarcibilità), ma non può
dirsi del tutto sconosciuto alle aule parlamentari, dato che sono stati
presentati, sullo scorcio della passata Legislatura ed in quella attuale,
diversi disegni e progetti di legge in argomento, tuttora pendenti. In
ogni caso, è fatto notorio che il mobbing è oramai da tempo
all’attenzione non solo della giurisprudenza e della dottrina, ma anche
dell’opinione pubblica e del Parlamento in quanto una maggiore
sensibilità datoriale a problemi del genere consentirebbe un
indiscutibile vantaggio per tutti, compreso il datore di lavoro che
eviterebbe cali di produttività della forza lavoro per lunghi periodi,
determinati da situazioni di mobbing. Le forme depressive dovute al
mobbing recano un danno socio-economico rilevante, quindi intervenire su
questo problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e
di correttezza nei rapporti umani, ma anche di opportunità economica, sia
per il buon funzionamento dell’azienda, sia per minimizzare i costi
sociali e sanitari.
- Anche il Parlamento Europeo con
la Risoluzione A
5-0283 del 20/9/2001 ha esortato le istituzioni Europee a fungere da
modello per quanto riguarda l’adozione di misure per prevenire e
combattere il mobbing.
- Ritiene il giudice che la mancata
(sino ad ora) tipizzazione legislativa non sia di ostacolo a riconoscere
per via giurisprudenziale, sulla scorta del diritto vigente, il fenomeno
del mobbing ed a sanzionarlo adeguatamente.
- Infatti, dalle scienze del lavoro
(psicologia e sociologia applicate) si ricava la definizione dello stesso
e si individuano i suoi caratteri fenomenologici; dal loro esame, deve
riconoscersi che ciò che differenzia il mobbing
da altre figure di illeciti è la sua capacità di unificare in una
fattispecie unitaria illecita una pluralità di azioni, atti, negozi e
comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere
anche neutri ma il cui (reale) fine (dannoso ed illecito) si apprezza
soltanto se letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica
complessiva. Il mobbing, dunque, va visto come fenomeno capace di
rappresentare unitariamente una fattispecie complessa e di dare ai suoi
comportamenti un significato unitario.
- Portando il discorso sul piano
giuridico, si osserva che, anche allo
stato attuale della legislazione, la fattispecie del mobbing si presenta
in contrasto con alcuni fondamentali precetti costituzionali: di certo,
con quello dell’art. 2, che tutela la dignità dell’uomo (anche) nella
formazione sociale “ambiente di lavoro”; ma anche con quello
dell’art. 3, 1° comma Cost., che vieta discriminazioni in ragione delle
diverse condizioni personali.
- Il mobbing si pone in
contrasto con il principio di tutela della salute sancito dall’art. 32
Cost., essendo evidente che il fenomeno in esame può incidere
negativamente sul benessere psico-fisico (si parla, al riguardo, per
descrivere gli effetti del mobbing sulla salute, di sindrome
post-traumatica da stress) ed, inoltre, vi è contrasto con la protezione
accordata all’iniziativa economica privata nel
rispetto della dignità umana (art. 41, 2° comma, Cost.).
- Dunque, non pare dubitabile che possa
già riconoscersi - allo stato attuale della legislazione- protezione dal
mobbing, risolvendosi esso in una figura unificante di fattispecie di
danno biologico, di danno alla dignità e personalità morale, di danno
all’immagine ed all’onore del prestatore di lavoro (già oggi
pacificamente risarcibili) ed anche di situazioni che, avulse dal contesto
in cui si iscrivono, non sarebbero illecite.
