IL
DANNO ESISTENZIALE NEL RAPPORTO DI LAVORO
Sommario: 1. Il nuovo assetto dei danni risarcibili
- 2. Lo sganciamento del danno morale risarcibile dal riscontro dell’illecito
penale - 3. Il danno esistenziale nel nuovo assetto dei danni risarcibili - 3.1.
Segue: Danno
esistenziale e prova per presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c. - 4. La rilevanza del
danno esistenziale nel campo delle lesioni dei diritti della personalità del
lavoratore: pregiudizio alla professionalità e prova per presunzioni - 5. Oneri
probatori e attenzioni contro le duplicazioni risarcitorie.
1.
Nel periodo compreso tra i mesi di maggio/luglio 2003 e gennaio 2004
sono state redatte alcune importanti decisioni della Corte costituzionale ([1])
e della Corte di Cassazione ([2])
‑ condivise e richiamate da una recentissima sentenza di merito ([3])
sul mobbing
nella pubblica
amministrazione ‑, tutte emesse sul tema della responsabilità
risarcitoria da atto illecito, che hanno indicato e delineato un nuovo
orientamento rispetto al precedente assetto del risarcimento del “danno
ingiusto” (assetto notoriamente riposante sulla tripartizione nelle
tradizionali tre componenti del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale
– cioè a dire del danno morale soggettivo – e del danno biologico,
attinente eminentemente alla lesione dell’integrità dello stato di salute
psico-fisica, ma dalla giurisprudenza pregressa della Corte costituzionale e
della Cassazione dilatato a copertura di altri danni di natura relazionale e
sociale).
Seppure
fosse già stata da tempo elaborata in sede dottrinale (con recepimento da parte
di isolata giurisprudenza di merito e di sporadiche sentenze della Cassazione)
la figura di un nuovo tipo di danno, denominato “esistenziale”, le
intervenute decisioni (della Consulta e della Cassazione) hanno accolto
pienamente la nuova fattispecie ed hanno stabilito che una lettura
costituzionalmente orientata delle nostre norme codicistiche (art. 2059 c.c., in
particolare) fa sì che si debba riconoscere nell’ordinamento una più moderna
o nuova ripartizione dei danni risarcibili da atto illecito, facente perno sulla
dicotomia tra a)
danno patrimoniale (consistente nella perdita di un bene o utilità
monetariamente quantificabile) e b)
danno non
patrimoniale, slegato da oggettive quantificazioni monetarie. A sua volta il
danno patrimoniale sub
a) è
suddivisibile nelle due specie del a.1)
danno emergente e del a.2)
danno da lucro cessante. Il danno non patrimoniale sub
b) è a sua
volta strutturato nelle tre sottospecie del danno morale soggettivo (c.d. pretium
doloris o
patema d’animo), inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo o
transeunte, turbamento dello stato d’animo della vittima, di cui si afferma
ora espressamente la risarcibilità indipendentemente dal vincolo o collegamento
all’ipotesi del reato, sganciando il danno de
quo dal
collegamento a fatti o atti con riconosciuta rilevanza penale ex
art. 185 c.p. (b.1);
del danno biologico inteso in senso stretto, come sola lesione dell’interesse,
costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona,
lesione accertata da una valutazione medica (art. 32 Cost.), in armonia con la
nuova definizione di tale interesse rinvenibile anche nell’art. 13 del d.lgs.
n. 38/2000 di riassetto dell’INAIL e nell’art. 5 della l. n. 57/2000 (che
introduce la griglia degli importi risarcitori del danno biologico di lieve
entità da incidenti stradali; il danno biologico è anche qui qualificato come
lesione all’integrità psico-fisica “suscettibile di accertamento medico
legale”) (b.2);
del danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale)
derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti
alla persona (b.3).
Esemplificativamente
- ma non esaustivamente - per la migliore comprensione del lettore, la lesione
di interessi di rango o rilevanza costituzionale, rifluenti nella fattispecie
(ad ampia portata) del danno esistenziale, è stata riconosciuta in dottrina ed
in giurisprudenza nei casi: di danno alla reputazione per effetto di
diffamazione; di danno alla professionalità da dequalificazione (o
demansionamento) lesiva del diritto costituzionale del lavoratore all’autorealizzazione
nel lavoro e nella comunità d’impresa e, più in generale, nella società
(art. 2 Cost.); nel danno da infortunio per mancata adozione dei presidi di
sicurezza; nel danno alla riservatezza per violazione della privacy
e per modalità scorrette nella raccolta di dati personali; nel danno da mancata
promozione per violazione delle norme concorsuali o di procedure di
procedimentalizzazione contrattualmente concordate nei c.c.n.l. o in accordi
aziendali; nel danno da estromissione da concorsi; nel danno da mancata
collocazione in graduatorie per l’impiego; nel danno da molestie e/o violenze
sessuali; nel danno da irragionevole durata del processo; nel danno da
privazione della libertà personale cagionata dall’esercizio di funzioni
giudiziarie; nel danno da atti discriminatori per motivi razziali, etnici o
religiosi; nel danno alla sfera sessuale preclusiva dei normali rapporti; nel
danno da elisione dei rapporti parentali a seguito di perdita di congiunto; nel
danno al diritto alla procreazione per interruzione di gravidanza; nel danno da
asfissia neonatale determinante la condizione di cerebroleso; nel danno per la
mancata fruizione della quiete e del riposo notturno (per immissioni e rumori
eccessivi); nel danno per la mancata fruizione delle ferie (c.d. vacanza
rovinata) o del riposo settimanale; nel danno da mancata protezione e difesa
della persona, e così via. Danni, tutti quanti compendiabili nella lesione
dell’interesse alla bontà o normalità della “qualità della vita” - nei
suoi vari aspetti di svolgimento - sia a livello individuale, sia in ambito
familiare e sociale.
In
ordine alla rilevata nuova configurazione o assetto sistematico, si esprimono
nello stesso senso Cendon e Ziviz
([4]),
secondo i quali «la mappa generale del danno aquiliano sarebbe …da
articolare, per il futuro, secondo una scansione intonata al 2+3 o al 2+2»
(quest’ultimo caso ricorre qualora il danno biologico venisse ricondotto
nell’ambito del danno esistenziale, cosa che noi, allo stato, non ci sentiamo
di condividere).
2.
L’occasione
per la delineazione del nuovo assetto dei danni risarcibili da fatto illecito si
è presentata in sede di esame del danno morale, in due vertenze giudiziarie
decise dalla Cassazione civile nello stesso giorno 31 maggio 2003 (nn. 8827 e
8828), in cui si eccepiva, ad es. nella fattispecie più monetariamente corposa
costituita da Cass. n. 8827, la (presunta) duplicazione risarcitoria reperibile
nella liquidazione equitativa operata con somma indennitaria onnicomprensiva, a
fronte di danno morale da acuta sofferenza dei genitori e di danno esistenziale
perenne per gli stessi (che la Corte d’appello di Bologna aveva, erroneamente
- ma correttamente secondo il pregresso orientamento - ricondotto nell’alveo
“dilatato” del danno biologico) i quali, per effetto di convivenza ed
accudimento del figlio cerebroleso a seguito di asfissia neonatale indotta dai
medici, si erano ritrovati “frustrati nell’aspettativa di una normale vita
familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale conduzione di
vita, ad una serena vecchiaia, …privati del rapporto genitore-figli,
unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle necessità del figlio
ridotto in condizioni pressochè vegetative”. L’eccezione della Compagnia di
assicurazione - in ordine alla liquidazione di un danno morale in assenza di un
riscontro di reato da parte dei sanitari, reato richiesto dalla lettera
dell’art. 2059 c.c. - è stata disattesa, così come è stata disattesa (nella
decisione n. 8828/2003) analoga eccezione, in fattispecie di danno morale da
perdita di congiunto in un incidente automobilistico in cui, mancando
l’accertamento della responsabilità di uno dei conducenti, la stessa è
presunta dall’art. 2054 c.c. e ripartita in pari misura tra i due conducenti.
L’art. 2059
c.c., invocabile in presenza di danno non patrimoniale, è stato da queste
sentenze della Cassazione (finalmente) depenalizzato - o, come altri hanno
detto, “normalizzato, costituzionalizzato, ‘duemilaquarantatreizzato’ ([5])
- , sganciando il risarcimento del danno morale (la sofferenza interiore più o
meno acuta e di varia durata, comunque transeunte) dal riscontro del reato,
correlandolo invece al riscontro dell’essere la sofferenza stata causalmente
conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti (nel caso: il
rapporto familiare e parentale, riposanti sul riconoscimento costituzionale, ex
art. 29, 1 c., Cost., dei “diritti di famiglia” latamente intesi). Ed è
stato “depenalizzato” con queste incisive, convincenti, argomentazioni: «
Si deve quindi ritenere ormai acquisito all'ordinamento positivo il
riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non
patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla
persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".
«Non
sembra tuttavia proficuo ritagliare all'interno di tale generale categoria
specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai
fini dell'ammissione al risarcimento, in riferimento all'art. 2059, è
l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano
pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.
