Significative concordanze nella recente giurisprudenza sul mobbing
 
Vengono esaminate, tra le varie emesse nel 2005, 5 recentissime decisioni della magistratura di merito, dalle quali si trae il motivato convincimento che essa abbia oramai ben focalizzato e convincentemente affrontato il fenomeno del mobbing,  in un’ottica di necessitata supplenza causata dall’incredibile latitanza del Parlamento presso cui giacciono (da troppo tempo e fin dalla precedente legislatura) numerosi disegni di legge volti a disciplinare e reprimere questa degenerazione nelle relazioni interpersonali sul posto di lavoro.
 
Premessa
Il fenomeno (o meglio, la patologia) del mobbing – tanto esiziale per le vittime quanto dannoso per la produttività delle aziende – non conosce sosta, come testimonia la stampa quotidiana, la stessa attenzione dell’Inail (che, tuttavia, ha dovuto subire l’annullamento  dell’ottima circ. n. 71/2003 sulla cd. “costrittività organizzativa”, ad iniziativa del Tar del Lazio del 4.7.2005, attivato dai ricorsi delle Organizzazioni imprenditoriali, Abi inclusa)   ed ancor più le numerose sentenze di merito che si succedono di mese in mese nelle varie regioni del Paese, confermative del dilagare della sindrome degenerativa  nei posti di lavoro. Sindrome che viene  affrontata e contrastata dalle vittime con sempre maggior coscienza e coraggio, nonostante l’effetto frenante delle comprensibili remore alla denunzia, in ragione delle immanenti difficoltà probatorie in giudizio, accentuate dall’omertà dei colleghi indisponibili a testimoniare per timore di realistiche ritorsioni aziendali sulla carriera o per aver, con la loro colpevole indifferenza, rivestito il ruolo di side mobbers.
Assistiamo da tempo a numerosi ricorsi ai giudici del lavoro – tuttavia eminentemente per i casi più eclatanti che dimostrano di essere la punta di un iceberg indiscutibilmente più consistente e sommerso -  che ci convincono del fatto che le vessazioni e le persecuzioni psicologiche poste in essere in azienda, hanno cessato di beneficiare del tipico “silenzio del chiostro” per essere rese di pubblico dominio dalle decisioni di coloro che sono preposti a giudicare della correttezza dei comportamenti umani. Grazie a coraggiose decisioni vengono riconferiti alle vittime, per via giudiziaria, quei riconoscimenti morali che ne ritemprano l’autostima distrutta. Anche se non possiamo nascondere la realistica constatazione che – sul versante del risarcimento materiale o monetario – la maggioranza della nostra encomiabile magistratura pecca  (ora più di un tempo) di congenita avarizia (e priva in tal modo le proprie affermazioni di principio del necessario carattere di deterrenza verso la reiterazione), lasciando trasparire un “gap” sostanzioso tra le affermazioni di principio e il ristoro monetario delle sofferenze patite; “gap” che la confina  in posizione ben distante dalla corrispondente giurisprudenza dei paesi di “common law”, ove si riscontrano sanzioni esemplari nei confronti degli autori del fenomeno lesivo degli intangibili diritti della personalità e della dignità umana,  sanzioni favorite anche dal fatto che i loro ordinamenti hanno accolto la figura giuridica dei cd. “danni punitivi”, a noi sostanzialmente estranea o non espressamente contemplata.
Qualcuno potrebbe osservare che proprio verso fine luglio 2005 il testo unificato del disegno di legge sul mobbing ha trovato approvazione da parte della XI Commissione permanente del Senato e che, quindi, la nostra critica verso i nostri rappresentanti in Parlamento apparirebbe ingenerosa.
Non è così perché – va subito detto – il cd. “testo unificato” è a nostro avviso tutt’altro che soddisfacente e idoneo a contrastare il mobbing. 
Infatti il testo unificato conferisce al mobbing una tipizzazione di illecito civile – cui si accompagnano responsabilità disciplinari e risarcitorie di danno – evitando di configurarlo quale delitto, cioè reato penale autonomo e tipizzato cui si sarebbe dovuta accompagnare la pena della reclusione, misura quest’ultima che, a nostro avviso, è l’unica che possiede idoneità deterrente, cioè a dire reale capacità di scoraggiare incisivamente il fenomeno del mobbing.
Nel testo unificato viene fornita una definizione elastica al mobbing, tale da ricomprendere tutti i fenomeni di violenza e persecuzione psicologica caratterizzati da un minimo comune denominatore, costituito da un elemento oggettivo – ossia la continuità e sistematicità di atti e comportamenti persecutori tenuti in ambito lavorativo - e da un elemento teleologico, consistente nella finalizzazione specifica di tali atti a danneggiare l’integrità psico-fisica della lavoratrice o del lavoratore. Tale elemento teleologico, per lo meno quando non sia palesemente eclatante, comporta – in capo al lavoratore che adduce il mobbing –  l’onere della prova  o dimostrazione di una intenzionalità del mobber di infliggergli le vessazioni; comporta cioè per il lavoratore l’onere di provare la sussistenza dell’animus nocendi del vessatore ovverosia il dolo specifico che anima i di lui comportamenti antigiuridici lesivi della dignità e dei diritti della personalità del mobbizzato, dolo la cui dimostrazione notoriamente costituisce per il soggetto destinatario delle iniziative vessatorie e persecutorie una  probatio diabolica, in quanto attiene alla sfera volitiva di altri e che proprio per la difficoltà dell’essere dimostrata è suscettibile di lasciare i mobber indenni da responsabilità (sia penale che civile)  e di garantire impunità a coloro che hanno posto in essere le iniziative illecite di inflizione di danni a livello psicologico, professionale e di salute, con l’effetto deleterio ed indesiderato di circoscrivere a pochi casi (idiscutibilmente in equivoci) il riconoscimento, in sede giudiziaria, della fattispecie del mobbing.
La tipizzazione del mobbing come illecito civile (caratterizzato da sola responsabilità risarcitoria) in luogo di una tipizzazione (da noi auspicata e preferita) quale reato penale nonchè l’accollo al mobbizzato dell’onere probatorio del dolo specifico del mobber (dolo che pur non essendo espressamente menzionato emerge dalla previsione contenuta nel d.d.l. secondo cui, per essere riconducibili alla fattispecie del mobbing, le iniziative vessatorie debbono essere svolte con “palese predeterminazione” o “finalizzate” a danneggiare l’integrità della persona), costituiscono i difetti principali dell’attuale testo unificato, giacché è a tutti noto che le più frequenti e durature vessazioni avvengono in situazioni di colpa, per negligenza, per mancato controllo, per distratta o compiaciuta tolleranza, senza che sia possibile, per la vittima, dimostrare l’esistenza di una pervicace intenzione dolosa che si estenda alla previsione specifica di arrecare danno biologico e volta al fine di allontanare il lavoratore dal posto di lavoro.
Questi sostanziosi difetti dell’emananda disciplina legislativa erano stati evitati dal d.d.l. del Sen. Magnalbò che, con nostra piena adesione, aveva proposto di conferire al socialmente dannoso ed antigiuridico fenomeno del mobbing, rilevanza penale affiancandogli la misura punitiva della reclusione fino a 4 anni. Addizionalmente il d.d.l. in questione  aveva previsto l’inversione dell’onere della prova (sebbene solo per la tutela civilistica a fini risarcitori) dal lavoratore-vittima al mobber. Cosicché sarebbe toccato, quindi, al datore di lavoro e/o al superiore gerarchico (in caso di mobbing verticale) ovvero al collega-mobber (in caso di mobbing orizzontale) dimostrare di non aver voluto nuocere intenzionalmente. Purtroppo l’impostazione del precitato d.d.l. non risulta essere stata accolta.
Concludendo sul tema, esprimiamo la convinzione che per debellare un fenomeno esiziale, che sempre più va diffondendosi nel mondo del lavoro, la disciplina legale sul mobbing in corso di approvazione dovrebbe:
    a) tipizzare la fattispecie del mobbing come reato penalmente rilevante e sanzionato con la misura punitiva della reclusione (specie nel caso in cui alla persecuzione psicologica si accompagni danno biologico temporaneo o permanente, medicalmente accertato per la vittima, id est reato di lesioni personali);
    b) sganciarne la punibilità dal riscontro del dolo specifico o intenzionalità del mobber, prevedendone per legge la punibilità – sia dal lato penale che della responsabilità civile risarcitoria – alla ricorrenza della sola colpa, atteso che ciò che rileva per la vittima é l’aver subito oggettivi e seri pregiudizi (per la salute a causa di sindromi depressive indotte o di altre malattie psico-somatiche, a livello psicologico per caduta dell’autostima, sul versante della professionalità a causa di demansionamento o confinamento in forzata inattività), pregiudizi riconducibili con nesso di causalità  a comportamenti antigiuridici e colposi del mobber (datore di lavoro, superiore gerarchico, collega o subordinato);
    c) trasferire l’onere della prova dalla vittima al persecutore, in base alla realistica presunzione della consapevolezza secondo senso comune (da parte del persecutore) della potenzialità pregiudizievole e dannosa dei suoi comportamenti attivi o omissivi, con la conseguenza che - una volta che la vittima abbia dimostrato che i  danni subiti sono conseguenza delle iniziative vessatorie o persecutorie del mobber e ad esso oggettivamente imputabili -  sia il mobber ad essere onerato della prova (a discarico) di assenza di intenzionalità di nuocere o di una qualsiasi altra colpa, in mancanza di assolvimento della quale sarà considerato responsabile degli addebiti mossegli dalla vittima e automaticamente soggetto alle responsabilità di carattere civile e penale.
 