- E’ poi precipuo compito del
giudice, non demandabile ad un consulente, valutare se, nella fattispecie
concreta posta alla sua attenzione, sussistano o meno gli estremi della
figura del mobbing, al riguardo utilizzando la descrizione fenomenologia
che di esso ne danno le scienze del lavoro che se ne occupano; potrà
essere invece demandato al consulente l’accertamento se siano
rinvenibili sulla persona del lavoratore che denunzia di aver subito una
siffatta persecuzione, eventuali postumi da essa derivanti. Tuttavia,
poiché il mobbing supera e non
si risolve nel tradizionale danno biologico (o danno alla salute
medicalmente accertabile), la consulenza non necessariamente sarà
medico-legale e potrà anche non essere necessario disporla.
-
- b) La responsabilità datoriale, il risarcimento e
la prova del danno da mobbing
- Se questo è il fenomeno, prima di
esaminare i profili collegati alla prova del danno ed al suo risarcimento,
deve essere esaminato ora quello che concerne la responsabilità datoriale
(su ciò, v., per es., Cass. 21 dicembre 1998, n. 12763; Id. 2 maggio
2000, n. 5491; Id. 7 novembre 2000, n. 14469; Id. 21 febbraio 2001, n.
2569; Id. 20 giugno 2001, n. 8381).
- Al riguardo, come insegna
la Suprema Corte
(sentt. ult. citt.) la stessa può essere sia contrattuale, per violazione
dell’art. 2087, c.c., sia extra contrattuale, per violazione dell’art.
2043, c.c., sia concorrente nonché derivante dalla violazione dei diritti
soggettivi primari.
- Il datore di lavoro, ai sensi
dell’art. 2087 c.c., deve fare tutto quanto è in suo potere per
prevenire situazioni di possibile nocumento morale dei lavoratori (secondo
il principio della massima sicurezza possibile in un dato momento storico,
su cui v., per es. Cass. 29 dicembre 1998, n. 12863; Id. 3 aprile 1999, n.
3234) e, se tali situazioni si presentano, attivarsi per farle cessare il
prima possibile, ripristinare lo stato salutare e risarcire l’eventuale
danno cagionato.
- Ne segue che la prova liberatoria
incombe sul datore di lavoro, il quale - ai sensi dell’art. 1218, c.c. -
dovrà provare che l’inadempimento è dipeso “da causa a lui non
imputabile”, mentre il lavoratore dovrà dimostrare il danno ed il nesso
casuale tra l’evento sofferto ed il comportamento datoriale. Al
riguardo, il datore dovrà rigorosamente dedurre e provare di aver
espletato adeguata e costante sorveglianza e, più in generale, di aver
preso tutte le misure e precauzioni per evitare il pericolo d’insorgenza
della situazione dannosa (non può tuttavia giungersi all’assioma per il
quale, dal verificarsi del danno, è provata la responsabilità, poiché
quest’ultima finirebbe col divenire oggettiva: da ult., in termini Cass.
5 Dicembre 2001, n. 15350).
- Nel nostro caso, la responsabilità
datoriale sussiste e l’art. 2087 c.c., va ritenuto violato.
- Dalla documentazione amministrativa
prodotta in atti e dall’istruttoria espletata emerge una chiara
situazione conflittuale tra l’Amministrazione e la ricorrente in quanto
la stessa, come è stato già detto, ha subito nell’ambiente di lavoro
un clima di ostilità, provocazioni e vessazioni, permeato da una serie di
velate minacce, piccole e sottili allusioni e maldicenze sul proprio conto
e sul proprio operato, con una tensione costante e perdita di serenità
sul posto di lavoro. Tali eventi hanno determinato nella lavoratrice
ricorrente i danni accertati dal CTU dr. sa Benedetti, specialista in
psichiatria e collaboratrice del Prof. Gian Battista Cassano di Pisa,
esperto di chiara fama in campo psichiatrico che dopo aver riconosciuto il
nesso causale della patologia dalle vessazioni di lavoro ha precisato
che la persistenza e l’aggravamento del quadro psichico, in
associazione con la sintomatologia somatica lamentata e documentata dai
certificati relativi a patologia fibromialgica fanno propendere per una
valutazione del danno biologico al 25-30%.
