DIRITTO DI CRITICA SINDACALE: CONDIZIONI E LIMITI

 

Sommario:

1. Resoconto di Cass. n. 9743/2002 e dei precedenti della Cassazione in materia di diritto di critica e di satira sindacale

2.Il dipendente-rappresentante sindacale in posizione paritetica con il datore di lavoro

3.Precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità e di merito

4.Il reato di diffamazione

5. Conclusioni in ordine alle condizioni di legittimità della critica sindacale.

1. Resoconto di Cass. n. 9743/2002 e dei precedenti della Cassazione in materia di diritto di critica e di satira
Recenti e meno recenti decisioni della Cassazione e di merito (approdate in Cassazione) forniscono l’occasione per  fare il punto sull’esercizio del diritto di critica e di satira nelle relazioni industriali, in ambito aziendale.
L’ultima decisione della S. corte – in ordine di tempo – è costituita da Cass. 5 luglio 2002, n. 9743 (1) la cui vicenda (che di seguito riassumeremo) si condensa nella seguente massima: “In tema di licenziamento per giusta causa di lavoratore sindacalista, il giudice del merito, nel valutare se le espressioni usate dal lavoratore in un contesto di conflittualità aziendale oltrepassino i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali - e quindi siano lesive del rapporto di fiducia con il datore di lavoro - deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto; in tal caso infatti le suddette espressioni non si prestano, in quanto manifestazione di una lata responsabilità politico-sindacale, ad esser valutate con il parametro dell’inadempimento nei confronti del datore di lavoro dovuto a lesione dell’altrui sfera giuridica nell’esercizio di un diritto di rilevanza costituzionale (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un sindacalista che, nel comunicato di convocazione di un’assemblea, aveva accusato i rappresentanti del datore di lavoro ed altri colleghi sindacalisti di essersi appropriati di emolumenti spettanti ai lavoratori).”
La situazione di fatto è così riassumibile.  Il Signor E. Quaglieri, dipendente della società Sidim S.r.l. con mansioni di facchino, riveste all'interno della stessa anche il ruolo di rappresentate sindacale dei Cobas. Questi, in seguito all'affissione in sala mensa di un comunicato di convocazione di un'assemblea sindacale, da lui redatto, nel quale veniva letteralmente scrito : "lavoratori quest'assemblea sarà contestata da V.,F.,T.,M., perché si dividono i soldi di 13esima, 14esima, ferie, pir, che fregano agli extra", viene licenziato in tronco. Va chiarito che i designati con le sole iniziali individuano i tre rappresentanti dei sindacati delle storiche Confederazioni Cgil-Cisl-Uil  ed il rappresentante del datore di lavoro, supposti in ipotetico “rapporto collusivo” per l’eccessiva accondiscendenza (o non resistenza) dei rappresentanti delle Confederazioni storiche al conferimento da parte dell’azienda di lavoro in appalto (c.d. esternalizzazione o outsourcing), effettuato assegnando a cooperativa esterna lavori che il sindacalista dei Cobas riteneva  svolgibili dai dipendenti in organico (sottoposti, per effetto dell’appalto, a procedura di riduzione di personale), talchè il ricorso all’esterno era visto quale mera misura di risparmio (e di depotenziamento d’organico) per realizzare una concomitante contrazione del costo del lavoro a danno degli esterni (cd. “extra”, una sorta di “senza diritti”, non destinatari delle competenze differite spettanti ai lavoratori dell’azienda, da cui l’addebito figurato estrinsecatesi nella locuzione “….si dividono i soldi…che fregano agli extra”).
Il licenziamento, impugnato innanzi al Pretore di Roma, viene dichiarato illegittimo e conseguentemente è disposta la reintegrazione del ricorrente. Successivamente il giudice d'appello riforma la sentenza di primo grado. Questi, infatti, ritiene che nel caso di specie le affermazioni del lavoratore sindacalista che attribuiscono ai rappresentanti del datore di lavoro e ad altri colleghi sindacalisti un fatto particolarmente infamante (l'appropriazione di emolumenti spettanti ad altri lavoratori), possano costituire una giusta causa di recesso, non rientrando un tale comportamento nel concetto di attività sindacale, né nel contesto di quel diritto di critica esercitabile senza (legittimo) pregiudizio del diritto altrui di pari rilevanza costituzionale. È anzi lo stesso giudice del gravame a definire il licenziamento per giusta causa "l'unica misura idonea e congrua" per tutelare l'interesse del datore di lavoro, avendo evidentemente accertato la lesione del vincolo fiduciario. Da rilevare come, nelle more del ricorso per Cassazione, anche il giudice penale si sia espresso sulla condotta del Signor E.Q., condannandolo per diffamazione. La relativa sentenza però, non è stata ammessa agli atti del ricorso da parte della S.C. ai sensi dell’art.372 c.p.c.
La Cassazione non si mostra concorde con il giudice di gravame, contestandogli di non aver “contestualizzato” il comportamento incriminato e di essere arrivato alla conclusione di un comportamento illegittimo senza aver prima verificato se concorressero le seguenti condizioni legittimanti:
1) accertare la finalizzazione del comportamento assunto in relazione al contesto in cui sono state espresse le affermazioni;
2) verificare che l'attività del sindacalista fosse sostanzialmente tale e non solo formalmente (e quindi fuori dall'ambito di tutela delle attività sindacali);
3) ricordare che ciascun esponente sindacale: "...può prescegliere, nell'ambito della sua responsabilità, la forma di comunicazione ritenuta adatta a far comprendere le posizioni da esso assunte in relazione a determinate vicende aziendali, non diversamente da quando avviene nella sfera lata della politica";
4) verificare se il lavoratore sindacalista, a cui deve essere consentito di adottare un linguaggio non "corretto" se da questi ritenuto idoneo e funzionale a far recepire al proprio auditorio il tipo di valutazioni da lui assunte relativamente alle vicende che interessano i lavoratori, abbia operato tale scelta in base alla presenza di una reale e concreta finalizzazione dell'attività espletata all'esercizio di diritti sindacali per la tutela degli interessi dei lavoratori.
 Alla luce di questi principi – conclude la Corte di Cassazione -  il Tribunale avrebbe dovuto individuare le connotazioni peculiari del comportamento per accertare: se esso era una forma di comunicazione prescelta dal lavoratore sindacalista perché ritenuta la più efficace per far comprendere ai lavoratori che quanto stava avvenendo (depotenziamento degli organici stabili con lo sfruttamento di lavoratori precari) era l’effetto di una collusione imprenditore-sindacato "storico", o piuttosto l’attribuzione di ipotesi criminose fatta, disinvoltamente, al solo fine di proporsi come l’unica organizzazione sindacale capace di tutelare efficacemente i lavoratori aggredendo, a tal fine, l’altrui sfera giuridica. Solo ove l’accertamento avesse dato questo risultato, il comportamento, non più appartenente all’attività sindacate ma diretto solo a conferire potere individuale a chi la stessa esercita, poteva esser valutato per la sua eventuale idoneità a ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario. Il Tribunale - dice la Cassazione -  ha del tutto omesso questo esame imboccando, decisamente ed immediatamente, la via del comportamento sindacale debordante, sino a tal punto da far emergere un lavoratore non in grado di permanere in una qualsiasi organizzazione produttiva: esso ha supposto, come si è detto, monovalente il comportamento del lavoratore sindacalista e non si é per niente posto il problema della polivalenza del comportamento e quello specifico del rapporto di adeguatezza fra contesto conflittuale ed uso del linguaggio nello stesso da parte del sindacalista; valutando il comportamento dello stesso esclusivamente alla stregua del parametro di un inadempimento ai propri obblighi di lavoratore.”
La Cassazione (cassando il Tribunale) rileva a chiare lettere la necessità di "contestualizzare" le condotte criticate, sia relativamente al ruolo rivestito dal soggetto agente (facchino), sia relativamente all’uditorio, sia relativamente allo scopo o occasione per la quale l’assemblea era stata indetta, riassumibile nell’intento di denunciare l’esistenza di una linea imprenditoriale -  suppostamene avallata dalle organizzazioni sindacali storiche - fondata proprio sullo sfruttamento dei lavoratori esterni, che giustappunto in quanto utilizzati in maniera precaria  facevano sì che virtualmente  coloro che avevano deciso ed avallato questa scelta di esternalizzazione “si appropriavano” (termine improprio e figurato oltreché grossolano, ma ritenuto adeguato al livello dello scontro in atto), non attribuendole loro, di somme  che in base ad una stabile assunzione sarebbero state invece loro corrisposte (per 13.ma, 14.ma, permessi sindacali retribuiti).
In tal modo, la Cassazione – secondo taluno troppo benevolmente – nel riconfermare i limiti esterni ed interni al diritto di critica (finalizzazione alla contrapposizione dialettica non gratuita,  veridicità ed obbiettività degli addebiti, continenza - cioè correttezza -  formale e sostanziale) avrebbe derogato, a favore del sindacalista facchino, al limite della “continenza formale”, autorizzando l’uso di espressioni  eccessivamente pesanti e tipizzate in un linguaggio grossolano ed, in un certo senso, infamante. Noi, una volta chiarito il carattere “figurato” e “virtuale” degli addebiti, siamo di diverso avviso, ritenendo che  - nell’esame di un caso concreto – non si possa prescindere né dalle modalità espressive tipiche della condizione sociale e della qualifica di appartenenza del sindacalista-dipendente né dall’uditorio cui erano dirette e sul quale erano finalizzate ad essere percepite più persuasivamente, quantunque non possedessero connotazioni intuitivamente realistiche.
