- 1. Resoconto
di Cass. n. 9743/2002 e dei precedenti della Cassazione in materia di diritto
di critica e di satira
- Recenti
e meno recenti decisioni della Cassazione e di merito (approdate in Cassazione)
forniscono l’occasione per fare il
punto sull’esercizio del diritto di critica e di satira nelle relazioni industriali,
in ambito aziendale.
- L’ultima decisione della S.
corte – in ordine di tempo – è costituita da Cass. 5 luglio 2002, n. 9743 (1)
la cui vicenda (che di seguito riassumeremo) si condensa nella seguente
massima: “In tema di licenziamento per giusta causa di lavoratore
sindacalista, il giudice del merito, nel valutare se le espressioni usate dal
lavoratore in un contesto di conflittualità aziendale oltrepassino i limiti di
un corretto esercizio delle libertà sindacali - e quindi siano lesive del
rapporto di fiducia con il datore di lavoro - deve accertare se le stesse non
costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal
sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto; in tal caso
infatti le suddette espressioni non si prestano, in quanto manifestazione di
una lata responsabilità politico-sindacale, ad esser valutate con il parametro
dell’inadempimento nei confronti del datore di lavoro dovuto a lesione
dell’altrui sfera giuridica nell’esercizio di un diritto di rilevanza
costituzionale (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito
che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un sindacalista che,
nel comunicato di convocazione di un’assemblea, aveva accusato i rappresentanti
del datore di lavoro ed altri colleghi sindacalisti di essersi appropriati di
emolumenti spettanti ai lavoratori).”
- La
situazione di fatto è così riassumibile.
Il Signor E. Quaglieri, dipendente della società Sidim
S.r.l. con mansioni di facchino, riveste all'interno della
stessa anche il ruolo di rappresentate sindacale dei Cobas. Questi,
in seguito all'affissione in sala mensa di un comunicato di convocazione di
un'assemblea sindacale, da lui redatto, nel quale veniva
letteralmente scrito : "lavoratori quest'assemblea sarà contestata da V.,F.,T.,M.,
perché si dividono i soldi di 13esima, 14esima, ferie, pir, che fregano agli
extra", viene licenziato in tronco. Va chiarito che i designati
con le sole iniziali individuano i tre rappresentanti dei sindacati delle
storiche Confederazioni Cgil-Cisl-Uil
ed il rappresentante del datore di lavoro, supposti in ipotetico
“rapporto collusivo” per l’eccessiva accondiscendenza (o non resistenza) dei
rappresentanti delle Confederazioni storiche al conferimento da parte dell’azienda
di lavoro in appalto (c.d. esternalizzazione o outsourcing), effettuato
assegnando a cooperativa esterna lavori che il sindacalista dei Cobas
riteneva svolgibili dai dipendenti in
organico (sottoposti, per effetto dell’appalto, a procedura di riduzione di
personale), talchè il ricorso all’esterno era visto quale mera misura di
risparmio (e di depotenziamento d’organico) per realizzare una concomitante
contrazione del costo del lavoro a danno degli esterni (cd. “extra”, una sorta
di “senza diritti”, non destinatari delle competenze differite spettanti ai
lavoratori dell’azienda, da cui l’addebito figurato estrinsecatesi nella
locuzione “….si dividono i soldi…che fregano agli extra”).
- Il
licenziamento, impugnato innanzi al Pretore di Roma, viene dichiarato
illegittimo e conseguentemente è disposta la reintegrazione del
ricorrente. Successivamente il giudice d'appello riforma la
sentenza di primo grado. Questi, infatti, ritiene che nel caso
di specie le affermazioni del lavoratore sindacalista che attribuiscono ai
rappresentanti del datore di lavoro e ad altri colleghi sindacalisti
un fatto particolarmente infamante (l'appropriazione di
emolumenti spettanti ad altri lavoratori), possano costituire una giusta causa
di recesso, non rientrando un tale comportamento nel concetto di attività
sindacale, né nel contesto di quel diritto di critica esercitabile senza
(legittimo) pregiudizio del diritto altrui di pari rilevanza costituzionale. È
anzi lo stesso giudice del gravame a definire il licenziamento per giusta causa
"l'unica misura idonea e congrua" per tutelare l'interesse del datore
di lavoro, avendo evidentemente accertato la lesione del vincolo fiduciario. Da
rilevare come, nelle more del ricorso per Cassazione, anche il giudice penale
si sia espresso sulla condotta del Signor E.Q., condannandolo per diffamazione.
La relativa sentenza però, non è stata ammessa agli atti del ricorso da parte
della S.C. ai sensi dell’art.372 c.p.c.
- La
Cassazione non si mostra concorde con il giudice di gravame, contestandogli di
non aver “contestualizzato” il comportamento incriminato e di essere arrivato
alla conclusione di un comportamento illegittimo senza aver prima verificato se
concorressero le seguenti condizioni legittimanti:
- 1)
accertare la finalizzazione del comportamento assunto in relazione al contesto
in cui sono state espresse le affermazioni;
- 2)
verificare che l'attività del sindacalista fosse sostanzialmente tale e non
solo formalmente (e quindi fuori dall'ambito di tutela delle attività
sindacali);
- 3)
ricordare che ciascun esponente sindacale: "...può prescegliere,
nell'ambito della sua responsabilità, la forma di comunicazione ritenuta adatta
a far comprendere le posizioni da esso assunte in relazione a determinate
vicende aziendali, non diversamente da quando avviene nella sfera lata della
politica";
- 4)
verificare se il lavoratore sindacalista, a cui deve essere consentito di
adottare un linguaggio non "corretto" se da questi ritenuto idoneo e
funzionale a far recepire al proprio auditorio il tipo di valutazioni da lui
assunte relativamente alle vicende che interessano i lavoratori, abbia operato
tale scelta in base alla presenza di una reale e concreta finalizzazione
dell'attività espletata all'esercizio di diritti sindacali per la tutela degli
interessi dei lavoratori.
- “Alla luce di questi principi
– conclude la Corte di Cassazione -
il Tribunale avrebbe dovuto individuare le connotazioni peculiari del
comportamento per accertare: se esso era una forma di comunicazione prescelta
dal lavoratore sindacalista perché ritenuta la più efficace per far comprendere
ai lavoratori che quanto stava avvenendo (depotenziamento degli organici
stabili con lo sfruttamento di lavoratori precari) era l’effetto di una
collusione imprenditore-sindacato "storico", o piuttosto l’attribuzione
di ipotesi criminose fatta, disinvoltamente, al solo fine di proporsi come
l’unica organizzazione sindacale capace di tutelare efficacemente i lavoratori
aggredendo, a tal fine, l’altrui sfera giuridica. Solo ove l’accertamento
avesse dato questo risultato, il comportamento, non più appartenente
all’attività sindacate ma diretto solo a conferire potere individuale a chi la
stessa esercita, poteva esser valutato per la sua eventuale idoneità a ledere
irreparabilmente il rapporto fiduciario. Il Tribunale - dice la Cassazione
- ha del tutto omesso questo esame
imboccando, decisamente ed immediatamente, la via del comportamento sindacale
debordante, sino a tal punto da far emergere un lavoratore non in grado di
permanere in una qualsiasi organizzazione produttiva: esso ha supposto, come si
è detto, monovalente il comportamento del lavoratore sindacalista e non si é
per niente posto il problema della polivalenza del comportamento e quello
specifico del rapporto di adeguatezza fra contesto conflittuale ed uso del
linguaggio nello stesso da parte del sindacalista; valutando il comportamento
dello stesso esclusivamente alla stregua del parametro di un inadempimento ai
propri obblighi di lavoratore.”