- Non ravvisandosi validi motivi per
disattendere tali conclusioni, il giudice fa proprie tali valutazioni,
essendo
la CTU
immune da vizi logico-giuridici e ben motivata.
- In sede di discussione orale
l’Avvocato dello Stato ha criticato
la CTU
dicendo che andavano fatte maggiori indagini sulla predisposizione della
ricorrente a disturbi di tipo psichico.
- Va al riguardo precisato che nei
chiarimenti del 25/10/04 la stessa CTU dice « che
una parte consistente della varianza osservata nella vulnerabilità al
disturbo post-traumatico da Stress è attribuibile a fattori genetici (Vanitallie
2002). Di tali alterazioni pertanto si tiene necessariamente conto nella
quantificazione del danno da disturbo post-traumatico da Stress».
- Anche nella prima relazione peritale
l’indagine su una predisposizione della ricorrente a tali patologie
viene fatta dalla stessa CTU che parla di tratti ossessivi di personalità
(e non di personalità intesa come disturbo) che sono presenti
frequentemente nella popolazione generale e non sono necessariamente da
considerarsi patologici. Essi consistono in caratteristiche di
perfezionismo, scrupolo per la precisione, accentuata tendenza
all’ordine, meticolosità, rigore in campo etico e religioso e così via
(cf. Trattato Italiano di Psichiatria). Anche il dott. M. che effettua
l’esame psicodiagnostico su incarico del CTU « non
rileva elementi significativi per un disturbo di personalità premorbosa,
né dati anamnestici indicativi di un disturbo strutturale preesistente».
- Nella letteratura in tema di mobbing
vengono riscontrate nell’indole scrupolosa, sensibile ai
riconoscimenti e alle critiche e con elevato senso del dovere le
caratteristiche caratteriali che agevolano il ruolo di vittima o
mobbizzato (V. Harald Ege “Mobbing:
Conoscerlo per vincerlo”).
- Va
ricordato tuttavia che dottrina e giurisprudenza recenti tendono
correttamente a sottovalutare in tali situazioni eventuali concause
pregresse (al riguardo la dottrina richiama per
es. Cass. 5/11/99 n. 12339, confermata dalla successiva Cass.
9/4/2003 n. 5539).
- Si
osserva infatti che anche se non tutti reagiscono allo stesso modo allo stress
e c’è chi ha “anticorpi” psicologici
più forti per affrontare situazioni pesanti protratte, non sembrano
esistere predisposizioni caratteriali che rendono immuni al mobbing,
poiché è l’integrità dell’intera persona ad essere minata sul piano
fisico, psichico, relazionale ed economico.
- Da quando finora esposto, essendo
acclarato il nesso causale tra la patologia di cui è affetta la
ricorrente e l’ambiente di lavoro in
cui la stessa ha operato, ne consegue che tale malattia va considerata
dovuta a causa di servizio. Per quanto riguarda le conseguenze economiche, in
mancanza di quantificazione ci dovrà essere un separato giudizio per
stabilire l’entità dell’equo indennizzo.
-
- c) I danni da mobbing
- Le fonti di responsabilità di parte
resistente sono da ricercare, come è stato già detto, da un punto di
vista giuridico nel rapporto contrattuale intercorso e quindi nell’art.1375
c.c., secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede;
nell’art. 2087 c.c., che pone a carico del datore di lavoro il divieto
di molestie morali nei confronti del lavoratore e nel generale principio
del neminen ledere espresso
dall’art. 2043 c.c. la cui violazione è fonte di responsabilità
aquiliana che trova la sua consacrazione nell’art. 2059 c.c. ora che
questa norma, dopo essere rimasta per lungo tempo quasi del tutto
inutilizzata, è risorta nella nuova sistemazione dogmatica del danno
civile elaborata con il fondamentale contributo delle due sentenze della
suprema Corte di Cassazione del maggio 2003 (nn. 8827 e 8828 del
31/5/2003).