Esame della recente giurisprudenza di merito
Riprendiamo il filo del discorso iniziale per occuparci della recente giurisprudenza di merito, ad esemplificazione della quale passiamo in rassegna e diamo conto al lettore di Trib. Bergamo 20 giugno 2005 (est. Bertoncini), Trib. Lecce 4 maggio 2005 (est. Sodo), App. Genova 15 aprile 2005 (est. Ravera), Trib. Forlì 19 maggio 2005 (est. Sorgi) e Trib La Spezia 1 luglio 2005 (est. Fortunato), decisioni che il lettore interessato ad una conoscenza integrale può leggere sul nostro sito http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html (giurisprudenza), ove sono pubblicate in formato .pdf.
Tutte queste sentenze sono caratterizzate da una stretta connessione ed uniformità di posizioni, orientamenti e principi giuridici, sui quali ci intratterremo nelle conclusioni.
 
Il caso deciso da Trib. Bergamo 20.6.2005
Il giudice del tribunale di Bergamo ha avuto modo di occuparsi del ricorso di una lavoratrice con molta anzianità di servizio, che era stata demansionata e ridotta in stato di forzata inattività (oltre che spostata fisicamente dal precedente posto di lavoro costituito dall’ufficio recupero crediti, in una sorta di ripostiglio, con mobili in disuso, senza PC e telefono per oltre due anni) per aver osato  chiedere al nuovo datore di lavoro (subentrante al vecchio) nel corso di una riunione del personale quali fossero le sue intenzioni riguardo al futuro dell’azienda testè acquisita. Per ritorsione e quale monito per tutto il personale, egli l’aveva trasferita di lì a poco nel locale ripostiglio, senza mansioni. In presenza di demansionamento assoluto e protratto ma non accompagnato da altre iniziative vessatorie, il magistrato ha avuto occasione – basandosi sulla relazione del CTU (lo psicologo tedesco H. Ege) di effettuare una originale distinzione tra “mobbing” e “straining” (sforzo o forzatura). Ed ha pertanto detto che il cosiddetto mobbing consiste in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Tale fenomeno si distingue dal cd. “straining” che è costituito da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo “straining” in persistente inferiorità. Pertanto mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo “straining” è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento). Pertanto nella fattispecie, strutturata da solo demansionamento assoluto e protratto (cd. forzata inattività) per circa 2 anni e mezzo, il comportamento illecito datoriale è qualificabile come “straining”, determinativo di danno biologico (stimato dal CTU nel 7-8% e liquidato secondo le tabelle adottate dal Tribunale), nonché di danno alla professionalità  (equitativamente liquidato con il parametro dell’80% della retribuzione mensile netta e non del 100%, in considerazione del fatto che la lavoratrice si è dimessa avendo già raggiunto i requisiti per la pensione di anzianità e non ha dovuto ricercare una nuova occupazione sul mercato del lavoro, con conseguente attenuazione del danno alla professionalità).
Il giudice ha altresì riconosciuto  come dovuto il danno morale (liquidato equitativamente in misura pari a circa la metà del danno biologico) asserendo, del tutto condivisibilmente, che trattandosi di danno non patrimoniale, riteneva al riguardo di aderire all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. fornita dalla recente giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, secondo cui “il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificazione del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale” (così Cass. civ. sez. III n. 8827 del 31.5.2003; v. anche Cass. civ. sez. III n. 8828 del 31.5.2003 e Corte Cost. n. 233 del 2003).
E’ allora evidente che, alla luce di tale recente orientamento giurisprudenziale, il risarcimento del danno morale, come danno non patrimoniale, nell’attuale sistema normativo prescinde dalla sussistenza di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente ricollegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti.
Nella situazione esaminata, venendo in considerazione quella sofferenza di carattere transitorio atta comunque a determinare un turbamento psichico, si verte nell’ambito della lesione del diritto all’integrità psico-fisica tutelata dall’art. 32 della Costituzione. La lavoratrice infatti, ancora alla data della decisione presentava “disturbi alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all’isolamento ed all’esclusività degli affetti, fobia della folla, diffidenza generalizzata verso gli estranei”, una patologia diagnosticabile come “disturbo depressivo-ansioso” (così dalla relazione CTU).
 
La fattispecie esaminata da Trib. Lecce 4.5.2005
Il magistrato del Tribunale di Lecce si è dovuto occupare del demansionamento nel settore del pubblico impiego di una laureata Responsabile dell'ufficio commercio e polizia amministrativa (contemplato nel vecchio organigramma del Comune di Gallipoli) spostata, in un primo tempo e per breve periodo all’ufficio legale con il compito di istruire le pratiche di liquidazione delle competenze legali per gli incarichi affidati dal Comune a professionisti esterni, senza coordinamento di impiegati sottoordinati; quindi si trattava di compiti di rilevanza molto più circoscritta rispetto a quelli svolti presso l'ufficio commercio, caratterizzati da minore discrezionalità, essendo noto che le competenze vengono liquidate in base alle tariffe forensi approvate con D.M., che prevedono la liquidazione dei diritti in misura fissa e degli onorari in misura variabile ma entro limiti massimi e minimi predeterminati. Ancora dopo è stata assegnata ad altra unità organizzativa comunale, alle dipendenze di un capo ufficio, ove si è  occupata essenzialmente dell'attività inerente alle ordinanze ingiunzioni, nonché del c.d. plateatico, istruendo cioè le pratiche relative alle autorizzazioni per gli spettacoli viaggianti quali circhi, luna park e giostre in genere e del settore della pubblicità. Effettuata un’istruttoria puntigliosa ed esauriente, il magistrato afferma che nella fattispecie si ravvisa una evidente riduzione delle mansioni attribuite alla dott.ssa XY, da un punto di vista quantitativo prima ancora che qualitativo, con esautoramento progressivo della ricorrente dalla figura di fulcro dell'ufficio commercio prima rivestita, comprovato dalla stessa allocazione della sua successiva postazione di lavoro al di fuori dallo stretto ambito dei locali della U.O. n° 15. Ciò ha determinato essenzialmente uno svilimento della professionalità e della personalità della ricorrente, sotto il profilo della lesione della sua personalità morale che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ex art. 2087 c.c. e soprattutto una lesione del suo diritto, costituzionalmente protetto ex art. 2 Cost., alla libera esplicazione della sua personalità nella comunità di lavoro; senza tralasciare la circostanza che il principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione esige implicitamente la valorizzazione del bagaglio professionale dei dipendenti piuttosto che, come avvenuto nella fattispecie concreta, il suo progressivo ridimensionamento. La diminuzione qualitativa e, lo si ribadisce, quantitativa del livello delle mansioni concretamente assegnate alla ricorrente, ha cagionato indubitabilmente un danno presunto alla professionalità della ricorrente, nonché un danno di tipo esistenziale (tipo di danno sempre risarcibile secondo la più recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità – cfr. le già menzionate Cass. nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e Corte cost n. 233 del 2003 -  ogni qual volta vi sia la violazione di obblighi contrattuali cui sono contrapposti interessi di rilievo costituzionale), che devono essere necessariamente liquidati in via equitativa, parametrando cioè il danno patrimoniale da lesione della professionalità percentualmente alla retribuzione mensile percepita dalla lavoratrice e proporzionalmente alla durata, entità e modalità del demansionamento e percentualizzando invece l'ammontare del risarcimento del danno esistenziale (danno areddituale e dunque suscettibile di liquidazione uniforme in ossequio al principio costituzionale di eguaglianza, al pari del danno biologico) all'ammontare del trattamento massimo mensile di integrazione salariale straordinaria a carico dell'INPS.
 