In precedenza all’attuale, altre decisioni della S. corte meritano di essere riferite – sia pure, per intuitive ragioni di spazio e di sintesi – in sola massima.
Tra queste si ricorda l’anteriore Cass. 24 maggio 2001, n. 7091 (2), la cui massima asserì il seguente principio: “L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica delle decisioni aziendali (manifestata, nella specie, attraverso la diffusione di alcuni volantini all’esterno dell’azienda), sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza (cd. continenza) formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, anche quando la critica venga espressa nella forma della satira, che pur implicando intrinsecamente l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti, esagerate, caricaturali e paradossali – per finalità dissacranti - non può essere sganciata da qualsiasi limite di forma espositiva; ne consegue che, ove tali limiti siano superati, con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.”
Il fatto che determinò la decisione fu il seguente. Licinio G. ed altri due dipendenti della S.p.A. Italcementi, in occasione della presentazione pubblica del nuovo logo aziendale, diffusero due volantini, in uno dei quali il nuovo simbolo veniva paragonato ad un “mollusco fossile tipico del mesozoico” e la Italcementi veniva definita un “vortice che continua a risucchiare il personale”, mentre nell’altro si faceva riferimento ad un “manager italiano di mezza età” asseritamente bisognoso di cure psicoanalitiche e alla di lui madre, definita donna di facili costumi.
Essi vennero licenziati con l’addebito di avere gravemente leso l’immagine dell’azienda e di avere pesantemente offeso l’amministratore delegato della Italcementi identificabile nel “manager di mezza età” menzionato in uno dei due volantini, licenziamento annullato dal Pretore e dal Tribunale di Bergamo.
La Cassazione, in riforma, accolse parzialmente il ricorso della Italcementi  in quanto ritenne che il Tribunale non avesse adeguatamente motivato il suo convincimento della inoffensività delle espressioni usate nel volantino concernente l’amministratore delegato. In particolare la Corte ebbe a ritenere che la sentenza di appello fosse contraddittoria laddove da un lato riconosceva che nel riferimento al “manager italiano di mezza età, con una calvizie incipiente”, doveva essere pacificamente riconosciuto l’amministratore delegato della Italcementi, e dall’altro lato rilevava che “l’esame del testo, nell’indignare il lettore per la volgarità largamente usata dai redattori, tuttavia consente, a colui che non risulta prevenuto, di escludere con serenità il riferimento a persone fisiche reali”. La Corte ritenne, altresì,  che il Tribunale, avesse erroneamente omesso di valutare gli effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento dell’amministratore ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi. La causa venne rinviata, quindi,  per un nuovo esame, alla Corte d’Appello di Brescia.
Ancora in precedenza si ricorda – sempre in tema di limiti al diritto di critica sindacale – Cass., sez. lav.  16 maggio 1998, n. 4952 (3), la cui massima espresse i seguenti principi di diritto: “L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale aziendale, del diritto di critica (manifestata nella specie attraverso articoli ed interviste su quotidiani, addebitanti a carico dell’ intera dirigenza Fincantieri di aver favorito l’infiltrazione, nei lavori di appalto e subappalto, di ditte irregolari o legati a personaggi in odore di mafia) nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento.”
Il fatto che originò  la vicenda è così riassumibile.
G. Basile dipendente della S.p.A. Fincantieri, sindacalista,  venne licenziato nel novembre del 1990 per avere accusato la dirigenza della società - in una serie di articoli e interviste pubblicati tra il luglio 1989 e l’ottobre 1990 sui quotidiani L’Ora, La Sicilia, Il Manifesto oltreché sul giornale Dopolavoro Notizie - di avere favorito, con il sempre più massiccio ricorso a lavori di appalto e subappalto, l’infiltrazione di imprese irregolari o legate a personaggi in odore di mafia, traendone un tornaconto in termini di riduzione dei costi aziendali, perché tali imprese assicuravano una bassa conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero e dall’arretramento dei livelli di sicurezza sul posto di lavoro: in questa strategia, secondo G.B., si era inserito anche un uso distorto della cassa integrazione per dare spazio al sistema di appalti e subappalti, ma anche "per colpire e neutralizzare quei dipendenti che si ostinavano a non abbassare la testa dinanzi all’irresponsabile arroganza aziendale". Il Pretore di Palermo  annullò il licenziamento in quanto ritenne che il lavoratore avesse esercitato correttamente il diritto di critica e di polemica sindacale. Il Tribunale di Palermo accolse l’appello dell’azienda e riformò integralmente la sentenza di primo grado, affermando che il diritto di critica, da riconoscersi nella sua interezza ai dipendenti sindacalmente impegnati, non può violare l’obbligo di fedeltà del dipendente verso il datore di lavoro, previsto dall’art. 2105 cod. civ. e deve rispettare i limiti posti dalla esigenza di tutela dell’onore e della reputazione altrui. G.B.  fu condannato anche in sede penale, dal Tribunale di Catania, per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa. La Suprema Corte  rigettò il ricorso del lavoratore, ricordando la sua costante giurisprudenza secondo cui l’esercizio del diritto di critica deve essere improntato a “leale chiarezza”, il che non si verifica allorquando si ricorra "al sottinteso sapiente", agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli di articoli e pubblicazioni, o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonché alle vere e proprie insinuazioni. La Cassazione, nella citata sentenza, ebbe a rilevare che secondo gli accertamenti svolti dal Tribunale di Palermo molti dei fatti denunziati da G.B. erano  risultati non veri: in particolare l’indagine affidata alla locale Prefettura aveva accertato che tutte le ditte che operavano nella provincia di Palermo, e che avevano intrattenuto rapporti di appalto o subappalto con la Fincantieri, non avevano mai subito provvedimenti interdittivi o sanzioni ai sensi della legislazione antimafia. La Corte affermò, quindi, che l’obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia, per il lavoratore, nel dovere di tenere nei confronti del datore di lavoro un comportamento leale e va collegato con le regole di correttezza e buona fede previste dagli articoli 1175 e 1375 cod. civ.: il lavoratore, pertanto deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cod. civ. (trattazione di affari in concorrenza con il datore di lavoro, uso o divulgazione di informazioni riservate) ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. E’ suscettibile di violare il disposto dell’art. 2105 cod. civ. - concluse la Corte - anche l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica, che superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datrice di lavoro, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro.
Nella giurisprudenza della Suprema corte  merita altresì di essere citata  Cass. n. 7784/1997 (4) , ove la Cassazione,  in sede civile – riprendendo i criteri delineati dalla precedente Cass. 1173/1986 (5), e riscontrando la carenza di veridicità dei fatti addebitati - asserì: “pur non potendosi dubitare del fatto che al lavoratore subordinato debba essere garantito un diritto di critica, anche aspra, nei confronti del suo datore di lavoro – soprattutto quando trattasi di un sindacalista che si esprime, come in fattispecie, sulla funzionalità di un pubblico servizio – tuttavia non può ammettersi che il medesimo lavoratore, senza addurre e comprovare fatti oggettivamente certi, leda sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro”. In conseguenza del principio suddetto venne giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa di un sindacalista che in una intervista televisiva ad una emittente locale aveva gettato discredito nei confronti della società datrice di lavoro “giacché, oltre ad esaltare le qualità imprenditoriali dell’impresa che nel comprensorio comunale aveva in precedenza gestito il servizio di sgombero rifiuti, aveva accusato la datrice di lavoro di avere abusivamente smaltito nelle discariche comunali i rifiuti speciali ospedalieri, circostanza che non poteva invece essere imputato alla società, dal momento che dalla documentazione in atti si ricavava che era stato il Sindaco, con apposita delibera, a disporre lo smaltimento in questione sotto il controllo del servizio di igiene e sanità pubblica”.
Ciò premesso e ricordato, poiché come appare dalle stesse decisioni riassunte, il Sindacato e le sue strutture introaziendali (R.s.a., R.s.u. o delegati), nel ruolo di controparte  del datore di lavoro - inteso sia individualmente sia come espressione della rispettiva classe sociale -  sviluppano un'azione di continua contrapposizione sia dialettica sia fattuale nei confronti delle iniziative e dei comportamenti di coloro che hanno la responsabilità della conduzione dell'azienda come delle associazioni imprenditoriali cui l'azienda aderisce,  interessa, in questa sede, fissare l'attenzione su quelle iniziative di contrapposizione che prendono giustappunto corpo nella critica  e nella polemica sia, direttamente, in incontri, dibattiti o trattative con la controparte aziendale sia, indirettamente, tramite comunicati destinati all'affissione, ex art. 25 L. n. 300/'70, o al volantinaggio, ex art. 26 stessa legge.
 
