DANNI DA MOBBING
 
(Considerazioni generali e specifiche, con riferimento alle sentenze di Trib. Milano 29.6.2004, di Trib. Forlì 28.1.2005 e di Trib. Agrigento 1.2.2005, n.d.r.)
 
Non è questa la sede per scendere ad un esame dettagliato della rivoluzione interpretativa intervenuta in materia di danno non patrimoniale da poco più di un anno a questa parte.  
 
E’ noto a tutti come, da quel rivolgimento, sia emersa una classificazione tripartita dei pregiudizi non suscettibili di valutazione economica da risarcirsi in applicazione dell’art. 2059 c.c.: la Corte costituzionale ha, in particolare, affermato che l’universo non patrimoniale comprende “sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia, infine, il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.
 
Le tre categorie riguarderebbero distinte componenti del danno non patrimoniale, le quali potrebbero tutte essere attribuite alla vittima senza il rischio di incorrere in duplicazioni risarcitorie.
 
Un esame più attento della classificazione appena rammentata pone, tuttavia, in luce la natura disomogenea della stessa.
 
A ben vedere, infatti, il danno morale riguarda un determinato tipo di riflessi provocati dal torto - vale a dire le conseguenze di ordine sofferenziale indotte nella sfera emotiva della vittima - mentre nelle altre due categorie si pone piuttosto l’accento sulla valenza costituzionale dell’interesse colpito.
 
Ove si intenda – correttamente – analizzare tali poste dal punto di vista dei riflessi dannosi ad esse riconducibili, si tratta allora di evidenziare come entrambe le figure vengano ad interessare lo stesso tipo di conseguenze: vale a dire i pregiudizi che incidono su quelle attività della persona che rappresentano il mezzo attraverso il quale essa realizza la propria personalità.
 
A differenziare le due voci è esclusivamente il genere di interesse la cui lesione si pone all’origine di quei riflessi negativi; in buona sostanza, danno biologico e danno esistenziale appaiono complementari, poiché l’uno concerne i riflessi negativi provocati (a carico delle attività realizzatrici della vittima) dalla lesione della salute, mentre l’altro interessa lo stesso genere di conseguenze, prodotte dal torto che colpisca un diverso interesse costituzionalmente garantito.
 
A fronte di tali precisazioni si tratta, allora, di chiedersi se la liquidazione contemporanea di entrambe le poste – cui viene dato corso in tutte e tre le sentenze in commento – possa essere interpretata come una duplicazione risarcitoria.
 
Per rispondere ad una simile domanda, bisogna interrogarsi, anzi tutto, circa gli interessi sui quali viene ad incidere l’illecito di mobbing.
 
Il punto fondamentale da sottolineare, sotto questo aspetto, riguarda la violazione – sempre ricorrente in casi del genere – della personalità morale della vittima, così come si estrinseca nello svolgimento dell’attività lavorativa.
 
Poiché il mobbing impedisce il corretto svolgimento di quest’ultima, ne consegue automaticamente una compromissione della realizzazione personale del lavoratore; prima della salute della vittima, allora, ad essere incisa è l’immagine e la dignità dell’individuo mobizzato.
 
Di qui la conclusione che – ove sia accertato un fenomeno di mobbing – al lavoratore sarà sempre dovuto il danno esistenziale: vale a dire quel pregiudizio corrispondente alla compromissione dell’attività lavorativa e ai più generali riflessi nell’esplicazione della propria personalità determinati da una simile situazione.
 
Ciò posto, resta da dire che la sottomissione continuativa a pratiche vessatorie è tale da ripercuotersi, assai di frequente, sulla stessa integrità psichica della vittima.
 
Il lavoratore mobizzato, in una gran parte di casi, si trova a veder compromessa anche la propria salute.
 
Ne consegue che - laddove una malattia venga effettivamente accertata e correlata causalmente alle vessazioni patite – è possibile dar corso al risarcimento del danno biologico.
 
Tutto ciò significa, allora, che potrà essere considerata senz’altro corretta una soluzione volta ad attribuire alla vittima del mobbing, la quale abbia riportato anche una malattia in conseguenza alle vessazioni subite, un danno biologico da aggiungere a quello esistenziale.
 
Occorre però precisare che – rispetto alla scansione logica seguita nelle sentenze in commento - il percorso argomentativo segue una logica inversa: prima viene, infatti, la lesione della dignità del lavoratore, che determina la ricorrenza del danno esistenziale; poi, in quanto si accerti anche la violazione della salute, a tale voce si aggiunge quella volta a ristorare il danno biologico.
 