Il caso preso in esame da Trib. Forlì 19.5.2005
La fattispecie decisa dal giudice monocratico del Tribunale di Forlì  atteneva ad un ricorso di una lavoratrice con un’anzianità nel settore oreficeria di 16 anni, mantenuta sempre nello stesso livello di inquadramento e demansionata attraverso lo spostamento dal reparto oreficeria di un punto di vendita in Cesena, in cui la stessa era elemento di riferimento per la clientela –  spostamento per la ricorrente dettato da ritorsione sindacale, secondo l’azienda per superare l’atteggiamento conflittuale della ricorrente nei confronti delle due colleghe – al reparto bricolage, a lei professionalmente estraneo, di minor autonomia, impegno professionale e senza il disimpegno dell’attività di formazione verso altri addetti. A conclusione dell’istruttoria, il magistrato accoglie la richiesta di inquadramento nella superiore categoria o livello e quella del risarcimento del danno alla professionalità, nella forma del danno non patrimoniale di tipo esistenziale. Il giudice afferma che le sentenze della Corte di Cassazione prima (Cass. nn. 8827 e 8828/2003) e della Corte Costituzionale in seguito (Corte cost. n. 233/2003), dal 2003 hanno rivitalizzato l’articolo 2059 c.c. evidenziando il triplice profilo  del danno morale soggettivo, direttamente rinvenibile dall’art. 185 c.p., del danno biologico, come si ricava dai recenti interventi normativi definitori dello stesso come danno alla salute, e di un terzo danno relativo alla lesione di diritti  costituzionalmente protetti, che parte della dottrina e dei giudici definiscono come danno esistenziale. Sostiene, pertanto che, nel caso in esame, ci si trova di fronte ad una tipologia di danni riconducibili alla categoria del danno esistenziale, posto che nella condotta della parte convenuta non sono rinvenibili ipotesi rilevanti penalmente e, d’altro canto, la CTU ha escluso rilevanza sulla salute della ricorrente della condotta illegittima evidenziata. Occorre, dunque, verificare se ci troviamo di fronte ad un profilo di danno relativo alla lesione di diritti costituzionalmente protetti e, sotto questo profilo la lettura dei principi fondamentali della nostra Costituzione, che indica la stessa Repubblica Italiana fondata sul lavoro e dichiara di voler garantire il pieno sviluppo della personalità umana e di voler tutelare il lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni, appare chiara ed univoca in senso affermativo.
Il diritto costituzionalmente protetto è quello della professionalità del lavoratore, valore attraverso il quale si esplica la personalità del lavoratore stesso, e il danno esistenziale derivante dalla lesione di tale diritto è stato già riconosciuto in molte decisioni anche dalla Corte di Cassazione che in una recente sentenza proprio sul punto scrive :« tale danno attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello….la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuato dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo , essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali » (Corte di Cass., n.10157/2004). Questa fulgida pagina della nostra giurisprudenza – afferma esplicitamente il giudice - chiarisce alcuni punti fondamentali della materia oggetto della presente sentenza.
In primo luogo, con riferimento alla prova del danno, con l’indicazione che i provvedimenti illegittimi immancabilmente ledono la dignità del lavoratore, la Corte intende aderire all’orientamento che ritiene non necessaria la prova del danno una volta provata la lesione del diritto costituzionalmente garantito (sul punto, per altro, la Corte di Cassazione è stata chiamata a risolvere la questione a sezioni unite dopo la rimessione della sezione lavoro  con l’ordinanza 4/8/2004). In secondo luogo, la Corte chiarisce trattarsi di un danno non patrimoniale e come tale da liquidare equitativamente su parametri areddituali. Il giudice concorda anche con questa seconda osservazione ed al riguardo offre come parametro di valutazione per la liquidazione equitativa del danno la durata della lesione stessa.
Calcolando che il trasferimento dichiarato illegittimo e lesivo della professionalità della ricorrente è avvenuto nel febbraio 2004, alla data della sentenza saranno passati circa quindici mesi che, calcolando il dato medio di trenta giorni, portano a calcolare in 450 giorni il dato complessivo. Utilizzando come parametro economico di riferimento il valore medio dell’indennità totale temporanea (ITT) di € 40,00 si arriva ad una valutazione complessiva di € 18.00,00 che il giudice stima equa riparazione del danno alla professionalità della ricorrente conseguente all’illegittimo trasferimento. Trattandosi di danno calcolato già con valori attualizzati su tale somma dovranno essere corrisposti esclusivamente gli interessi legali dalla data della sentenza.
 