2. Il  dipendente-rappresentate sindacale in posizione paritetica con il  datore di lavoro
Sulla tematica conviene subito rendere edotto il lettore di una  autorevole presa di posizione della Cassazione nella  decisione n. 11436 dell' 8 novembre 1995 (6), riconfermata sul punto da Cass. 24 maggio 2001, n. 7091,   tramite cui la S. corte ha statuito -  a fronte della pretesa aziendale di sanzionare disciplinarmente (per ingiurie ed insubordinazione suppostamente concretizzatasi nelle espressioni "io non ti conosco", "con gli operai parlo come e quando voglio" e "non Le sono bastati gli scioperi dell'altro giorno? ne faremo altri") un rappresentante sindacale che, nell'esercizio del suo mandato, aveva  in tal modo apostrofato i propri superiori in veste di rappresentanti di controparte - che: "il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro. Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti; in relazione alla sua attività di rappresentante sindacale si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro che esclude che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, art. 39, ed in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro non può essere in qualche modo subordinata alla volontà di quest'ultimo. La contestazione dell'autorità e supremazia del datore di lavoro, mentre costituisce insubordinazione nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, è caratteristica della dialettica sindacale. Non può perciò essere sanzionato disciplinarmente tale comportamento del lavoratore sindacalista, semprechè esso inerisca, come nel caso in esame non è controverso, alla attività di patronato sindacale".
La decisione  è pienamente condivisibile in quanto si colloca nel filone di rispetto della libertà espressiva, intrinsecamente vivace e colorita, nel corso della  contrapposizione sindacale, senza che da essa si possa inferire, tuttavia e correttamente, legittimazione per l'ingiuria o la diffamazione della controparte, che sono limiti immanenti a qualsiasi attività di critica sindacale  e sui quali ci intratterremo nel corso del presente articolo.
Nel rapporto di lavoro subordinato l'attività di critica e di censura - oltre a quella di "cronaca" impropria - trova la sua fonte giustificatrice (confermativa dell'art. 21 Cost.) nell'art. 1  dello Statuto dei lavoratori, che si dirige indifferentemente al lavoratore singolo come a colui che riveste cariche sindacali introaziendali. L'attivismo che si estrinseca nella critica ad iniziativa sindacale trova poi un'adeguata collocazione nell'ampio solco della "libertà di svolgere attività sindacale" - tramite discrezionali ed imprecisate modalità confermative dell'autonomia sindacale - di cui si occupa l'art. 14 della L. n. 300/'70. Attivismo  che si affianca - in maniera complementare - o confluisce e talora si confonde, con l'attività di propaganda o proselitismo di cui agli artt. 25 e 26 della stessa legge.
 
3. Precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità e di merito
La Cassazione sia in sede penale che civile, investita del problema della sussistenza (o meno) dei caratteri del reato di diffamazione (ex art. 595 c.p.) per il contenuto e le modalità di esercizio del diritto di critica sindacale ha affermato, a suo tempo (7) e ribadito relativamente più di recente (8) principi e considerazioni del tutto valide e meritevoli di essere portate a conoscenza. Ciò sia per la parte in cui viene riaffermata la legittimità dello strumento dialettico della critica sindacale - anche in forma aggressiva e colorita - sia per la parte in cui vengono fissate le condizioni ed i confini della sua liceità al fine di evitare che essa trasmodi nell'attacco personale, colpendo la sfera privata o intima dell'individuo senza attenuanti di interesse pubblico (o di categoria professionale) nonché al fine di impedire che la critica sindacale costituisca - indirettamente - offesa alla dignità della controparte datoriale o dei responsabili della gestione aziendale.
Nella decisione n. 1173/1986 (citata in nota 5) - con nota parzialmente critica di Mazzotta (9) secondo cui la Cassazione avrebbe, non condivisibilmente, esportato un po’ troppo meccanicisticamente all’interno del rapporto di lavoro i criteri e le valutazioni già formulate dalla giurisprudenza nel diverso rapporto della libertà di stampa-tutela dell’onore, decisione i cui criteri noi riteniamo più correttamente reinterpretati dalla più illuminata e successiva sentenza della Suprema corte n. 11436/1995 - la Cassazione aveva cercato di fornire una specie di “codice interpretativo”, alla luce del quale giudicare la legittimità (o meno) del diritto di critica sindacale, che tale sarebbe risultato una volta accertato:
a) se i comportamenti addebitati si traducano in obiettiva lesione della reputazione dell’impresa e dei suoi dirigenti;
b) se le accuse (in ipotesi) infamanti siano state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti;
c) se le modalità e l’ambito di diffusione delle notizie siano ragionevolmente adeguati alla protezione di tali interessi;
d) se i fatti denunziati siano in parte o in tutto veri e come tali apprezzati dai diffusori.
La successiva giurisprudenza di merito ha fatto applicazione dei principi statuiti dalla precitata sentenza. Nel giudizio di rinvio successivo alla pronuncia n. 1173/1986, il Tribunale di Frosinone dell’8.9.1986 (10) ha escluso che configurasse giusta causa di licenziamento il comportamento di due dipendenti di una clinica privata, consistente nella diffusione di notizie volte obiettivamente a screditare il datore di lavoro, accusato di inefficienza, di sperpero e di porre a repentaglio l’incolumità degli utenti (di una clinica privata) dopo aver accertato: a) la veridicità dei fatti denunziati; b) l’assenza di una volontà diffamatoria; c) il perseguimento di un interesse giuridicamente rilevante (diritto alla salute); d) la congruenza, rispetto alla protezione di tale interesse, delle modalità di diffusione delle notizie (avvenuta, nel caso di specie, attraverso esposti alla procura della Repubblica, all’autorità regionale ed interviste concesse alla stampa ed al telegiornale).
Nella giurisprudenza di merito hanno fatto – consapevolmente o inconsapevolmente, per antecedente stesura - altresì applicazione dei principi (poi) enunciati o riassunti da Cass. n. 1173/1986, Trib. Busto Arsizio 15 novembre 1988 (11) e Pret. Palermo 18.6.1982 (12). Secondo la prima decisione l’apprezzamento della giusta causa di licenziamento in rapporto alle critiche diffuse dal lavoratore in ordine alla gestione aziendale deve essere compiuta alla stregua dei seguenti criteri: a) riconduzione delle accuse nell’ambito del perseguimento di interessi giuridicamente rilevanti; b) verità dei fatti denunciati; c) lesione del rapporto fiduciario tra le parti, tenuto conto dell’incidenza della condotta nella prospettiva della prosecuzione del rapporto stesso. Da parte della seconda decisione si è ritenuto configurare  giusta causa di licenziamento il comportamento di un lavoratore che aveva rilasciato una serie di interviste alla stampa in cui accusava la dirigenza della società, fra le altre cose, di aver consapevolmente favorito, mediante l’uso dei contratti di appalto e subappalto, l’infiltrazione presso i cantieri di società irregolari o legate a personaggi in odor di mafia, traendone un tornaconto in termini di riduzione di costi aziendali, minor conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero. Le stesse affermazioni hanno condotto poi il Tribunale di Catania in sede penale alla condanna del lavoratore per il reato di diffamazione, ritenendo che “per quanto ampia possa riconoscersi l’estensione del diritto di critica anche aspra sulle tematiche politiche, economiche e sindacali inerenti alla gestione dell’azienda, esula certamente dal lecito esercizio di critica e integra gli estremi del delitto di diffamazione, l’affermazione di fatti di notevole gravità e penalmente rilevanti, lesivi dell’altrui reputazione, che potrebbero ammettersi solo quando fosse dimostrata la verità dei fatti attribuiti”(13) .
Va inoltre soggiunto che la giurisprudenza ha sempre conferito al diritto di critica una prevalenza rispetto ai valori personali sui quali esso si indirizza. E ciò secondo un condivisibile intento di salvaguardia della libertà di espressione che tollera - in un paese democratico - limitate e caute compressioni. Equilibratamente la magistratura ha comunque fornito criteri idonei a consentire la definizione - caso per caso ed oculatamente - della soglia oltre la quale  l'esercizio del diritto di critica sconfina ed incorre nel vizio della diffamazione, legittimando da parte degli offesi la reazione della querela ex art. 120 c.p.
 