«Venendo
ora alla questione cruciale del limite al quale l'art. 2059 del codice del 1942
assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di
legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l'art. 89
c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di
rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non
patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di
legge correlata all'art. 185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente
orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha
riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre
considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un
interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove
non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di
tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché
ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (… ).
«D'altra parte,
il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non
patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della
Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il
riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona
non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la
tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo
livello, di riparazione del danno non patrimoniale.» (Cass. n. 8828/03, cit.).
3.
Alla nuova elaborazione - o nuovo assetto dogmatico dei danni ingiusti,
delineato al par. 1 del presente articolo - si è pervenuti dal lato e sul
versante della enucleazione e valorizzazione del danno esistenziale, dopo che è
stata notata l’insufficienza della vecchia tripartizione (danno patrimoniale,
biologico, morale derivante da illecito penale) a coprire ipotesi di danno da
lesione di diritti della personalità costituzionalmente garantiti, diversi
dalla compromissione medico-legale della salute e dal danno psichico
clinicamente accertato, nel caso in cui tali pregiudizi - riconducibili sempre e
comunque al danno ingiusto ex
art. 2043
c.c.- non sfociavano o non si accompagnavano a comportamenti penalmente
rilevanti (ex
art. 2059 c.c. e 185 c.p.), tali da occasionare la soluzione risarcitoria
attraverso la fattispecie del danno morale.
Poiché
la Corte costituzionale e la Cassazione avevano da tempo affermato a chiare note
che «la vigente Costituzione, garantendo principalmente i valori personali,
svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli
della Carta fondamentale (che tutela i valori predetti) e che, pertanto, va
letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi
subiscono a causa dell’illecito» ([6]),
«l’art. 2043 c.c. …deve essere necessariamente esteso a ricomprendere il
risarcimento non solo dei danni patrimoniali in senso stretto, ma con eccezione
del danno morale, tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le
attività realizzatrici della persona umana» ([7]).
Conseguenza
di tali pregresse notazioni fu la nascita (e ora l’accreditamento pacifico)
del cd. danno esistenziale – come categoria
o sottospecie del
danno non patrimoniale (distinto dal danno biologico, soggetto al riscontro dei
c.t.u. e dei medici legali) -, tramite il quale il magistrato dovrà prendere in
considerazione, a fini risarcitori, tutte le lesioni, riconducibili a fatto
ingiusto, inferte ai diritti della personalità costituzionalmente protetti, che
nel campo lavoristico rilevano in forma di garanzia della personalità morale e
della dignità del lavoratore (ex
art. 41,
secondo comma, Cost.). I valori della libertà e dignità del prestatore
d’opera sono affermati costituzionalmente come
incomprimibili dalle esigenze della libertà di inziativa privata
d’impresa, e si attualizzano in forma di autorealizzazione nel lavoro e nella
comunità di lavoro o in altre aggregazioni ove si sviluppa la personalità del
cittadino-lavoratore (artt. 1, 2, 3, 4, 35 Cost.), in forma di rispetto della
personalità, il che implica l’ assoluto divieto di inflizione di
mortificazioni e vessazioni tanto sistematiche e volontarie (spesso sorrette,
anche se non necessariamente, dall’animus
nocendi)
quanto ingiustificate, unitamente (al) e in conseguenza del diritto al rispetto
in quanto persona.
Questi
pregiudizi non potevano rientrare (se non forzatamente e irragionevolmente)
sotto l’ombrello del danno biologico – nonostante ci si sia sforzati in
dottrina ed in giurisprudenza a coprire con esso oltre alla lesione della
salute, l’aspetto estetico, quello dell’efficienza sessuale, quello
edonistico o della normale vita di relazione – giacché il danno biologico è
stato, dalla più condivisibile dottrina, collegato di necessità e
correttamente alla salvaguardia della salute, ex
art. 32 Cost.,
e quindi copre (unitamente al danno psichico invalidante che ne è una
sfaccettatura) le sole lesioni all’integrità psico-fisica, suscettibili di
essere acclarate dalla scienza medica, con i suoi strumenti diagnostici.
E’ stato
giustamente osservato che il danno esistenziale copre, invece, quelle situazioni
esemplificativamente riconducibili al diritto a che la propria quotidianità non
peggiori per effetto di calunnie, al diritto a non essere insidiati nei propri
segreti, al diritto del bimbo a non essere dimenticato da chi dovrebbe
mantenerlo, del recluso a non essere colpito nei suoi diritti di recluso, a non
essere molestati sessualmente, e - nel campo del lavoro - a non essere
licenziati ingiustamente, a non essere demansionati e professionalmente
degradati, a non essere costretti a lavorare in condizioni e senza presidi di
sicurezza, a non essere mortificati e vessati ingiustificatamente come avviene
nelle varie ipotesi di mobbing.
Seguendo
questa posizione dottrinale, il danno esistenziale, quale categoria unica ed
unificante dei danni non patrimoniali diversi da quelli morali, fagociterebbe
(semplificando i giudizi e conferendo maggiore chiarezza all'ordinamento) il
danno biologico, quello alla vita di relazione, quello alla serenità familiare,
alla vita sessuale, ecc.; ma, secondo altra e diversa prospettazione, il danno
esistenziale andrebbe ad affiancarsi a quello biologico di matrice medico-legale
(posizione allo stato da noi condivisa).
La
nozione di danno esistenziale andrebbe, poi, ad assolvere la funzione di
riempire uno spazio vuoto, ovvero un'intera area di danni privi, di fatto, di
tutela risarcitoria. Si osserva, in particolare, che il nostro sistema
risarcitorio - prima dell’attuale riassetto bipolare - era fondato sulla
tricotomia danno biologico/danno morale/danno patrimoniale: il danno biologico (recte,
la lesione della salute conseguente ad un danno biologico) costituisce un
peggioramento della qualità della vita del danneggiato, causalmente dovuto a
una lesione in corpore (intendendo per tale anche la compromissione
dell'integrità psichica ); il danno morale costituisce una mera sofferenza
morale, una prostrazione dell'animo, un abbattimento dello spirito; il danno
patrimoniale, infine, costituisce una deminutio
patrimonii.
Questi
tre tipi di danno, tuttavia, non coprono l'intera gamma dei pregiudizi che il
danneggiato può risentire in conseguenza dell'altrui illecito; se infatti
questo non integrava - secondo la superata lettura dell’art. 2059 c.c. ora
depenalizzato - gli estremi di alcun reato, ovvero non ha causato una riduzione
delle entrate o del patrimonio, o ancora non ha causato una compromissione
dell'integrità psicofisica, parrebbe non sussistere alcuna ipotesi di danno. In
realtà così non non è - come ha rilevato da tempo anche la Cassazione -, in
quanto sono assai frequenti le ipotesi in cui l'atto illecito del terzo, pur non
incidendo né sulla salute, né sul patrimonio della vittima, gli preclude lo
svolgimento di attività non remunerative, sino ad allora abituali e
gratificanti: in questa perdita risiede il danno esistenziale, che può essere
definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non
remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non
causata da una compromissione dell'integrità psicofisica.
Il
danno esistenziale si differenzierebbe, quindi, dai tre consueti tipi di danno:
da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche
o del corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza (la
quale ovviamente può essere indotta dal danno, ma non si identifica con esso),
ma nella rinuncia ad un'attività concreta; dal danno patrimoniale, in quanto
non consiste in una diminuzione reddituale.
3.1.
Questi
diritti costituzionalmente protetti ed ingiustamente lesi debbono essere
riconosciuti ed indennizzati, a prescindere dalle difficoltà in cui potrà
imbattersi il magistrato nel loro riscontro, e per i quali il danneggiato dovrà
fornire indizi semplici ma concludenti in ordine alla durata, entità ed
intensità del pregiudizio subito, al fine di far azionare al magistrato il
ricorso (non disinvolto ma ponderato) alle presunzioni - che gli artt. 2727-2729
c.c. legittimano quale mezzo prudente di prova atto a far dedurre da un fatto
noto, tramite indizi precisi, gravi e concordanti, un fatto ignoto altrimenti
destinato a restar tale in presenza di situazione implicante la c.d. probatio
diabolica,
presunzioni cui spesso si é ricorsi usualmente nel campo lavoristico ed
addirittura in quello più delicato del riconoscimento di paternità ([8])-
integrabili o surrogabili, a fini della formazione del convincimento del
magistrato, con l’uso del comune buon senso o del fatto notorio per nozione di
comune esperienza ex
art. 115
c.p.c..
Non è superfluo
ribadire più incisivamente che le presunzioni costituiscono uno dei mezzi di
prova affidati alla “prudenza” del giudice, legittimate dal codice nel
processo del lavoro e nel processo civile, in specie su eventi o danni a
connotazione intrinsecamente probabilistica (quali la perdita di chance
promotiva e di ricollocazione esterna per obsolescenza da demansionamento o
forzata inattività). Come affermato dalla S.C. in una pronuncia in tema di
licenziamento discriminatorio desunto per concordanti presunzioni (sfocianti nel
brocardo id quod plerumque accidit), nel processo del lavoro vi sono
prove ardue o diaboliche da superare dal lavoratore e «proprio per temperare
tali effetti, da tempo la giurisprudenza ammette che in simili fattispecie
l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri conferitigli
dall'art. 421 c.p.c., facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui
agli artt. 2727-2729 c.c. In base all’art. 421 c.p.c., nel processo del lavoro
il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni
mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le
presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per
risalire ad un fatto ignoto» ([9]).
