Il controllo “occulto” sul lavoratore

 

1.Premessa

 

La recentissima decisione  della Cassazione n. 16196 resa il 10 luglio 2009, ci impone un’aggiornata trattazione del tema da essa affrontato e dei principi di diritto in essa sanciti (o meglio da essa ribaditi), nonostante motivati dissensi in dottrina, fra i quali quelli dello scrivente. La sentenza in questione ha dichiarato insussistenti gli estremi del licenziamento per giusta causa di una informatrice scientifica del farmaco, sorvegliata tramite pedinamento esterno da parte del proprio superiore gerarchico, solo in ragione del riscontro che gli elementi raccolti a di lei carico non dimostravano inequivocabilmente l’asserita non veridicità delle visite effettuate presso gli studi medici e quindi risultavano inidonei a configurare come  fraudolenta la richiesta di rimborsi per percorsi eccedenti quelli (minori) asseriti dall’azienda.

Ma alla salvezza – nel caso di specie – della lavoratrice dal licenziamento non si accompagna alcuna soddisfazione per il giuslavorista socialmente orientato, atteso il principio riaffermato dalla presente decisione della legittimità del controllo “occulto” sull’attività lavorativa svolta all’esterno, sia da parte del superiore diretto sia da soggetti esterni quali gli addetti di un’agenzia investigativa.

Ha affermato la sentenza che: «le norme poste dagli artt. 2 (Guardie giurate) e 3 (Personale di vigilanza) della legge 20 maggio 1970 n. 300, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell'ambito dell'azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa) ma non escludono il potere dell'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno - costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa - l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti né il divieto di cui all'art. 4 (Impianti audiovisivi) della stessa legge n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. sez. lav., 12.6.2002 n. 8388; Cass. sez. lav., 5.5.2000 n. 5629; Cass. sez. lav., 17.10.1998 n. 10313). Pertanto senz'altro condivisibile si appalesa l'assunto di parte datoriale circa la liceità del ricorso al predetto controllo dell'attività lavorativa della dipendente al fine di verificare il corretto adempimento delle prestazioni lavorative cui la stessa era tenuta e la corretta indicazione del chilometraggio percorso ai fini della successiva richiesta di rimborso».

 

2.La legittimazione al controllo sull’attività illecita dei dipendenti da parte dei superiori e di private agenzie investigative, da parte della prima giurisprudenza

 

Propedeutica ed al tempo stesso essenziale si rivela una breve cronistoria.

Sin dalla decisione n. 3960 del 17.6.1981, la Cassazione ha evidenziato la perfetta compatibilità giuridica tra le disposizioni dell’art. 3, l. n. 300 del 1970 – impositive di oneri di pubblicità datoriale circa i nominativi e le mansioni del personale specificamente inserito nell’organizzazione aziendale per lo svolgimento dei suddetti compiti di sorveglianza – e quelle dell’art. 2104 c.c., afferenti al personale gerarchicamente preposto le cui incombenze intrinsecamente comprendono il potere di vigilanza o di sorveglianza, senza che, in conseguenza di questa connaturale attribuzione, tale personale debba essere assoggettato alle condizioni di pubblicità prescritte dall’art. 3 per una specifica categoria di prestatori di lavoro (consistente nella comunicazione o pubblicizzazione dei loro nominativi). Nel respingere, in quella decisione, la tesi difensiva del lavoratore – che avrebbe preteso che i capi turno operatori al Centro elettronico, a lui gerarchicamente sovraordinati, fossero sottoposti alla normativa di cui all’art. 3 (con la conseguenza che l’inosservanza delle prescrizioni pubblicitarie avrebbe comportato l’inutilizzabilità giuridica dei loro rilievi e delle loro segnalazioni a fini disciplinari) – la Corte recepì quell’orientamento dottrinale che, sin dall’emanazione dello Statuto, lucidamente attribuì all’art. 3 un ambito di applicazione circoscritto allo specifico personale investito dalle direzioni aziendali, per assorbente attribuzione mansionistica, della funzione di sorveglianza sull’attività lavorativa. D’altra parte, come si osservò in dottrina, non vi sarebbe stata ragione alcuna di sottoporre a forme di «pubblicità» le mansioni ed i nominativi dei preposti diretti del lavoratore, allo stesso ben nota risultando la persona fisica del «capo» ed il suo ruolo di supremazia gerarchica, implicante una serie di poteri, dalla direzione ed orientamento tecnico del lavoro, al controllo delle risultanze dello stesso nonché del comportamento collaborativo (impegno, assiduità, ecc.) del prestatore di lavoro nell’assolvimento del suo dovere di prestazione.