Il caso posto all’attenzione di Corte App. Genova 15.4.2005
In sede di appello la corte genovese si è trovata di fronte ad una dequalificazione di un dirigente, direttore generale della Società, con età di 46 anni e 13 di anzianità di servizio  in una Azienda di trasporti nazionale, il quale faceva riferimento diretto inizialmente all’Amministratore delegato; poi, iniziata la dequalificazione, era stato posto alle dipendenze del direttore commerciale del Gruppo con compiti di organizzazione e responsabilità delle portinerie; successivamente a seguito di dimissioni del Direttore commerciale da ultimo prepostogli, gli veniva affidata la responsabilità della direzione commerciale del marketing; infine in una riunione cui non era stato invitato veniva approvato un  nuovo organigramma in cui egli era declassato da direttore commerciale a responsabile degli obbiettivi; infine era stato licenziato con l’accusa del tutto infondata di aver compiuto scorrettezze e danneggiato l’immagine aziendale  all’esterno. La Corte d’appello accoglie pienamente il ricorso, giudica ingiustificato il licenziamento (obbligando l’azienda a corrispondere al dirigente l’indennità supplementare contrattuale) e risarcisce il danno alla professionalità da demansionamento (sub specie di danno esistenziale) basandosi sulla giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale l’art. 2103 c.c. fonda un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro. La Cassazione motiva tale suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1 comma, 4, 1 comma, e 35, 1 comma, Cost.. Pertanto la lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
Tale principio di diritto, trova poi ulteriore fondamento giuridico, nel carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 cod. civ., perché, coinvolgendo la persona del lavoratore,  costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 cod. civ.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora. Inoltre, il principio di esecuzione di buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 cod. civ.)  e l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell'attuale momento storico - economico, valorizzano la funzione della prestazione lavorativa in tal senso.
Il demansionamento assurge quindi a fattispecie plurioffensiva che può ledere diversi diritti soggettivi, procurando così danni di natura diversa che di volta in volta il lavoratore deve allegare.
Nel caso in esame il ricorrente ha allegato un danno alla professionalità, alla personalità e all’immagine. Trattasi di situazioni giuridiche non patrimoniali, posizioni esistenziali non biologiche, per le quali l’evento lesivo non è dimostrabile in rerum natura. Si tratta di beni eterei ed immateriali,  per i quali la prova della loro lesione  potrebbe al più essere data attraverso presunzioni. Peraltro, come osservato dalla dottrina, «tali presunzioni (…)  che si fondano su regole d’esperienza incentrate sui criteri di normalità e di tipicità sociale, in verità sono tutte interne alla dimostrazione dell’inadempimento o del fatto illecito in quanto ruotano intorno alla gravità, all’intensità, alla durata della condotta illecita o alla condizione soggettiva del danneggiato, cioè agli stessi elementi che servono per giudicare l’effettiva sussistenza del comportamento antigiuridico e per liquidare il danno effettivamente subito, ossia per stimare l’entità, il quantum del pregiudizio occorso (…) Meglio sarebbe allora abbandonare la struttura classica dell’illecito e la conseguente ripartizione del carico probatorio, ritenendo assorbita la prova dell’evento lesivo nella prova della violazione dell’interesse tutelato e concentrare l’attenzione su quest’ultima, richiedendo parametri rigorosi della sua dimostrazione e facendo scattare la soglia dell’antigiuridicità solo in presenza di comportamenti realmente offensivi del bene normalmente tutelato».
Deve inoltre osservarsi che molto spesso i danni non hanno proiezione esistenziale esterna, non inibiscono cioè al lavoratore di fare qualcosa ma incidono invece sull’essere cioè su una dimensione dell’uomo riconosciuta anch’essa dalle norme costituzionali, e per questi ultimi non è possibile dare la dimostrazione della loro lesione. In sostanza una volta accertata la condotta vietata e riscontrata la sua potenzialità lesiva, i danni alla dignità morale (2087 c.c.) e professionale devono seguire automaticamente, rilevando eventuali indicatori (diminuzione rendimento lavorativo, stress emotivo, grado di risonanza all’interno e all’esterno dell’azienda del fatto illecito, ecc.) quali elementi non fondativi di ricorrenza dell’evento lesivo subito dal danneggiato, ma rappresentare circostanze che connotano la vicenda per definire il quantum debeatur, elementi quindi utili per determinare l’ammontare effettivo del risarcimento e calibrare il giudizio equitativo al caso concreto.
Ed allora venendo alla quantificazione deve rilevarsi che anche se il demansionamento è durato pochi mesi il ricorrente ha subito uno svuotamento di compiti che è stato particolarmente  grave sia perché egli era al vertice dell’azienda (e ciò da molti anni) sia proprio per la repentina spogliazione di compiti ed emarginazione che hanno reso ancora più visibile all’interno dell’azienda l’avvenuto demansionamento. Del resto gli stessi colleghi, escussi come testi, hanno concretamente avvertito tale esautoramento. Ritiene pertanto il Collegio che, avuto riguardo a tali elementi e tenuto conto della retribuzione mensile percepita dal ricorrente, si debba liquidare ad oggi in via equitativa la somma di € 7000,00.
 
Il caso  esemplarmente deciso da Trib. La Spezia 1.7.2005
Il giudice monocratico locale si è occupato di un emblematico caso di mobbing – divenuto di pubblico dominio per la denuncia dell’interessata, tra l’altro, alla trasmissione televisiva “Mi manda Rai tre” condotta all’epoca dal Dr. Marrazzo – compiuto da personale della Marina militare a danno di una economa, con anzianità nella mansione di 15 anni, di un circolo sottufficiali, la quale dopo aver denunciato ai superiori gerarchici anomalie nella gestione della cassa e nella tenuta della contabilità, era stata – al termine di un periodo feriale – impedita dal rientrare nel posto di lavoro, alla cui porta d’accesso era stata nel frattempo cambiata la serratura. Ne era seguito il diniego di consegna della nuova chiave, la chiamata  sul posto da parte dell’esclusa dei carabinieri (che avevano redatto un inattendibile verbale a favore dell’amministrazione pubblica) e dopo incredibili vessazioni e persecuzioni psicologiche era stata fatta “passare per matta”, con la conseguenza che una visita all’Ospedale militare  dall’interessata richiesta per ottenere il riconoscimento come malattia professionale della sindrome depressiva indotta aveva sortito quale effetto increscioso quello dell’essere dichiarata “permanentemente inidonea al servizio e affetta da malattia non compatibile con l’idoneità alla guida …con segnalazione alla Motorizzazione civile e alla Prefettura”, che prontamente le avevano ritirato la patente di guida. Ne erano seguiti ricorsi gerarchici senza alcun successo, il rapporto di lavoro veniva risolto per infermità (pur trattandosi di malattia per cd. causa di servizio) ed infine veniva nuovamente adito il magistrato del lavoro che, svolta l’istruttoria con escussione testimoniale, individua nella fattispecie vessatoria il c.d. mobbing.
Il magistrato evidenzia come la ricorrente era stata costretta a proporre  un nuovo ricorso ex art. 700 c.p.c. in quanto, pur essendo in malattia (causata come si dirà in seguito  dal comportamento del datore di lavoro), non percepiva alcun emolumento mensile e nonostante il provvedimento del giudice in data 3/4/2001 era stata costretta a proporre vari ricorsi per decreti ingiuntivi per ottenere il pagamento dello stipendio. Il magistrato non può nascondere la propria stizza a fronte della deliberata indifferenza della pubblica Amministrazione, giungendo ad affermare:«E’ la prima volta che questo giudice in 20 anni di lavoro vede un accanimento così pervicace nei confronti di una lavoratrice da parte di funzionari della pubblica amministrazione che si rifiutano anche di adempiere l’ordine del giudicedi regolare con urgenza dal punto di vista economico la posizione della ricorrente che dall’Ottobre 2000 non percepisce alcun emolumento”. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte deve quindi essere confermata, senza ombra di dubbio, la responsabilità civile dei funzionari civili e militari preposti alla direzione ed alla sorveglianza del Circolo Sottufficiali… per violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione ai danni subiti dalla ricorrente a causa delle condotte vessatorie realizzate nei suoi confronti. Non si è trattato infatti di azioni vessatorie singole ed estemporanee ma di una vera e propria strategia coerente e premeditata ai danni di una vittima ben precisa con l’intento lesivo di distruggerla, allontanarla, degradarla».
 
