IL DANNO ESISTENZIALE NEL RAPPORTO DI LAVORO

 

Sommario: 1. Il nuovo assetto dei danni risarcibili - 2. Lo sganciamento del danno morale risarcibile dal riscontro dell’illecito penale - 3. Il danno esistenziale nel nuovo assetto dei danni risarcibili - 3.1. Segue: Danno esistenziale e prova per presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c. - 4. La rilevanza del danno esistenziale nel campo delle lesioni dei diritti della personalità del lavoratore: pregiudizio alla professionalità e prova per presunzioni - 5. Oneri probatori e attenzioni contro le duplicazioni risarcitorie.

 

1.          Nel periodo compreso tra i mesi di maggio/luglio 2003 e gennaio 2004 sono state redatte alcune importanti decisioni della Corte costituzionale ([1]) e della Corte di Cassazione ([2]) ‑ condivise e richiamate da una recentissima sentenza di merito ([3]) sul mobbing nella pubblica amministrazione ‑, tutte emesse sul tema della responsabilità risarcitoria da atto illecito, che hanno indicato e delineato un nuovo orientamento rispetto al precedente assetto del risarcimento del “danno ingiusto” (assetto notoriamente riposante sulla tripartizione nelle tradizionali tre componenti del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale – cioè a dire del danno morale soggettivo – e del danno biologico, attinente eminentemente alla lesione dell’integrità dello stato di salute psico-fisica, ma dalla giurisprudenza pregressa della Corte costituzionale e della Cassazione dilatato a copertura di altri danni di natura relazionale e sociale).

Seppure fosse già stata da tempo elaborata in sede dottrinale (con recepimento da parte di isolata giurisprudenza di merito e di sporadiche sentenze della Cassazione) la figura di un nuovo tipo di danno, denominato “esistenziale”, le intervenute decisioni (della Consulta e della Cassazione) hanno accolto pienamente la nuova fattispecie ed hanno stabilito che una lettura costituzionalmente orientata delle nostre norme codicistiche (art. 2059 c.c., in particolare) fa sì che si debba riconoscere nell’ordinamento una più moderna o nuova ripartizione dei danni risarcibili da atto illecito, facente perno sulla dicotomia tra a) danno patrimoniale (consistente nella perdita di un bene o utilità monetariamente quantificabile) e b) danno non patrimoniale, slegato da oggettive quantificazioni monetarie. A sua volta il danno patrimoniale sub a) è suddivisibile nelle due specie del a.1) danno emergente e del a.2) danno da lucro cessante. Il danno non patrimoniale sub b) è a sua volta strutturato nelle tre sottospecie del danno morale soggettivo (c.d. pretium doloris o patema d’animo), inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo o transeunte, turbamento dello stato d’animo della vittima, di cui si afferma ora espressamente la risarcibilità indipendentemente dal vincolo o collegamento all’ipotesi del reato, sganciando il danno de quo dal collegamento a fatti o atti con riconosciuta rilevanza penale ex art. 185 c.p. (b.1); del danno biologico inteso in senso stretto, come sola lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, lesione accertata da una valutazione medica (art. 32 Cost.), in armonia con la nuova definizione di tale interesse rinvenibile anche nell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 di riassetto dell’INAIL e nell’art. 5 della l. n. 57/2000 (che introduce la griglia degli importi risarcitori del danno biologico di lieve entità da incidenti stradali; il danno biologico è anche qui qualificato come lesione all’integrità psico-fisica “suscettibile di accertamento medico legale”) (b.2); del danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (b.3).