- La
Cassazione (cassando il Tribunale) rileva a chiare lettere la necessità di
"contestualizzare" le condotte criticate, sia relativamente al ruolo
rivestito dal soggetto agente (facchino), sia relativamente all’uditorio, sia
relativamente allo scopo o occasione per la quale l’assemblea era stata indetta,
riassumibile nell’intento di denunciare l’esistenza di una linea
imprenditoriale - suppostamene avallata
dalle organizzazioni sindacali storiche - fondata proprio sullo sfruttamento
dei lavoratori esterni, che giustappunto in quanto utilizzati in maniera precaria facevano sì che virtualmente coloro che avevano deciso ed avallato questa
scelta di esternalizzazione “si appropriavano” (termine improprio e figurato
oltreché grossolano, ma ritenuto adeguato al livello dello scontro in atto),
non attribuendole loro, di somme che in
base ad una stabile assunzione sarebbero state invece loro corrisposte (per
13.ma, 14.ma, permessi sindacali retribuiti).
- In tal
modo, la Cassazione – secondo taluno troppo benevolmente – nel riconfermare i
limiti esterni ed interni al diritto di critica (finalizzazione alla
contrapposizione dialettica non gratuita,
veridicità ed obbiettività degli addebiti, continenza - cioè correttezza
- formale e sostanziale) avrebbe
derogato, a favore del sindacalista facchino, al limite della “continenza
formale”, autorizzando l’uso di espressioni
eccessivamente pesanti e tipizzate in un linguaggio grossolano ed, in un
certo senso, infamante. Noi, una volta chiarito il carattere “figurato” e
“virtuale” degli addebiti, siamo di diverso avviso, ritenendo che - nell’esame di un caso concreto – non si
possa prescindere né dalle modalità espressive tipiche della condizione sociale
e della qualifica di appartenenza del sindacalista-dipendente né dall’uditorio
cui erano dirette e sul quale erano finalizzate ad essere percepite più
persuasivamente, quantunque non possedessero connotazioni intuitivamente
realistiche.
- In
precedenza all’attuale, altre decisioni della S. corte meritano di essere
riferite – sia pure, per intuitive ragioni di spazio e di sintesi – in sola
massima.
- Tra queste si ricorda
l’anteriore Cass. 24 maggio 2001, n. 7091 (2), la cui massima asserì il
seguente principio: “L’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito
della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica delle
decisioni aziendali (manifestata, nella specie, attraverso la diffusione di
alcuni volantini all’esterno dell’azienda), sebbene sia garantito dagli art. 21
e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza (cd. continenza) formale che
sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2
Cost.), di tutela della persona umana, anche quando la critica venga espressa
nella forma della satira, che pur implicando intrinsecamente l’utilizzo di un
linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti, esagerate, caricaturali e
paradossali – per finalità dissacranti - non può essere sganciata da qualsiasi
limite di forma espositiva; ne consegue che, ove tali limiti siano superati,
con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità
apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni
tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore
può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi
soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della
diffamazione.”
- Il fatto
che determinò la decisione fu il seguente. Licinio G. ed altri due dipendenti
della S.p.A. Italcementi, in occasione della presentazione pubblica del nuovo
logo aziendale, diffusero due volantini, in uno dei quali il nuovo simbolo
veniva paragonato ad un “mollusco fossile tipico del mesozoico” e la
Italcementi veniva definita un “vortice che continua a risucchiare il
personale”, mentre nell’altro si faceva riferimento ad un “manager italiano di
mezza età” asseritamente bisognoso di cure psicoanalitiche e alla di lui madre,
definita donna di facili costumi.
- Essi vennero licenziati con
l’addebito di avere gravemente leso l’immagine dell’azienda e di avere
pesantemente offeso l’amministratore delegato della Italcementi identificabile
nel “manager di mezza età” menzionato in uno dei due volantini, licenziamento
annullato dal Pretore e dal Tribunale di Bergamo.
- La Cassazione, in riforma,
accolse parzialmente il ricorso della Italcementi in quanto ritenne che il Tribunale non avesse adeguatamente
motivato il suo convincimento della inoffensività delle espressioni usate nel
volantino concernente l’amministratore delegato. In particolare la Corte ebbe a
ritenere che la sentenza di appello fosse contraddittoria laddove da un lato
riconosceva che nel riferimento al “manager italiano di mezza età, con una
calvizie incipiente”, doveva essere pacificamente riconosciuto l’amministratore
delegato della Italcementi, e dall’altro lato rilevava che “l’esame del testo,
nell’indignare il lettore per la volgarità largamente usata dai redattori,
tuttavia consente, a colui che non risulta prevenuto, di escludere con serenità
il riferimento a persone fisiche reali”. La Corte ritenne, altresì, che il Tribunale, avesse erroneamente omesso
di valutare gli effetti offensivi derivanti sia dall’accostamento
dell’amministratore ad un soggetto psicopatico, sia dall’accostamento della
madre dell’imprenditore psicoanalizzato ad una donna di facili costumi. La causa
venne rinviata, quindi, per un nuovo
esame, alla Corte d’Appello di Brescia.
- Ancora in precedenza si ricorda
– sempre in tema di limiti al diritto di critica sindacale – Cass., sez.
lav. 16 maggio 1998, n. 4952 (3), la
cui massima espresse i seguenti principi di diritto: “L’esercizio da parte
del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale
aziendale, del diritto di critica (manifestata nella specie attraverso articoli
ed interviste su quotidiani, addebitanti a carico dell’ intera dirigenza
Fincantieri di aver favorito l’infiltrazione, nei lavori di appalto e
subappalto, di ditte irregolari o legati a personaggi in odore di mafia) nei
confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del
rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro
dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua
immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di
occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia
che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere
scaturente dall’art. 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento.”
- Il fatto
che originò la vicenda è così
riassumibile.
- G. Basile dipendente della S.p.A.