- Secondo l’interpretazione
costituzionalmente orientata che analogamente alla Cassazione ne ha dato
la Corte Costituzionale
(Sent. n. 233 dell’11/7/2003), la norma infatti chiarisce la portata del
neminen ledere nelle relazioni
interpersonali con specifico riferimento alle situazioni normativamente
previste e tipizzate, oltre l’aspetto meramente patrimoniale del danno;
il risultato non è più quello di un ambito di tutela risarcitoria
ristretto al danno morale (che a
questo punto diventa riparabile anche quando non derivi da un fatto
penalmente rilevante) ma la possibilità di una tutela piena dei
diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.). Nella categoria del
danno non patrimoniale, quindi, superata la bipartizione nelle componenti
del danno morale e del danno biologico, la figura aggiuntiva del danno
esistenziale si presta a salvaguardare il profilo relazionale-sociale
dell’individuo, che viene così protetto in tutte le attività e
manifestazioni espressive della personalità anche esteriori laddove il
danno morale è inteso come dolore, interiore sofferenza, patimento o
stato di angoscia secondo la definizione fornita dalla Corte
Costituzionale.
- Sulla scorta di tali principi, il
lavoratore vittima del mobbing
che provi che le conseguenze pregiudiziali sono in rapporto di
casualità dalle iniziative
persecutorie compiute per nuocergli, ha diritto alla riparazione di
tutti gli aspetti non patrimoniali dei danni sofferti.
- Vi è in conclusione un concorso tra
responsabilità contrattuale ed extra contrattuale che si risolve di fatto
nel cumulo delle due azioni in quanto la responsabilità contrattuale
dell’imprenditore derivante dall’art. 2087 c.c. di adottare le misure
necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale
dei dipendenti, può concorrere con la responsabilità extracontrattuale
dello stesso datore di lavoro che sussiste qualora dalla medesima
violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla
persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro (lesione
della salute, della personalità, della dignità, dell’immagine, ecc. )
- La condotta del datore di lavoro
finisce quindi con il ledere un interesse tutelato non solo nello
specifico rapporto di lavoro ma anche in una norma quale l’art. 2043
c.c. che si rivolge alla totalità dei consociati.
- Nella maggior parte dei casi il mobbing produce conseguenze negative sul piano della sfera
neuropsichica della vittima.
- Si può anzi affermare che il danno
psichico è il tipico danno subito dalla vittima di mobbing. E ciò è
tanto vero che la teorizzazione del mobbing nasce proprio in seguito ad un
percorso a ritroso dall’effetto alla causa intrapreso dagli psicologi
del lavoro. Come è stato già rilevato nell’attuale sistema
risarcitorio vi sono figure che si occupano dei pregiudizi incidenti sulla
salute psichica latamente intesa: il danno biologico (o danno psichico o
danno biologico di natura psichica), il danno morale ed il danno
esistenziale sono tutte categorie che possono dare ospitalità ai
pregiudizi di ordine psichico.
- Questa pluralità di danni derivanti
dal mobbing dovrebbe essere una remora per i datori di lavoro dal porre in
essere comportamenti lesivi della personalità del lavoratore e uno sprone
a vigilare per evitare che vengano perpetrate azioni aggressive e
vessatorie da parte dei collaboratori e dei preposti in genere.
- Si dovrebbe arrivare insomma ad una
maggiore umanizzazione del lavoro così come propugnato anche dal papa
Giovanni Paolo II nell’Enciclica Laborem
Exercens dedicata “agli uomini del lavoro” che mediante il lavoro
non solo trasformano la natura adattandola alle proprie necessità ma
anche realizzano se stessi come uomini ed anzi, in un certo senso,
diventano più uomini.
- La strada è ancora lunga atteso che
l’International Labour Office (ILO) denuncia una tendenza
generalizzata all’aumento delle violenze psicologiche in ambito
lavorativo riscontrabile in tutti i paesi del mondo.