4. Il reato di diffamazione
E' necessario, per un'agevole comprensione del tema, delineare i tratti essenziali della diffamazione. La diffamazione è un reato contro l'onore attuato mediante offesa alla reputazione con "comunicazione a più persone".
Per offesa alla reputazione si intende una lesione dell'onore e del decoro (qualità compendiate nel concetto di reputazione) a carico di un soggetto mediante l'imputazione ad esso di fatti o l'attribuzione di qualità tali da ingenerare nella società o nell'ambiente socio-professionale in cui opera e si è costituito un apprezzamento, un senso di generale disistima verso le sue qualità morali, intellettuali e fisiche, cioè verso quel patrimonio di attributi immateriali che, in una società civile, sono positivamente considerati e valutati e che sono costituiti dalla rettitudine, dalla correttezza, lealtà ed onestà, dall'ingegno, competenza ed abilità professionale, dalla normalità e perfezione fisica per l'assenza di anomalie, ecc. (14). Va precisato che il reato di diffamazione si concretizza attraverso l'effetto di propalazione (cioè diffusione) - con intenti di discredito (volontà di nuocere all'altrui patrimonio morale) - sia di fatti o qualità “insussistenti” sia di fatti “veri”, la cui divulgazione  per quest'ultimi, tuttavia, non risponda ad un interesse generale o pubblico o sia priva di un collegamento con il (o addirittura ininfluente sul) comportamento  che il soggetto passivo tiene nei rapporti di civile convivenza nella sua veste di professionista o di datore di lavoro o di rappresentante di una categoria professionale o di un partito politico. Cosicchè, con la diffusione del fatto, l'autore realizza solo l'obbiettivo del discredito fine a se stesso, mediante la violazione della sfera riservata ed intima della persona diffamata. Quando sia provata la veridicità del fatto attribuito, colui che l'ha divulgato non deve aver conferito allo stesso (avente idoneità offensiva) estensione maggiore né averlo travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole, altrimenti - ex art. 596, ult. co. c.p. - ugualmente incorre nel reato diffamatorio (15).
Ad integrare l'elemento psicologico non è necessario il dolo specifico (animus diffamandi) ma è sufficiente quello generico, costituito dalla consapevolezza, da parte dell'autore, dell'idoneità che quanto divulgato possa costituire offesa (o pericolo di offesa) per la reputazione del destinatario. Va rilevato come a  concretizzare il reato sia altresì idonea la prospettazione di fatti o addebiti in forma “insinuante”, tale cioè  da non dare la certezza ma da suscitare il sospetto o il dubbio che il destinatario dell'addebito possa essere l'autore dell'azione disonorevole.
La diffamazione si attua, normalmente, mediante l'attribuzione generica di  qualità o attività disonorevoli che prendono corpo in contumelie o epiteti offensivi. Tuttavia può accadere che vengano attribuiti - per raggiungere lo scopo di una maggiore credibilità e l'effetto del maggior pregiudizio - uno o più “fatti determinati” a carico di una persona. Per "fatti determinati" si intendono eventi delineati con precisione (anche se non necessariamente provvisti di indicazioni cronologiche o topografiche ma comunque definiti con dovizia di particolari) tali da suscitare nella mente di chi li apprende la rappresentazione sostanziale di un evento reale.
L'attribuzione di "fatti determinati" - come sopra esposto - è considerata "aggravante" della pena, dal 2° comma dell'art. 595 c.p.
Per quanto concerne il destinatario dell'offesa, va precisato come il reato sussiste anche quando l'offensore abbia usato la cautela di non menzionare - nel discorso o nello scritto – “nominativamente” l'offeso ma questi sia determinato o agevolmente determinabile e percepibile da coloro nel cui contesto socio-economico opera, anche attraverso l'indicazione di caratteristiche somatiche, di tratti del comportamento, la menzione di cariche sociali ricoperte o di altre attribuzioni (sociali, caratteriali ed anche caricaturali,ecc.) idonee per una illuminante identificazione.
Anche le persone giuridiche possono, naturalmente, essere soggetti passivi. Nel caso di attribuzione ad un'azienda, società o Ente di fatti, qualità o comportamenti disonorevoli, si considera offesa la persona che riveste la massima carica direttiva sociale o i componenti  dell'organismo che determina la linea di gestione dell'azienda, legittimati, pertanto, all'azione di querela. Il reato di cui si discute, secondo i principi generali, è soggetto alle cause di non punibilità (definite negli artt. 51 e 52 c.p.) ed alle circostanze attenuanti (di cui all'art. 62 c.p.).
5.Conclusioni in ordine alle condizioni di legittimità della critica sindacale
Nelle relazioni sindacali (così come nell'attività politica o nella professione giornalistica) la critica e la censura (delle Oo.ss., R.s.a., delegati, ecc.,) - così come il contrapposto esercizio di replica datoriale - trovano, da un lato, la loro esclusione di criminosità giustappunto nel 1° comma dell'art. 51 c.p. che salvaguarda le conseguenze dell'esercizio di un diritto (o dell'adempimento di un dovere) e, dall'altro, le loro circostanze attenuanti nel punto 1) dell'art. 62 c.p., indicante "motivi di particolare valore morale e sociale" che, quali moventi, indubitabilmente ricorrono sia nell'attività di informazione sia nelle competizioni politiche sia nelle dispute sindacali per la difesa degli interessi dei lavoratori.
L'interesse di uno stato democratico - quale il nostro - alla formazione della libera coscienza e del giudizio critico attraverso il vaglio delle diverse impostazioni e posizioni ideologiche, fa sì che sia al diritto di cronaca sia al diritto di critica e di polemica (diritti che al fine sopra delineato sono strumentalmente funzionali) specie quando siano esercitati da chi svolge una professione nell'interesse pubblico (il politico ed il sindacalista), venga accordato un certo grado di immunità nei confronti dei reati contro l'onore. Nel senso che, qualora dall'esercizio di tali diritti consegua una compressione della dignità personale (protetta dall'art. 2 Cost.) o della sfera morale dei soggetti, la reazione che scatterebbe nella normalità dei casi ad una determinata soglia, scatta solo quando la compressione ha raggiunto un grado più elevato di incisività. Ad ogni buon conto questa salvaguardia - discendente anche da una desensibilizzazione nei confronti del significato etimologico di certi epiteti coloriti e di frasi aspre e crude, profferite da parte di operatori sindacali, da politici o giornalisti - non equivale a tolleranza assoluta né può occasionare licenza estremamente permissiva, pur nel presupposto dell'insussistenza dei condizionamenti discendenti dal "vincolo di subordinazione", disattivato - come ha confermato la Cassazione - per il caso dell'attivista sindacale in veste di dipendente.
I principi che sono scaturiti dalle numerose decisioni della Cassazione (di cui si sintetizza il pensiero) consentono di affermare che - scontata nella competizione sindacale l'attenuazione dell'intensità offensiva di frasi ed espressioni colorite ed aggressive (16) - la censura o la polemica cui quotidianamente le strutture o gli attivisti sindacali danno vita ed alimentano nel contrasto dialettico, incontra dei limiti sostanziali e formali, esterni ed interni, e può dirsi lecita nella misura in cui rispetti :
a) il limite esterno imposto dal contemperamento della libertà di manifestazione del pensiero con l’esigenza di tutela di interessi parimenti garantiti dall’ordinamento; cioè a dire: a1) in quanto espressione di un diritto di libertà (art. 21 Cost; artt. 1 e 14 L. n. 300/'70; art. 51 c.p.) tale critica deve essere esercitata in forme non lesive di altrui diritti di valore altrettanto significativo, quali quelli che si compendino nell'apprezzamento, nella stima, nella rispettabilità e nella pari dignità personale in seno alla comunità sociale  (art. 3 Cost.); a2) e quando si indirizza su atti di gestione datoriale o aziendale, deve contemperarsi con la libertà di impresa ed il diritto alla dignità dell’azienda come formazione sociale, la quale da una eventuale grave offesa all’immagine è suscettibile di ricevere un danno maggiore di quello derivante dall’aggressione all’integrità degli impianti;
b) il limite interno della cd. “continenza formale”, il quale implica che l’esposizione dei fatti e degli addebiti non debba  sconfinare in valutazioni o giudizi gratuitamente attributivi di fatti e qualità infamanti, con la correlativa conseguenza che tale critica deve essere improntata a “leale chiarezza”, tramite l’evitamento del “sottinteso sapiente”, degli accostamenti suggestionanti, del tono sproporzionalmente scandalizzato o sdegnato, specie nei titoli di articoli o pubblicazioni, evitando così anche la drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre come pure evitando di far ricorso alle vere e proprie insinuazioni (così da Cass. n. 4952/98). Addizionalmente, nell’esercizio della critica si dovrà aver cura che  non vengano oltrepassati i limiti che sono connaturali al diritto medesimo (ad es. non sarebbe lecito, nelle polemiche di lavoro che le OO.SS. o le R.s.a. censurassero la sfera del datore di lavoro attinente alla sua vita privata, così come non sarebbe lecito - da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo diritto di replica a difesa - colpire l'attivista sindacale nella sua sfera privata). Cioè a dire la critica deve oggettivarsi su comportamenti o azioni attinenti alle qualità professionali delle parti in contesa e non su aspetti estranei o irrilevanti all'area della vertenza di lavoro;
c) il limite della “continenza sostanziale”, implicante il rispetto e la garanzia  dell'obbiettività e della veridicità (trattandosi di attribuzione di “fatti determinati") e comunque i fatti - oltreché essere pertinenti con la qualificazione (o veste) professionale delle parti - non debbono essere stravolti o enfatizzati né servire da presupposto per accreditare pubblicamente convincimenti screditanti;
d) inoltre la critica sindacale, lungi dall’essere gratuita e disinvolta, dovrà essere sorretta e  finalizzata a scopo di contrapposizione dialettica su questioni di rilevanza sociale, contrattuale e/o attinenti al rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 9743/2002) ed in quest’azione di contrapposizione per la difesa di interessi collettivi non debbono essere calpestate - anche nell'accesa dialettica sindacale - sia attraverso le modalità espressive sia sotto l'aspetto contenutistico/sostanziale, quelle regole di un ideale codice di correttezza che sta al fondo di ogni ordine e tipo di relazioni sociali e che in una combattiva ma, in ogni caso, civile convivenza, contorna e delimita anche le più aspre contese.
Quanto sopra ci è sembrato opportuno prospettare per tentare di segnare - al momento - dei punti sufficientemente fermi in un'area (quella delle relazioni sindacali) dai contorni estremamente fluidi e per delineare tentativamente delle regole comportamentali per coloro che in quest'area istituzionalmente operano.
 