Fincantieri, sindacalista, venne
licenziato nel novembre del 1990 per avere accusato la dirigenza della società
- in una serie di articoli e interviste pubblicati tra il luglio 1989 e l’ottobre
1990 sui quotidiani L’Ora, La Sicilia, Il Manifesto oltreché sul giornale
Dopolavoro Notizie - di avere favorito, con il sempre più massiccio ricorso a
lavori di appalto e subappalto, l’infiltrazione di imprese irregolari o legate
a personaggi in odore di mafia, traendone un tornaconto in termini di riduzione
dei costi aziendali, perché tali imprese assicuravano una bassa conflittualità
e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e sociali derivanti
dal dilagare del lavoro nero e dall’arretramento dei livelli di sicurezza sul
posto di lavoro: in questa strategia, secondo G.B., si era inserito anche un
uso distorto della cassa integrazione per dare spazio al sistema di appalti e
subappalti, ma anche "per colpire e neutralizzare quei dipendenti che si
ostinavano a non abbassare la testa dinanzi all’irresponsabile arroganza
aziendale". Il Pretore di Palermo
annullò il licenziamento in quanto ritenne che il lavoratore avesse
esercitato correttamente il diritto di critica e di polemica sindacale. Il
Tribunale di Palermo accolse l’appello dell’azienda e riformò integralmente la
sentenza di primo grado, affermando che il diritto di critica, da riconoscersi
nella sua interezza ai dipendenti sindacalmente impegnati, non può violare
l’obbligo di fedeltà del dipendente verso il datore di lavoro, previsto
dall’art. 2105 cod. civ. e deve rispettare i limiti posti dalla esigenza di
tutela dell’onore e della reputazione altrui. G.B. fu condannato anche in sede penale, dal Tribunale di Catania, per
il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa. La Suprema Corte rigettò il ricorso del lavoratore,
ricordando la sua costante giurisprudenza secondo cui l’esercizio del diritto
di critica deve essere improntato a “leale chiarezza”, il che non si verifica
allorquando si ricorra "al sottinteso sapiente", agli accostamenti
suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie
nei titoli di articoli e pubblicazioni, o comunque all’artificiosa e
sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonché alle
vere e proprie insinuazioni. La Cassazione, nella citata sentenza, ebbe a
rilevare che secondo gli accertamenti svolti dal Tribunale di Palermo molti dei
fatti denunziati da G.B. erano
risultati non veri: in particolare l’indagine affidata alla locale Prefettura
aveva accertato che tutte le ditte che operavano nella provincia di Palermo, e
che avevano intrattenuto rapporti di appalto o subappalto con la Fincantieri,
non avevano mai subito provvedimenti interdittivi o sanzioni ai sensi della
legislazione antimafia. La Corte affermò, quindi, che l’obbligo di fedeltà, la
cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia,
per il lavoratore, nel dovere di tenere nei confronti del datore di lavoro un
comportamento leale e va collegato con le regole di correttezza e buona fede
previste dagli articoli 1175 e 1375 cod. civ.: il lavoratore, pertanto deve
astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cod.
civ. (trattazione di affari in concorrenza con il datore di lavoro, uso o
divulgazione di informazioni riservate) ma anche da tutti quelli che, per la
loro natura e le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi
all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione
dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi
dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il
presupposto fiduciario del rapporto. E’ suscettibile di violare il disposto
dell’art. 2105 cod. civ. - concluse la Corte - anche l’esercizio da parte del
lavoratore del diritto di critica, che superando i limiti del rispetto della
verità oggettiva, si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa
datrice di lavoro, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine,
anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di
lavoro.
- Nella
giurisprudenza della Suprema corte
merita altresì di essere citata
Cass. n. 7784/1997 (4) , ove la Cassazione, in sede civile – riprendendo i criteri delineati dalla precedente
Cass. 1173/1986 (5), e riscontrando la carenza di veridicità dei fatti
addebitati - asserì: “pur non potendosi dubitare del fatto che al lavoratore
subordinato debba essere garantito un diritto di critica, anche aspra, nei
confronti del suo datore di lavoro – soprattutto quando trattasi di un
sindacalista che si esprime, come in fattispecie, sulla funzionalità di un
pubblico servizio – tuttavia non può ammettersi che il medesimo lavoratore,
senza addurre e comprovare fatti oggettivamente certi, leda sul piano morale
l’immagine del proprio datore di lavoro”. In conseguenza del principio
suddetto venne giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa di un
sindacalista che in una intervista televisiva ad una emittente locale aveva gettato
discredito nei confronti della società datrice di lavoro “giacché, oltre ad
esaltare le qualità imprenditoriali dell’impresa che nel comprensorio comunale
aveva in precedenza gestito il servizio di sgombero rifiuti, aveva accusato la
datrice di lavoro di avere abusivamente smaltito nelle discariche comunali i
rifiuti speciali ospedalieri, circostanza che non poteva invece essere imputato
alla società, dal momento che dalla documentazione in atti si ricavava che era
stato il Sindaco, con apposita delibera, a disporre lo smaltimento in questione
sotto il controllo del servizio di igiene e sanità pubblica”.
- Ciò
premesso e ricordato, poiché come appare dalle stesse decisioni riassunte, il
Sindacato e le sue strutture introaziendali (R.s.a., R.s.u. o delegati), nel
ruolo di controparte del datore di
lavoro - inteso sia individualmente sia come espressione della rispettiva
classe sociale - sviluppano un'azione
di continua contrapposizione sia dialettica sia fattuale nei confronti delle
iniziative e dei comportamenti di coloro che hanno la responsabilità della
conduzione dell'azienda come delle associazioni imprenditoriali cui l'azienda
aderisce, interessa, in questa sede,
fissare l'attenzione su quelle iniziative di contrapposizione che prendono
giustappunto corpo nella critica e
nella polemica sia, direttamente, in incontri, dibattiti o trattative con la
controparte aziendale sia, indirettamente, tramite comunicati destinati
all'affissione, ex art. 25 L. n. 300/'70, o al volantinaggio, ex art. 26 stessa
legge.
-
- 2.
Il dipendente-rappresentate sindacale
in posizione paritetica con il datore
di lavoro
- Sulla
tematica conviene subito rendere edotto il lettore di una autorevole presa di posizione della
Cassazione nella decisione n. 11436
dell' 8 novembre 1995 (6), riconfermata sul punto da Cass. 24 maggio 2001, n.
7091, tramite cui la S. corte ha
statuito - a fronte della pretesa
aziendale di sanzionare disciplinarmente (per ingiurie ed insubordinazione
suppostamente concretizzatasi nelle espressioni "io non ti conosco",
"con gli operai parlo come e quando voglio" e "non Le
sono bastati gli scioperi dell'altro giorno? ne faremo altri") un
rappresentante sindacale che, nell'esercizio del suo mandato, aveva in tal modo apostrofato i propri superiori
in veste di rappresentanti di controparte - che: "il lavoratore che sia
anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro.
Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione
degli altri dipendenti; in relazione alla sua attività di rappresentante
sindacale si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro che esclude
che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività
infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, art. 39, ed
in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei
confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro non può essere in qualche
modo subordinata alla volontà di quest'ultimo. La contestazione dell'autorità e
supremazia del datore di lavoro, mentre costituisce insubordinazione
nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, è caratteristica della
dialettica sindacale. Non può perciò essere sanzionato disciplinarmente tale
comportamento del lavoratore sindacalista, semprechè esso inerisca, come nel
caso in esame non è controverso, alla attività di patronato sindacale".
- La
decisione è pienamente condivisibile in
quanto si colloca nel filone di rispetto della libertà espressiva,
intrinsecamente vivace e colorita, nel corso della contrapposizione sindacale, senza che da essa si possa inferire,
tuttavia e correttamente, legittimazione per l'ingiuria o la diffamazione della
controparte, che sono limiti immanenti a qualsiasi attività di critica
sindacale e sui quali ci intratterremo
nel corso del presente articolo.
- Nel
rapporto di lavoro subordinato l'attività di critica e di censura - oltre a
quella di "cronaca" impropria - trova la sua fonte giustificatrice
(confermativa dell'art. 21 Cost.) nell'art. 1
dello Statuto dei lavoratori, che si dirige indifferentemente al
lavoratore singolo come a colui che riveste cariche sindacali introaziendali.
L'attivismo che si estrinseca nella critica ad iniziativa sindacale trova poi
un'adeguata collocazione nell'ampio solco della "libertà di svolgere
attività sindacale" - tramite discrezionali ed imprecisate modalità
confermative dell'autonomia sindacale - di cui si occupa l'art. 14 della L. n.
300/'70. Attivismo che si affianca - in
maniera complementare - o confluisce e talora si confonde, con l'attività di
propaganda o proselitismo di cui agli artt. 25 e 26 della stessa legge.