I sopra delineati concetti sono stati poi riassuntivamente ribaditi da Cass., 25.1.1992, n. 829  che, così, asserì: «La disposizione di cui all’art. 3 della l. n. 300 del 1970 – secondo cui i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati – non ha fatto venir meno il potere dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo e che è conosciuta dai dipendenti, l’adempimento delle prestazioni cui costoro sono tenuti e, quindi, di accertare eventuali mancanze specifiche dei dipendenti medesimi, già commesse o in corso di esecuzione: e ciò indipendentemente dalle modalità con le quali sia stato compiuto il controllo, il quale, attesa la suddetta posizione particolare di colui che lo effettua, può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti – soprattutto quando siffatta modalità trovi giustificazione nella pregressa condotta non palesemente adempiente dei dipendenti – né il divieto di cui all’art. 4 della stessa l. n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza e non applicabile analogicamente, siccome penalmente sanzionato».

La recentissima decisione n. 16196 del 10 luglio 2009 – preceduta da Cass. 12.6.2002 n. 8388 – ha ribadito pedissequamente il principio sopra esposto.

Veniamo ora alla più dibattuta questione della legittimità o meno dei cd. “controlli difensivi” affidata ad esterni, quindi a soggetti diversi dai superiori gerarchici.

La questione è sorta a suo tempo a proposito dell’incarico di vigilanza sull’operato di cassieri di grandi magazzini, attribuito dalle Direzioni aziendali a dipendenti di private agenzie specializzate.

Poiché da parte dei gestori di tali strutture commerciali era stata notata la fuoriuscita dai magazzini di merce alla quale non faceva riscontro un pagamento, non per furto del cliente ma per mancata registrazione di cassa ad opera dei cassieri (cd. «non battuta di cassa») del prezzo della merce acquistata e regolarmente pagata dal cliente (al quale, presumibilmente, i cassieri omettevano di consegnare lo scontrino fidando nella di lui fretta o disattenzione o gliene consegnavano uno sottoprezzato per poi appropriarsi dell’importo del pagamento non registrato), taluni grandi magazzini e supermercati incaricarono agenzie specializzate di verificare, a tutela del patrimonio aziendale, la correttezza dell’operato dei cassieri, alcuni dei quali, colti sul fatto, vennero licenziati.

Ne discese un contenzioso con alterne risultanze giudiziarie.

Da parte dei primi giudici investiti della questione, vennero considerati nulli i licenziamenti (e disposta la reintegrazione nel rapporto) poiché adottati sulla base di controlli e rilievi, sull’attività degli addetti di cassa, contrastanti con l’art. 3 dello Statuto, cioè a dire perché effettuati da soggetti esterni all’organizzazione aziendale e, tra l’altro, all’insaputa del personale per disapplicazione delle prescritte forme di pubblicità richieste dall’art. 3 cit.