a) Il cd. mobbing
Il magistrato, nella lunga e meditata sentenza, si fa carico di definire il mobbing rifacendosi ad H.Ege – lo psicologo tedesco che l’ha approfondito nel nostro paese – il quale  dice nel suo libro Mobbing conoscerlo per vincerlo” « che spesso le strategie del mobbing si basano sulla menzogna, si mettono in giro false voci per danneggiare la reputazione di una persona,….poi vi è una progressione dei fatti….dalle calunnie si arriva alla risoluzione del rapporto di lavoro. Il maggior numero di casi di mobbing colpisce la donna in una fascia di età compresa tra i 41 e i 50 anni con alle spalle un’anzianità di servizio superiore agli 8 anni». Secondo il “metodo Ege 2002” vi sono infatti sette parametri fondamentali per l’individuazione del mobbing: l’ambiente lavorativo; la frequenza; la durata; il tipo di azioni; il dislivello tra gli antagonisti; l’andamento secondo fasi successive; l’intento persecutorio.
A parere del giudice risulta evidente che tutti questi parametri ricorrono nel caso in esame.
Ma cos’è il mobbing?
Va premesso che il giudice concorda con l’Avvocato dello Stato nell’auspicare che, in un testo legislativo regolante tale fattispecie, si coni un altro vocabolo più felice e più aderente alla nostra cultura di origine greco-romana anche se oramai la parola mobbing è diffusa in tutto il mondo e differenziandoci finiremmo con essere isolati rispetto alle altre culture giuridiche.
Ma…. a parte queste considerazioni personali, per far comprendere anche all’uomo qualunque cos’è il mobbing, il giudice dice che basta ricordare la figura del ragionier Fantozzi, relegato in un sottoscala dal tirannico capoufficio. Si tratta sicuramente del più famoso “mobbizzato” d’Italia che tuttavia non ha mai saputo di esserlo perché negli anni in cui la trasposizione cinematografica delle sue avventure divertiva gli spettatori, il mobbing non era ancora studiato come fenomeno sociale in grado di causare gravi danni alla salute dei lavoratori.
L’espressione mobbing deriva dal verbo della lingua inglese to mob che significa assalire, aggredire ed è ripresa dalla scienza dell’etologia e descrive il comportamento di un gruppo di animali che si accaniscono contro uno di essi per espellerlo dal branco. Il primo ad usare tale termine fu negli anni sessanta Konrad Lorenz e successivamente tale concetto fu ripreso dalla psicologia del lavoro quando si è trovata nella necessità di esprimere quel medesimo fenomeno di aggressione nell’ambiente di lavoro.
L’attuale psicologia del lavoro (i primi studiosi sono stati Hans Leymann ed in Italia Harald Ege) indica con questo termine una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, la reputazione e/o la professionalità della vittima.
In ogni caso, gli studiosi del fenomeno sembrano concordare che due sono gli imprescindibili elementi dello stesso: la reiterazione delle condotte (costituite da negozi, atti, meri comportamenti), non necessariamente illecite se considerate in sé, per un arco di tempo apprezzabile (almeno sei mesi, secondo alcuni studiosi) e la loro intenzionalità (da non considerarsi come coscienza specifica del fine ma come finalità riprovevole in relazione alla lesione dei beni della dignità personale e della salute psico-fisica).
Queste considerazioni sono oramai entrate anche nel bagaglio giuridico degli operatori del diritto, dopo che alcune pronunzie dei giudici di merito hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno e lo hanno anche, in alcuni casi, sanzionato (cfr. Trib. Torino 16 novembre 1999, in “Riv. it. dir. lav.”, 2000, II, p.102; Id. 11 dicembre 1999, in “Foro it.” 2000,I, c.1555; Trib. Milano 20 maggio 2000, in “Or. giur. Lav.”,2000, 959; Id. 16 novembre 2000, ibidem, 962; Trib. Como 22 maggio 2000, in “Lav. Giur.”, 2002, p.73; Trib. Forlì 22 marzo 2001, in “Riv. it. dir. lav.”, 2002, II, p. 521, ove, in motivazione, sono riportate le definizioni del fenomeno elaborate dalla contemporanea psicologia del lavoro; negativamente, v. Trib. Venezia, 26 aprile 2001, in “ Riv. giur. lav.”, 2001, p. 88).
Il fenomeno in esame non è stato ancora tipizzato legislativamente (ed a ciò si è appellato il Tribunale di Venezia nella sua sentenza del 26 aprile 2001 succitata per negare la configurabilità giuridica del mobbing e la sua risarcibilità), ma non può dirsi del tutto sconosciuto alle aule parlamentari, dato che sono stati presentati, sullo scorcio della passata Legislatura ed in quella attuale, diversi disegni e progetti di legge in argomento, tuttora pendenti. In ogni caso, è fatto notorio che il mobbing è oramai da tempo all’attenzione non solo della giurisprudenza e della dottrina, ma anche dell’opinione pubblica e del Parlamento in quanto una maggiore sensibilità datoriale a problemi del genere consentirebbe un indiscutibile vantaggio per tutti, compreso il datore di lavoro che eviterebbe cali di produttività della forza lavoro per lunghi periodi, determinati da situazioni di mobbing. Le forme depressive dovute al mobbing recano un danno socio-economico rilevante, quindi intervenire su questo problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e di correttezza nei rapporti umani, ma anche di opportunità economica, sia per il buon funzionamento dell’azienda, sia per minimizzare i costi sociali e sanitari.
Anche il Parlamento Europeo con la Risoluzione A 5-0283 del 20/9/2001 ha esortato le istituzioni Europee a fungere da modello per quanto riguarda l’adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing.
Ritiene il giudice che la mancata (sino ad ora) tipizzazione legislativa non sia di ostacolo a riconoscere per via giurisprudenziale, sulla scorta del diritto vigente, il fenomeno del mobbing ed a sanzionarlo adeguatamente.
Infatti, dalle scienze del lavoro (psicologia e sociologia applicate) si ricava la definizione dello stesso e si individuano i suoi caratteri fenomenologici; dal loro esame, deve riconoscersi che ciò che differenzia il mobbing  da altre figure di illeciti è la sua capacità di unificare in una fattispecie unitaria illecita una pluralità di azioni, atti, negozi e comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere anche neutri ma il cui (reale) fine (dannoso ed illecito) si apprezza soltanto se letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica complessiva. Il mobbing, dunque, va visto come fenomeno capace di rappresentare unitariamente una fattispecie complessa e di dare ai suoi comportamenti un significato unitario.
Portando il discorso sul piano giuridico, si osserva che, anche allo stato attuale della legislazione, la fattispecie del mobbing si presenta in contrasto con alcuni fondamentali precetti costituzionali: di certo, con quello dell’art. 2, che tutela la dignità dell’uomo (anche) nella formazione sociale “ambiente di lavoro”; ma anche con quello dell’art. 3, 1° comma Cost., che vieta discriminazioni in ragione delle diverse condizioni personali.
Il mobbing si pone in contrasto con il principio di tutela della salute sancito dall’art. 32 Cost., essendo evidente che il fenomeno in esame può incidere negativamente sul benessere psico-fisico (si parla, al riguardo, per descrivere gli effetti del mobbing sulla salute, di sindrome post-traumatica da stress) ed, inoltre, vi è contrasto con la protezione accordata all’iniziativa economica privata nel  rispetto della dignità umana (art. 41, 2° comma, Cost.).
Dunque, non pare dubitabile che possa già riconoscersi - allo stato attuale della legislazione- protezione dal mobbing, risolvendosi esso in una figura unificante di fattispecie di danno biologico, di danno alla dignità e personalità morale, di danno all’immagine ed all’onore del prestatore di lavoro (già oggi pacificamente risarcibili) ed anche di situazioni che, avulse dal contesto in cui si iscrivono, non sarebbero illecite.
E’ poi precipuo compito del giudice, non demandabile ad un consulente, valutare se, nella fattispecie concreta posta alla sua attenzione, sussistano o meno gli estremi della figura del mobbing, al riguardo utilizzando la descrizione fenomenologia che di esso ne danno le scienze del lavoro che se ne occupano; potrà essere invece demandato al consulente l’accertamento se siano rinvenibili sulla persona del lavoratore che denunzia di aver subito una siffatta persecuzione, eventuali postumi da essa derivanti. Tuttavia, poiché il mobbing supera e non si risolve nel tradizionale danno biologico (o danno alla salute medicalmente accertabile), la consulenza non necessariamente sarà medico-legale e potrà anche non essere necessario disporla.
 