-
- 3.
Precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità e di merito
- La
Cassazione sia in sede penale che civile, investita del problema della
sussistenza (o meno) dei caratteri del reato di diffamazione (ex art. 595 c.p.)
per il contenuto e le modalità di esercizio del diritto di critica sindacale ha
affermato, a suo tempo (7) e ribadito relativamente più di recente (8) principi
e considerazioni del tutto valide e meritevoli di essere portate a conoscenza.
Ciò sia per la parte in cui viene riaffermata la legittimità dello strumento
dialettico della critica sindacale - anche in forma aggressiva e colorita - sia
per la parte in cui vengono fissate le condizioni ed i confini della sua
liceità al fine di evitare che essa trasmodi nell'attacco personale, colpendo
la sfera privata o intima dell'individuo senza attenuanti di interesse pubblico
(o di categoria professionale) nonché al fine di impedire che la critica sindacale
costituisca - indirettamente - offesa alla dignità della controparte datoriale
o dei responsabili della gestione aziendale.
- Nella
decisione n. 1173/1986 (citata in nota 5) - con nota parzialmente critica di
Mazzotta (9) secondo cui la Cassazione avrebbe, non condivisibilmente,
esportato un po’ troppo meccanicisticamente all’interno del rapporto di lavoro
i criteri e le valutazioni già formulate dalla giurisprudenza nel diverso
rapporto della libertà di stampa-tutela dell’onore, decisione i cui criteri noi
riteniamo più correttamente reinterpretati dalla più illuminata e successiva
sentenza della Suprema corte n. 11436/1995 - la Cassazione aveva cercato di
fornire una specie di “codice interpretativo”, alla luce del quale giudicare la
legittimità (o meno) del diritto di critica sindacale, che tale sarebbe
risultato una volta accertato:
- a) se i
comportamenti addebitati si traducano in obiettiva lesione della reputazione
dell’impresa e dei suoi dirigenti;
- b) se le
accuse (in ipotesi) infamanti siano state espresse per la realizzazione di
interessi giuridicamente rilevanti;
- c) se le
modalità e l’ambito di diffusione delle notizie siano ragionevolmente adeguati
alla protezione di tali interessi;
- d) se i
fatti denunziati siano in parte o in tutto veri e come tali apprezzati dai
diffusori.
- La
successiva giurisprudenza di merito ha fatto applicazione dei principi statuiti
dalla precitata sentenza. Nel giudizio di rinvio successivo alla pronuncia n.
1173/1986, il Tribunale di Frosinone dell’8.9.1986 (10) ha escluso che
configurasse giusta causa di licenziamento il comportamento di due dipendenti
di una clinica privata, consistente nella diffusione di notizie volte
obiettivamente a screditare il datore di lavoro, accusato di inefficienza, di
sperpero e di porre a repentaglio l’incolumità degli utenti (di una clinica
privata) dopo aver accertato: a) la veridicità dei fatti denunziati; b)
l’assenza di una volontà diffamatoria; c) il perseguimento di un interesse
giuridicamente rilevante (diritto alla salute); d) la congruenza, rispetto alla
protezione di tale interesse, delle modalità di diffusione delle notizie
(avvenuta, nel caso di specie, attraverso esposti alla procura della
Repubblica, all’autorità regionale ed interviste concesse alla stampa ed al
telegiornale).
- Nella
giurisprudenza di merito hanno fatto – consapevolmente o inconsapevolmente, per
antecedente stesura - altresì applicazione dei principi (poi) enunciati o
riassunti da Cass. n. 1173/1986, Trib. Busto Arsizio 15 novembre 1988 (11) e
Pret. Palermo 18.6.1982 (12). Secondo la prima decisione l’apprezzamento della
giusta causa di licenziamento in rapporto alle critiche diffuse dal lavoratore
in ordine alla gestione aziendale deve essere compiuta alla stregua dei
seguenti criteri: a) riconduzione delle accuse nell’ambito del perseguimento di
interessi giuridicamente rilevanti; b) verità dei fatti denunciati; c) lesione
del rapporto fiduciario tra le parti, tenuto conto dell’incidenza della
condotta nella prospettiva della prosecuzione del rapporto stesso. Da parte
della seconda decisione si è ritenuto configurare giusta causa di licenziamento il comportamento di un lavoratore
che aveva rilasciato una serie di interviste alla stampa in cui accusava la
dirigenza della società, fra le altre cose, di aver consapevolmente favorito,
mediante l’uso dei contratti di appalto e subappalto, l’infiltrazione presso i
cantieri di società irregolari o legate a personaggi in odor di mafia,
traendone un tornaconto in termini di riduzione di costi aziendali, minor
conflittualità e prezzi competitivi, senza curarsi dei pesanti costi umani e
sociali derivanti dal dilagare del lavoro nero. Le stesse affermazioni hanno
condotto poi il Tribunale di Catania in sede penale alla condanna del
lavoratore per il reato di diffamazione, ritenendo che “per quanto ampia
possa riconoscersi l’estensione del diritto di critica anche aspra sulle
tematiche politiche, economiche e sindacali inerenti alla gestione
dell’azienda, esula certamente dal lecito esercizio di critica e integra gli
estremi del delitto di diffamazione, l’affermazione di fatti di notevole
gravità e penalmente rilevanti, lesivi dell’altrui reputazione, che potrebbero
ammettersi solo quando fosse dimostrata la verità dei fatti attribuiti”(13)
.
- Va
inoltre soggiunto che la giurisprudenza ha sempre conferito al diritto di
critica una prevalenza rispetto ai valori personali sui quali esso si
indirizza. E ciò secondo un condivisibile intento di salvaguardia della libertà
di espressione che tollera - in un paese democratico - limitate e caute
compressioni. Equilibratamente la magistratura ha comunque fornito criteri
idonei a consentire la definizione - caso per caso ed oculatamente - della
soglia oltre la quale l'esercizio del
diritto di critica sconfina ed incorre nel vizio della diffamazione,
legittimando da parte degli offesi la reazione della querela ex art. 120 c.p.
-
- 4. Il
reato di diffamazione
- E'
necessario, per un'agevole comprensione del tema, delineare i tratti essenziali
della diffamazione. La diffamazione è un reato contro l'onore attuato mediante
offesa alla reputazione con "comunicazione a più persone".
- Per
offesa alla reputazione si intende una lesione dell'onore e del decoro (qualità
compendiate nel concetto di reputazione) a carico di un soggetto mediante
l'imputazione ad esso di fatti o l'attribuzione di qualità tali da ingenerare
nella società o nell'ambiente socio-professionale in cui opera e si è
costituito un apprezzamento, un senso di generale disistima verso le sue
qualità morali, intellettuali e fisiche, cioè verso quel patrimonio di
attributi immateriali che, in una società civile, sono positivamente
considerati e valutati e che sono costituiti dalla rettitudine, dalla
correttezza, lealtà ed onestà, dall'ingegno, competenza ed abilità
professionale, dalla normalità e perfezione fisica per l'assenza di anomalie,
ecc. (14). Va precisato che il reato di diffamazione si concretizza attraverso
l'effetto di propalazione (cioè diffusione) - con intenti di discredito
(volontà di nuocere all'altrui patrimonio morale) - sia di fatti o qualità “insussistenti”
sia di fatti “veri”, la cui divulgazione per quest'ultimi, tuttavia, non risponda ad un interesse generale
o pubblico o sia priva di un collegamento con il (o addirittura ininfluente
sul) comportamento che il soggetto passivo
tiene nei rapporti di civile convivenza nella sua veste di professionista o di
datore di lavoro o di rappresentante di una categoria professionale o di un
partito politico. Cosicchè, con la diffusione del fatto, l'autore realizza solo
l'obbiettivo del discredito fine a se stesso, mediante la violazione della
sfera riservata ed intima della persona diffamata. Quando sia provata la
veridicità del fatto attribuito, colui che l'ha divulgato non deve aver
conferito allo stesso (avente idoneità offensiva) estensione maggiore né averlo
travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole, altrimenti - ex art. 596,
ult. co. c.p. - ugualmente incorre nel reato diffamatorio (15).