Resta da dire che, poiché danno esistenziale e danno biologico interessano lo stesso tipo di riflessi dannosi, la liquidazione del pregiudizio alla salute verrà a coprire soltanto quelle conseguenze esistenziali peculiarmente legate alla malattia: quelle ripercussioni, cioè, che vengono ad incidere nella sfera della vittima oltre i normali effetti negativi sulla qualità della vita che la vessazione abbia già prodotto a suo carico.
 
Si tratta, in buona sostanza, di rilevare come gli effetti negativi della lesione della dignità del lavoratore e della lesione della sua salute appaiono - per una quota - peculiarmente legati alle due distinte violazioni (si pensi, ad esempio, al discredito provocato dalla perdita del prestigio lavorativo, che dipende esclusivamente dalla lesione della dignità, ovvero ai sintomi fisici di vertigini, astenia, e simili, legati esclusivamente alla lesione della salute psichica); per un’altra quota rappresentano, invece, il prodotto congiunto di entrambe le violazioni.
 
Cura del giudice, allora, sarà porre viva attenzione nell’evitare che questi ultimi riflessi dannosi - prodotti dalle violazioni concorrenti di interessi distinti - possano essere liquidati due volte: sia a titolo di danno biologico che di danno esistenziale.
 
Tale rischio sembra, in qualche modo, emergere nella sentenza del tribunale di Agrigento, dove non appare tratteggiata in maniera chiara la peculiarità volta a giustificare il ristoro, a titolo di danno esistenziale, della compromissione della relazionalità dell’individuo: quest’ultima - vista come esigenza di ripiegamento in se stesso - sembra piuttosto delinearsi quale riflesso tipicamente legato al disturbo psichico accusato dal lavoratore.
 
La stesso pericolo di duplicazione viene corso nella pronuncia milanese, dove il danno esistenziale - pur essendo correttamente liquidato quale conseguenza della lesione (distinta da quella alla salute) della dignità personale del lavoratore - finisce per essere tratteggiato troppo genericamente, quale compromissione della qualità della vita del lavoratore all’interno e all’esterno del posto di lavoro; effetti negativi che non sembrano differenziarsi da quelli presi in considerazione nella liquidazione del danno biologico, quale conseguenza della patologia psichica provocata dalle vessazioni.
 
Maggiormente argomentata appare, invece, la liquidazione del danno esistenziale – in aggiunta a quello biologico – da parte del tribunale di Forlì.
 
Vengono, infatti ricondotti in tale ambito la compromissione dell’immagine professionale della vittima e lo stigma nei suoi confronti: riflessi negativi, questi, che prescindono dalla violazione della salute ed appaiono, invece, peculiarmente correlata alla lesione della dignità e dell’immagine del lavoratore.
 
L’intreccio che lega le varie voci di danno – nell’illecito di mobbing - impone al giudice la necessità di scandire con precisione le conseguenze negative ricondotte a ciascuna delle poste attribuite alla vittima, onde evitare il rischio di duplicazioni.
 
Ciò vale non solo - come abbiamo visto finora - per quel che riguarda danno biologico e danno esistenziale, ma anche con riguardo ad altre figure, quali il danno morale o addirittura il danno patrimoniale.
 
Poiché tutte e quattro le poste potranno essere liquidate a favore del lavoratore vessato – come, ad esempio, concretamente avviene nella sentenza del tribunale di Agrigento – si tratta di sventare il pericolo che il medesimo effetto negativo patito dalla vittima possa essere attribuito alla stessa più volte, sotto etichette differenti.
 
La vittima del mobbing appare legittimata a richiedere, in ogni caso, il risarcimento del danno morale.
 
Da questo punto di vista, del tutto fondata appare la scelta del giudice siciliano di non legare la riparazione di un simile pregiudizio all’accertamento di un reato; tale posta, infatti, potrà senz’altro essere risarcita - nella rinnovata ottica di rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. - ogni volta che venga integrata la lesione di un interesse protetto dalla Carta fondamentale: che, nel caso di specie, corrisponde alla dignità del lavoratore.
 
Una simile violazione, oltre a dare origine ad un pregiudizio nella sfera esistenziale/esterna della vittima, si ripercuote nella sua dimensione emozionale, compromettendone l’equilibrio psichico.
 