Secondo il corretto insegnamento della Cassazione ([10]),
«nella prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2727 e 2729 c.c., non
occorre che tra il fatto noto e quello ignoto (quale ad esempio la perdita di chance
promotiva e di riallocazione esterna per obsolescenza, n.d.r.) sussista
un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il
fatto da provare possa essere desunto dal fatto noto come conseguenza
ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, ossia che il
rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto venga accertato
alla stregua dei canoni di probabilità» - come potrebbe essere la chanche
della mancata promozione per il demansionato, giacchè il datore di lavoro che
lo “mobbizza” deliberatamente gli infligge anche la vessazione della mancata
promozione: e la prova al magistrato della discriminazione indebita potrà esser
data evidenziando concludentemente che i colleghi di pari anzianità e con
similari o identiche mansioni l’hanno invece ricevuta -, con la precisazione
che «l’apprezzamento del giudice di merito circa l’inesistenza degli
elementi assunti a fonte della presunzione e la loro rispondenza ai requisiti di
gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in
sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei
criteri giuridici» ([11]).
Per
la tutela di situazioni di danno “in zona grigia” è stata elaborata già da
tempo – ed ora recepita dalla stessa Consulta nella decisione n. 233/2003 - la
categoria del “danno esistenziale”. Come si era fatto notare, nel passato
prossimo, in dottrina: «più volte gli stessi giudici si sono trovati di fronte
a situazioni sicuramente ingiuste, per lo meno rispetto alla sensibilità
sociale che il magistrato impersona e concretizza nel momento
interpretativo/applicativo della norma, tuttavia senza la possibilità di
condannare il responsabile al risarcimento del danno, a causa della mancanza di
una condotta di tipo penale in grado di ammettere l’esistenza del danno morale»
([12]).
Si era anche
condivisibilmente osservato che per essere coerenti con le indicazioni della
Corte costituzionale che ha legittimato nel 1986 il danno biologico in relazione
a lesioni della salute, se altri diritti sono assistiti da pari garanzie
costituzionali, ed è questo il caso dei diritti inviolabili della personalità,
non può non essere fatto valere nei confronti delle lesioni di essi lo stesso
ragionamento fatto per le lesioni del diritto alla salute: vale a dire, anche in
questi casi (in precedenza esemplificati e ricondotti nella categoria del danno
esistenziale) il danno non patrimoniale deve essere risarcito ex art. 2043 c.c.
come species di danno ingiusto ([13]).
Nello
svolgimento evolutivo della tematica ha prevalso la tesi – affermata ora
esplicitamente da Corte cost. n. 233/2003 e da Cass. n. 2050/2004 –
dell’autonomia della nuova figura del danno esistenziale, quale fattispecie di
danno non patrimoniale.
Tale species di
danno è quello conseguente alla lesione di un “diritto della personalità”
di rango costituzionale, in grado di contenere anche tutte quelle figure
risarcitorie che, seppure sorte nell’ambito del danno biologico, tuttavia non
concernono direttamente il diritto alla salute, quanto piuttosto il profilo
relazionale-sociale. Il danno esistenziale, così come è stato prospettato e
recepito autorevolmente, verrebbe – pertanto - a tutelare interessi diversi ed
ulteriori rispetto a quelli del “danno biologico” (perché non circoscritti
al solo diritto alla salute), dal momento che assicurerebbe una salvaguardia
risarcitoria a fronte di ogni modificazione peggiorativa patita dal danneggiato
nell’esplicazione della propria personalità, intesa come valore fondamentale
dell’individuo, cui l’ordinamento deve tendere e perciò tutelare
adeguatamente.
L’esigenza di
riconoscimento del danno esistenziale, d’altra parte, si imponeva in quanto un
eventuale disconoscimento avrebbe finito per realizzare una disparità di
trattamento del tutto ingiustificata ove si consideri la perfetta assimilabilità
– dal punto di vista ontologico – tra danno biologico e danno esistenziale,
derivante dalla lesione di altre situazioni costituzionalmente garantite.
E’ stato
ancora condivisibilmente ricordato - da attento autore prima ([14])
e da Cass. pen. n. 2050/2004 poi - che alla contrapposta critica ([15]),
secondo cui il riconoscimento della nuova figura di danno avrebbe alimentato
quel processo di incontrollata estensione del raggio applicativo dell’art.
2043 c.c., si può replicare sottolineando come il criterio selettivo per
valutare la portata dell’interesse leso dal fatto illecito altrui non può che
essere dato dai valori affermati nella Carta fondamentale, «al fine di evitare
[...] che germoglino richieste di tutela risarcitoria in relazione a posizioni
soggettive che l’ordinamento giuridico non eleva a diritti inviolabili
dell’uomo costituzionalmente tutelati» ([16]).
La tutela risarcitoria non è dunque invocabile nel caso di generici pregiudizi
esistenziali – quelli che Cass. n. 2050/2004 definisce ironicamente
“bagatellari” - conseguenti alla lesione di un qualsivoglia interesse, bensì
soltanto nel caso di lesione di beni-interessi che godano di una copertura,
diretta o indiretta, di rango costituzionale. In tali casi soltanto,
riconosciuto il valore assoluto dei diritti inviolabili come beni e valori
personali, garantiti dalla Costituzione come diritti fondamentali
dell’individuo, al pari della salute, il pregiudizio alla sfera esistenziale
cagionerà un danno riparabile in quanto suscettibile di valutazione
patrimoniale, attraverso il ricorso al potere equitativo del giudice.
Questa nuova
figura di danno, attraverso la quale si riconosce un autonomo spazio di
salvaguardia anche sul terreno risarcitorio ai valori della persona (diversi dal
diritto alla salute ex art. 32 Cost.) si viene così ad inserire – nel
nuovo assetto delineato dall’orientamento della Corte costituzionale e della
Cassazione - nell’ambito del danno non patrimoniale, quale sottospecie ad
ampio raggio contenutistico. Riteniamo poi - come fu osservato ([17])
- che dalla avvenuta legittimazione di tale nuova figura di danno (esistenziale)
non discenda consequenzialmente un’indebita duplicazione delle poste attive
nella sfera giuridica del soggetto leso, perché anche laddove per effetto della
lesione ingiusta concorrano le diverse voci di danno, il giudice dovrà pur
sempre procedere ad una valutazione complessiva del pregiudizio subito, con un
procedimento logico-giuridico motivato e sindacabile (in tal senso si è
espressa la giurisprudenza della S.C.). In questi casi, trattandosi comunque di
risarcimento equitativo, il giudice sarà obbligato a operare «un’allocazione
globale delle somme che sia equa» ([18]),
contemperando a tal fine le diverse somme dovute per le singole voci di danno,
che se considerate autonomamente potrebbero portare alla quantificazione di una
somma complessiva non equa rispetto al caso in questione, se costituite dalla
mera sommatoria aritmetica di titoli non sempre autonomi di per sé, ma
correlati concausalmente nella determinazione dell’effetto pregiudizievole per
la persona. Inoltre, se e in quanto ne ricorrano i presupposti di legge, può
essere riconosciuto addizionalmente al danno esistenziale il risarcimento del
danno biologico per lesione – sanitariamente accertata con ricorso o no a
c.t.u. e individuazione del grado di invalidità permanente (desumibile dalla
tabella allegata al d.m. Sanità del 5 febbraio 1992 emessa per la valutazione
dell’invalidità civile, ovvero, in caso di malattia professionale o
infortunio, dalla “tabella per le menomazioni” emessa dal Ministero del
lavoro con d.m. 12 luglio 2000 in applicazione del d. lgs. n. 38 del 2000 di
riforma dell’INAIL) – nonché il danno morale ex art. 2059 c.c. ([19]).
In passato per
coprire la molteplicità dei danni, in specie quelli correlati alla sfera
psichica, di carattere transitorio e suscettibili di remissione (ansia, disturbi
post-traumatici da stress, depressione, e simili) è stata “superutilizzata”
la figura o fattispecie del danno biologico, anche quando le alterazioni non
erano tali da determinare una patologia cronica e invalidante (secondo le varie
misure percentuali tabellate). Questo “necessitato” abuso d’utilizzo - in
mancanza di una pacifica accettazione del danno esistenziale - mette ora in
chiara evidenza una carente valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 2087
c.c. ([20]),
con evidente pregiudizio per le ragioni del prestatore di lavoro, in
particolare, nelle ipotesi in cui il danno collegato alla lesione dei diritti
della personalità finiva per costituire l’unica voce di danno possibile. In
casi di questo genere la giurisprudenza si è a lungo sforzata di rintracciare
comunque nella lesione della professionalità, della dignità e della personalità
del lavoratore una sindrome psichica, vale a dire una vera e propria lesione
della salute, piuttosto che ammettere la risarcibilità del danno collegato alla
compromissione della sfera esistenziale-personale del prestatore di lavoro ([21]).