- Ad
integrare l'elemento psicologico non è necessario il dolo specifico (animus
diffamandi) ma è sufficiente quello generico, costituito dalla
consapevolezza, da parte dell'autore, dell'idoneità che quanto divulgato possa
costituire offesa (o pericolo di offesa) per la reputazione del destinatario.
Va rilevato come a concretizzare il reato
sia altresì idonea la prospettazione di fatti o addebiti in forma “insinuante”,
tale cioè da non dare la certezza ma da
suscitare il sospetto o il dubbio che il destinatario dell'addebito possa
essere l'autore dell'azione disonorevole.
- La
diffamazione si attua, normalmente, mediante l'attribuzione generica di qualità o attività disonorevoli che prendono
corpo in contumelie o epiteti offensivi. Tuttavia può accadere che vengano
attribuiti - per raggiungere lo scopo di una maggiore credibilità e l'effetto
del maggior pregiudizio - uno o più “fatti determinati” a carico di una
persona. Per "fatti determinati" si intendono eventi delineati con
precisione (anche se non necessariamente provvisti di indicazioni cronologiche
o topografiche ma comunque definiti con dovizia di particolari) tali da
suscitare nella mente di chi li apprende la rappresentazione sostanziale di un
evento reale.
- L'attribuzione
di "fatti determinati" - come sopra esposto - è considerata
"aggravante" della pena, dal 2° comma dell'art. 595 c.p.
- Per
quanto concerne il destinatario dell'offesa, va precisato come il reato
sussiste anche quando l'offensore abbia usato la cautela di non menzionare -
nel discorso o nello scritto – “nominativamente” l'offeso ma questi sia
determinato o agevolmente determinabile e percepibile da coloro nel cui
contesto socio-economico opera, anche attraverso l'indicazione di
caratteristiche somatiche, di tratti del comportamento, la menzione di cariche
sociali ricoperte o di altre attribuzioni (sociali, caratteriali ed anche
caricaturali,ecc.) idonee per una illuminante identificazione.
- Anche le
persone giuridiche possono, naturalmente, essere soggetti passivi. Nel caso di
attribuzione ad un'azienda, società o Ente di fatti, qualità o comportamenti
disonorevoli, si considera offesa la persona che riveste la massima carica
direttiva sociale o i componenti
dell'organismo che determina la linea di gestione dell'azienda,
legittimati, pertanto, all'azione di querela. Il reato di cui si discute,
secondo i principi generali, è soggetto alle cause di non punibilità (definite
negli artt. 51 e 52 c.p.) ed alle circostanze attenuanti (di cui all'art. 62
c.p.).
- 5.Conclusioni
in ordine alle condizioni di legittimità della critica sindacale
- Nelle
relazioni sindacali (così come nell'attività politica o nella professione
giornalistica) la critica e la censura (delle Oo.ss., R.s.a., delegati, ecc.,)
- così come il contrapposto esercizio di replica datoriale - trovano, da un
lato, la loro esclusione di criminosità giustappunto nel 1° comma dell'art. 51
c.p. che salvaguarda le conseguenze dell'esercizio di un diritto (o
dell'adempimento di un dovere) e, dall'altro, le loro circostanze attenuanti
nel punto 1) dell'art. 62 c.p., indicante "motivi di particolare valore
morale e sociale" che, quali moventi, indubitabilmente ricorrono sia
nell'attività di informazione sia nelle competizioni politiche sia nelle
dispute sindacali per la difesa degli interessi dei lavoratori.
- L'interesse
di uno stato democratico - quale il nostro - alla formazione della libera
coscienza e del giudizio critico attraverso il vaglio delle diverse
impostazioni e posizioni ideologiche, fa sì che sia al diritto di cronaca sia
al diritto di critica e di polemica (diritti che al fine sopra delineato sono
strumentalmente funzionali) specie quando siano esercitati da chi svolge una
professione nell'interesse pubblico (il politico ed il sindacalista), venga
accordato un certo grado di immunità nei confronti dei reati contro l'onore.
Nel senso che, qualora dall'esercizio di tali diritti consegua una compressione
della dignità personale (protetta dall'art. 2 Cost.) o della sfera morale dei
soggetti, la reazione che scatterebbe nella normalità dei casi ad una
determinata soglia, scatta solo quando la compressione ha raggiunto un grado
più elevato di incisività. Ad ogni buon conto questa salvaguardia - discendente
anche da una desensibilizzazione nei confronti del significato etimologico di
certi epiteti coloriti e di frasi aspre e crude, profferite da parte di
operatori sindacali, da politici o giornalisti - non equivale a tolleranza
assoluta né può occasionare licenza estremamente permissiva, pur nel
presupposto dell'insussistenza dei condizionamenti discendenti dal
"vincolo di subordinazione", disattivato - come ha confermato la
Cassazione - per il caso dell'attivista sindacale in veste di dipendente.