Successivamente si sono registrate – anche in sede di merito – decisioni che hanno, invece, legittimato tali controlli, in quanto finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale (prevenzione del furto), spostandosi così dall’art. 3 all’art. 2 Stat. lav. Per quanto riguarda l’affidamento dell’incarico ad agenzie private, tale giurisprudenza ha sostenuto che le stesse sono sottoposte ad una disciplina equipollente a quella delle guardie giurate. Poiché, in ogni caso e nonostante la finalizzazione a salvaguardia dei beni aziendali, il controllo verte necessariamente sull’operato dei lavoratori, per rispetto dello spirito dello Statuto, la legittimità dei controlli venne – a suo tempo – subordinata dalla Cassazione alla condizione che gli stessi non avvenissero in forme capziose, subdole e sleali, condizione che la predetta giurisprudenza ha ritenuto assolta nell’ipotesi in cui i controlli in questione riproducevano fedelmente il modello di sorveglianza sul cassiere posto in essere dal cliente attento; cioè da colui che si limitava a verificare se sullo scontrino era stata effettuata la registrazione dell’acquisto (con il relativo prezzo), astenendosi dal controllare, com’è invece compito dei «sorveglianti» aziendali, se il cassiere si tratteneva (o meno) personalmente la somma, comportamento quest’ultimo concretizzante (oltre alla vulnerazione fiduciaria) il reato di furto, notoriamente giustificativo del provvedimento di licenziamento. Sussistendo queste condizioni la Suprema Corte, nelle decisioni n. 829/1992, n. 7776/1996 e n. 10761/1997, e, recentemente, nella n. 18821 del 9.7.2008, ha asserito: «La l. 20 maggio n. 300 e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa».

Va ancora detto, per necessaria completezza d’informazione, che accanto a questo più convincente orientamento se n’è andato consolidando un altro – svincolante il personale di private agenzie investigative non solo (e condivisibilmente) da ogni forma di pubblicità ma, peraltro (e stavolta non condivisibilmente), anche dal vincolo comportamentale dell’atteggiarsi non difformemente dal normale quanto attento cliente – orientamento che ha trovato accoglimento da parte di una consistente giurisprudenza della stessa Cassazione.

Questa seconda (allo stato, prevalente) posizione della Cassazione si sintetizza nelle seguenti due massime-tipo, che vanno alternandosi complementariamente. Nella prima (rinvenibile in Cass., 9.6.1989, n. 2813) si dispone che: «L’art. 3 della l. 20 maggio 1970, n. 300, vieta ogni forma di controllo occulto inteso ad accertare la trasgressione, nello svolgimento della prestazione lavorativa, delle prescrizioni dettate dall’art. 2104 c.c. e, pertanto, non trova applicazione nelle ipotesi di eventuale realizzazione, da parte dei lavoratori, di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa, pur se commessi nel corso di essa. Né, per l’accertamento di tali comportamenti, il datore di lavoro è tenuto ad utilizzare esclusivamente l’opera delle guardie particolari giurate (di cui all’art. 133 e ss. del T.u. approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), in quanto la circostanza che dell’impiego di queste sia fatta menzione nell’art. 2 della citata l. n. 300 del 1970 per fini di tutela del patrimonio aziendale, non implica l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi (nella specie dipendenti di un’agenzia investigativa), in difetto di espliciti divieti al riguardo ed in considerazione della libertà di difesa privata». La seconda massima-tipo (rinvenibile in Cass., 18.9.1995, n. 9836) così recita: «La norma dell’art. 3 della l. n. 300 del 1970, che impone al datore di lavoro di comunicare i nominativi e le mansioni del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa, vieta ogni forma di controllo occulto intesa ad accertare la trasgressione, nello svolgimento dell’attività lavorativa, delle prescrizioni dettate dall’art. 2104 c.c. e non trova quindi applicazione nelle ipotesi di eventuale realizzazione da parte dei lavoratori di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa pur se commessi nel corso della stessa, i quali vanno individuati, peraltro, in funzione della loro connessione tipica e non solo ipotetica con la suddetta attività, con la conseguenza che deve considerarsi legittimo il controllo occulto su quelle prestazioni il cui inadempimento costituisca anche violazione di obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti».

Ancora per completezza va fatto cenno al fatto che una abbastanza remota, ed allo stato isolata, sentenza della Cassazione (n. 1455 del 1997), è giunta ad asserire – sul sopra riferito presupposto che l’illiceità della condotta del dipendente giustifica anche il controllo occulto, senza alcuna pubblicità in ordine ai nominativi dei controllori ex art. 3, l. n. 300/1970, pubblicità necessaria, invece, qualora il controllo afferisca alla normale e corretta attività lavorativa – che tale controllo occulto può essere affidato (com’era, di fatto, in fattispecie) anche a colleghi del vigilato (a sua insaputa). Naturalmente in quel giudizio la difesa del lavoratore non ha potuto fare a meno di sottolineare – peraltro inutilmente per la Suprema Corte – che, atteso che i colleghi investiti occultamente dell’incarico non rivestivano né la veste gerarchica del superiore né quella notoria del «sorvegliante», l’azienda aveva così istituzionalizzato la figura dell’«agente segreto» controllore dell’attività dei dipendenti in violazione dell’art. 3 Stat. lav.