Non v’è dubbio alcuno che l’introduzione della figura
del danno biologico nel sistema abbia generato effetti creativi o di
trascinamento nel diritto vivente della nuova figura del danno esistenziale, per
aver rappresentato l’introduzione
del danno biologico «un cambiamento di approccio nei confronti della protezione
della persona complessivamente intesa» ([22]),
favorendo la «rifondazione di un sistema di ‘diritto civile costituzionale’,
imperniato sulla ‘funzionalizzazione’ delle situazioni soggettive
patrimoniali alle situazioni esistenziali, cui si riconosce, per l’appunto in
ossequio ai canoni costituzionali, una indiscutibile preminenza» ([23]).
Prima dell’attuale recepimento della categoria del danno esistenziale
nell’ordinamento positivo o nel diritto vivente, si era evidenziato come
nell’ambito dei rapporti di lavoro non si potesse procedere con il solo
strumento del danno biologico, non potendosene estendere irragionevolmente oltre
misura l’ambito applicativo, attraverso un progressivo allargamento delle
ipotesi di danno psichico; doveva potersi riconoscere una tutela risarcitoria
anche quando la lesione di una prerogativa costituzionale, pur cagionando un
danno effettivo, non aveva comportato una patologia clinicamente accertabile
(acquisizione ora pacifica). In tale ottica si è affermato che la « figura di
sintesi in grado di garantire quanto sin qui auspicato è rappresentata dal
danno esistenziale. (...) In ambito lavoristico una simile figura di sintesi
sarebbe in grado di assicurare un adeguato ristoro in tutti quei casi di
ingiustificata e dannosa compromissione della personalità morale del
lavoratore, anche se non tali da originare traumi o sindromi psichiche di natura
patologica. Si intende fare riferimento, in particolare, alle ipotesi di danno
da illegittimo licenziamento del lavoratore, o da licenziamento ingiurioso,
ovvero ancora alle ipotesi di dimissioni determinate da molestie sessuali, o
alle diverse ipotesi di dequalificazione professionale, con conseguente lesione
della professionalità e menomazione della capacità di concorrenza lavorativa
ed avanzamento di carriera, o infine a nuove particolari ipotesi di danno da mobbing
. Dunque, secondo questa ricostruzione, due sarebbero le voci di danno
attraverso le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il
danno biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del
diritto alla salute, e il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso
alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente
garantiti» ([24]).
4. Il riconoscimento del danno esistenziale
([25])
si inserisce nella più generale tendenza, manifestata con vigore negli ultimi
anni dalla giustizia di merito e di legittimità, a una maggiore attenzione
verso i temi della famiglia (legami parentali, potestà dei genitori, vincoli di
solidarietà familiare) e delle relazioni sociali della persona.
Dopo l’introduzione del danno biologico, in affiancamento
al danno patrimoniale e non patrimoniale, è apparsa evidente la non esaustività
dell’assetto così realizzato: infatti un fatto-evento causato da terzi può
rivelarsi dannoso quand’anche non si traduca nella concreta e materiale
lesione dell’integrità fisio-psichica, se idoneo ad incidere sulle possibilità
realizzative della persona umana, ledendo il diritto allo svolgimento della
personalità umana, considerato globalmente ex art. 2 Cost. ovvero
qualsiasi diritto comunque assistito da garanzia costituzionale. La mera
frustrazione prodotta dal fatto, con il suo carico di speranze e aspettative
vanificate, di affetti e relazioni umane messi in discussione, può riverberarsi
– anche nel lungo periodo – sulla quotidiana esistenza dell’individuo, a
prescindere da un danno fisico medicalmente accertabile, integrando quella «lesione
in sé» di cui parla la sentenza su ricordata. Tale pregiudizio, in quanto
efficace, ingiusto e causalmente riconducibile al fatto, legittima la richiesta
di risarcimento.
Siffatta esigenza – soddisfatta dal recepimento del danno
esistenziale - ben si inserisce anche nell’alveo dell’orientamento già
consolidato della Corte costituzionale, in ordine alla necessità del «risarcimento
non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno
potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana» ([26]).
Seguendo tale impostazione è altresì possibile tentare
l’inquadramento dogmatico della figura del danno esistenziale. Mentre in
passato veniva pacificamente ricollegato all’art. 2043 c.c., il quale concerne
il danno «ingiusto» (cioè lesivo di situazioni soggettive giuridicamente
protette, atteso che la tutela costituzionale non distingue tra categorie di
diritti tutelabili), ora la Corte costituzionale lo ricollega – quale
sottospecie del danno non patrimoniale – all’art. 2059 c.c. evolutivamente
interpretato come sganciato dall’ipotesi penalistica del reato.
Si tratta di un danno autonomo ontologicamente diverso dal
danno biologico (danno alla salute medicalmente accertabile), dal danno morale
soggettivo (sofferenze transeunti) e, naturalmente, dal danno patrimoniale, con
essi cumulabile, ai fini della determinazione del quantum complessivamente
risarcibile, auspicabilmente scisso nelle sue componenti (cfr. Cass. n.
8827/2003) o onnicomprensivamente liquidato (tuttavia in maniera tale da rendere
possibile il riscontro e l’individuazione, dietro motivazione, delle
componenti medesime).
Il danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni
concrete (a differenza del danno biologico), sussiste altresì al di là di una
incidenza del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno
patrimoniale) e sussiste infine anche in assenza di comportamenti penalmente
rilevanti e secondo dottrina potrebbe essere ricondotto in una configurazione da
genus a species, rispetto alle altre figure menzionate (danno
biologico, danno morale) e si specificherebbe in quei danni alla personalità
ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona,
costituzionalmente garantiti, che -
ad es. nel campo del lavoro - sono il danno professionale, e – nella vita
quotidiana – rinvengono nel danno
psicologico transeunte, nel danno alla serenità della vita familiare e nella
comunità lavorativa, nel danno
alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di
relazione e dei rapporti sociali. A differenza del danno biologico – il quale,
identificandosi nella concreta lesione suscettibile di accertamento
medico-legale, deve essere provato rigorosamente nell’eziologia e nell’entità,
ai fini risarcitori – il danno esistenziale (nelle sfaccettature o componenti
sopraspecificate), pur qualificato «lesione in sé», deve essere solo
specificamente provato nei suoi stessi presupposti e può sussistere, come si è
cercato di chiarire, anche in mancanza di una lesione, e presentarsi, anzi, come
esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo. Talché, una
volta provati, tramite semplici indizi in ordine alla entità, intensità e
durata del pregiudizio (per fare un esempio, nel caso di demansionamento, una
volta provata la consistente erosione di mansioni o la totale inattività,
rifluenti rispettivamente nei caratteri della entità e intensità del
pregiudizio anche in relazione alla tipologia delle mansioni esplicate, nonché
la durata del demansionamento), il pregiudizio sarà risarcibile dal giudice in
via equitativa ex art. 1226 e 2056 c.c., in quanto dall’illegittimo
comportamento demansionante conseguono – per valutazione di indizi concludenti
e per dato di comune esperienza o fatto notorio ex art. 115 c.p.c. - i
danni lamentati alla professionalità e all’immagine interno/esterna
all’impresa. Nello stesso modo si dovrà procedere, ai fini risarcitori, anche
nell’ipotesi (invero di netta minoranza in tema di danno da demansionamento),
in cui si volesse disconoscere che il danno è in re ipsa in quanto non
è danno-evento ma danno-conseguenza, quantunque sul danno esistenziale da
demansionamento la prevalente giurisprudenza della Cassazione degli ultimi
dodici anni abbia sostenuto talora che è in re ipsa e poi si sia
attestata con prevalenza nel sostenere la pacifica sufficienza della prova
presuntiva riconoscendo che il puro danno professionale (eminentemente di natura
esistenziale da mortificazione inferta alla dignità del prestatore) è
risarcibile anche in mancanza di una rigorosa prova di pregiudizio patrimoniale
(invero pressochè o del tutto impossibile a darsi), essendo intuitivo che le
mansioni sottratte e non esercitate determinano, oltre alla lesione del diritto
costituzionale all’autorealizzazione nel lavoro e nella formazione sociale
dell’impresa (artt. 1 e 2 Cost.), altresì un automatico degrado professionale
specialmente in capo alle qualifiche più specializzate e professionali. E’
infatti del tutto pacifico e nozione di comune esperienza che il mancato
espletamento di tali compiti occasiona inevitabilmente obsolescenza delle
capacità specialistiche e, se preposti al coordinamento di risorse umane o di
uffici, determina perdita esponenziale con il passare del tempo (per durata
protratta del demansionamento) sia delle capacità decisionali o propositive,
sia delle competenze e attitudini di coordinamento e addestrativo-formative dei
collaboratori di cui si è subita la sottrazione, tramite ad esempio il ben noto
espediente aziendale dello spostamento del demansionato da una posizione di line
(o funzionale) a una di staff (o di mero supporto o studio e ricerche uti
singulus) .