Roma, 7 luglio 2003
Mario Meucci
 
NOTE
(1)        Cass.  5 luglio 2002, n. 9743 trovasi in Foro it. n.10/2002.
(2)        Cass. n. 7091/2001, trovasi in Mass. giur. lav. 2001, 792 con nota di Giovagnoli ed in Lav. prev. Oggi 2001, 1208.
(3)        Cass. n. 4952/1998 trovasi in  Orient. giur. lav. 1998, I, 323 e in Mass. giur. lav. 1998, 663, con nota di Failla.
(4)        Cass., sez. lav., 22 agosto 1997, n. 7884, trovasi in Dir. lav., 1998, II, 166, con nota di  Innocenzi.
(5)        Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173, trovasi in Foro it., 1986, I, 1877,  con nota di  Mazzotta; Not. giurispr. lav., 1986, 18; Corriere giur., 1986, 514, n. Vitali; Lavoro 80, 1986, 473, n. Muggia; Mass. giur. lav., 1986, 409.
(6)        Cass., sez. lav., 3 novembre 1995, n. 11436 trovasi in Lav. prev. oggi, 1996, 144; Mass. giur. lav., 1996, 11; Not. giurispr.  lav., 1996, 86.
(7)        Cass. pen. 2.10.1978, in Foro it. 1979, II, 111.
(8)        Cass.22 agosto1997, n. 7884, (anche) in Not. giurisp. lav. 1997, 646; Cass. 4.3.1996, n. 1669; Cass. sez. un. 3.6.1993, n. 6179; Cass. 25.10 1986, n. 1173, in Foro it. 1986, I, 1877, con nota di Mazzotta, “Diritto di critica e contratto di lavoro” (nonché in Lav. 80, 1986, 573 con nota di Muggia, Diritto di critica, verità dei fatti e licenziamento); Cass. 25.11.1986, n. 6945, in Not. giurisp. lav. 1987, 479; Cass. sez. un. 17.1.1986, n.276.
(9)        Correttamente Mazzotta riduce i criteri per la legittimazione del diritto di critica al seguente riscontro di sussistenza: a) della la rilevanza costituzionale degli interessi in gioco ed a tutela dei quali il diritto di critica viene esercitato dal lavoratore; b) della veridicità dei fatti divulgati; c) della liceità in sé dei veicoli verbali adoperati. Con chi scrive (ed aveva espresso in precedenza lo stesso concetto negli articoli citati in premessa) asserisce in conclusione che, ai fini della valutazione della giusta causa di recesso per vulnerazione dell’elemento fiduciario, “il giudice non potrà fare a meno di tenere nella giusta considerazione il grado di ‘adesione’ agli interessi del datore di lavoro, connotato dalla posizione assunta dal lavoratore nella gerarchia dell’impresa, essendo quasi ovvio che la lesione dell’immagine potrà essere meglio tollerata, nell’economia della relazione contrattuale, se proveniente da un collaboratore di infimo ordine piuttosto che da soggetti che rappresentano anche all’esterno, l’impresa”.
(10)    In Foro it. 1987, I, 948.
(11)    In Dir. prat.lav. 1989, 374.
(12)    In  Or. giur. lav. 1992,310.
(13)    Così Trib. pen. Catania , imp. Basile e Guccione, in Or. giur. lav. 1995, 327.
(14)    Così Cass. 5 giugno 1955, in Giust. pen. 1956,II,566.
(15)    Vedi Cass. 17 marzo1972, in Cass. pen. Mass. ann. 1974, 494,m. 727.
(16)    Conf. Cass. n.2846 del 17 maggio 1979, in Mass. giur. lav. 1980, 225, con nota di Meucci; Cass. 22 agosto 1997, n. 7884, cit. In dottrina, vedi:  Meucci, I limiti della critica sindacale, in Lav. prev. Oggi 1979, 1269; Id., Ancora sul diritto di critica sindacale, ibidem 1998, 1083; Tullini, Il diritto di critica civile del sindacalista, in Riv. it. dir. lav. 1999, II, 346;  Aimo, Appunti sul diritto di critica del lavoratore, in Riv. giur. lav. 1999, II, 455; Failla, Diritto di critica sindacale o diritto di offesa? Ancora sul (chiaro) confine fra la critica e l’attacco personale, in Mass. giur. lav. 1998, 25.
Circa la lettura da conferire all’art. 2105 c.c., vedi, recentemente, Cass. 16 gennaio 2001, n. 519, in Lav. prev. Oggi, 2001, 367;  Meucci, I limiti della collaborazione in azienda, in Riv. crit. dir. lav.  1997, 695 e  dello stesso autore,  Vicende private e incidenza sul rapporto “fiduciario” di lavoro”, in Lav. prev. Oggi, 2001, 859.
 
(pubblicato in Consulenza - Buffetti ed. n.25/2003, p. 28 e ss.)
 

Insussistenza di reato di diffamazione

N.2247/ 05   R.G.G.P.

N. 767 / 05    R.G.N.R.

N. 299 / 05    R.SENT.

TRIBUNALE ORDINARIO DI COSENZA
UFFICIO DEL G.I.P.

DEPOSITATO Il 17/10/2005

Tribunale di Cosenza

- Sezione del Giudice dell'Udienza Preliminare - 

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SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE

- art. 425 c.p.p -

Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano

 

Il Giudice dell'Udienza Preliminare,

 

nella persona del doti. Livio A. Cristofano, all'udienza preliminare del 10 ottobre 2005, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente

SENTENZA

 

nel procedimento penale instaurato nei confronti di:

V del V., libero, presente;

 

IMPUTATO

 

del reato di cui agli artt. 81, 595 c.p., 13 1. 47/48 perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e agendo in tempi diversi, rendendo le dichiarazioni riportate negli articoli, che si intendono qui integralmente riportati, pubblicati rispettivamente da "Il Domani" (27.12.2002), la "Gazzetta del Sud" (27.12.2002), il “Quotidiano" (29.12.2002, 31.12.2002, 14.1.2003), offendeva la reputazione di A. F. con frasi del seguente tenore: " .. ha dimostrato di non essere in grado di adempiere ai Suoi obblighi nei confronti dei lavoratori …qualsiasi altro onesto imprenditore potrebbe riuscire … ad incrementare il giro di affari, ad essere più puntuale e ad offrire un prodotto sicurezza di più elevato livello … più un piccolo Ras che un imprenditore europeo”.

In Cosenza, nelle date di pubblicazione dei quotidiani, querela del 29.1.2003.

Con l'assistenza dell'operatore B2 Mirella Sole e con l'intervento del pubblico ministero dott. Ernesto Anastasio, dell'avv. Pierpaolo Greco del foro di Catanzaro, difensore della parte civile A. F. e dell'avv. Giovanni Cadavero, in sostituzione dell'avv. Domenico Vavalà, difensore di fiducia dell'imputato.

 

M O T I V A Z I O N E    I N    F A T T O    E    I N    D I R I T T O

 

Con istanza depositata in data 6.5.2005, l'Ufficio del pubblico ministero avanzava richiesta di rinvio a giudizio dell'odierno imputato per rispondere del reato ascrittogli nell'editto accusatorio sopra formulato.

All'odierna udienza preliminare, la persona offesa si costituiva parte civile tramite il proprio difensore di fiducia.

All'esito della discussione e delle conclusioni rassegnate dalle parti come riportate a verbale, e stata resa la pronuncia di non luogo a procedere a norma dell'art. 425 c.p.p..

Difatti, la richiesta con cui veniva esercitata l'azione penale nei confronti dell'odierno prevenuto non può reputarsi sufficientemente supportata da elementi idonei a raggiungere, nell'eventuale giudizio dibattimentale, un'affermazione di penale responsabilità in merito alla sussistenza del fatto contestato.