Va detto, a conclusione, che sia l’orientamento della Cassazione nella versione legittimante il controllo da parte di privati investigatori – senza alcuna remora, come la limitazione o condizione dell’atteggiarsi alla maniera del «cliente normale ed attento» – sia l’orientamento (allo stato isolato e sconcertante) in particolare di Cass. n. 1455/1997 che legittima il controllo occulto, anche ad opera di colleghi «spia», ignorati dal lavoratore, quando si tratti di comportamenti illeciti extracontrattuali, si rivelano abbastanza fragili dal lato giuridico.

Se l’ultima decisione sopracitata (Cass. n. 1455/1997) è pacificamente liberale ed estensiva in ordine ai «privati poteri datoriali», anche il parallelo orientamento – che non ripropone l’esigenza del comportamento dei privati agenti investigativi assimilabile a quello del cliente attento – è sostanzialmente inappagante in quanto ragiona sul presupposto formalistico che i controlli dei privati investigatori esterni, in quanto riguardano il dipendente «che ruba ed in quanto tale non lavora», non concretizzerebbero atti di vigilanza sull’attività lavorativa (sottoposti ai vincoli Statutari) ma azioni libere e svincolate dagli artt. 2 e 3, l. n. 300 del 1970 per la legittima difesa da aggressioni patrimoniali. In effetti questa opinione si basa su «distinguo» troppo ricercati (più corretto sarebbe dire su di un «gioco di parole», quantunque sottile) che non reggono all’obiezione di sostanza secondo cui per individuare il furto è necessario controllare il lavoratore sia nell’espletamento corretto sia nell’espletamento negligente o trasgressivo della prestazione, non essendo possibile separare le due fasi, se non in astratto, ai fini dell’inclusione dell’una sotto l’art. 3 e, rispettivamente, dell’esclusione dell’altra dalle garanzie statutarie afferenti la vigilanza sull’attività lavorativa.

Entrambe quest’ultime due posizioni giurisprudenziali della Cassazione sono comunque sintomatiche dello sforzo degli operatori giudiziari di colmare le insufficienze della normativa statutaria nell’attagliarsi a situazioni della realtà aziendale quotidiana che, se «ragionata» esclusivamente secondo lo schema dei principi generali posti a tutela della dignità dei lavoratori, conferiscono insufficienti garanzie per la parte datoriale nei confronti dello «spazio» aperto all’adozione di comportamenti delittuosi da parte di quella marginale fascia di prestatori d’opera malintenzionati cui non era affatto negli intenti del legislatore statutario accordare una immeritata protezione o meglio licenza d’illecito.

 

3. La legittimazione al controllo all’insaputa da parte di investigatori privati, conferita dalla successiva ed attuale giurisprudenza nei confronti dei dipendenti operanti all’esterno. Critica.

 