b) La responsabilità datoriale, il risarcimento e la prova del danno da mobbing
Se questo è il fenomeno, prima di esaminare i profili collegati alla prova del danno ed al suo risarcimento, deve essere esaminato ora quello che concerne la responsabilità datoriale (su ciò, v., per es., Cass. 21 dicembre 1998, n. 12763; Id. 2 maggio 2000, n. 5491; Id. 7 novembre 2000, n. 14469; Id. 21 febbraio 2001, n. 2569; Id. 20 giugno 2001, n. 8381).
Al riguardo, come insegna la Suprema Corte (sentt. ult. citt.) la stessa può essere sia contrattuale, per violazione dell’art. 2087, c.c., sia extra contrattuale, per violazione dell’art. 2043, c.c., sia concorrente nonché derivante dalla violazione dei diritti soggettivi primari.
Il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., deve fare tutto quanto è in suo potere per prevenire situazioni di possibile nocumento morale dei lavoratori (secondo il principio della massima sicurezza possibile in un dato momento storico, su cui v., per es. Cass. 29 dicembre 1998, n. 12863; Id. 3 aprile 1999, n. 3234) e, se tali situazioni si presentano, attivarsi per farle cessare il prima possibile, ripristinare lo stato salutare e risarcire l’eventuale danno cagionato.
Ne segue che la prova liberatoria incombe sul datore di lavoro, il quale - ai sensi dell’art. 1218, c.c. - dovrà provare che l’inadempimento è dipeso “da causa a lui non imputabile”, mentre il lavoratore dovrà dimostrare il danno ed il nesso casuale tra l’evento sofferto ed il comportamento datoriale. Al riguardo, il datore dovrà rigorosamente dedurre e provare di aver espletato adeguata e costante sorveglianza e, più in generale, di aver preso tutte le misure e precauzioni per evitare il pericolo d’insorgenza della situazione dannosa (non può tuttavia giungersi all’assioma per il quale, dal verificarsi del danno, è provata la responsabilità, poiché quest’ultima finirebbe col divenire oggettiva: da ult., in termini Cass. 5 Dicembre 2001, n. 15350).
Nel nostro caso, la responsabilità datoriale sussiste e l’art. 2087 c.c., va ritenuto violato.
Dalla documentazione amministrativa prodotta in atti e dall’istruttoria espletata emerge una chiara situazione conflittuale tra l’Amministrazione e la ricorrente in quanto la stessa, come è stato già detto, ha subito nell’ambiente di lavoro un clima di ostilità, provocazioni e vessazioni, permeato da una serie di velate minacce, piccole e sottili allusioni e maldicenze sul proprio conto e sul proprio operato, con una tensione costante e perdita di serenità sul posto di lavoro. Tali eventi hanno determinato nella lavoratrice ricorrente i danni accertati dal CTU dr. sa Benedetti, specialista in psichiatria e collaboratrice del Prof. Gian Battista Cassano di Pisa, esperto di chiara fama in campo psichiatrico che dopo aver riconosciuto il nesso causale della patologia dalle vessazioni di lavoro ha  precisato che la persistenza e l’aggravamento del quadro psichico, in associazione con la sintomatologia somatica lamentata e documentata dai certificati relativi a patologia fibromialgica fanno propendere per una valutazione del danno biologico al 25-30%.
Non ravvisandosi validi motivi per disattendere tali conclusioni, il giudice fa proprie tali valutazioni, essendo la CTU immune da vizi logico-giuridici e ben motivata.
In sede di discussione orale l’Avvocato dello Stato ha criticato la CTU dicendo che andavano fatte maggiori indagini sulla predisposizione della ricorrente a disturbi di tipo psichico.
Va al riguardo precisato che nei chiarimenti del 25/10/04 la stessa CTU dice « che una parte consistente della varianza osservata nella vulnerabilità al disturbo post-traumatico da Stress è attribuibile a fattori genetici (Vanitallie 2002). Di tali alterazioni pertanto si tiene necessariamente conto nella quantificazione del danno da disturbo post-traumatico da Stress».
Anche nella prima relazione peritale l’indagine su una predisposizione della ricorrente a tali patologie viene fatta dalla stessa CTU che parla di tratti ossessivi di personalità (e non di personalità intesa come disturbo) che sono presenti frequentemente nella popolazione generale e non sono necessariamente da considerarsi patologici. Essi consistono in caratteristiche di perfezionismo, scrupolo per la precisione, accentuata tendenza all’ordine, meticolosità, rigore in campo etico e religioso e così via (cf. Trattato Italiano di Psichiatria). Anche il dott. M. che effettua l’esame psicodiagnostico su incarico del CTU « non rileva elementi significativi per un disturbo di personalità premorbosa, né dati anamnestici indicativi di un disturbo strutturale preesistente».
Nella letteratura in tema di mobbing  vengono riscontrate nell’indole scrupolosa, sensibile ai riconoscimenti e alle critiche e con elevato senso del dovere le caratteristiche caratteriali che agevolano il ruolo di vittima o mobbizzato (V. Harald Ege “Mobbing: Conoscerlo per vincerlo”).
Va ricordato tuttavia che dottrina e giurisprudenza recenti tendono correttamente a sottovalutare in tali situazioni eventuali concause pregresse (al riguardo la dottrina richiama per  es. Cass. 5/11/99 n. 12339, confermata dalla successiva Cass. 9/4/2003 n. 5539).
Si osserva infatti che anche se non tutti reagiscono allo stesso modo allo stress e c’è chi ha “anticorpi”  psicologici più forti per affrontare situazioni pesanti protratte, non sembrano esistere predisposizioni caratteriali che rendono immuni al mobbing, poiché è l’integrità dell’intera persona ad essere minata sul piano fisico, psichico, relazionale ed economico.
Da quando finora esposto, essendo acclarato il nesso causale tra la patologia di cui è affetta la ricorrente e l’ambiente di lavoro in cui la stessa ha operato, ne consegue che tale malattia va considerata dovuta a causa di servizio. Per quanto riguarda le conseguenze economiche, in mancanza di quantificazione ci dovrà essere un separato giudizio per stabilire l’entità dell’equo indennizzo.
 
c) I danni da mobbing
Le fonti di responsabilità di parte resistente sono da ricercare, come è stato già detto, da un punto di vista giuridico nel rapporto contrattuale intercorso e quindi nell’art.1375 c.c., secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede; nell’art. 2087 c.c., che pone a carico del datore di lavoro il divieto di molestie morali nei confronti del lavoratore e nel generale principio del neminen ledere espresso dall’art. 2043 c.c. la cui violazione è fonte di responsabilità aquiliana che trova la sua consacrazione nell’art. 2059 c.c. ora che questa norma, dopo essere rimasta per lungo tempo quasi del tutto inutilizzata, è risorta nella nuova sistemazione dogmatica del danno civile elaborata con il fondamentale contributo delle due sentenze della suprema Corte di Cassazione del maggio 2003 (nn. 8827 e 8828 del 31/5/2003).
Secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata che analogamente alla Cassazione ne ha dato la Corte Costituzionale (Sent. n. 233 dell’11/7/2003), la norma infatti chiarisce la portata del neminen ledere nelle relazioni interpersonali con specifico riferimento alle situazioni normativamente previste e tipizzate, oltre l’aspetto meramente patrimoniale del danno; il risultato non è più quello di un ambito di tutela risarcitoria ristretto al danno morale (che a questo punto diventa riparabile anche quando non derivi da un fatto penalmente rilevante) ma la possibilità di una tutela piena dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.). Nella categoria del danno non patrimoniale, quindi, superata la bipartizione nelle componenti del danno morale e del danno biologico, la figura aggiuntiva del danno esistenziale si presta a salvaguardare il profilo relazionale-sociale dell’individuo, che viene così protetto in tutte le attività e manifestazioni espressive della personalità anche esteriori laddove il danno morale è inteso come dolore, interiore sofferenza, patimento o stato di angoscia secondo la definizione fornita dalla Corte Costituzionale.
Sulla scorta di tali principi, il lavoratore vittima del mobbing  che provi che le conseguenze pregiudiziali sono in rapporto di casualità  dalle iniziative persecutorie compiute per nuocergli, ha diritto alla riparazione di tutti gli aspetti non patrimoniali dei danni sofferti.
Vi è in conclusione un concorso tra responsabilità contrattuale ed extra contrattuale che si risolve di fatto nel cumulo delle due azioni in quanto la responsabilità contrattuale dell’imprenditore derivante dall’art. 2087 c.c. di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei dipendenti, può concorrere con la responsabilità extracontrattuale dello stesso datore di lavoro che sussiste qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro (lesione della salute, della personalità, della dignità, dell’immagine, ecc. )
La condotta del datore di lavoro finisce quindi con il ledere un interesse tutelato non solo nello specifico rapporto di lavoro ma anche in una norma quale l’art. 2043 c.c. che si rivolge alla totalità dei consociati.
Nella maggior parte dei casi il mobbing produce conseguenze negative sul piano della sfera neuropsichica della vittima.
Si può anzi affermare che il danno psichico è il tipico danno subito dalla vittima di mobbing. E ciò è tanto vero che la teorizzazione del mobbing nasce proprio in seguito ad un percorso a ritroso dall’effetto alla causa intrapreso dagli psicologi del lavoro. Come è stato già rilevato nell’attuale sistema risarcitorio vi sono figure che si occupano dei pregiudizi incidenti sulla salute psichica latamente intesa: il danno biologico (o danno psichico o danno biologico di natura psichica), il danno morale ed il danno esistenziale sono tutte categorie che possono dare ospitalità ai pregiudizi di ordine psichico.
Questa pluralità di danni derivanti dal mobbing dovrebbe essere una remora per i datori di lavoro dal porre in essere comportamenti lesivi della personalità del lavoratore e uno sprone a vigilare per evitare che vengano perpetrate azioni aggressive e vessatorie da parte dei collaboratori e dei preposti in genere.
Si dovrebbe arrivare insomma ad una maggiore umanizzazione del lavoro così come propugnato anche dal papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Laborem Exercens dedicata “agli uomini del lavoro” che mediante il lavoro non solo trasformano la natura adattandola alle proprie necessità ma anche realizzano se stessi come uomini ed anzi, in un certo senso, diventano più uomini.
La strada è ancora lunga atteso che l’International Labour Office (ILO) denuncia una tendenza generalizzata all’aumento delle violenze psicologiche in ambito lavorativo riscontrabile in tutti i paesi del mondo.
 