- I
principi che sono scaturiti dalle numerose decisioni della Cassazione (di cui
si sintetizza il pensiero) consentono di affermare che - scontata nella
competizione sindacale l'attenuazione dell'intensità offensiva di frasi ed
espressioni colorite ed aggressive (16) - la censura o la polemica cui
quotidianamente le strutture o gli attivisti sindacali danno vita ed alimentano
nel contrasto dialettico, incontra dei limiti sostanziali e formali, esterni ed
interni, e può dirsi lecita nella misura in cui rispetti :
- a) il
limite esterno imposto dal contemperamento della libertà di manifestazione del
pensiero con l’esigenza di tutela di interessi parimenti garantiti
dall’ordinamento; cioè a dire: a1) in quanto espressione di un diritto di
libertà (art. 21 Cost; artt. 1 e 14 L. n. 300/'70; art. 51 c.p.) tale critica
deve essere esercitata in forme non lesive di altrui diritti di valore
altrettanto significativo, quali quelli che si compendino nell'apprezzamento,
nella stima, nella rispettabilità e nella pari dignità personale in seno alla
comunità sociale (art. 3 Cost.); a2) e
quando si indirizza su atti di gestione datoriale o aziendale, deve contemperarsi
con la libertà di impresa ed il diritto alla dignità dell’azienda come
formazione sociale, la quale da una eventuale grave offesa all’immagine è
suscettibile di ricevere un danno maggiore di quello derivante dall’aggressione
all’integrità degli impianti;
- b) il
limite interno della cd. “continenza formale”, il quale implica che
l’esposizione dei fatti e degli addebiti non debba sconfinare in valutazioni o giudizi gratuitamente attributivi di
fatti e qualità infamanti, con la correlativa conseguenza che tale critica deve
essere improntata a “leale chiarezza”, tramite l’evitamento del “sottinteso
sapiente”, degli accostamenti suggestionanti, del tono sproporzionalmente
scandalizzato o sdegnato, specie nei titoli di articoli o pubblicazioni,
evitando così anche la drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre
come pure evitando di far ricorso alle vere e proprie insinuazioni (così da
Cass. n. 4952/98). Addizionalmente, nell’esercizio della critica si dovrà aver
cura che non vengano oltrepassati i
limiti che sono connaturali al diritto medesimo (ad es. non sarebbe lecito,
nelle polemiche di lavoro che le OO.SS. o le R.s.a. censurassero la sfera del
datore di lavoro attinente alla sua vita privata, così come non sarebbe lecito
- da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo diritto di replica a
difesa - colpire l'attivista sindacale nella sua sfera privata). Cioè a dire la
critica deve oggettivarsi su comportamenti o azioni attinenti alle qualità
professionali delle parti in contesa e non su aspetti estranei o irrilevanti
all'area della vertenza di lavoro;
- c) il
limite della “continenza sostanziale”, implicante il rispetto e la
garanzia dell'obbiettività e della
veridicità (trattandosi di attribuzione di “fatti determinati") e comunque
i fatti - oltreché essere pertinenti con la qualificazione (o veste)
professionale delle parti - non debbono essere stravolti o enfatizzati né
servire da presupposto per accreditare pubblicamente convincimenti screditanti;
- d) inoltre
la critica sindacale, lungi dall’essere gratuita e disinvolta, dovrà essere
sorretta e finalizzata a scopo di
contrapposizione dialettica su questioni di rilevanza sociale, contrattuale e/o
attinenti al rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 9743/2002) ed in quest’azione di
contrapposizione per la difesa di interessi collettivi non debbono essere
calpestate - anche nell'accesa dialettica sindacale - sia attraverso le
modalità espressive sia sotto l'aspetto contenutistico/sostanziale, quelle
regole di un ideale codice di correttezza che sta al fondo di ogni ordine e
tipo di relazioni sociali e che in una combattiva ma, in ogni caso, civile
convivenza, contorna e delimita anche le più aspre contese.
- Quanto
sopra ci è sembrato opportuno prospettare per tentare di segnare - al momento -
dei punti sufficientemente fermi in un'area (quella delle relazioni sindacali)
dai contorni estremamente fluidi e per delineare tentativamente delle regole
comportamentali per coloro che in quest'area istituzionalmente operano.
-
-
Roma,
7 luglio 2003
- Mario
Meucci
- NOTE
- (1)
Cass. 5 luglio
2002, n. 9743 trovasi in Foro it. n.10/2002.
- (2)
Cass. n. 7091/2001, trovasi in Mass. giur. lav.
2001, 792 con nota di Giovagnoli ed in Lav. prev. Oggi 2001, 1208.
- (3)
Cass. n. 4952/1998 trovasi in Orient. giur. lav. 1998, I, 323 e in Mass. giur. lav.
1998, 663, con nota di Failla.
- (4)
Cass., sez. lav., 22 agosto 1997, n. 7884, trovasi in Dir.
lav., 1998, II, 166, con nota di
Innocenzi.
- (5)
Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173, trovasi in Foro it.,
1986, I, 1877, con nota di Mazzotta; Not. giurispr. lav., 1986,
18; Corriere giur., 1986, 514, n. Vitali; Lavoro 80, 1986, 473,
n. Muggia; Mass. giur. lav., 1986, 409.
- (6)
Cass., sez. lav., 3 novembre 1995, n. 11436 trovasi in Lav.
prev. oggi, 1996, 144; Mass. giur. lav., 1996, 11; Not.
giurispr. lav., 1996,
86.
- (7)
Cass. pen. 2.10.1978, in Foro
it. 1979, II, 111.
- (8)
Cass.22 agosto1997, n. 7884, (anche) in Not. giurisp.
lav. 1997, 646; Cass. 4.3.1996, n. 1669; Cass. sez. un. 3.6.1993, n. 6179;
Cass. 25.10 1986, n. 1173, in Foro it. 1986, I, 1877, con nota di
Mazzotta, “Diritto di critica e contratto di lavoro” (nonché in Lav.
80, 1986, 573 con nota di Muggia, Diritto di critica, verità dei fatti e
licenziamento); Cass. 25.11.1986, n. 6945, in Not. giurisp. lav.
1987, 479; Cass. sez. un. 17.1.1986, n.276.
- (9)
Correttamente Mazzotta riduce i criteri per la
legittimazione del diritto di critica al seguente riscontro di sussistenza: a)
della la rilevanza costituzionale degli interessi in gioco ed a tutela dei
quali il diritto di critica viene esercitato dal lavoratore; b) della
veridicità dei fatti divulgati; c) della liceità in sé dei veicoli verbali
adoperati. Con chi scrive (ed aveva espresso in precedenza lo stesso concetto
negli articoli citati in premessa) asserisce in conclusione che, ai fini della
valutazione della giusta causa di recesso per vulnerazione dell’elemento
fiduciario, “il giudice non potrà fare a meno di tenere nella giusta
considerazione il grado di ‘adesione’ agli interessi del datore di lavoro,
connotato dalla posizione assunta dal lavoratore nella gerarchia dell’impresa,
essendo quasi ovvio che la lesione dell’immagine potrà essere meglio tollerata,
nell’economia della relazione contrattuale, se proveniente da un collaboratore
di infimo ordine piuttosto che da soggetti che rappresentano anche all’esterno,
l’impresa”.
- (10)
In Foro it. 1987, I,
948.
- (11) In Dir.
prat.lav. 1989, 374.
- (12) In Or. giur. lav. 1992,310.
- (13) Così
Trib. pen. Catania , imp. Basile e Guccione, in Or. giur. lav. 1995,
327.
- (14) Così
Cass. 5 giugno 1955, in Giust. pen. 1956,II,566.
- (15)
Vedi Cass. 17 marzo1972, in Cass. pen. Mass. ann. 1974, 494,m. 727.
- (16) Conf.
Cass. n.2846 del 17 maggio 1979, in Mass. giur. lav. 1980, 225, con nota di
Meucci; Cass. 22 agosto 1997, n. 7884, cit. In dottrina, vedi: Meucci, I limiti della critica sindacale,
in Lav. prev. Oggi 1979, 1269; Id., Ancora sul diritto di critica sindacale,
ibidem 1998, 1083; Tullini, Il diritto di critica civile del
sindacalista, in Riv. it. dir. lav. 1999, II, 346; Aimo, Appunti sul diritto di critica del
lavoratore, in Riv. giur. lav. 1999, II, 455; Failla, Diritto di
critica sindacale o diritto di offesa? Ancora sul (chiaro) confine fra la
critica e l’attacco personale, in Mass. giur. lav. 1998, 25.
- Circa la
lettura da conferire all’art. 2105 c.c., vedi, recentemente, Cass. 16 gennaio
2001, n. 519, in Lav. prev. Oggi, 2001, 367; Meucci, I limiti della collaborazione in azienda, in Riv.
crit. dir. lav. 1997, 695 e dello stesso autore, Vicende private e incidenza sul rapporto
“fiduciario” di lavoro”, in Lav. prev. Oggi, 2001, 859.
-
- (pubblicato
in Consulenza - Buffetti ed. n.25/2003, p. 28 e ss.)
-
Insussistenza di reato di
diffamazione
N.2247/ 05
R.G.G.P.
N. 767 / 05 R.G.N.R.
N. 299 / 05
R.SENT.