In questo contesto appare doveroso informare come talune aziende – eminentemente del settore del credito e del settore farmaceutico – stiano reagendo a quella che esse considerano come «mancanza di flessibilità» in uscita (cioè a dire come vincoli legislativi al licenziamento discrezionale) tentando di reperire le prove per procedere a licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo, anche attraverso strumenti – a nostro avviso contrastanti con lo spirito dello Statuto dei lavoratori – quali il ricorso a forme di controllo «poliziesco» e all’insaputa nei confronti di dipendenti con mansioni esterne (promotori d’affari, incaricati di vendite di prodotti aziendali e simili), incontrando peraltro il consenso di taluna magistratura di merito. E, piuttosto recentemente, quest’orientamento ha trovato la condivisione della stessa Corte di Cassazione, nelle decisioni nn. 5629 del 5.5.2000, 8388 del 12.6.2002 e 16196 del 10.7.2009. La prima e più incisiva di queste tre, ha così stabilito: «Dall’esame dell’art. 2, comma 2, l. n. 300/1970, secondo cui al datore di lavoro è vietato di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e a quest’ultime di accedere ai locali ove la stessa si svolge, si desume che il divieto di controllo (da parte di personale avente compiti di mera vigilanza) sul modo della prestazione d’opera attiene a quella resa all’interno dell’azienda. Non essendo disposto alcunché per la verifica dell’attività svolta, al di fuori dei locali aziendali, da parte di lavoratori non inseriti nel normale ciclo produttivo – la cui prestazione non può essere verificata con l’esercizio dei poteri di direzione, controllo tecnico e sorveglianza – ne discende che il controllo, ad opera di investigatori privati, sul comportamento tenuto dai lavoratori che svolgano la loro attività fuori dei locali aziendali non contrasta con l’art. 2 Statuto dei lavoratori ed è legittimo tanto più quando non è finalizzato a verificare la diligenza nell’adempimento della prestazione ma comportamenti che possono integrare gli estremi di reato (nel caso, di truffa, lucrando il ricorrente la retribuzione oziando in luogo di lavorare)».

Per venire al concreto va detto che talune aziende di credito e diverse aziende del settore farmaceutico – dubbiose sui risultati raggiunti dai propri addetti commerciali (o promotori d’affari, nel caso delle banche) e dei propri informatori scientifici del farmaco (nel caso delle aziende chimico/farmaceutiche) operanti all’esterno, cioè al di fuori della supervisione gerarchica interna all’azienda – hanno incaricato agenzie di investigazione di sorvegliare «occultamente» il modo in cui i propri dipendenti esterni passano le loro giornate e di verificare se effettuano le loro visite o i dichiarati incontri promozionali d’affari. È risaputo, infatti, che, di norma, questi dipendenti con mansioni esterne sono tenuti a redigere un rapportino giornaliero riepilogativo degli incarichi assolti, delle visite effettuate e dei compiti svolti, al fine di dar conto ai gestori aziendali del loro operato.

È accaduto in qualche caso che gli incaricati dell’agenzia di investigazione nel registrare minuziosamente il tempo speso dai dipendenti delle aziende committenti con mansioni esterne (sia che fossero promotori o addetti commerciali di banca sia che fossero informatori scientifici del farmaco) – documentando le pause di inattività passate in macchina, il tempo speso nel visionare negozi, passeggiare nelle attese tra un incontro ed un altro nei parchi cittadini ovvero facendo acquisti nei supermercati – mettessero in evidenza discrepanze tra i loro resoconti all’azienda e il contenuto asettico dei rapportini giornalieri dei dipendenti esterni, che di tali inattività, fruite per distensione o svago, non facevano ovviamente cenno alcuno. In un caso di un dipendente di una Banca laziale con mansioni di addetto commerciale, gli investigatori esterni hanno avuto l’accortezza (o meglio la malizia) di chiamare, tramite telefono cellulare, colleghi o il superiore gerarchico dell’addetto commerciale perché prendessero direttamente visione (ma pur sempre all’insaputa) delle “mancanze” del dipendente controllato “occultamente”, al fine di dotarsi di testimoni aziendali utili per la futura contestazione disciplinare. Le contestazioni disciplinari che ne sono seguite hanno portato, nel migliore dei casi a provvedimenti disciplinari di sospensione dal lavoro, e nel caso di un promotore bancario – di cui abbiamo seguito le vicissitudini giudiziarie – al licenziamento per asserita «vulnerazione fiduciaria», in ragione eminentemente del carattere non veritiero dei rapportini redatti e dallo stesso sottoscritti, in congiunzione con l’inconsistenza dei risultati commerciali raggiunti, a causa del riscontrato lassismo nella gestione del tempo di lavoro.

Il comportamento del dipendente rivelato all’azienda dal ricorso all’opera certificativa degli investigatori privati è risultato certamente poco commendevole, ma viene da domandarsi se  basti un sospetto di commissione di illeciti (nel caso quello di lavorare per conto terzi o in proprio, attesa la carenza di risultati a favore dell’azienda datrice di lavoro) per «mettere alle calcagna» dei lavoratori con mansioni esterne, a loro insaputa, investigatori privati che ne spiano i movimenti e redigono relazioni analitiche per la banca o l’azienda cliente.