Nello stesso nostro ordine di idee si muove, in una relazione,
un’autrice ([27]) sostenendo che «...l’orientamento
che ha posto...a carico del lavoratore demansionato l’onere di provare
pienamente l’esistenza e l’entità del danno lamentato – richiesta il cui
rigore se può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno
biologico – davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di
eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la
professionalità, la dignità, l’immagine, anche se suscettibili di
valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova per
presunzioni, che nel nostro ordinamento trova pieno diritto di cittadinanza
attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c.». E nello stesso senso si
esprime l'estensore di una approfondita decisione di merito ([28]),
secondo cui: «La violazione dell’art. 2103 c.c. assume
dimensioni intollerabili ove il dipendente, ancorché senza conseguenze sulla
retribuzione, sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza
assegnazione di compiti. L’ inattività forzata del lavoratore è la forma più
grave di dequalificazione e demansionamento e dal demansionamento o dalla
forzata inattività del lavoratore non deriva solo un danno inerente il
patrimonio del soggetto, ma anche un danno relativo alla sua professionalità,
intesa essa sia come lesione al “patrimonio” professionale del dipendente
sia come lesione alla qualità della vita dello stesso, e quindi un danno
propriamente esistenziale, che colpisce la persona in quanto tale (si tratta di
danni a beni immateriali, non suscettibile di valutazione medico-legale ma
liquidabili solo in via equitativa)».
Circa la non necessità di una (rigida) prova del danno alla
professionalità afferma ancora la S.C. che ove« la parte abbia chiesto, con domanda di
condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice
del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza
di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa
riduzione quantitativa delle mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una
sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile
elemento di riferimento l'entità della retribuzione» ([29]);
«la liquidazione equitativa (...) deve essere compiuta anche
quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza
di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000, n. 14443),
dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla
durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2
novembre 2001 n. 13580)» ([30]).
In buona sostanza, così suona,
oramai da più di un decennio, il prevalente orientamento della S. corte sul
danno alla professionalità “pura” o "soggettivamente intesa" ([31])
- che si sostanzia eminentemente in "danno esistenziale", in quanto
lesione del diritto costituzionale (ex art. 2 e 41 Cost.) al pieno ed effettivo
spiegamento della professionalità del lavoratore nella società e nella comunità
di lavoro nonché al rispetto della sua intangibilità, escludente qualsiasi
forma di negazione o compressione ad opera di pratiche dequalificatorie
datoriali - conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c. e dei precetti
costituzionali (artt. 1 e 2 Cost.): «Il demansionamento professionale dà
luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità
economica del lavoratore. Non solo viola lo specifico divieto di cui
all'articolo 2103 c.c., ma costituisce offesa alla dignità professionale del
prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel
contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore,
bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla
libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con
la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e
di relazione dell'interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende
suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione
di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un
diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a
carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la
mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo
ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale
(cfr. le sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4 febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto
1991, n. 8835)»
([32]).
Poiché il danno alla professionalità pura da
demansionamento o danno alla professionalità soggettivamente intesa (sostanziantesi
in danno psicologico da mortificazione, in sofferenza da inibizione all’autorealizzazione
professionale, in danno all’immagine ed alla reputazione ed a beni immateriali
similari, quali la dignità umana, il rispetto, ecc.) è (eminentemente) un
tipico danno esistenziale – pur con una sua componente patrimonialmente
valutabile per quanto attiene al degrado ed all’obsolescenza della
professionalità specifica – e, quindi, partecipa della stessa natura del
danno (esistenziale) da “irragionevole durata del processo”, riteniamo sia
del tutto pertinente l’accostamento e l’equiparazione, anche in ordine
all’identità del regime probatorio, tra di esso ed il predetto danno da
“irragionevole durata del processo”. Relativamente a quest’ultimo così si
sono espresse le sezioni unite della Suprema corte ([33]):
“«...mentre l'esistenza del danno patrimoniale, derivando da circostanze
esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione,
la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo,
avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una
obiettiva dimostrazione, onde l'interprete deve prendere atto che esso si
verifica nella normalità dei casi, secondo l' id quod plerumque accidit.
Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla
violazione dell'art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n.
89/2001, cd. legge Pinto), non di danno insito nella violazione (danno in re
ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che
provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei
casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno
della parte processuale (è normale che la anomala lunghezza della pendenza di
un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d'animo, un'ansia,
una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi
presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi
presenti secondo l'id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun
sostegno probatorio relativo al singolo caso). Ma tale consequenzialità,
proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo
caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che,
dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate». Il che equivale,
praticamente, ad inversione dell’onere della prova, incombente pertanto su chi
sostiene non essersi realizzata
(come di norma avviene) tale consequenzialità pregiudizievole.
Diversamente è stata valutata la
fattispecie del danno alla professionalità “oggettivamente intesa” –
implicante danno patrimoniale in se e per se, di norma in forma di “lucro
cessante" probabilistico - cioè a dire la
fattispecie del danno da demansionamento o forzata inattività implicante le
connesse perdite di chances promotive interne o di miglioramento
professionale nel mercato esterno, ove prevale la tesi giurisprudenziale che
tali perdite vanno rigorosamente provate ex art. 2697 c.c. nella loro causalità
dal demansionamento. Si esprime, al riguardo, tuttavia l’avviso che anche qui
sarebbe sufficiente il ricorso alle presunzioni ex artt.
2727-2729 c.c., giacché è intuitivo che chi mobbizza demansionando certamente
nega la promozione all’inviso quando solitamente la conferisce invece ai di
lui colleghi di pari anzianità o svolgenti le stesse o similari mansioni.
Cosicché questo comportamento – quando venga statisticamente in risalto ed
acclarato dal magistrato come non occasionale o episodico - costituisce
parimenti “prova incontestabile”, tramite un indizio preciso, certo e
concordante, di discriminatorietà con finalità vessatorie cioè a dire
espressivo di un uso illegittimo del potere discrezionale datoriale che in un
rapporto obbligatorio soggiace all’osservanza dei principi di “correttezza e
buona fede” ex artt. 1175-1375 c.c..
In conclusione, riteniamo vada ribadita l’autonomia della categoria del
danno alla persona e che, quale categoria unitaria, vada considerata quella del
danno da atto illecito tout court, al cui interno ricomprendere tutte le
tipologie di danno rispondenti ai requisiti posti dalla norma (ingiustizia del
danno, dolo o colpa, nesso causale) qualunque sia poi, in concreto, il diritto
costituzionalmente protetto che abbia subito un pregiudizio.
Altri sostenitori ([34]), in campo lavoristico,
del danno esistenziale – ora accreditato in maniera generalizzata - hanno
sottolineato come: «La situazione creatasi, in particolare per la
giurisprudenza di merito di alcuni giudici che cercavano di tutelare situazioni
comunque riconosciute meritevoli di tutela dall’ordinamento, seppure non da
normative specifiche ma dalle regole generali dettate dalla Costituzione,
determinava una incertezza definitoria proprio perché con il termine di danno
biologico non si indicava più una realtà ben definita ed univoca. Parte della
dottrina aveva proposto di introdurre l’altro concetto di danno esistenziale
per coprire quel settore che innaturalmente era stato tutelato dal danno
biologico ed al quale non apparteneva. Veniva definito danno esistenziale quello
che andava a colpire la qualità della vita del soggetto danneggiato in maniera
da renderla differente in termini considerevoli ed evidenti. Probabilmente
l’ostacolo maggiore all’affermarsi del concetto di danno esistenziale prima
della definizione normativa del danno biologico è stato proprio l’elemento di
duttilità di questo secondo concetto, che rendeva sostanzialmente non
indispensabile la creazione di una nuova categoria, per altro dai contorni
quantomeno evanescenti.
«Oggi si può affermare con sicurezza che l’intervenuta definizione
normativa del danno biologico (che secondo l’art. 13 D.lgs. n. 38/2000 di
riforma dell’Inail è “la lesione dell’integrità psicofisica,
suscettibile di valutazione medico legale, della persona”) rende i termini
della questione sicuramente più chiari, senza possibilità di sovrapposizioni
di concetti e con l’esigenza di riconoscere il danno esistenziale se non si
vuole lasciare priva di copertura tutta quell’area di situazioni prima coperte
con l’estensione del concetto di danno biologico, oggi non più possibile per
la riconducibilità del medesimo all’esclusivo ambito delle lesioni
all’integrità della salute sanitariamente acclarabili e, valutabili e
quantificabili in termini di grado di invalidità.