d) I numeri del mobbing
Il paese con il più alto numero di mobbizzati risulta essere la Gran Bretagna con il 16,3%, seguono la Svezia (10,2%), la Francia (9,9%) e la Germania (7,3%).
L’Italia si colloca agli ultimi posti della graduatoria con solo il 4,2% dei casi, ma secondo gli studiosi del fenomeno il dato non rappresenta adeguatamente la realtà in quanto spesso non vi è ancora consapevolezza da parte della vittima della possibile qualificazione come mobbing di una serie di condotte vessatorie sul luogo di lavoro.
Da una più completa indagine empirica effettuata in Italia da H. Ege risulta su un campione di 301 vittime intervistate, che più del 38% provengono dal settore delle industrie produttrici di beni e servizi, mentre il 21% di esse si riscontrano nel settore della Pubblica Amministrazione.
Tale dato va ulteriormente integrato con i dati relativi al altri settori presi separatamente in considerazione nell’indagine di Ege.
In particolare un altro 15% di casi si riferisce al settore degli istituti di credito e delle Poste, in gran parte settore pubblico – privatizzato; un ulteriore 12% di casi si riferisce al settore scuola, in gran parte pubblico; l’8% dei casi, infine, riguarda il settore Sanità, anch’esso largamente pubblico. Il dato concernente la struttura della pubblica Amministrazione appare quindi addirittura prevalente rispetto agli altri. Ciò è spiegato (cfr. Ege, I numeri del mobbing. La prima ricerca italiana)  con l’inefficienza dell’organizzazione, fattori di competizione interna, con la struttura interna degli incentivi nonché con la inefficienza del monitoraggio, della distinzione e distribuzione delle competenze individuali. Queste possono essere le chiavi stesse di soluzione e di prevenzione delle situazioni di mobbing.
 
e) La malattia dipendente da causa di servizio non legittima la risoluzione del rapporto
Il giudice esprime l’avviso che ha reputato opportuno riportare tali dati in quanto in una città di provincia qual è La Spezia la vicenda della ricorrente ha fatto piuttosto scalpore ed i mass media le hanno dedicato grande attenzione facendo entrare in questo processo la Marina Militare che occupa un ambito particolarmente rilevante in questa città. Tenendo esplicitamente a precisare, peraltro, che non è la Marina Militare ad essere posta sotto accusa, ma soltanto le persone di questa causa, così come è avvenuto negli altri procedimenti cui si è fatto dianzi riferimento concernenti il settore Poste, scuola o sanità.
Le assenze della ricorrente sono dipese dalla patologia ansioso depressiva che è stata contratta a causa dell’ambiente di lavoro a far data dall’anno 1999 circa e tale complessiva situazione è ascrivibile ad inadempimento del datore di lavoro.
Si osserva che, nel caso di specie, ci si trova di fronte ad un’ipotesi di assenza per malattia determinata da infortunio sul lavoro la quale non può essere assunta sotto il disposto dell’art. 2110, 1°-2° comma, c.c., per la considerazione che detta norma ha riguardo (anche) ad assenze per malattia non dovute né ad origine professionale (per la quale valgono le norme sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965) né ad inadempimento del datore di lavoro. In caso contrario, l’inadempimento (quindi, un illecito contrattuale) potrebbe giustificare, alla scadenza del periodo di assenza dal lavoro preveduto dalla contrattazione collettiva (il c.d. periodo di comporto), la risoluzione del rapporto di lavoro.
In altri termini, a parte l’ipotesi della tutela I.N.A.I.L., non può essere consentito al datore di lavoro di procedere a risolvere il rapporto avvalendosi di una clausola di legge al maturarsi di una situazione che origina da un suo inadempimento contrattuale (ovvero, anche extracontrattuale).
Insegna infatti la Suprema Corte (Sezione Lavoro, n. 4959 dell’8/3/2005) che ove le assenze per malattia siano causate dalla violazione da parte del datore di lavoro dello specifico obbligo di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore (art. 41, comma 2°, della Costituzione) di esse non deve tenersi conto ai fini del superamento del periodo di comporto.
Non vale inoltre osservare che il lavoratore può sempre agire per il risarcimento dei danni (per violazione dell’art. 2087, c.c., o per violazione della generale clausola del neminem ledere): tale risarcimento, infatti, è volto a ristorare i danni discendenti dalla violazione delle succitate norme ma non ad apprestare protezione alla perdita del posto di lavoro, come, testimonia il caso di specie.
Il presente caso appare essere dunque più affine all’ipotesi di assenza del lavoratore per infortunio sul lavoro per il quale l’art. 22 CCNL dipendenti comparto ministeriale, di settore, cit., sancisce il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro fino a completa guarigione clinica; certamente, essendovi nel caso l’inadempimento del datore di lavoro ai propri doveri contrattuali, ne consegue l’impossibilità di fare applicazione della normativa sul comporto (art. 2110, 1°-2° comma, c.c. ed art 19, CCNL citato) e ne discende il diritto del lavoratore alla conservazione del posto per tutta la durata della sua malattia.
Risponde infatti ad un’evidente ragione di giustizia parificare il mobbing all’infortunio sul lavoro riconoscendone tutte le condizioni previste dalla legge ed in particolare l’occasione di lavoro e la causa violenta. A conferma di tale assunto va evidenziato come già nell’art. 10 comma IV del D.L.vo 38/00, nell’ambito della riclassificazione delle malattie professionali il legislatore abbia prevista la possibilità di inserire tra le malattie professionali tabellate anche “liste di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa”, come il Consiglio di Amministrazione dell’I.N.A.I.L. con delibera del 26/7/01 abbia riconosciuto il mobbing come fattore di infortunio sul lavoro, programmando la creazione di un comitato scientifico ad hoc per la individuazione dei protocolli diagnostici.
Per tale motivo anche i decreti ingiuntivi emessi in precedenza dallo stesso giudice su istanza di parte ricorrente nei confronti del Ministero della Difesa vanno confermati.
 