Esemplificativamente - ma non esaustivamente - per la migliore comprensione del lettore, la lesione di interessi di rango o rilevanza costituzionale, rifluenti nella fattispecie (ad ampia portata) del danno esistenziale, è stata riconosciuta in dottrina ed in giurisprudenza nei casi: di danno alla reputazione per effetto di diffamazione; di danno alla professionalità da dequalificazione (o demansionamento) lesiva del diritto costituzionale del lavoratore all’autorealizzazione nel lavoro e nella comunità d’impresa e, più in generale, nella società (art. 2 Cost.); nel danno da infortunio per mancata adozione dei presidi di sicurezza; nel danno alla riservatezza per violazione della privacy e per modalità scorrette nella raccolta di dati personali; nel danno da mancata promozione per violazione delle norme concorsuali o di procedure di procedimentalizzazione contrattualmente concordate nei c.c.n.l. o in accordi aziendali; nel danno da estromissione da concorsi; nel danno da mancata collocazione in graduatorie per l’impiego; nel danno da molestie e/o violenze sessuali; nel danno da irragionevole durata del processo; nel danno da privazione della libertà personale cagionata dall’esercizio di funzioni giudiziarie; nel danno da atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; nel danno alla sfera sessuale preclusiva dei normali rapporti; nel danno da elisione dei rapporti parentali a seguito di perdita di congiunto; nel danno al diritto alla procreazione per interruzione di gravidanza; nel danno da asfissia neonatale determinante la condizione di cerebroleso; nel danno per la mancata fruizione della quiete e del riposo notturno (per immissioni e rumori eccessivi); nel danno per la mancata fruizione delle ferie (c.d. vacanza rovinata) o del riposo settimanale; nel danno da mancata protezione e difesa della persona, e così via. Danni, tutti quanti compendiabili nella lesione dell’interesse alla bontà o normalità della “qualità della vita” - nei suoi vari aspetti di svolgimento - sia a livello individuale, sia in ambito familiare e sociale.

In ordine alla rilevata nuova configurazione o assetto sistematico, si esprimono nello stesso senso Cendon e Ziviz ([4]), secondo i quali «la mappa generale del danno aquiliano sarebbe …da articolare, per il futuro, secondo una scansione intonata al 2+3 o al 2+2» (quest’ultimo caso ricorre qualora il danno biologico venisse ricondotto nell’ambito del danno esistenziale, cosa che noi, allo stato, non ci sentiamo di condividere).

 

2.          L’occasione per la delineazione del nuovo assetto dei danni risarcibili da fatto illecito si è presentata in sede di esame del danno morale, in due vertenze giudiziarie decise dalla Cassazione civile nello stesso giorno 31 maggio 2003 (nn. 8827 e 8828), in cui si eccepiva, ad es. nella fattispecie più monetariamente corposa costituita da Cass. n. 8827, la (presunta) duplicazione risarcitoria reperibile nella liquidazione equitativa operata con somma indennitaria onnicomprensiva, a fronte di danno morale da acuta sofferenza dei genitori e di danno esistenziale perenne per gli stessi (che la Corte d’appello di Bologna aveva, erroneamente - ma correttamente secondo il pregresso orientamento - ricondotto nell’alveo “dilatato” del danno biologico) i quali, per effetto di convivenza ed accudimento del figlio cerebroleso a seguito di asfissia neonatale indotta dai medici, si erano ritrovati “frustrati nell’aspettativa di una normale vita familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale conduzione di vita, ad una serena vecchiaia, …privati del rapporto genitore-figli, unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle necessità del figlio ridotto in condizioni pressochè vegetative”. L’eccezione della Compagnia di assicurazione - in ordine alla liquidazione di un danno morale in assenza di un riscontro di reato da parte dei sanitari, reato richiesto dalla lettera dell’art. 2059 c.c. - è stata disattesa, così come è stata disattesa (nella decisione n. 8828/2003) analoga eccezione, in fattispecie di danno morale da perdita di congiunto in un incidente automobilistico in cui, mancando l’accertamento della responsabilità di uno dei conducenti, la stessa è presunta dall’art. 2054 c.c. e ripartita in pari misura tra i due conducenti.

L’art. 2059 c.c., invocabile in presenza di danno non patrimoniale, è stato da queste sentenze della Cassazione (finalmente) depenalizzato - o, come altri hanno detto, “normalizzato, costituzionalizzato, ‘duemilaquarantatreizzato’ ([5]) - , sganciando il risarcimento del danno morale (la sofferenza interiore più o meno acuta e di varia durata, comunque transeunte) dal riscontro del reato, correlandolo invece al riscontro dell’essere la sofferenza stata causalmente conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti (nel caso: il rapporto familiare e parentale, riposanti sul riconoscimento costituzionale, ex art. 29, 1 c., Cost., dei “diritti di famiglia” latamente intesi). Ed è stato “depenalizzato” con queste incisive, convincenti, argomentazioni: « Si deve quindi ritenere ormai acquisito all'ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".

«Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all'interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell'ammissione al risarcimento, in riferimento all'art. 2059, è l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.

«Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l'art. 2059 del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l'art. 89 c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (… ).

«D'altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.» (Cass. n. 8828/03, cit.).