-
- d) I numeri del mobbing
- Il paese con il più alto numero di
mobbizzati risulta essere
la Gran Bretagna
con il 16,3%, seguono
la Svezia
(10,2%),
la Francia
(9,9%) e
la Germania
(7,3%).
- L’Italia si colloca agli ultimi
posti della graduatoria con solo il 4,2% dei casi, ma secondo gli studiosi
del fenomeno il dato non rappresenta adeguatamente la realtà in quanto
spesso non vi è ancora consapevolezza da parte della vittima della
possibile qualificazione come mobbing di una serie di condotte vessatorie
sul luogo di lavoro.
- Da una più completa indagine
empirica effettuata in Italia da H. Ege risulta su un campione di 301
vittime intervistate, che più del 38% provengono dal settore delle
industrie produttrici di beni e servizi, mentre il 21% di esse si
riscontrano nel settore della Pubblica Amministrazione.
- Tale dato va ulteriormente integrato
con i dati relativi al altri settori presi separatamente in considerazione
nell’indagine di Ege.
- In
particolare un altro 15% di casi si riferisce al settore degli istituti di
credito e delle Poste, in gran parte settore pubblico – privatizzato; un
ulteriore 12% di casi si riferisce al settore scuola, in gran parte
pubblico; l’8% dei casi, infine, riguarda il settore Sanità,
anch’esso largamente pubblico. Il dato concernente la struttura della
pubblica Amministrazione appare quindi addirittura prevalente rispetto
agli altri. Ciò è spiegato (cfr. Ege, I
numeri del mobbing. La prima ricerca italiana)
con l’inefficienza dell’organizzazione, fattori di competizione
interna, con la struttura interna degli incentivi nonché con la
inefficienza del monitoraggio, della distinzione e distribuzione delle
competenze individuali. Queste possono essere le chiavi stesse di
soluzione e di prevenzione delle situazioni di mobbing.
-
- e) La malattia dipendente da causa di
servizio non legittima la risoluzione del rapporto
- Il giudice esprime l’avviso che ha
reputato opportuno riportare tali dati in quanto in una città di
provincia qual è
La Spezia
la vicenda della ricorrente ha fatto piuttosto scalpore ed i mass
media le hanno dedicato grande attenzione facendo entrare in questo
processo
la Marina Militare
che occupa un ambito particolarmente rilevante in questa città. Tenendo
esplicitamente a precisare, peraltro, che non è
la Marina Militare
ad essere posta sotto accusa, ma soltanto le persone di questa causa, così
come è avvenuto negli altri procedimenti cui si è fatto dianzi
riferimento concernenti il settore Poste, scuola o sanità.
- Le assenze della ricorrente sono
dipese dalla patologia ansioso depressiva che è stata contratta a causa
dell’ambiente di lavoro a far data dall’anno 1999 circa e tale
complessiva situazione è ascrivibile ad inadempimento del datore di
lavoro.
- Si osserva che, nel caso di specie,
ci si trova di fronte ad
un’ipotesi di assenza per malattia determinata da infortunio sul
lavoro la quale non può essere assunta sotto il disposto dell’art.
2110, 1°-2° comma, c.c., per la considerazione che detta norma ha
riguardo (anche) ad assenze per malattia non dovute né ad origine
professionale (per la quale valgono le norme sull’assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali,
di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965) né ad inadempimento del datore di
lavoro. In caso contrario, l’inadempimento (quindi, un illecito
contrattuale) potrebbe giustificare, alla scadenza del periodo di assenza
dal lavoro preveduto dalla contrattazione collettiva (il c.d. periodo di
comporto), la risoluzione del rapporto di lavoro.
- In altri termini, a parte l’ipotesi
della tutela I.N.A.I.L., non può essere consentito al datore di lavoro di
procedere a risolvere il rapporto avvalendosi di una clausola di legge al
maturarsi di una situazione che origina da un suo inadempimento
contrattuale (ovvero, anche extracontrattuale).