Anzitutto, va precisato che l'imputato rivestiva la carica di segretario nazionale del S.A.VI.P. (acronimo che sta per Sindacato Autonomo Vigilanza Privata) e la vicenda si inseriva nell'ambito di un'accesa vertenza sindacale fra l'Istituto di Vigilanza Privata Notturna e Diurna srl, di cui titolare e legale rappresentante era la persona offesa A. F., e l'organizzazione sindacale predetta.

Oggetto della contesa era costituita da specifiche rivendicazioni salariali e da questioni inerenti alle condizioni lavorative assicurate ai dipendenti dell’istituto in questione, che determinavano, già da alcuni mesi, la concretizzazione di un aspro confronto dialettico fra il F. e la rappresentanza della sigla sindacale, sia a livello locale che successivamente nazionale (vedi la documentazione depositata in udienza dalla difesa dell'imputato).

In via meramente preliminare, occorre rammentare che il procedimento all'origine si instaurava presso l'autorità giudiziaria di Catanzaro. Occorre in effetti ribadire la competenza territoriale di questo giudice, poiché è nel circondario di Cosenza che è risultato insistere la sede tipografica nella quale l'edizione dei quotidiani in questione veniva stampata.         

Si intende così aderire all'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità che individua il criterio per determinare la competenza territoriale dei procedimenti per reati commessi col mezzo della stampa nel luogo di cosiddetta "prima diffusione", per cui deve reputarsi consumato il reato nel momento in cui, uscendo lo stampato dalla tipografia, si realizza la potenziale conoscibilità e consultabilità dello scritto (Cass. 5.12.2002 n. 41038, Calabrese; Cass. 12.10.2000 n. 4158, Pansa; Cass. 4.12.1991 n. 3834, Cantasso), dovendosi pertanto ragionevolmente ritenere che in quella circostanza spazio-temporale inizi ad estrinsecarsi l'aggressione all'onorabilità morale della persona offesa.

Al criterio esposto la Cassazione ha precisato che si deroga solo nel caso di impossibilità di individuazione della sede della stampa o nell'eventualità dì parti del periodico che vengano realizzate in luoghi diversi.

Per entrate in medias res, va precisato che il fatto-reato di diffamazione a mezzo stampa, contestato al del V., concerne alcuni articoli pubblicati sulle testate giornalistiche a diffusione regionale, contro i quali sporgeva querela -presso la Procura della Repubblica di Catanzaro in data 29.1.2003 la persona che si reputava offesa dal loro contenuto, ossia il F.

Gli articoli in parola sostanzialmente riprendevano e riportavano testualmente le dichiarazioni e le esternazioni di  V del V., segretario nazionale del sindacato autonomo  sopra citato,  nelle  quali  veniva  fortemente criticato e  stigmatizzato  l'operato  del datore di lavoro, con espressioni di veemente censura.

In effetti, è bene premettere che, nel caso che ci occupa, si verte nella fattispecie del cosiddetto diritto di critica e, a tal riguardo, occorre tener presente - per un corretto approccio sistematico alla disamina fattuale - che il costante orientamento della Suprema Corte accoglie il principio secondo cui il linguaggio della polemica politica (alla quale può ben essere equiparata la polemica di tipo sindacale) può assumere toni più pungenti ed incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali tra privati (ad es., Cass. 21.10.1999 n. 12013, Casanova).

Ciò va detto perché il diritto di critica si differenzia essenzialmente da quello di cronaca in quanto, a differenza di quest'ultimo, esso non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì si estrinseca e sì manifesta proprio nell'esternazione e nell'ostentazione pubblica di un giudizio o, più in generale, di un'opinione che, in quanto tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica -ancorché non possa essere totalmente avulsa da ogni riferimento alla realtà sostanziale e tradursi in mera astrazione diffamatoria o in pura invenzione congetturale- non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva ed individuale dei fatti criticamente commentati (Cass. 21.2.2005 n. 6416, Ambrogio).

Ne consegue che quando la manifestazione verbale, sottoposta alla valutazione giudiziale, svolge una funzione prevalentemente valutativa e censoria, non si pone tanto un problema di veridicità delle proposizioni assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica (garantito dall'art. 21 della Costituzione) sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti vengono travalicati solo ove l'agente trascenda gratuitamente in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, e quindi vadano ad aggredire il bene penalmente protetto (Cass. 25.1.2005 n. 2247, Scalfari).

Ciò che il giudice deve dunque verificare, nella fattispecie concreta, è se si sia realizzato un esercizio corretto e costituzionalmente garantito del diritto di critica, solo in tale eventualità potendosi affermare non essere stato violato il punto di equilibrio e di contemperamento fra i diritti costituzionalmente protetti che vengono inevitabilmente in gioco in vicende come quella in esame.

Detto ciò, il confronto -storicamente e fisiologicamente- molto pungente e virulento che puntualmente si registra in polemiche del genere, ovvero nel contesto delle rivendicazioni che le organizzazioni sindacali periodicamente rivolgono alla controparte padronale, non risulta essere avvenuto, nel caso de quo, con modalità particolarmente allarmanti, con esternazioni ingiustificatamente denigratorie e, soprattutto per ciò che qui importa ai fini della rilevanza penale, non sembra essere trasmodato in attacchi sconvenientemente lesivi della reputazione del destinatario o in incivili e volgari aggressioni all'altrui senso dell'onore.  

Proprio perché non ci si trova dinnanzi ad un caso di resoconto giornalistico, non è necessario dilungarsi in considerazioni sul contenuto e sul merito della vicenda che contrapponeva le due parti in conflitto; piuttosto, l'analisi può essere serenamente circoscritta all'utilizzo da parte dell'imputato delle espressioni riportate nel capo di imputazione, attinte qua e là dai vari articoli pubblicati sulla vicenda.

E' noto che i delitti contro l'onore tutelano la pari dignità della persona umana, attraverso il divieto imposto ai terzi di espressioni (sia a contenuto diretto che mediante l'attribuzione di fatti) dei cd. `giudizi di indegnità΄, produttivi di normale e riconosciuta riprovazione nella comunità dei consociati.

Il capo di imputazione individua nelle frasi estrapolate dagli articoli la lesione all'onorabilità della persona offesa, ma il fatto diffamativo non appare sussistere.

Nel caso specifico, le espressioni non paiono lesive del decoro e della reputazione del F., concretandosi essenzialmente in legittime critiche all'operato del titolare dell'istituto di vigilanza che presentavano un evidente addentellato all'atteggiamento mantenuto nel rapporto che strettamente ineriva il contrasto in corso e che, d'altra parte, non si traducevano in attacchi effettivamente ed oggettivamente denigratori o in contumelie personali di inammissibile valenza offensiva.

L'unica locuzione sulla quale appare opportuno e necessario soffermarsi brevemente (risultando tutte le altre delle -sin troppo- evidenti  manifestazioni  legittime del diritto di critica) è costituita dalla definizione del F. proveniente dall'imputato (che compare anche nel comunicato stampa del Savip del 23.1.2003 a firma autografa dell'imputato: cfr. all. 18 della documentazione difensiva) come di un "piccolo RAS”: è, in effetti, proprio tale espressione quella che si erge decisamente come dato centrale e topico della imputazione contestata (e, non a caso, argomento principale delle discussioni avvenute in sede di udienza preliminare).

A tal proposito, va detto che, pur assumendo sicuramente un'intrinseca connotazione negativa e personalistica, la locuzione in sé non integra la lesione dell'altrui reputazione. Il vocabolo “Ras”, di derivazione etimologica straniera, è, come ampiamente notorio, il titolo che veniva attribuito nel passato ai dignitari feudali delle province etiopiche, in pratica figure di potenti che assumevano un ruolo simile a quello di un “governatore” di un determinato territorio. E' altrettanto indubitabile che esso venga, nell'uso lessicale comune e attualmente diffuso, utilizzato in senso spregiativo quale sinonimo di personaggio che agisce in maniera dispotica ed arrogante.

Ora, se questa è l'accezione usuale che può attribuirsi al sostantivo (e, allo stato, non se ne conoscono altre), esso non può che ritenersi veicolo e strumento verbale indicativo di un sentimento di forte censura e di chiara disapprovazione politico­sindacale (il riferimento al 'tiranneggiare' della parte datoriale è storicamente ricorrente nelle controversie di tal genere), ma non risulta di certo paragonabile ad una vera e propria contumelia personale, in quanto comunque lemma adeguato, continente e strettamente afferente al contesto della polemica di natura sindacale in corso di svolgimento (Cass. 18.12.1997 n. 11905, Farassino).

Si noti che l’espressione, rivolta al F., "di sentirsi più un picciolo Ras che un imprenditore europeo” veniva utilizzata in una dichiarazione, resa dal prevenuto alla stampa, che pretendeva di costituire  una nota di reazione e di critica alla lettera di licenziamento inviata dal titolare dell’istituto di vigilanza al segretario provinciale del Savip e ad una contestazione mossa al rappresentante aziendale del medesimo sindacato. 