A tale domanda retorica la Cassazione ha dato risposta positiva.

La risposta trascura, invero, di considerare che l’art. 3 della l. n. 300/1970 (rubricato Personale di vigilanza) – pur riferendosi a sorveglianti in organico all’azienda, operanti di norma nei reparti di produzione – ha inteso vietare i controlli subdoli ed all’insaputa dei dipendenti, stabilendo che «i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati». Tale norma non viene dalla sopracitata Cass. n. 5629/2000 neppure menzionata, quando invece è quella contro cui presuntivamente confligge il ricorso “occulto” agli investigatori privati. Essa argomenta invece sull’art. 2, l. n. 300/1970, afferente alle guardie particolari giurate utilizzate notoriamente ante Statuto dei lavoratori, per richiami e contestazioni disciplinari in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione resa dai lavoratori, i cui compiti il legislatore – giustappunto con l’art. 2 citato – circoscrisse agli esclusivi rilievi resi necessari dalla tutela del patrimonio aziendale, vietandogli in via di normalità l’accesso ai locali ove si svolge l’attività lavorativa.

Utilizzando quest’ultimo disposto, la sentenza n. 5629/2000 della Cassazione afferma – singolarmente ricorrendo a fini di interpretazione dell’art. 3 alla diversa norma dell’art. 2 – che il divieto di controllo da parte di personale di mera vigilanza (rectius, guardie giurate) attiene all’attività che si svolge all’interno dell’azienda, considerato che niente il legislatore dice per quanto riguarda il personale che opera all’esterno, al di fuori del controllo gerarchico.

Ma così ragionando, si potrebbe sostenere che tutto lo Statuto dei lavoratori – titolato «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro» – dovrebbe veder applicati i principi generali ed assoluti affermati a favore dei lavoratori e delle loro Oo.Ss. solo se esercitati all’«interno dei luoghi di lavoro», quando invece è pacifico che i principi asseriti prescindono, per ragioni di civiltà giuridica, dalla localizzazione geografica o topografica entro cui i lavoratori e le loro Oo.Ss. svolgono la loro attività.

Va poi osservato che è sostanzialmente vero proprio l’opposto di quanto sostenuto dalla decisione della Cassazione: e cioè che, giustappunto perché l’art. 3 (non l’art. 2, che poco rileva) non effettua alcun «distinguo» in ordine alla tipologia di lavoratori – interni o esterni che siano –, tale norma contiene l’affermazione di un principio di carattere generale che vieta i controlli odiosi, spionistici, a loro insaputa, tant’è che il legislatore si è premurato di stabilire a carico del datore di lavoro l’obbligo di pubblicizzare ai lavoratori nominativi e mansioni del personale di vigilanza (capi diretti esclusi in ragione dell’intrinseco potere al riguardo e notoria conoscibilità da parte dei dipendenti). Né il fatto che i «controlli occulti» vengano dispiegati nei confronti di lavoratori con mansioni esterne – fuori dei locali aziendali – fa venir meno quel carattere spionistico, odioso e subdolo che il legislatore statutario ha voluto bandire in linea generale, in omaggio a principi di rispetto individuale e di civiltà giuridica.

Dobbiamo invece convenire sul fatto che l’art. 3 sancisce il divieto dei controlli «occulti», mediante la cognizione della loro dispiegabilità e la pubblicizzazione dei nominativi di quel personale dipendente dall’azienda, investito di specifiche funzioni di vigilanza. Ma è pacifico che il legislatore statutario ha preso in considerazione l’ipotesi più normale, in ragione e sul modello della tradizionale realtà d’impresa.

Il principio dell’interdizione dei «controlli polizieschi» e «all’insaputa» sulla prestazione dei lavoratori deve intendersi – a nostro avviso - sancito in assoluto, talché sarebbe assurdo legittimare la stessa «tipologia» di controllo vietato solo per il fatto che chi lo attua non sono i vigilanti interni (dipendenti aziendali) ma personale esterno all’impresa e al di fuori dei locali aziendali, facente parte di private agenzie investigative.