- Insegna infatti
la Suprema Corte
(Sezione Lavoro, n. 4959 dell’8/3/2005) che ove le assenze per malattia
siano causate dalla violazione da parte del datore di lavoro dello
specifico obbligo di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore
(art. 41, comma 2°, della Costituzione) di
esse non deve tenersi conto ai fini del superamento del periodo di
comporto.
- Non vale inoltre osservare che il
lavoratore può sempre agire per il risarcimento dei danni (per violazione
dell’art. 2087, c.c., o per violazione della generale clausola del neminem
ledere): tale risarcimento, infatti, è volto a ristorare i danni
discendenti dalla violazione delle succitate norme ma non ad apprestare
protezione alla perdita del posto di lavoro, come, testimonia il caso di
specie.
- Il presente caso appare essere
dunque più affine all’ipotesi di assenza del lavoratore per
infortunio sul lavoro per il quale l’art. 22 CCNL dipendenti comparto
ministeriale, di settore, cit., sancisce il diritto del lavoratore alla
conservazione del posto di lavoro fino a completa guarigione clinica;
certamente, essendovi nel caso l’inadempimento del datore di lavoro ai
propri doveri contrattuali, ne consegue l’impossibilità di fare
applicazione della normativa sul comporto (art. 2110, 1°-2° comma, c.c.
ed art 19, CCNL citato) e ne discende il diritto del lavoratore alla
conservazione del posto per tutta la durata della sua malattia.
- Risponde infatti ad un’evidente
ragione di giustizia parificare il mobbing
all’infortunio sul lavoro riconoscendone tutte le condizioni previste
dalla legge ed in particolare l’occasione di lavoro e la causa violenta.
A conferma di tale assunto va evidenziato come già nell’art. 10
comma IV del D.L.vo 38/00, nell’ambito della riclassificazione delle
malattie professionali il legislatore abbia prevista la possibilità di
inserire tra le malattie professionali tabellate anche “liste
di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa”, come
il Consiglio di Amministrazione dell’I.N.A.I.L. con delibera del 26/7/01
abbia riconosciuto il mobbing come fattore di infortunio sul lavoro,
programmando la creazione di un comitato scientifico ad
hoc per la individuazione dei protocolli diagnostici.
- Per tale motivo anche i decreti
ingiuntivi emessi in precedenza dallo stesso giudice su istanza di parte
ricorrente nei confronti del Ministero della Difesa vanno confermati.
-
- f) Tipologia e misura dei
danni risarcibili nella fattispecie
- In ordine al quantum
debeatur va rilevato che le voci di danno di cui il giudice deve tener
conto sono soltanto quelle richieste nel ricorso introduttivo del presente
giudizio, quali il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale
e il danno patrimoniale, quest’ultimo sia in relazione al danno
emergente che al lucro cessante.
- Il
mobbing realizzato in danno della ricorrente ne
ha leso prima di tutto la sua salute tanto è vero che ne è derivato (ex
art. 32 della Costituzione) un danno biologico da inabilità permanente
accertato dal CTU, come è stato già detto, dal 25% al 30%.
- Il
concetto di danno (dal latino demere
che significa letteralmente togliere e vuol dire perciò privare un
individuo di un bene che gli appartiene) è necessariamente legato ad una
alterazione intervenuta nell’individuo rispetto ad una situazione
antecedente e consiste nel passaggio dalla salute alla malattia o
nell’aggravamento di un fatto patologico preesistente (Puccini 1995).
- Il
giudice esprime l’avviso che appare rispondente a giustizia riconoscere
alla ricorrente il 30% in conformità anche a quanto detto dal dott.
Gilioli (direttore della Clinica del lavoro L. Devoto di Milano) in
udienza.