«Riassumendo: nella materia di danni alla persona non patrimoniali… ci
troviamo oggi con il concetto di danno biologico che richiama esplicitamente ed
esclusivamente la lesione suscettibile di valutazione medico legale. Tutta
quella parte di situazioni soggettive comunque riconosciute dalla Costituzione
come meritevoli di tutela, a cominciare nel settore del lavoro dalla dignità
del lavoratore stesso, devono essere comunque tutelate e tale tutela non può
oggi essere offerta che dalla nuova categoria del danno esistenziale se non si
vuole correre il rischio che tali situazioni non vengano più riconosciute come
meritevoli di tutela. Pensiamo al principio sancito dall’art. 41, secondo
comma, della Costituzione per il quale l’iniziativa economica privata non può
svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità della persona
umana e colleghiamolo all’art. 2043 c.c. ed avremo un sistema adeguatamente
rispondente a quanto richiesto dall’art. 2059, almeno quanto il combinato
disposto dello stesso art. 2043 c.c. con l’art. 32 Costituzione per il danno
biologico.
«Secondo questa ricostruzione due sono le voci di danno
attraverso le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il
danno biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del
diritto alla salute, ed il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso
alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente
garantiti».
Queste argomentazioni scandiscono i passi e strutturano i
gradini dell’irto percorso in salita che ha portato all’attuale, pacifico,
riconoscimento del danno esistenziale, rilevante nel campo delle lesioni della
personalità nell’ambito e nel settore del rapporto di lavoro (a risarcimento
del danno conseguente ad una serie di atti illegittimi datoriali quali il
licenziamento ingiustificato, il licenziamento ingiurioso, la dequalificazione,
il demansionamento ed il confinamento in inattività, il mobbing nella sua
varietà di vessazioni e persecuzioni psicologiche, le molestie sessuali, le
discriminazioni a vario titolo, ecc.).
5.
A proposito del
“danno esistenziale” da perdita di rapporto parentale per uccisione di
congiunto, la Cassazione ha negato che ci si trovi in presenza di un danno “in
re ipsa” (costituendo danno-conseguenza e non danno-evento) ed ha
affermato - tuttavia temperandolo subito con la legittimazione al ricorso a
valutazioni prognostiche ed alle presunzioni sulla base di obbiettivi elementi
che sarà onere del danneggiato fornire - che il pregiudizio deve essere provato
ed allegato.
La S. C. é poi entrata nel merito del “rischio” (fino
ad oggi frenante la legittimazione pacifica del “danno esistenziale”, cui si
é mosso da più parti l’addebito dell’essere un mero “espediente”
dilatatorio o accrescitivo del quantum risarcibile) connesso o
conseguente al cumulo, a fini risarcitori, delle varie componenti del danno - rectius
delle varie specie di danno ontologicamente distinte ed autonome - ,
legittimandone il cumulo dietro una equilibrata valutazione complessiva
dell’intero ristoro per l’unitario evento dannoso. Esprimendo, tuttavia -
accanto alla legittimazione (che s’imponeva imprescindibilmente) -,
l’avviso, con finalità di contenimento, che: «E’ conclusivamente il caso
di chiarire che la lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc
va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento
generalizzato della poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di
risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare la
lacuna, secondo l’interpretazione ora superata della norma citata, nella
tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del
danno patrimoniale e di quello non patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del
danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come
tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ad ulteriori, purché
costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente
protetto. Deve anche dirsi che, tutte le volte che si verifichi la lesione di un
tale tipo di interesse, il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale
soggettivo (patema d’animo) é risarcibile anche se il fatto non sia
configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei
pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già
eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in
relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla
persona » (così Cass. n. 8827/2003).
Sempre a proposito del “danno esistenziale” da rottura
del vincolo parentale per morte di congiunto, nella decisione n. 8828/2003, la
S.C. ha asserito che la liquidazione non potrà che essere equitativa «vertendosi
in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di
contenuto economico, non potrà che avvenire in base a valutazione equitativa
(articoli 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto dell'intensità del vincolo familiare,
della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la
consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età
della vittima e dei singoli superstiti. Ed è appena il caso di notare che il
danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto
ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere
riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa
ravvisarsi una duplicazione di risarcimento. Ma va altresì precisato che,
costituendo nel contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla
persona, unitariamente considerata, la riparazione del pregiudizio
effettivamente subito, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta
del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà
considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della
sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe
concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà
il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci
che concorrono a determinare il complessivo risarcimento.»
La Cassazione ha così affermato che per un unitario evento
pregiudizievole, è del tutto legittima la quantificazione del danno attraverso
un cumulo “bilanciato” delle varie tipologie “ontologicamente” autonome
di danno, in cui a soffrirne nel complesso appare essere destinato il “danno
morale” da sofferenza interiore, rispetto a quello esistenziale, a quello
biologico ed al patrimoniale.
Questo richiamo al giudice del merito ad un prudente
equilibrio in ordine al quantum (non conseguente ad una pura e semplice
operazione di sommatoria delle poste indennizzanti) ha occasionato - anche da
parte di dottrina che l’ha condiviso - la considerazione o addebito, per
motivi di par condicio o simmetrici, di aver sofferto la “sindrome del
pompiere”, cioè di aver voluto svolgere un ruolo calmieratore, a detrimento
della vittima ([35]) . Altre valutazioni
critiche o in forma di apprezzamento espresse da Cendon, nella stessa nota a
commento di getto, meritano di essere riferite e così suonano: «Non bene insomma, da parte della 8828, il non rimarcare abbastanza il fatto che
nel momento stesso in cui si viene a confermare, sia pur lungo alvei diversi, il
trend di maggior attenzione per la persona sotto i profili del quantum,
con riguardo al danno non patrimoniale, occorrerebbe saper dire ai giudici e a
tutti quanti noi: “Sia il tempo e lo spazio che ti concederai - facendo il tuo
lavoro - sempre diviso in due parti, fra loro eguali, quella dell’an e
quella del quantum; scrivendo potrai se vuoi concedere più spazio al quantum,
mai il contrario”» ([36]).
Sul punto
centrale del quantum risarcibile, ci fa piacere notare come il prof.
Cendon giunga a considerarlo il “punto focale” del danno esistenziale. Nel
nostro piccolo, siamo dello stesso avviso: da tempo stigmatizziamo il fatto
dell'essere passati nel corso del tempo da indennizzi, con effetto
realisticamente deterrente, dei 500 milioni di vecchie lire per il caso del
vicedirettore generale C., mobbizzato dalla Banca Nazionale del lavoro ([37])
e tramite il ricorso al parametro della mensilità intera, alla decina di
milioni degli altri casi successivi e regredendo al parametro risarcitorio di
una porzione percentuale della mensilità ordinaria sempre più ridotta.
Non si
rendono pienamente conto taluni magistrati ([38])
che (aldilà delle affermazioni di principio in positivo), tramite simili
indennizzi non si combatte il
fenomeno del mobbing ma lo si legittima nella sostanza, in quanto - svuotati i
risarcimenti del carattere della deterrenza alla reiterazione -
essi indirizzano ai "concreti" datori di lavoro il messaggio
(tutt'altro che subliminale) che possono cavarsela con poche decine di milioni
per perseverare in comportamenti illeciti che ledono i primari diritti della
personalità dei prestatori di lavoro e che pregiudicano e segnano
indelebilmente il mobbizzato (o demansionato), nella carriera, nella salute,
nella vita familiare e relazionale.
C'è nel
nostro Paese una reale sottostima - a differenza che nel mondo anglosassone e a
prescindere dalla problematica e/o ammissibilità dei cd. punitive damages
- verso le lesioni dei diritti della personalità che va ripensata seriamente da
parte della magistratura che in essi si imbatte, anche se sembra invece che sia,
purtroppo, sensibile all'opposto rischio del "troppo concedere"
tramite una duplicazione risarcitoria di un danno, seppure con componenti
ontologicamente diverse (quali il danno biologico, esistenziale e morale
soggettivo), in capo alla stessa persona danneggiata, come si legge anche nelle
recentissime e complessivamente ottime Cass. n. 8828/2003 e Cass. n. 2050/2004.
********
IL DANNO ESISTENZIALE NEL RAPPORTO DI LAVORO – Riassunto:
L’ A. analizza il “danno esistenziale” quale danno arrecato
alla realizzazione dei valori garantiti alla persona dalla Costituzione,
riconducendolo all’interno del genus del “danno non patrimoniale”,
accanto alle due species del danno morale e del danno biologico. In campo
giuslavoristico rientra primariamente, in tale danno – ad avviso dell’A. -
quello arrecato alla professionalità pura, implicante la privazione - per
demansionamento - del diritto all’autorealizzazione nel lavoro, ai cui fini
risarcitori è sufficiente la prova per presunzioni o per fatto notorio.
EXISTENTIAL DAMAGE IN EMPLOYER-EMPLOYEE
RELATIONSHIP: Summary:
The Author analyses the “existential
damage” suffered by a person in the realization and respect of Constitutional
rights. This damage belongs to the the genus of “non patrimonial
damages”, next to moral and biological damage. In the field of
employer-employee relationship, it essentially consists in the “pure
professional damage” caused by downgranding, depriving the constitutional and
individual right of realizing his own personality with work and in the worker’s
community, damage whose compensation in judgement needs the presumptive trial or
the well-known event.