 

3.       Alla nuova elaborazione - o nuovo assetto dogmatico dei danni ingiusti, delineato al par. 1 del presente articolo - si è pervenuti dal lato e sul versante della enucleazione e valorizzazione del danno esistenziale, dopo che è stata notata l’insufficienza della vecchia tripartizione (danno patrimoniale, biologico, morale derivante da illecito penale) a coprire ipotesi di danno da lesione di diritti della personalità costituzionalmente garantiti, diversi dalla compromissione medico-legale della salute e dal danno psichico clinicamente accertato, nel caso in cui tali pregiudizi - riconducibili sempre e comunque al danno ingiusto ex art. 2043 c.c.- non sfociavano o non si accompagnavano a comportamenti penalmente rilevanti (ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.), tali da occasionare la soluzione risarcitoria attraverso la fattispecie del danno morale.

Poiché la Corte costituzionale e la Cassazione avevano da tempo affermato a chiare note che «la vigente Costituzione, garantendo principalmente i valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli della Carta fondamentale (che tutela i valori predetti) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi subiscono a causa dell’illecito» ([6]), «l’art. 2043 c.c. …deve essere necessariamente esteso a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni patrimoniali in senso stretto, ma con eccezione del danno morale, tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana» ([7]).

Conseguenza di tali pregresse notazioni fu la nascita (e ora l’accreditamento pacifico) del cd. danno esistenziale – come categoria o sottospecie del danno non patrimoniale (distinto dal danno biologico, soggetto al riscontro dei c.t.u. e dei medici legali) -, tramite il quale il magistrato dovrà prendere in considerazione, a fini risarcitori, tutte le lesioni, riconducibili a fatto ingiusto, inferte ai diritti della personalità costituzionalmente protetti, che nel campo lavoristico rilevano in forma di garanzia della personalità morale e della dignità del lavoratore (ex art. 41, secondo comma, Cost.). I valori della libertà e dignità del prestatore d’opera sono affermati costituzionalmente come  incomprimibili dalle esigenze della libertà di inziativa privata d’impresa, e si attualizzano in forma di autorealizzazione nel lavoro e nella comunità di lavoro o in altre aggregazioni ove si sviluppa la personalità del cittadino-lavoratore (artt. 1, 2, 3, 4, 35 Cost.), in forma di rispetto della personalità, il che implica l’ assoluto divieto di inflizione di mortificazioni e vessazioni tanto sistematiche e volontarie (spesso sorrette, anche se non necessariamente, dall’animus nocendi) quanto ingiustificate, unitamente (al) e in conseguenza del diritto al rispetto in quanto persona.

Questi pregiudizi non potevano rientrare (se non forzatamente e irragionevolmente) sotto l’ombrello del danno biologico – nonostante ci si sia sforzati in dottrina ed in giurisprudenza a coprire con esso oltre alla lesione della salute, l’aspetto estetico, quello dell’efficienza sessuale, quello edonistico o della normale vita di relazione – giacché il danno biologico è stato, dalla più condivisibile dottrina, collegato di necessità e correttamente alla salvaguardia della salute, ex art. 32 Cost., e quindi copre (unitamente al danno psichico invalidante che ne è una sfaccettatura) le sole lesioni all’integrità psico-fisica, suscettibili di essere acclarate dalla scienza medica, con i suoi strumenti diagnostici.

E’ stato giustamente osservato che il danno esistenziale copre, invece, quelle situazioni esemplificativamente riconducibili al diritto a che la propria quotidianità non peggiori per effetto di calunnie, al diritto a non essere insidiati nei propri segreti, al diritto del bimbo a non essere dimenticato da chi dovrebbe mantenerlo, del recluso a non essere colpito nei suoi diritti di recluso, a non essere molestati sessualmente, e - nel campo del lavoro - a non essere licenziati ingiustamente, a non essere demansionati e professionalmente degradati, a non essere costretti a lavorare in condizioni e senza presidi di sicurezza, a non essere mortificati e vessati ingiustificatamente come avviene nelle varie ipotesi di mobbing.

Seguendo questa posizione dottrinale, il danno esistenziale, quale categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali diversi da quelli morali, fagociterebbe (semplificando i giudizi e conferendo maggiore chiarezza all'ordinamento) il danno biologico, quello alla vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, ecc.; ma, secondo altra e diversa prospettazione, il danno esistenziale andrebbe ad affiancarsi a quello biologico di matrice medico-legale (posizione allo stato da noi condivisa).