- Per
il calcolo del danno biologico
ritiene di basarsi sulle tabelle di Milano del 2003 applicate anche presso
la Corte
di Appello di Genova. Seguendo tale criterio, considerando che i punti
calcolati sono 30, l’età della ricorrente alla presentazione del
ricorso era di 45 anni, applicando il demoltiplicatore 0,78 si giunge ad
una somma pari ad Euro 79.591,35 per l’inabilità permanente. Per
quanto riguarda l’invalidità temporanea la si calcola a far tempo dal
10/7/99, cioè dalla data nella quale venne diagnosticato per la prima
volta lo stato ansioso depressivo reattivo.
- L’incapacità
lavorativa derivante da tale patologia era già stata accertata dal altro
sanitario nella relazione del 22/2/2000 eseguita per conto della procura
della Spezia. Alla data della presente sentenza, ossia del 13/5/2005,
quindi i giorni di invalidità temporanea sono 2134 che vanno moltiplicati
per € 51,65 pro die con un
totale di Euro 110.221,10.
- Per
il danno morale - sulla
spettanza del quale già si è detto considerando la qualità, la
frequenza e la durata delle azioni ostili e il dolore che hanno provocato
- si ritiene equo liquidare tale danno in misura “ad un mezzo” del
danno biologico (79.591,35 + 110.221,10) pari ad Euro 94.906,221.
Altrettanto appare congruo liquidare per il danno
esistenziale ossia per il deterioramento generale della qualità della
vita anche futura, che il giudice
ritiene vada riconosciuto oltre al danno morale in quanto investe due
diversi aspetti della persona: quello morale, l’aspetto più intimo ed
interiore, quello esistenziale, quello esteriore.
- L’impostazione
prevalente evidenzia che il danno morale attiene il “sentire” mentre
quello esistenziale attiene al “non fare”.
- In
conclusione le somme spettanti alla ricorrente a titolo di risarcimento
del danno ammontano complessivamente ad euro
362.511,71 e possono così
riepilogarsi:
- Euro
62.478,17 a titolo di danno
biologico da inabilità permanente, già detratti Euro 17.113,18 percepiti
dalla ricorrente a titolo di buonuscita e indennità sostitutiva del
preavviso (Euro 79.591,35) per inabilità permanente – Euro 17.113,18);
- Euro
110.221,10 a titolo di danno
biologico da inabilità temporanea;
- Euro
94.906,22 a
titolo di danno morale;
- Euro
94.906,22 a
titolo di danno esistenziale.
- In
aggiunta, per quanto innanzi detto, alla lavoratrice è stato riconosciuto
il diritto alla continuità del rapporto di lavoro, stante
l’illegittimità della risoluzione medesima.
-
- Conclusioni
generali
- Si possono
a questo punto trarre le seguenti conclusioni dall’esame delle riassunte
decisioni (e di molte altre antecedenti ed analoghe che, per motivi di
spazio, abbiamo deliberatamente omesso):
- a)
che
il danno da dequalificazione o da demansionamento (cioè il danno alla
professionalità) viene liquidato
sempre più spesso nella forma di danno esistenziale, in considerazione
della immanente mortificazione, perdita di autostima ed eterostima che
provoca alla vittima/bersaglio, determinando una sostanziale,
peggiorativa, modificazione della qualità della vita e delle relazioni
sociali (ci sia consentito rinviare, per approfondimenti, al nostro saggio
“Il danno esistenziale nel
rapporto di lavoro” in Riv. it.dir.lav. 2004, fasc. 3, I, 421 e ss.);
- b)
che
tale danno esistenziale, una volta dimostrato dalla vittima il nesso
causale con la dequalificazione o le persecuzioni psicologiche (in caso di
mobbing), viene dalla prevalente
giurisprudenza considerato automatico – secondo l’id quod plerumque accidit - e
non necessità di prova da parte del lavoratore fatto a bersaglio,
sufficienti essendo al riguardo gravi, precise e concordanti presunzioni
ex art. 2729 c.c.;
- c)
che