In conclusione, le affermazioni riportate negli articoli risultano, ad avviso del giudice e senza serie possibilità di obiezioni, come una legittima e tollerabile estrinsecazione del diritto di critica, correttamente proporzionata all’intensità del conflitto e alla risonanza pubblica che poteva essere attribuita alla vertenza sindacale in corso (peraltro, risultava che il F., da parte sua, esternava la propria opinione e rendeva ai giornali dichiarazioni anch'esse critiche sull'atteggiamento mantenuto dal segretario nazionale Savip e che le dichiarazioni oggetto dell'incolpazione erano già state abbondantemente precedute da varie dichiarazioni e controdichiarazioni: vedi sempre fra la documentazione prodotta dalla difesa dell'imputato).

Ne consegue, in definitiva, che la valutazione degli elementi addotti a supporto della richiesta di rinvio a giudizio conduce ad una valutazione che esita in una tale debole consistenza intrinseca dell'antigiuridicità del fatto addebitato all’imputato da farlo ritenere insussistente, apparendo d'altronde del tutto inutile e superfluo il rinvio ad un possibile scenario dibattimentale, atteso che nessun dato ulteriore e diverso potrà essere acquisito in quella sede.

Non va condannato il querelante alla refusione delle spese del procedimento anticipate dallo Stato non intravedendosi alcun profilo colposo nell'avvenuto esercizio del diritto di querela (Corte Cost. sent. 3.12.1993 n. 423).

P.Q.M.

Il Giudice dell'Udienza Preliminare

        

visto l'art. 425 c.p.p.,

dichiara non luogo a procedere nei confronti di V del V. in ordine al reato ascritto perché il fatto non sussiste.

Così deciso in Cosenza, il di 10 ottobre 2005 (depositato il 17.10.2005).

                                                    

Il Giudice

dott. Livio A. Cristofano

 

Satira in volantino sindacale: insussistenza diffamazione

Cass. sez. lav. – 19 maggio-21 settembre 2005, n. 18570- Pres. Mattone – Rel. Di Cerbo - Ricorrente Italcementi Spa

 

Svolgimento del processo

 

Con separati ricorsi al Pretore di Bergamo Licínio Grandi, Piernicola Giulietti e Maria Pia Rota, rappresentanti sindacali aziendali dipendenti il primo dalla Italcementi Spa e gli altri due dalla CTG Spa, impugnavano i licenziamenti per giusta causa loro intimati in data 18 aprile 1997, a seguito di procedimento disciplinare, per avere elaborato e distribuito volantini ritenuti dalle società datrici di lavoro gravemente lesivi dell’immagine delle stesse società nonché dell’onorabilità e del decoro del consigliere delegato dell’Italcementi Spa.

Il Pretore adito accoglieva la domanda e ordinava la reintegrazione dei lavoratori avendo ritenuto non violati i doveri di fedeltà e subordinazione. In particolare escludeva che il contenuto dei volantini fosse lesivo dell’onore e dell’immagine delle società e dell’amministratore delegato.

Decidendo in sede d’appello il Tribunale di Bergamo confermava la decisione.

Le società datrici di lavoro proponevano ricorso per cassazione e la Corte, con sentenza 7091/01 annullava con rinvio la decisione suddetta avendo ritenuto la motivazione insufficiente e contraddittoria sotto vari profili.

La causa veniva riassunta dai lavoratori dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia. Costituitosi il contraddittorio, la Corte, con sentenza depositata in data 13 febbraio 2003, rigettava il gravame avverso la sentenza del Pretore di Bergamo. Premesso che l’oggetto del giudizio di rinvio era circoscritto alla valutazione della capacità offensiva di uno dei volantini nei confronti dell’onore e del decoro dell’amministratore delegato o del gruppo societario sotto il profilo dell’eventuale superamento dei limiti di continenza formale, nel contesto della modalità espressiva, la satira, adottata dagli estensori del volantino stesso, la Corte escludeva da un lato il carattere offensivo del contenuto del volantino in relazione al suo significato e, dall’altro, riteneva che nello stesso non fossero state usate espressioni o immagini volgari e offensive. In ogni caso, anche a voler ammettere una qualche potenzialità offensiva del volantino, ciò non poteva giustificare un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo.

Per la cassazione di questa sentenza propongono ricorso l’Italcementi Spa e la CTG Spa, affidato a un unico, complesso motivo. Resistono con controricorso i lavoratori. Le società ricorrenti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Con l’unico motivo le società ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 21 e 39 Costituzione; 1, 14, 15, 19 e 23 della legge 300/70; 1 e 3 della legge 604/66; 2043, 2118 e 2119 Cc; 112, 115, 116, 389 e 394 Cpc, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Sotto un primo profilo deducono che la sentenza impugnata contiene affermazioni che contraddicono circostanze di fatto, quali la riferibilità della figura di imprenditore contenuta nel volantino all’amministratore delegato della Spa Italcementi e la volgarità ed offensività delle espressioni usate, già riconosciute dai giudici sia di primo che di secondo grado.

Sotto altro profilo deducono che la Corte d’Appello di Brescia non si sarebbe attenuta ai limiti imposti dalla sentenza della Suprema Corte, in base ai quali l’esame demandato al giudice di rinvio doveva essere circoscritto alla verifica del rispetto, o meno, del limite della c.d. continenza formale nell’esercizio del diritto di critica da parte dei lavoratori licenziati e, nello specifico, all’accertamento se la forma espositiva utilizzata fosse tale da recare pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne era destinatario, e cioè del consigliere delegato della società, della madre dell’imprenditore e/o della dirigenza del gruppo.

In particolare è viziata la motivazione per quanto concerne la conclusione secondo la quale il significato attribuito alle ossessioni del paziente dello psìcoterapeuta non poteva ritenersi lesivo dell’onore del gruppo Italcementi. E’ viziata altresì la motivazione nella parte in cui esclude un significato offensivo alla “storiella” concernente il “manager di mezz’età”. In particolare la sentenza afferma, in contrasto con quanto accertato nei precedenti giudizi, che tale espressione non identifica una persona determinata. Analogamente è viziata la motivazione nella parte in cui esclude la riferibilità di alcune espressioni contenute nel volantino alla madre dell’amministratore delegato e nella parte in cui comunque esclude la valenza offensiva di tali espressioni. La carenza e contraddittorietà della motivazione è altresì riscontrabile anche nella parte in cui la stessa attribuisce valore meramente simbolico a fatti e giudizi riportati nel volantino ed esclude conseguentemente che gli stessi possano avere carattere offensivo. In particolare non è chiaro e comunque non è stato motivato adeguatamente il perché il carattere asseritamene simbolico delle affermazioni di cui al volantino farebbe venir meno l’offensività delle espressioni utilizzate.

In definitiva, ad avviso dei ricorrenti, l’interpretazione che l’impugnata sentenza ha dato del volantino è assolutamente insostenibile in quanto cozza irrimediabilmente con il testo del volantino stesso il cui fine era quella di colpire personalmente l’amministratore delegato o comunque il Gruppo Italcementi con epiteti gratuiti, gratuitamente ingiuriosi e denigratori.

Con riferimento, infine, all’ultima parte della motivazione della sentenza impugnata, nella quale la Corte di merito ha affermato che, anche se si volesse ravvisare nel volantino in questione un contenuto offensivo, difetterebbero comunque i presupposti di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo per mancanza del requisito della gravità della condotta sotto il profilo soggettivo (attesa la mancanza di una volontà di diffamazione e la modestia della colpa sotto forma di imperizia dirigenza) le ricorrenti osservano che tale profilo esorbita dai limiti del giudizio di rinvio cosi come delineati dalla sentenza della Suprema Corte ed anzi esorbita addirittura dalla causa petendi, atteso che i lavoratori non avevano in realtà mai dedotto questo profilo. La suddetta affermazione inoltre è erronea e priva di motivazione.

Il ricorso è infondato.

Deve premettersi in linea di principio che il sindacato della Corte dì Cassazione sulla sentenza del giudice di rinvio, gravata di ricorso per infedele esecuzione dei compiti affidati con la precedente pronunzia di annullamento, si risolve nel controllo dell’esercizio dei poteri propri di detto giudice per effetto di tale affidamento, e dell’osservanza dei relativi limiti.

In particolare, se l’annullamento è avvenuto per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi  della controversia, la sentenza rescindente, indicando i punti specifici di carenza o di contraddittorietà, conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento, anche se, nel rinnovare il giudizio, egli è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza logica del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (Cassazione 7635/03).