MARIO
MEUCCI
Redattore
capo di LPO
Roma, 30 aprile 2004 (di prossima pubblicazione sul n. 2/2004 di Riv. it. dir. lav., p. 337 e ss., slittato sul n. 3/2004)
In formato PDF, v. a questo link:http://www.personaedanno.it/attachments/allegati_articoli/AA_002388_resource1_orig.pdf
[1]
Corte cost. n. 233 dell’11 luglio 2003, è leggibile in
http://www.altalex.com/index.php?idnot=6313 e in
http://www.altalex.it/index.php?idnot=6334,
con nota di Cassano (La
responsabilità civile con due (belle?) gambe, e non più zoppa).
[2]
Trattasi
di Cass. sez. III civ. n. 8827 e 8828, entrambe del 31 maggio 2003,
leggibili
in www.studiocelentano.it/dannoesistenziale/
- cui si è successivamente conformata Cass. n. 12124 del 19 agosto 2003 - e
di Cass. sez. IV pen. n. 2050 del 22 gennaio 2004, leggibile al sito http://dirittolavoro.altervista.org/cassazione_riconosce_dannoesistenziale.html.
[3]
Trattasi di Trib. Tempio Pausania
n. 157 del 10.7.2003,
leggibile nel nostro sito http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_tempio_pausania.html.,
con nostra postilla.
[4]
In Vincitori e vinti (…dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte
costituzionale), nota a
commento, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6352 .
[5]
Cendon, Anche se gli amanti
si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. n.
8828/2003, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6335 .
[6]
Così Corte cost. n. 184/1986 , in FI, 1986, I, 2053 con nota di Ponzanelli.
[7]
Così Pret. Ferrara, 25 novembre 1993,in NGCC, 1995, I, 74.
[8]
Cfr. Cass. I Sez. civ. n. 2640 del 21 febbraio 2003, leggibile in
http://www.altalex.com/index.php?idstr=20&idnot=5823; Cass., I Sez.
civ., n. 5333 del 29 maggio 1998 (in FI Rep. 1998, v. Filiazione, n.
81) e Cass. n. 2008 del 13 febbraio 2001 (ibidem 2001, voce
Procedimento civile, n. 161), che hanno dato rilevanza ai fini del
riconoscimento di paternità ad elementi concludentemente indiziari.
[9]
Così Monateri-Bona-Oliva, Mobbing,
vessazioni sul lavoro, Milano 2000, 91.
[10]
Espresso, tra l’altro, incisivamente nella sopracitata decisione n.
5333 del 29 maggio 1998, cit.
[11]
Monateri, Alle soglie di una
nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e Resp.
1999, n. 1, 6.
[12]
Così Cass. n. 8828/2003, cit.
[13]
Così Ziviz, Il danno non
patrimoniale, in La responsabilità civile, VII, a cura di Cendon, Torino 1998, 380
[14]
Gambacciani, Le nuove
frontiere del danno alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di
sintesi: il danno esistenziale, in Italian Labour Law e-Journal
(rivista telematica diretta da Carinci)
2000.
[15]
I critici verso la categoria del “danno esistenziale” sono stati (e
sono) numerosi. Sostenitori di varie tesi, non uniformi ma talora anche
differenziate, che noi – in questa sede ed anche per motivi di spazio –
non riteniamo di poter passare analiticamente in rassegna. Ci limiteremo
pertanto ad evidenziare che la critica più ricorrente al “danno
esistenziale” è quella fondata sull’addebito di traguardare la cd. overcompensation:
cioè a dire si è ritenuto il “danno esistenziale” espediente
dottrinale e giurisprudenziale idoneo e funzionale a superare i limiti e i
vincoli della responsabilità civile, sia dal lato codicistico-formale che
sul versante probatorio.
Tra i più ostili e critici
all’introduzione della categoria, si veda Rossetti:
Il danno da lesione della salute, Padova 2001; dello stesso A., in
quanto magistrato ed estensore, si veda la sintesi critica al “danno
esistenziale” espressa nella Sua decisione emessa da Trib. Roma 7 marzo
2002, in Dir. e Giust. 2002, 43; ID.,
Danno esistenziale: adesione, iconoclastia o epoké, in Danno e
Resp. 2000, 209; sulla stessa posizione di rifiuto, Ponzanelli,
Una voce contraria alla risarcibilità del danno esistenziale, ibidem,
n. 3/2002, 339; ID., Sei
ragioni per escludere il risarcimento del danno esistenziale, ibidem
n. 7/2000, 693 e ss; Gazzoni, Alla
ricerca della felicità perduta, in www.studiocelentano.it/lenuovevocideldiritto/;
D’Adda, Il cosiddetto
danno esistenziale e la prova del pregiudizio, FI, 2001, I, 188 e
ss.
Ancora , sia sul tema specifico (in
vario senso) sia sulle varie categorie del danno risarcibile si menzionano
le opere, i saggi e le note di: Franzoni,
Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona, RCP
2001, 777 e ss.; Busnelli, Problemi
attuali del danno alla salute, in RTDPC 1996, 670; Cendon,
Trattato breve dei nuovi danni, Padova, Cedam (in corso di
pubblicazione); Cendon – Ziviz, Il danno esistenziale, Milano,
Giuffré 2001; Cassano, La
giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza 2002; Navarretta,
La qualificazione del danno non patrimoniale e la tavola dei valori
costituzionali, in Resp. civ. prev. 1997, 396; Petti,
Il risarcimento dei danni: biologico, genetico, esistenziale, Torino
2002.
In campo lavoristico si menzionano sul
tema, gli studi di: Scognamiglio R.,
Danno biologico e rapporto di lavoro subordinato, ADL 1997, 5
e ss.; ID., Responsabilità civile, ora in Scritti giuridici,
I, Padova 1996, 319 e 581; Scognamiglio
C., Il danno biologico: una categoria italiana di danno alla
persona, in Europa e dir. priv. 1998, 259; Lanotte,
Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino 1998; Stanchi
A., Danno alla persona nel rapporto di lavoro e oneri di prova,
relazione all’incontro di studio di Cosenza del 12 aprile 2003, in
www.csdn.it/relazioni_doc/; Pedrazzoli
(a cura di), Danno biologico ed oltre. La risarcibilità dei pregiudizi
alla persona del lavoratore, Torino 1995; ID., Lesione dei beni della
persona e risarcibilità del danno nei rapporti di lavoro, DLRI,
1995, 271; Nogler, Danni personali e rapporto di lavoro: oltre il
danno biologico, RIDL, 2002, I, 287; Pera,
Considerazioni problematiche sul danno biologico con particolare riguardo
al rapporto di lavoro, GC, 1998, II, 84; Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie
emergente di danno alla persona, RIDL, 2000, I, 251; ID., Recente
evoluzione del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Studium
iuris, 2000, 950; Zoppoli, Il
danno biologico tra principi costituzionali, rigidità civilistiche e tutela
previdenziale, DRI, 2001, 389 e ss.; De
Angelis, Interrogativi in tema di danno alla persona del
lavoratore, FI, 2000, I, 1157 e ss.; Pizzoferrato,
Mobbing e danno esistenziale: verso una revisione della struttura
dell’illecito civile, CI, 2002, 304 e ss. Vallebona,
Il danno da dequalificazione tra presunzione e risarcimento equitativo,
MGL, 2001, 1015.
[16]
Così Pret. Torino 12 luglio 1995, riportata da Ziviz,
op. cit. 378-379 ed ora in senso conforme Cass. IV sez. pen. n. 2050/2004, cit.
[17]
Ancora da Gambacciani,
op. cit.
[18]
Così Monateri, op. cit.,
8.
[19]
In tal senso Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299 (in NGL, 1993, 648 e in
D&L 1993,315) secondo cui: «Il danno va risarcito: questo è
l’essenziale perché resti tutelata l’esigenza del libero svolgimento
dell’attività lavorativa e della salvaguardia della personalità del
lavoratore». Ora in senso conforme Cass. n. 8828/2003, punto 3.1.7 e
laddove al punto 3.1.10 laddove afferma, per la fattispecie in esame ed in
relazione al cumulo danno morale e danno esistenziale, che: «... è appena
il caso di notare che il danno non patrimoniale da perdita del rapporto
parentale (esistenziale, n.d.r.), in quanto ontologicamente diverso
dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore
dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa ravvisarsi una
duplicazione di risarcimento».
[20]
Rileva Montuschi, Problemi
del danno alla persona nel rapporto di lavoro, cit. 322, come la
giurisprudenza fosse «poco incline all’esaltazione dei valori primari
fondamentali», cosicché l’art. 2087 c.c. «è stato pressochè
disapplicato dalla giurisprudenza, che non ha saputo coglierne, né
valorizzarne, l’intrinseca vocazione alla ‘tutela’ dei valori della
persona».
[21]
Non mancano tuttavia pronunce giurisprudenziali, per lo più di merito, che
hanno riconosciuto ed hanno liquidato come tale “il danno alla personalità
morale” ex art. 2087 c.c.; v. Pret. Vicenza, 20 aprile 1999, GLav.,
8, 2000, 42; Pret. Milano 9 dicembre 1997, D&L, 1998, 421; Pret.