TRIBUNALE ORDINARIO DI COSENZA
UFFICIO DEL G.I.P.
DEPOSITATO
Il 17/10/2005
Tribunale di Cosenza
-
Sezione del Giudice dell'Udienza Preliminare -
-----
SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE
- art. 425 c.p.p -
Repubblica Italiana
In Nome del
Popolo Italiano
Il Giudice
dell'Udienza Preliminare,
nella persona del
doti. Livio A. Cristofano, all'udienza preliminare del 10 ottobre 2005,
ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del
dispositivo, la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale
instaurato nei confronti di:
V del V.,
libero, presente;
IMPUTATO
del reato di
cui agli artt. 81, 595 c.p.,
13 1. 47/48 perché, con più azioni
esecutive del medesimo disegno criminoso e agendo in tempi diversi,
rendendo le dichiarazioni riportate negli articoli, che si intendono qui integralmente riportati,
pubblicati rispettivamente da "Il
Domani" (27.12.2002), la "Gazzetta del Sud" (27.12.2002), il “Quotidiano"
(29.12.2002, 31.12.2002, 14.1.2003), offendeva la reputazione di A. F.
con
frasi
del
seguente tenore:
" ..
ha dimostrato di non
essere in
grado di adempiere ai Suoi
obblighi nei confronti dei lavoratori
…qualsiasi altro onesto imprenditore potrebbe riuscire … ad incrementare
il giro di affari, ad essere più puntuale e ad offrire un prodotto
sicurezza di più elevato livello … più un piccolo Ras che un imprenditore
europeo”.
In Cosenza, nelle date di pubblicazione dei quotidiani,
querela del 29.1.2003.
Con l'assistenza dell'operatore B2 Mirella Sole e con
l'intervento del pubblico
ministero
dott. Ernesto Anastasio, dell'avv. Pierpaolo Greco del foro di Catanzaro,
difensore della parte civile A. F. e dell'avv. Giovanni Cadavero, in
sostituzione
dell'avv. Domenico Vavalà, difensore di fiducia dell'imputato.
M O T I V A Z I O N E I N F A T T O E I
N D I R I T T O
Con istanza depositata in data 6.5.2005, l'Ufficio del
pubblico ministero avanzava
richiesta di
rinvio a giudizio dell'odierno imputato per rispondere del reato
ascrittogli
nell'editto accusatorio sopra formulato.
All'odierna
udienza preliminare, la persona offesa si costituiva parte civile tramite
il proprio difensore di fiducia.
All'esito
della discussione e delle conclusioni
rassegnate dalle parti come riportate
a verbale, e
stata
resa
la pronuncia di non luogo a procedere a norma dell'art. 425 c.p.p..
Difatti, la richiesta con cui veniva esercitata l'azione
penale nei confronti
dell'odierno prevenuto non può reputarsi sufficientemente supportata da
elementi idonei
a
raggiungere, nell'eventuale giudizio
dibattimentale, un'affermazione di penale
responsabilità in merito
alla sussistenza del fatto contestato.
Anzitutto, va precisato che l'imputato rivestiva la carica
di segretario nazionale del
S.A.VI.P. (acronimo che sta per Sindacato Autonomo Vigilanza Privata) e la
vicenda si
inseriva
nell'ambito di un'accesa vertenza sindacale fra l'Istituto di Vigilanza
Privata
Notturna
e Diurna srl, di cui titolare e legale rappresentante era la persona
offesa
A. F.,
e l'organizzazione sindacale predetta.
Oggetto della contesa era costituita da specifiche
rivendicazioni salariali e da questioni
inerenti alle condizioni lavorative assicurate ai dipendenti dell’istituto
in questione, che determinavano,
già
da alcuni mesi, la concretizzazione di
un aspro
confronto dialettico fra il F. e la rappresentanza della sigla sindacale,
sia a livello
locale
che successivamente nazionale (vedi la documentazione depositata in
udienza dalla
difesa dell'imputato).
In via
meramente preliminare, occorre rammentare che il procedimento all'origine
si instaurava presso l'autorità
giudiziaria di Catanzaro. Occorre in effetti ribadire la
competenza territoriale di questo
giudice, poiché è nel circondario di Cosenza che è
risultato insistere la sede
tipografica nella quale l'edizione dei quotidiani in questione
veniva stampata.
Si intende
così aderire all'orientamento prevalente
della giurisprudenza di
legittimità che individua il criterio per determinare la competenza
territoriale dei procedimenti per reati commessi col
mezzo della stampa nel
luogo di cosiddetta "prima diffusione",
per cui deve reputarsi consumato il
reato nel momento in cui, uscendo lo
stampato dalla tipografia, si realizza
la potenziale conoscibilità e consultabilità dello
scritto (Cass. 5.12.2002 n. 41038,
Calabrese; Cass. 12.10.2000 n. 4158, Pansa; Cass.
4.12.1991 n. 3834, Cantasso),
dovendosi pertanto ragionevolmente ritenere che in quella
circostanza spazio-temporale inizi ad estrinsecarsi l'aggressione
all'onorabilità morale
della persona offesa.
Al criterio esposto la Cassazione ha precisato che si
deroga solo nel caso di
impossibilità di
individuazione della sede della stampa o nell'eventualità dì parti del
periodico che vengano realizzate in luoghi diversi.
Per entrate
in medias res,
va precisato che il fatto-reato di diffamazione
a mezzo stampa, contestato al del V., concerne alcuni articoli pubblicati
sulle testate giornalistiche a diffusione regionale, contro i quali
sporgeva querela -presso la Procura
della Repubblica di Catanzaro in data 29.1.2003 la persona
che si reputava offesa dal
loro contenuto, ossia il F.
Gli articoli in parola sostanzialmente riprendevano e
riportavano testualmente le
dichiarazioni e le esternazioni di V del V., segretario nazionale del
sindacato
autonomo sopra citato, nelle quali veniva fortemente
criticato e stigmatizzato
l'operato
del datore di lavoro,
con espressioni di veemente censura.
In effetti, è
bene premettere che, nel caso che ci occupa, si verte nella fattispecie
del cosiddetto diritto
di critica e, a tal riguardo, occorre
tener presente - per un corretto approccio sistematico alla
disamina fattuale - che il costante
orientamento della Suprema
Corte accoglie il
principio secondo cui il linguaggio
della polemica politica (alla quale può
ben essere equiparata la polemica di
tipo sindacale) può assumere toni più pungenti ed
incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti
interpersonali tra privati (ad
es., Cass. 21.10.1999 n. 12013,
Casanova).
Ciò va detto
perché il
diritto di critica si differenzia
essenzialmente da quello di
cronaca in quanto, a differenza di quest'ultimo, esso non si concretizza
nella narrazione di fatti, bensì si estrinseca e sì manifesta proprio nell'esternazione e
nell'ostentazione pubblica di
un giudizio
o, più in generale, di un'opinione che, in quanto tale, non può
pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica -ancorché
non possa essere
totalmente avulsa da ogni riferimento
alla realtà sostanziale e tradursi in mera astrazione
diffamatoria o in pura invenzione congetturale-
non può che
essere fondata su
un'interpretazione necessariamente
soggettiva ed individuale dei
fatti criticamente
commentati (Cass. 21.2.2005 n. 6416, Ambrogio).