Anche tali riflessi interni debbono darsi per scontati, in accordo con quanto statuisce la sentenza in commento; resta da sottolineare che talvolta, come nella fattispecie esaminata, il perturbamento d’animo trascende il livello fisiologico, per sfociare in una vera e propria malattia psichica ed in tal modo finisce allora per riverberarsi sul pregiudizio di carattere biologico ed essere preso in considerazione anche a quella stregua.
 
Problemi di esatta delimitazione dei confini tra le varie figure si pongono anche con riguardo al danno alla professionalità, che il tribunale siciliano liquida quale pregiudizio patrimoniale, ma di cui appare ambigua e discussa la natura.
 
Basti qui sottolineare come, di recente, la Cassazione abbia – in caso di dequalificazione professionale – provveduto a ricondurre tali ripercussioni nell’ambito dei pregiudizi non suscettibili di valutazione economica.
 
E sulla medesima linea si colloca la pronuncia del tribunale di Forlì che qui si commenta, nella quale vediamo che al pregiudizio di carattere professionale risulta attribuita la veste di danno esistenziale.
 
Ecco allora che sarà ammissibile procedere al ristoro, in aggiunta a quest’ultimo, di un pregiudizio di carattere patrimoniale correlato alla lesione della professionalità esclusivamente nel caso in cui le vessazioni patite dal lavoratore mostrino di essersi concretamente ripercosse – sia pure nei termini di danno futuro - in una perdita di carattere economico.
 
Qualche notazione finale va riservata al metodo seguito, nelle pronunce in commento, ai fini della quantificazione delle voci non patrimoniali del danno: in particolare per quel che riguarda il pregiudizio di carattere esistenziale.
 
In tutte le sentenze la liquidazione dello stesso risulta, per qualche verso, agganciata a quella del danno biologico.
 
In due casi ciò avviene prendendo a riferimento la somma concretamente liquidata, nel caso di specie, a tale titolo. In particolare, il tribunale milanese ritiene di rapportare il pregiudizio di carattere esistenziale alla metà della somma liquidata quale pregiudizio alla salute, sommando sia la componente temporanea che quella permanente.
 
Anche il tribunale siciliano si rapporta alla somma liquidata a titolo di danno biologico (permanente); il punto è che l’importo calcolato nella frazione di un quinto di quest’ultimo viene poi moltiplicato per i mesi di durata dell’attività vessatoria.
 
Il ragionamento comune alle due sentenze, secondo cui il danno esistenziale andrebbe rapportato ad una frazione di quello biologico, non appare condivisibile per il fatto di basarsi su un’inversione logica; infatti, è il danno esistenziale – nella fattispecie di mobbing – a prodursi sempre e comunque, mentre quello biologico risulta solo eventuale.
 
Una vessazione particolarmente grave potrebbe non essersi necessariamente tradotta in una compromissione della salute psichica del lavoratore, ma ugualmente aver inciso in maniera fortemente negativa sulla sua qualità di vita.
 
Né l’applicazione pratica del criterio in questione appare cristallina nelle due sentenze: in un caso, vengono cumulate indistintamente le voci di danno biologico, sommando invalidità temporanea e permanente, senza motivare una simile operazione; dall’altra parte, viene ricostruita una relazione tra danno esistenziale e danno biologico permanente, salvo poi moltiplicare la somma così ottenuta per la durata della vessazione (logica, questa, che appare piuttosto correlata alla somma attribuita quale invalidità temporanea).
 
Maggiormente fondata appare, invece, la strada seguita dal tribunale di Forlì, dove il riferimento utilizzato per calcolare la somma dovuta a titolo di danno esistenziale è quello del valore medio dell’indennità di invalidità temporanea.
 
Dal momento che tale somma appare – in generale - destinata a compensare il completo impedimento delle attività realizzatrici della persona con riguardo ad una giornata, il danno esistenziale potrà essere opportunamente calcolato in una frazione della stessa, in ragione del ventaglio più o meno ampio di attività compromesse dal torto.
 
Qualche dubbio, semmai, sorge per il fatto che – nel caso di specie – l’importo del danno esistenziale giornaliero è stato dal giudice calcolato non già in una frazione di tale somma, ma moltiplicando la stessa per due: se, infatti, il danno biologico temporaneo corrisponde al totale annullamento di ogni attività della vittima, non appare concettualmente giustificato procedere ad una moltiplicazione di tale importo, a meno di non voler attribuire a ad una simile operazione una valenza di carattere repressivo nei confronti del comportamento del danneggiante.
 
14.02.2005
Patrizia ZIVIZ

Prof. associato di Istituzioni di diritto privato

(fonte: http://www.personaedanno.it)

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