La sentenza rescindente ha fissato i seguenti punti fermi, ai quali il giudice di rinvio doveva attenersi: a) l’attività di volantinaggio de qua aveva natura sindacale, attesa la qualità dei soggetti agenti, membri di R.S.A., e considerate altresì le finalità perseguite, di tutela dei dipendenti e di critica alle scelte ristrutturazione aziendale aventi pesanti ricadute sul piano occupazionale; b) l’esercizio del diritto del sindacalista a manifestare il proprio dissenso rispetto a scelte imprenditoriali non condivise e la critica verso decisioni e strategie aziendali che incidono nell’ambito della sfera di operatività della tutela sindacale è sottoposto a limiti posti dalla legge e dalla Costituzione; c) la condotta del rappresentante sindacale può costituire, in relazione alle norme costituzionali di tutela della dignità della persona, un illecito civile ai sensi dell’articolo 2043 Cc per la cui configurabilità è sufficiente anche un comportamento meramente colposo; non è pertanto rilevante, come invece erroneamente affermato dal Tribunale, la configurabilità, o meno, di una violazione dell’articolo 595 Cp; d) con riferimento all’ipotesi in cui il diritto di critica sia esercitato attraverso la satira, questa non si sottrae al limite della continenza formale, ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva; in particolare la satira non può recare pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto; e) l’esistenza di tale pregiudizio deve essere verificata alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira il quale, essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e di vizi di una o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale; f) la censura di vizio di motivazione è fondata unicamente con riferimento al secondo volantino; g) il suddetto vizio di motivazione è configurabile con riferimento ai profili sotto indicati: g1) la sentenza non spiega le ragioni per cui pur avendo definito grasso e volgare il riferimento contenuto nel volantino al “simbolo del c...” (usato per definire il nuovo logo aziendale in forma di spirale), inserito in una frase ritenuta scurrile ed inopportuna, ha concluso ritenendo che esso non avesse efficacia offensiva dell’onore e del decoro del Gruppo Italcementi; g2) la sentenza è contraddittoria laddove, da un lato, riconosce che nel riferimento al manager italiano di mezz’età, con una calvizie incipiente, deve essere pacificamente riconosciuto l’amministratore delegato dell’Italcementi e, dall’altro, rileva che l’esame del testo consente di escludere il riferimento a persone fisiche reali; g3) la sentenza ha omesso di valutare l’esistenza, o meno, di effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento, comunque fatto e riconosciuto dal tribunale, dell’amministratore o comunque della dirigenza del gruppo ad un soggetto psicopatico che si esprime nella maniera sconnessa riportata nel volantino, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi.

Ciò premesso osserva il Collegio che la Corte d’Appello di Brescia ha risolto la contraddizione indicata sub g2) nel senso di escludere che il riferimento al “manager italiano di mezz’età… identifichi una persona fisica determinata e precisamente l’Amministratore Delegato dell’Italcementi Spa”.  A tale conclusione la Corte di merito è pervenuta osservando, da un lato, che la sentenza rescindente non aveva censurato “l’accertamento di esclusione della identificazione del Tribunale di Bergamo”, e, dall’altro, che la figura del “manager italiano di mezz’età e con incipiente calvizie” non identifica una persona fisica determinata (e cioè, come assumono le odierne ricorrenti l’amministratore delegato della Italcementi Spa) in quanto le caratteristiche suddette sono da un lato troppo generiche per suggerire un’attribuzione soggettiva e dall’altro sono vagamente evocative dello stereotipo dell’imprenditore 40/50enne.

Tali conclusioni, basate su una motivazione adeguata e priva di vizi logici, resistono alla censura di vizio di motivazione proposta dalle ricorrenti.

Il vizio di motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’articolo 360, n. 5, Cpc, sussiste infatti solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito, agli elementi dallo stesso vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (cfr., ex multis, Cassazione 16063/03).

Nella specie il vizio di motivazione, nei termini sopra indicati, non è riscontrabile. Deve in particolare osservarsi che la sentenza rescindens, nel rilevare il contrasto, nella decisione annullata, fra due affermazioni antitetiche, laddove, da un lato, riconosceva che nel riferimento al Manager italiano .... “ doveva essere pacificamente riconosciuto l’amministratore delegato della Italcementi s.p.a., e, dall’altro, affermava che l’esame del testo consentiva di escludere il riferimento a persone fisiche reali, aveva lasciato aperto, demandandolo al giudice di rinvio, il problema della idoneità, o meno, delle espressioni usate nel volantino ad identificare l’amministratore delegato della Italcementi s.p.a. Il contrario assunto delle odierne ricorrenti, secondo cui la riferibilità delle espressioni usate nel volantino al suddetto amministratore delegato era un dato ormai acquisito al processo, oltre che essere privo di prova, si pone in insanabile contrasto con quanto stabilito dalla sentenza rescindente, di cui è pacifico il valore vincolante (cfr., da ultimo, Cassazione, 19307/04).

Per quanto riguarda le ulteriori argomentazioni a sostegno dell’erroneità delle conclusioni alle quali sarebbe pervenuto il giudice di rinvio, esse ripropongono inammissibilmente a questa Corte di legittimità una valutazione demandata al giudice del merito, e cioè, nella specie, al giudice di rinvio, valutazioni che sono state fatte e che, in quanto basate su adeguata e logica motivazione, devono ritenersi incensurabili in questa sede.

Con riferimento al vizio di motivazione rilevato dalla sentenza rescindente con riferimento alla valutazione dell’efficacia offensiva dell’espressione “simbolo del c...” (usato per definire il nuovo logo aziendale in forma di spirale) e della frase nel quale essa era inserita (cfr.91) come pure alla valutazione dell’esistenza, o meno, di effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento, dunque fatto e riconosciuto dal tribunale, dell’ amministratore o comunque della dirigenza del gruppo ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi (cfr. g3), la sentenza impugnata, premesso che il termine volgare, peraltro non esplicitato, ma lasciato all’intuizione del lettore attraverso i puntini di sospensione, è ormai usato diffusamente, anche in programmi televisivi e sui giornali, osserva che nel contesto in esame esso è usato in un significato traslato, diretto ad indicare le scarse qualità di un determinato oggetto. Ha escluso pertanto che il termine suddetto e la frase che lo contiene, tenuto conto del carattere satirico dello scritto in cui la stessa è inserita, abbiano una reale capacità offensiva o lesiva della dignità o dell’immagine della società, del suo legale rappresentante o dei suoi vertici. Per quanto riguarda l’accostamento del manager ad un soggetto psicopatico la sentenza impugnata ha ritenuto in particolare che le condotte e le vicende riportate nella narrazione del volantino sono palesemente finalizzate ad esprimere simboli e non fatti che possano essere considerati reali e comunque non sono tali da suscitare sentimenti di ripugnanza, disprezzo o dileggio. In sostanza, sulla corretta premessa che, trattandosi di un unico testo di natura satirica, non è consentito estrapolare singole espressioni dal contesto limitandosi ad evidenziarne il significato letterale, la Corte dì merito ha concluso affermando che gli autori del volantino sono rimasti ampiamente nell’ambito di un lecito diritto di critica, sia pure severa, delle scelte di politica aziendale. Tale conclusione è adeguatamente e logicamente motivata. In particolare la Corte di merito ha osservato che le “ossessioni” non sono rappresentate come manifestazioni dì follia, ma sono giustificate da una situazione preoccupante, il manager non è descritto come delirante, atteso che le parole “in libertà” sono pronunciate per assecondare una richiesta del terapeuta, la relazione extraconiugale è delineata in modo da poter identificare la vicenda attraverso la nazionalità francese del partner, la natura omosessuale di tale relazione, espressa in modo implicito, è strumentale per sottolineare la “buggeratura” subita a seguito dell’accordo col nuovo partner industriale; l’identificazione della spirale/chiocciola con un simbolo fallico è satirica ma non è in sé volgare né suggerisce alcuna volgarità. Per quanto riguarda infine il riferimento alla madre, la Corte di merito ha osservato che, una volta ritenuto che il riferimento al manager non identifichi alcuna persona fisica, neanche il riferimento alla madre possiede idoneità identificativa. Ciò senza considerare, fra l’altro, la circostanza che l’intera frase è inserita nella citazione “letteraria” di un vecchio fìlm il che la rende ancor più palesemente estranea ad una volontà valutativa.

Ad avviso del Collegio anche la suddetta motivazione resiste alle critiche mosse dalle odierne ricorrenti, le quali si risolvono ancora una volta nel tentativo di riproporre valutazioni di fatto, escluse in questa sede di legittimità. In particolare la sentenza del giudice di rinvio ha correttamente applicato i principi fissati dalla sentenza rescindente. In particolare essa, nell’escludere il carattere offensivo delle espressioni usate nel volantino e nell’escludere altresì la diretta riferibilità delle stesse a persone specificamente individuabili, è pienamente rispettosa del principio secondo cui, anche nel caso in cui, come nella specie, il diritto di critica sia esercitato a mezzo della satira, questa non può recare pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. La stessa sentenza ha inoltre correttamente tenuto conto dell’ulteriore principio espresso dalla sentenza rescindente secondo cui l’esistenza del pregiudizio deve essere verificata alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira il quale è essenzialmente simbolico e paradossale.

L’ulteriore profilo del ricorso, concernente l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui, anche a voler ritenere l’esistenza di una qualche potenzialità offensiva dello scritto, mancherebbero comunque gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo, deve ritenersi assorbito.

Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

In applicazione del criterio della soccombenza le ricorrenti vengono condannate al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

 

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna le società ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 28,00, oltre euro 3.500,00 per onorari, e oltre spese generali e accessori di legge.

 
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