Ne consegue che quando la manifestazione verbale, sottoposta
alla valutazione
giudiziale, svolge una funzione prevalentemente valutativa e censoria, non
si pone tanto
un
problema
di veridicità delle proposizioni assertive ed i limiti scriminanti del
diritto di critica (garantito dall'art. 21 della Costituzione) sono solo
quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza
di espressione, con la conseguenza
che detti limiti vengono travalicati
solo ove l'agente trascenda gratuitamente in attacchi personali,
diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto
criticato, e quindi
vadano ad aggredire il
bene penalmente protetto
(Cass. 25.1.2005 n. 2247, Scalfari).
Ciò che il giudice deve dunque verificare, nella fattispecie
concreta, è
se si sia
realizzato un esercizio corretto e costituzionalmente garantito del
diritto
di critica, solo in tale
eventualità potendosi affermare non essere stato violato
il punto
di equilibrio e di
contemperamento fra i diritti
costituzionalmente protetti che vengono inevitabilmente in gioco in
vicende come quella in esame.
Detto ciò, il confronto -storicamente e fisiologicamente-
molto pungente e
virulento
che puntualmente si registra in polemiche del genere, ovvero nel contesto
delle
rivendicazioni che le organizzazioni sindacali periodicamente rivolgono alla
controparte
padronale,
non risulta essere avvenuto, nel caso
de quo,
con
modalità particolarmente allarmanti, con esternazioni
ingiustificatamente denigratorie e, soprattutto per ciò che qui
importa ai fini della rilevanza penale,
non sembra essere trasmodato in attacchi sconvenientemente lesivi
della reputazione del destinatario o in incivili e
volgari
aggressioni all'altrui senso dell'onore.
Proprio perché
non ci si trova dinnanzi ad un
caso di resoconto giornalistico, non
è necessario dilungarsi in considerazioni sul contenuto e sul merito
della vicenda che contrapponeva le due
parti in conflitto; piuttosto,
l'analisi può essere serenamente
circoscritta all'utilizzo da parte dell'imputato delle espressioni
riportate nel capo di imputazione, attinte
qua e là dai
vari articoli pubblicati
sulla vicenda.
E'
noto che i
delitti contro l'onore tutelano la
pari
dignità della persona umana,
attraverso il divieto imposto ai terzi di espressioni (sia a contenuto
diretto che mediante l'attribuzione di fatti) dei cd. `giudizi di
indegnità΄, produttivi di normale e riconosciuta riprovazione nella comunità
dei consociati.
Il capo di imputazione individua nelle frasi estrapolate
dagli articoli la lesione
all'onorabilità della persona offesa, ma il fatto diffamativo
non appare sussistere.
Nel caso specifico, le espressioni non paiono lesive del
decoro e della reputazione
del F.,
concretandosi essenzialmente in legittime critiche all'operato del titolare
dell'istituto di vigilanza che presentavano un evidente addentellato
all'atteggiamento
mantenuto nel
rapporto che strettamente ineriva il
contrasto in corso e che, d'altra parte,
non si traducevano in attacchi
effettivamente ed oggettivamente denigratori o in
contumelie personali di
inammissibile valenza offensiva.
L'unica locuzione sulla quale appare opportuno e necessario
soffermarsi
brevemente (risultando
tutte le altre delle -sin troppo- evidenti manifestazioni legittime
del
diritto
di critica) è costituita dalla definizione
del F. proveniente dall'imputato (che compare anche nel
comunicato
stampa del Savip del 23.1.2003 a firma
autografa dell'imputato: cfr. all. 18 della documentazione difensiva) come
di un "piccolo RAS”:
è, in effetti, proprio tale
espressione quella che si erge decisamente come dato centrale e topico della
imputazione contestata (e, non a caso, argomento principale delle
discussioni avvenute in sede
di udienza preliminare).
A tal proposito, va detto che, pur assumendo sicuramente
un'intrinseca
connotazione negativa e personalistica, la locuzione in sé
non integra la lesione dell'altrui
reputazione. Il vocabolo “Ras”, di
derivazione etimologica straniera, è, come ampiamente
notorio, il titolo
che veniva attribuito
nel passato ai dignitari feudali
delle province etiopiche, in
pratica figure di potenti che assumevano un ruolo simile a quello di un
“governatore” di un determinato territorio.
E' altrettanto
indubitabile che esso venga,
nell'uso lessicale
comune e attualmente diffuso,
utilizzato in senso spregiativo quale
sinonimo di personaggio
che agisce in
maniera dispotica ed arrogante.
Ora, se questa è
l'accezione
usuale che può attribuirsi
al sostantivo (e, allo stato, non se ne conoscono
altre),
esso non può che ritenersi veicolo e
strumento verbale indicativo
di un sentimento
di forte censura e di chiara disapprovazione politicosindacale
(il riferimento al 'tiranneggiare' della parte datoriale è storicamente
ricorrente nelle controversie di
tal genere), ma non risulta di certo paragonabile
ad una vera e propria
contumelia personale,
in quanto comunque lemma adeguato,
continente e
strettamente afferente al contesto
della polemica di natura
sindacale in corso di svolgimento
(Cass. 18.12.1997 n. 11905, Farassino).
Si
noti che
l’espressione,
rivolta al F.,
"di
sentirsi
più
un
picciolo Ras che un
imprenditore europeo”
veniva
utilizzata in una dichiarazione,
resa dal
prevenuto alla stampa,
che
pretendeva di costituire
una nota
di
reazione e di critica
alla
lettera di licenziamento
inviata
dal titolare dell’istituto di vigilanza
al segretario provinciale del
Savip e ad una
contestazione mossa al rappresentante aziendale del medesimo
sindacato.
In conclusione, le affermazioni riportate negli articoli
risultano, ad avviso del giudice e senza serie possibilità di obiezioni,
come una legittima e tollerabile
estrinsecazione
del
diritto
di
critica,
correttamente
proporzionata
all’intensità
del
conflitto e alla risonanza pubblica che poteva essere attribuita alla
vertenza sindacale
in
corso
(peraltro, risultava che il F., da parte sua, esternava la propria opinione e
rendeva ai
giornali dichiarazioni anch'esse critiche
sull'atteggiamento mantenuto dal
segretario nazionale Savip e che le
dichiarazioni oggetto dell'incolpazione erano già state
abbondantemente precedute da varie
dichiarazioni e controdichiarazioni: vedi sempre
fra
la documentazione
prodotta dalla difesa dell'imputato).
Ne consegue, in definitiva, che la valutazione degli elementi
addotti a supporto
della
richiesta di rinvio a giudizio conduce ad una valutazione che esita
in
una tale
debole
consistenza intrinseca dell'antigiuridicità
del
fatto addebitato all’imputato da farlo
ritenere
insussistente, apparendo d'altronde del tutto
inutile e superfluo il rinvio ad un
possibile scenario dibattimentale,
atteso che nessun dato ulteriore e diverso potrà essere
acquisito in quella sede.
Non va condannato il querelante alla
refusione
delle
spese del procedimento
anticipate dallo Stato non intravedendosi alcun profilo colposo
nell'avvenuto
esercizio
del diritto
di
querela (Corte Cost. sent. 3.12.1993 n. 423).
P.Q.M.
Il Giudice
dell'Udienza Preliminare
visto l'art. 425
c.p.p.,
dichiara non luogo a procedere nei
confronti
di
V del V. in ordine
al reato ascritto perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Cosenza, il di 10 ottobre 2005
(depositato il 17.10.2005).
Il Giudice
dott. Livio A. Cristofano
Satira in volantino sindacale:
insussistenza diffamazione