Nocera Inferiore 5 dicembre 1996, ibidem 1997, 348; Pret. Bologna 8
aprile 1997, LG,. 1998, 140, con ampio commento di Boscati.
[22]
In tal senso, Montuschi, cit.
325.
[23]
Così Montuschi, cit.
325.
[24]
Così Gambacciani, Le nuove
frontiere del danno alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di
sintesi: il danno esistenziale, cit.
[25]
Tra le decisioni più incisive, si menziona Cass. 7 giugno 2000 n. 7713, in FI,
2001, I, 187, con nota di D’ADDA; RCP,
2000, 923, con nota di
ZIVIZ .
[26]
Cfr. Corte cost. n. 184/86, cit., e Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in FI,
1994, I, 3297.
[27]
Sanlorenzo, Il mobbing e il
diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa, p. 43, in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sanlorenzo.html
.
A conforto di quanto detto, si riporta la massima di una delle
plurime decisioni della Cassazione, secondo cui: «Va cassata la sentenza
resa in sede d’appello in quanto – nel negare il risarcimento del danno
alla professionalità per asserita carenza di prova di pregiudizio
patrimoniale da parte del dirigente dequalificato, confinato in inattività
- ha ignorato come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di sottolineare
che dall'articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il diritto
del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione
professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro
costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di
corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno
da dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in
quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante
dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore
e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio
subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma
anche - e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati -
in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in
generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per
tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora,
occorre ribadire che la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del
demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di
lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che
rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione
anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10)».
[28]
Trib. Lecce 20 settembre 2002, in http://dirittolavoro.altervista.org/
(sezione Mobbing, giurisprudenza)
[29]
Cass.n. 7967 del 1 giugno 2002, in LPO,
2002, 1179.
[30]
Così Cass. n. 15868 del 12 novembre 2002, in FI, 2003, I, 480.
[31]
Così ex plurimis, Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, in LPO,
2000, 2287 e in NGL.,
2001, 170. Qualifica (correttamente quanto obiettivamente)
“maggioritario” l’orientamento da noi illustrato tramite la citazione alla successiva nt.32 del novero delle sentenze ad esso
pertinenti, Garofalo D., Mobbing
e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria,
relazione all’incontro di studio di Cosenza del 12 aprile 2003, nt. 78 di
pag. 63, in www.csdn.it/relazioni_doc/.
[32]
Per la non
necessità della prova del danno (implicito o immanente) alla
“professionalità pura” e/o per la sufficienza del ricorso alla prova
presuntiva, si è espressa non solo Cass. 6 novembre 2000 n. 14443, cit.
(relegando ad opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze)
ma una nutrita serie di decisioni conformi, precedenti e successive, quali:
Cass. 13299/92, cit.; Cass. 11727/99 (NGL 2000,
447), Cass. 7 luglio 2001, n. 9228 ( in LPO, 2001, 1405 e AC, 2001,
1237); Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033 (inedita, a quanto consta); Cass. 2
novembre 2001, n. 13580 (in LPO, 2001, 1623 e NGL , 2002,
181); Cass. 2 gennaio 2002, n. 10 (in LPO, 2002, 379); Cass. 1
giugno 2002, n. 7967 (in LPO, 2002, 1179); Cass. 12 novembre 2002, n.
15868 (in FI, 2003, I, 480 e in NGL, 2003, 164); Cass. 22
febbraio 2003, n. 2763 (inedita a quanto consta); Cass.
27 agosto 2003 n. 12553 (inedita allo stato); Cass. 29 aprile 2004 n. 8721
(in http://dirittolavoro.altervista.org/liquidazione_equitativa.html).
La prova viene richiesta -
senza alcuna distinzione tra danno (immanente o intrinseco) alla
professionalità “soggettivamente” intesa ed alla professionalità “in
senso oggettivo”, correlata a perdita di chanches promotive o sul
mercato esterno – da Cass. 14 maggio 2002 n. 6992 (inedita, a quanto
consta) sull’assunto, temperato dal ricorso alla prova per presunzioni: «...che
per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento
spetta quando sia provata non solo l’attività illecita ma anche
l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo
confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o
pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla
condotta illecita;che solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi
modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il
preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione
equitativa ex art. 1226 cod. civ. ...».
Richiede la prova del
pregiudizio – che tuttavia ammette possa essere data anche per presunzioni
– anche Cass. 4 giugno 2003
n. 8904 (in NGL 2003, 721); con un incipit singolare –
giacché è notorio che il demansionamento si attualizza di per se con la
dequalificazione della prestazione, non già con l’abbattimento del
livello retributivo corrispondente - quanto funzionale per veicolare un
messaggio “restrittivo”, si presenta poi la massima di Cass. 8 novembre
2003 n. 16792 (inedita, allo stato) che poi recupera un suo equilibrio nello
svolgimento delle successive argomentazioni, così esprimendosi: «Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore
rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui
provvede, in funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della
retribuzione, la norma codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni
modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una
dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per
sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del
lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una
conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua
professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità
professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle
esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta
tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori
potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass.,
14.5.2002, n. 6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).
Trattandosi
di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornirne la prova,
mentre resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da
congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito
di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste,
individuarne la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo
ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto
ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può
essere anche presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580)»
.
Si
sottolinea come – a nostro avviso - la legittimazione del ricorso alla
prova presuntiva non è un’agevolazione di favor operari ma si
impone di necessità (più che sufficiente risultando, allo scopo di
percepire il degrado da dequalificazione, il comune buon senso del
magistrato ed il fatto notorio ex art. 115 c.p.c.). Infatti, se si ha un
minimo di esperienza di vita lavorativa e aziendale, ci si rende
immediatamente conto che non si può pretendere che il lavoratore certifichi
al giudice adito il danno alla “professionalità”... con la
presentazione di un attestato di “obsolescenza” da demansionamento,
eventualmente rilasciatogli da un’agenzia di lavoro temporaneo ovvero
comprovi il corrispondente danno all’immagine ed alla reputazione
professionale tramite la presentazione di un attestato rilasciato da una
società di ricerche di mercato o di sondaggi d’opinione.
Ragionevolmente
e lucidamente asserì a suo tempo Pret.
Milano 21 gennaio 1992, (in D&L, 1992,417):«...l'impossibilità
di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o,
quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come
l'insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si
acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto esercizio della sua
attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.)
circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente
avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività
lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può
essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore
intellettuale dipende ed è costituita non solo dalle nozioni teoriche ma
dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si
forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e
non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed
incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che di volta in
volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il
lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua
professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne
impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata
inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo
bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente
valutabile».
[33] Nella decisione n. 1339 del 26 gennaio 2004 (inedita in cartaceo e leggibile in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/durata_processi/ssuucassciv_20041339.pdf), il cui orientamento è stato riaffermato recentemente da Cass. sez. I civ. 11 giugno 2004, n. 11087 (inedita allo stato).
[34]
Sorgi, La valutazione del
danno da mobbing nella giurisprudenza, Intervento al Convegno di Pescara
del settembre 2001 (i cui atti sono reperibili nel sito Internet della USL
di Pescara all’indirizzo http://www.ausl.pe.it/mobbing/atti_conv/attimobbing.htm.)
[35]
Così esplicitato da Cendon, Anche
se gli amanti si perdono l’amore non si perderà…, cit.:«Peccato però non dichiarare apertamente – per converso – che,
qualora il danno non patrimoniale arrecato a una persona risulti in concreto
serio, grave, profondo, esiziale, duraturo, stravolgente, il risarcimento
dovrà anch’esso essere adeguato, non simbolico, non spilorcio, non
derisorio, non ridicolo, non oltraggioso, non platonico: qui la Corte mostra
forse di nutrire un po’ di timore per la supposta capricciosità e
prodigalità dei giudici italiani (?), soffre un po’ della sindrome del
pompiere, pare eccessivamente ansiosa di mettere “paletti”; i quali
giudici nostrani - bisogna dire - nel corso del passato risarcivano semmai
troppo poco in almeno il 30% dei casi e forse più (detto altrimenti: perché
solo il colpo da parte della S.C./2003 alla botte, della temibile prodigalità/faciloneria
delle nostre corti; e non anche il colpo al cerchio, degli eccessi passati
di austerità, di tirchieria?)».
[36]
Ancora Cendon, op. cit.
supra.
[37]
Cfr. Pret. Roma 17 aprile l992, in LPO, 1992, 1172,
con nota di Meucci;
AC, 1992, 1083; OGL, 1992, 263, nonché nel
nostro volume Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma
2002, 349.
[38]
Salvo apprezzabili eccezioni, di cui è testimonianza - per compiutezza di
analisi e di approfondimento sia in generale sia sulla specifica tematica
del danno esistenziale – Trib. Lecce 20 settembre 2002, cit., ove
l’estensore dà anche conto del variegato e decrescente percorso
giurisprudenziale in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno
alla professionalità in caso di demansionamento.
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