Può forse sostenersi fondatamente che i controlli occulti da parte di investigatori privati – tramite le odiose modalità dei «pedinamenti», «appostamenti», «riprese fotografiche o per telecamera» all’insaputa dei lavoratori, e tecniche similari – siano dotati di una minore carica di «offensività» verso la dignità dei lavoratori? La carica di «offensività» è immanente al controllo all’insaputa, a prescindere dal fatto che i lavoratori siano operanti o non operanti nei locali aziendali e, pertanto, temporaneamente al di fuori del controllo gerarchico (come peraltro lo sono i lavoratori interni svolgenti le loro mansioni in locali separati da quelli dei capi diretti e al di fuori della loro visuale di osservazione).

Peraltro i lavoratori con mansioni esterne solo apparentemente e superficialmente possono essere considerati in posizione privilegiata e di sottrazione dal controllo gerarchico, poiché le moderne tecniche di gestione d’impresa hanno trovato il modo, anche per essi, di controllarne l’operato e la produttività, imponendo loro l’obbligo di redazione di rapportini giornalieri e relazioni sottoscritte (ben più responsabilizzanti e pregiudizievoli di quanto avviene per i dipendenti operanti all’interno dell’azienda) per la verifica e il riscontro da parte dei loro superiori gerarchici.

Invece la Cassazione (rectius, l’estensore della precitata sentenza) non si è fatta carico della riflessione su queste considerazioni – anzi aderendo acriticamente ad una superficialissima tesi già delineata in sparute sentenze di merito – ha utilizzato questa artificiosa bipartizione interna ai lavoratori (quelli operanti intra moenia e quelli operanti extra moenia, fuori dagli uffici e dai reparti di produzione) per legittimare nei confronti di quest’ultimi i controlli odiosi, a loro insaputa, ed irrispettosi della loro dignità di persone.

La Corte, a supporto, richiama tre delle sentenze più oscurantiste, addirittura quella che isolatamente aveva accreditato e legittimato il ricorso «occulto» all’opera spionistica del collega del lavoratore, da esso sorvegliato all’insaputa, costituita da Cass., 18.2. 1997, n. 1455. Cita inoltre Cass., 9.6.1989, n. 2813 – che aveva legittimato il ricorso ad investigatori privati «in difetto di espliciti divieti al riguardo ed in considerazione della libertà di difesa privata» – quando il divieto risiede, pacificamente e come già accennato, nell’art. 3 dello Statuto dei lavoratori in ragione del suo carattere di norma di principio. Quanto poi al richiamo alla «libertà di difesa privata», l’argomento è talmente inconferente e generalista che sarebbe stato più proprio invocarlo per legittimare l’uso del porto d’armi, il ricorso a cani pitbull o ad analoghi strumenti di difesa contro i malintenzionati piuttosto che nella fattispecie della «sorveglianza occulta sui lavoratori».

Ora è noto che -  nonostante le fondate obiezioni incentrate sulla considerazione per cui quando si effettua un controllo occulto sul lavoratore esso investe sia la fase della «corretta» esecuzione della prestazione sia quella «deviata», ipoteticamente sconfinante nel reato (perché distinguere l’una dall’altra è una mera operazione astratta, con la conseguenza che, secondo noi, il controllo occulto è illegittimo di per sé, per violazione dell’art. 3, l. n. 300/1970) – la Cassazione ha tuttavia legittimato, per ragioni di prevenzione dei delitti, il ricorso al controllo occulto di investigatori privati quando sia finalizzato, non già alla verifica dell’osservanza da parte del lavoratore degli obblighi contrattuali e di diligenza nell’adempimento ex art. 2104 c.c., ma al riscontro di comportamenti extracontrattuali penalmente rilevanti (ad es., furti e sottrazioni di danaro alle casse dei supermercati), sempreché le modalità del loro controllo non risultino “offensive” della dignità del lavoratore ma si limitino ad essere identiche a quelle che il «normale cliente» dell’esercizio pubblico poteva operare acquistando la merce e controllando lo scontrino.