f) Tipologia e misura  dei danni risarcibili nella fattispecie
In ordine al quantum debeatur va rilevato che le voci di danno di cui il giudice deve tener conto sono soltanto quelle richieste nel ricorso introduttivo del presente giudizio, quali il danno biologico, il danno morale, il danno esistenziale e il danno patrimoniale, quest’ultimo sia in relazione al danno emergente che al lucro cessante.
Il mobbing realizzato in danno della ricorrente  ne ha leso prima di tutto la sua salute tanto è vero che ne è derivato (ex art. 32 della Costituzione) un danno biologico da inabilità permanente accertato dal CTU, come è stato già detto, dal 25% al 30%.
Il concetto di danno (dal latino demere che significa letteralmente togliere e vuol dire perciò privare un individuo di un bene che gli appartiene) è necessariamente legato ad una alterazione intervenuta nell’individuo rispetto ad una situazione antecedente e consiste nel passaggio dalla salute alla malattia o nell’aggravamento di un fatto patologico preesistente (Puccini 1995).
Il giudice esprime l’avviso che appare rispondente a giustizia riconoscere alla ricorrente il 30% in conformità anche a quanto detto dal dott. Gilioli (direttore della Clinica del lavoro L. Devoto di Milano) in udienza.
Per il calcolo del danno biologico ritiene di basarsi sulle tabelle di Milano del 2003 applicate anche presso la Corte di Appello di Genova. Seguendo tale criterio, considerando che i punti calcolati sono 30, l’età della ricorrente alla presentazione del ricorso era di 45 anni, applicando il demoltiplicatore 0,78 si giunge ad una somma pari ad Euro 79.591,35 per l’inabilità permanente. Per quanto riguarda l’invalidità temporanea la si calcola a far tempo dal 10/7/99, cioè dalla data nella quale venne diagnosticato per la prima volta lo stato ansioso depressivo reattivo.
L’incapacità lavorativa derivante da tale patologia era già stata accertata dal altro sanitario nella relazione del 22/2/2000 eseguita per conto della procura della Spezia. Alla data della presente sentenza, ossia del 13/5/2005, quindi i giorni di invalidità temporanea sono 2134 che vanno moltiplicati per € 51,65 pro die con un totale di Euro 110.221,10.
Per il danno morale - sulla spettanza del quale già si è detto considerando la qualità, la frequenza e la durata delle azioni ostili e il dolore che hanno provocato - si ritiene equo liquidare tale danno in misura “ad un mezzo” del danno biologico (79.591,35 + 110.221,10) pari ad Euro 94.906,221. Altrettanto appare congruo liquidare per il danno esistenziale ossia per il deterioramento generale della qualità della vita anche futura, che il giudice ritiene vada riconosciuto oltre al danno morale in quanto investe due diversi aspetti della persona: quello morale, l’aspetto più intimo ed interiore, quello esistenziale, quello esteriore.
L’impostazione prevalente evidenzia che il danno morale attiene il “sentire” mentre quello esistenziale attiene al “non fare”.
In conclusione le somme spettanti alla ricorrente a titolo di risarcimento del danno ammontano complessivamente ad euro 362.511,71  e possono così riepilogarsi:
Euro 62.478,17  a titolo di danno biologico da inabilità permanente, già detratti Euro 17.113,18  percepiti dalla ricorrente a titolo di buonuscita e indennità sostitutiva del preavviso (Euro 79.591,35) per inabilità permanente – Euro 17.113,18);
Euro 110.221,10  a titolo di danno biologico da inabilità temporanea;
Euro 94.906,22 a titolo di danno morale;
Euro 94.906,22 a titolo di danno esistenziale.
In aggiunta, per quanto innanzi detto, alla lavoratrice è stato riconosciuto il diritto alla continuità del rapporto di lavoro, stante l’illegittimità della risoluzione medesima.
 
Conclusioni generali
Si possono a questo punto trarre le seguenti conclusioni dall’esame delle riassunte decisioni (e di molte altre antecedenti ed analoghe che, per motivi di spazio, abbiamo deliberatamente omesso):
a)     che il danno da dequalificazione o da demansionamento (cioè il danno alla professionalità) viene  liquidato sempre più spesso nella forma di danno esistenziale, in considerazione della immanente mortificazione, perdita di autostima ed eterostima che provoca alla vittima/bersaglio, determinando una sostanziale, peggiorativa, modificazione della qualità della vita e delle relazioni sociali (ci sia consentito rinviare, per approfondimenti, al nostro saggio “Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro” in Riv. it.dir.lav. 2004, fasc. 3, I, 421 e ss.);
b)     che tale danno esistenziale, una volta dimostrato dalla vittima il nesso causale con la dequalificazione o le persecuzioni psicologiche (in caso di mobbing), viene dalla prevalente giurisprudenza considerato automatico – secondo l’id quod plerumque accidit -  e non necessità di prova da parte del lavoratore fatto a bersaglio, sufficienti essendo al riguardo gravi, precise e concordanti presunzioni ex art. 2729 c.c.;
c)     che per la liquidazione monetaria di detto danno esistenziale (in quanto danno non patrimoniale areddituale), si oscilla tra l’utilizzo (astrattamente più corretto) di un  parametro risarcitorio uniforme sganciato dal reddito della persona [utilizzando ad es. il valore giornaliero della invalidità temporanea totale (ITT) o  il trattamento massimo giornaliero dell’integrazione salariale ordinaria erogata dall’Inps] e la percentualizzazione della retribuzione netta mensile (fino al 100% di essa), calibrata in stretta relazione con la durata, la gravità e/o intensità della dequalificazione (massimizzandola in fattispecie di forzata inattività);
d)     che il danno esistenziale compete anche qualora nel ricorso introduttivo non sia stato specificatamente richiesto con tale qualificazione, in quanto è principio giuridico consolidato – sulla base del brocardo “iura novit curia” – che spetta al giudice l’individuazione e la specificazione della tipologia giuridica del danno risarcibile, una volta che nel ricorso introduttivo sia stato richiesto il risarcimento del c.d. danno alla professionalità, o meglio si sia usata la formula onnicomprensiva del risarcimento dei “danni patrimoniali e non patrimoniali”;
e)     che  con il danno non patrimoniale concorre pacificamente il danno patrimoniale da lesione della professionalità oggettiva (sostanziatesi nella mancata progressione in carriera interna, cioè a dire nella perdita di chance promotiva ovvero di opportunità di ricollocazione all’esterno, sul mercato del lavoro in conseguenza di una obsolescenza della professionalità originaria o acquisita, indotta dalle pratiche di demansionamento e/o forzata inattività, richiedendosi tuttavia, per la perdita di chance sul mercato del lavoro esterno, un’onere probatorio rigoroso); cosicché spetterà al lavoratore leso nella professionalità oggettiva che abbia assolto il precitato, difficoltosissimo onere probatorio, addizionalmente il risarcimento di questo danno patrimoniale riconducibile a lucro cessante (mentre l’esistenziale attiene al danno emergente e comunque al danno non patrimoniale);
f)      che tutte le recenti decisioni passate in rassegna fanno esplicito riferimento - per legittimare  la categoria del danno esistenziale, risarcitoria di interessi costituzionalmente protetti (quale il diritto soggettivo all’autorealizzazione nell’attività di lavoro e alla non discriminazione per motivi pravi, quali quelli che supportano il cd. mobbing) – alle fondamentali decisioni nn. 8827 e 8828/2003  della Cassazione civile nonchè alla sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale che le ha recepite ed enfatizzate;
g)     che il danno morale soggettivo (sofferenza transitoria o pretium doloris)  è risarcibile anche senza il pregresso requisito della ricorrenza e/o dell’accertamento del reato, stante la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. grazie  alla quale è stato sottratto l’articolo medesimo a dichiarazione di incostituzionalità;
h)     che, conseguentemente, è del tutto infondato – come specificato dalle ricordate sentenze di legittimità e della Corte costituzionale – l’addebito (reperibile ancora in una irriducibile sentenza del Tribunale di Genova del 15.2.2005, est. Gelonesi, enfatizzata da chi l’ha riassunta in Guida al lavoro n. 26/2005 ) secondo il quale il danno esistenziale costituirebbe una duplicazione risarcitoria (di esclusiva creazione pretoria, sic!) del danno morale, potendo, invece, pacificamente e con dosato equilibrio cumularsi tra  di loro, in ragione delle loro differenze concettuali ed ontologiche, ben messe in risalto da tempo in dottrina ed accolte oramai dalla stessa prevalente giurisprudenza di merito e sovraordinata.
 
Mario Meucci
Roma, 8 settembre 2005
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