per la liquidazione monetaria di detto danno esistenziale (in quanto danno
non patrimoniale areddituale), si oscilla tra l’utilizzo (astrattamente
più corretto) di un parametro
risarcitorio uniforme sganciato dal reddito della persona [utilizzando ad
es. il valore giornaliero della invalidità temporanea totale (ITT) o
il trattamento massimo giornaliero dell’integrazione salariale
ordinaria erogata dall’Inps] e la percentualizzazione della retribuzione
netta mensile (fino al 100% di essa), calibrata in stretta relazione con
la durata, la gravità e/o intensità della dequalificazione
(massimizzandola in fattispecie di forzata inattività);
- d)
che
il danno esistenziale compete anche qualora nel ricorso introduttivo non
sia stato specificatamente richiesto con tale qualificazione, in quanto è
principio giuridico consolidato – sulla base del brocardo “iura novit curia” – che spetta al giudice l’individuazione e
la specificazione della tipologia giuridica del danno risarcibile, una
volta che nel ricorso introduttivo sia stato richiesto il risarcimento del
c.d. danno alla professionalità, o meglio si sia usata la formula
onnicomprensiva del risarcimento dei “danni patrimoniali e non
patrimoniali”;
- e)
che
con il danno non patrimoniale concorre pacificamente il danno
patrimoniale da lesione della professionalità oggettiva (sostanziatesi
nella mancata progressione in carriera interna, cioè a dire nella perdita
di chance promotiva ovvero di
opportunità di ricollocazione all’esterno, sul mercato del lavoro in
conseguenza di una obsolescenza della professionalità originaria o
acquisita, indotta dalle pratiche di demansionamento e/o forzata inattività,
richiedendosi tuttavia, per la perdita di chance
sul mercato del lavoro esterno, un’onere probatorio rigoroso); cosicché
spetterà al lavoratore leso nella professionalità oggettiva che abbia
assolto il precitato, difficoltosissimo onere probatorio, addizionalmente
il risarcimento di questo danno patrimoniale riconducibile a lucro
cessante (mentre l’esistenziale attiene al danno emergente e comunque al
danno non patrimoniale);
- f)
che
tutte le recenti decisioni passate in rassegna fanno esplicito riferimento
- per legittimare la categoria
del danno esistenziale, risarcitoria di interessi costituzionalmente
protetti (quale il diritto soggettivo all’autorealizzazione
nell’attività di lavoro e alla non discriminazione per motivi pravi,
quali quelli che supportano il cd. mobbing)
– alle fondamentali decisioni nn. 8827 e 8828/2003
della Cassazione civile nonchè alla sentenza n. 233/2003 della
Corte costituzionale che le ha recepite ed enfatizzate;
- g)
che
il danno morale soggettivo (sofferenza transitoria o pretium
doloris) è risarcibile
anche senza il pregresso requisito della ricorrenza e/o
dell’accertamento del reato, stante la lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 c.c. grazie
alla quale è stato sottratto l’articolo medesimo a dichiarazione
di incostituzionalità;
- h)
che,
conseguentemente, è del tutto infondato – come specificato dalle
ricordate sentenze di legittimità e della Corte costituzionale –
l’addebito (reperibile ancora in una irriducibile sentenza del Tribunale
di Genova del 15.2.2005, est. Gelonesi, enfatizzata da chi l’ha
riassunta in Guida al lavoro n. 26/2005 ) secondo il quale il danno esistenziale
costituirebbe una duplicazione risarcitoria (di esclusiva creazione
pretoria, sic!) del danno
morale, potendo, invece, pacificamente e con dosato equilibrio cumularsi
tra di loro, in ragione delle
loro differenze concettuali ed ontologiche, ben messe in risalto da tempo
in dottrina ed accolte oramai dalla stessa prevalente giurisprudenza di
merito e sovraordinata.
-
- Mario
Meucci
- Roma,
8 settembre 2005