Questa consolidata giurisprudenza della Suprema Corte [1] non è stata neppure menzionata e pertanto non è stata tenuta in conto alcuno dalla decisione n. 5629/2000 che qui  si critica, estendendo implicitamente la censura a quelle successive decisioni che hanno espresso adesione agli stessi principi.

L’orientamento da privilegiare – espresso dalla Cassazione nelle sentenze citate in nota 1 –era invece il seguente: «La l. 20 maggio 1970 n. 300 e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come “normali clienti” di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa».

In buona sostanza il soprariferito orientamento più convincente della Cassazione, rendendosi conto della forzatura operata con la legittimazione al controllo occulto a fini di riscontro di reati, aveva tuttavia introdotto - per rispetto dello spirito dello Statuto dei lavoratori - un temperamento alla deroga tramite la subordinazione della legittimità dei controlli su comportamenti extracontrattuali penalmente rilevanti (cioè a dire sfocianti nella fattispecie delittuosa) alla condizione che gli stessi non avvenissero in forme capziose, subdole e sleali; condizione che la predetta giurisprudenza ha ritenuto sussistente nell’ipotesi in cui i controlli in questione riproducevano fedelmente il modello di sorveglianza sul cassiere posto in essere dal cliente attento, ciò da colui che si limitava a verificare se sullo scontrino era stata effettuata la registrazione dell’acquisto (con il relativo prezzo), astenendosi dal controllare – com’è invece compito dei «sorveglianti» aziendali, i cui nominativi debbono essere comunicati ai lavoratori ex art. 3 Stat. lav. – se il cassiere si tratteneva (o meno) personalmente la somma, comportamento quest’ultimo concretizzante (oltre alla vulnerazione fiduciaria) il reato di furto ex art. 624 c.p., giustificativo del provvedimento di licenziamento.

Ora è chiaro che questo temperamento o condizione di «rispetto» della dignità dei lavoratori non è riscontrabile (né forse praticabile) nel controllo occulto nella pubblica via o sugli spostamenti esterni ad opera di «appostamenti» di investigatori privati, i quali – all’opposto della condizione statuita dalla Cassazione per l’ipotesi del cassiere sorvegliato – non si comportano certamente come il normale cittadino o superiore del lavoratore. Anzi il loro operare è intrinsecamente caratterizzato dai «pedinamenti» sapientemente mimetizzati, dagli «appostamenti» spionistici all’insaputa e così via. Nel comportamento degli investigatori privati sui lavoratori operanti all’esterno (informatori scientifici del farmaco, venditori, procacciatori d’affari e simili) è indubitabilmente rinvenibile quel carattere «poliziesco» che il legislatore, con l’art. 3 – da intendersi, per esigenze di pari dignità della persona, indistintamente indirizzato a tutti i lavoratori (senza la riduttiva distinzione posteriore tra lavoratori intra moenia ed extra moenia) – aveva inteso inibire e precludere all’iniziativa datoriale.

Conclusivamente auspichiamo sulla questione una nuova riflessione della nostra magistratura di vertice perché vorremmo che si recedesse dall’accreditare un atteggiamento di lassismo nell’osservanza verso le norme codificate a tutela del lavoro, a seguito di una sponsorizzazione ideologica della cultura del «liberismo enfatizzato» connaturale alla new economy, interiorizzata in modo tale  che faccia ritenere che  non sia più attuale (anzi tipico della old economy in via di rapido superamento) o venga configurato come imposizione di «eccessivo» favor, il vincolare i datori di lavoro a riservare il necessario rispetto verso le cd. risorse umane, correttamente e legislativamente preteso quasi quarant’anni fa a tutela della posizione e della dignità dei lavoratori.


Mario Meucci - Giuslavorista

Roma, 12 agosto 2009


[1] Cfr. ex plurimis, Cass., 9.7.2008 n. 18821, in  Not. giurisp. lav. 2009,193; Cass. 3.11.1997, n. 10761, ivi 1997, 681, n. 35; Cass., 23.8.1996, n. 7776, in Mass. giur. lav. 1996, 80, n. 225; Cass., 25.1.1992, n. 829, in Not. giurisp. lav. 1992, 523.

 

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