La nozione di danno esistenziale andrebbe, poi, ad assolvere la funzione di riempire uno spazio vuoto, ovvero un'intera area di danni privi, di fatto, di tutela risarcitoria. Si osserva, in particolare, che il nostro sistema risarcitorio - prima dell’attuale riassetto bipolare - era fondato sulla tricotomia danno biologico/danno morale/danno patrimoniale: il danno biologico (recte, la lesione della salute conseguente ad un danno biologico) costituisce un peggioramento della qualità della vita del danneggiato, causalmente dovuto a una lesione in corpore (intendendo per tale anche la compromissione dell'integrità psichica ); il danno morale costituisce una mera sofferenza morale, una prostrazione dell'animo, un abbattimento dello spirito; il danno patrimoniale, infine, costituisce una deminutio patrimonii.

Questi tre tipi di danno, tuttavia, non coprono l'intera gamma dei pregiudizi che il danneggiato può risentire in conseguenza dell'altrui illecito; se infatti questo non integrava - secondo la superata lettura dell’art. 2059 c.c. ora depenalizzato - gli estremi di alcun reato, ovvero non ha causato una riduzione delle entrate o del patrimonio, o ancora non ha causato una compromissione dell'integrità psicofisica, parrebbe non sussistere alcuna ipotesi di danno. In realtà così non non è - come ha rilevato da tempo anche la Cassazione -, in quanto sono assai frequenti le ipotesi in cui l'atto illecito del terzo, pur non incidendo né sulla salute, né sul patrimonio della vittima, gli preclude lo svolgimento di attività non remunerative, sino ad allora abituali e gratificanti: in questa perdita risiede il danno esistenziale, che può essere definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell'integrità psicofisica.

Il danno esistenziale si differenzierebbe, quindi, dai tre consueti tipi di danno: da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche o del corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza (la quale ovviamente può essere indotta dal danno, ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad un'attività concreta; dal danno patrimoniale, in quanto non consiste in una diminuzione reddituale.

 

3.1.         Questi diritti costituzionalmente protetti ed ingiustamente lesi debbono essere riconosciuti ed indennizzati, a prescindere dalle difficoltà in cui potrà imbattersi il magistrato nel loro riscontro, e per i quali il danneggiato dovrà fornire indizi semplici ma concludenti in ordine alla durata, entità ed intensità del pregiudizio subito, al fine di far azionare al magistrato il ricorso (non disinvolto ma ponderato) alle presunzioni - che gli artt. 2727-2729 c.c. legittimano quale mezzo prudente di prova atto a far dedurre da un fatto noto, tramite indizi precisi, gravi e concordanti, un fatto ignoto altrimenti destinato a restar tale in presenza di situazione implicante la c.d. probatio diabolica, presunzioni cui spesso si é ricorsi usualmente nel campo lavoristico ed addirittura in quello più delicato del riconoscimento di paternità ([8])- integrabili o surrogabili, a fini della formazione del convincimento del magistrato, con l’uso del comune buon senso o del fatto notorio per nozione di comune esperienza ex art. 115 c.p.c..

Non è superfluo ribadire più incisivamente che le presunzioni costituiscono uno dei mezzi di prova affidati alla “prudenza” del giudice, legittimate dal codice nel processo del lavoro e nel processo civile, in specie su eventi o danni a connotazione intrinsecamente probabilistica (quali la perdita di chance promotiva e di ricollocazione esterna per obsolescenza da demansionamento o forzata inattività). Come affermato dalla S.C. in una pronuncia in tema di licenziamento discriminatorio desunto per concordanti presunzioni (sfocianti nel brocardo id quod plerumque accidit), nel processo del lavoro vi sono prove ardue o diaboliche da superare dal lavoratore e «proprio per temperare tali effetti, da tempo la giurisprudenza ammette che in simili fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri conferitigli dall'art. 421 c.p.c., facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui agli artt. 2727-2729 c.c. In base all’art. 421 c.p.c., nel processo del lavoro il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto» ([9]). Secondo il corretto insegnamento della Cassazione ([10]), «nella prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto (quale ad esempio la perdita di chance promotiva e di riallocazione esterna per obsolescenza, n.d.r.) sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare possa essere desunto dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, ossia che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto venga accertato alla stregua dei canoni di probabilità» - come potrebbe essere la chanche della mancata promozione per il demansionato, giacchè il datore di lavoro che lo “mobbizza” deliberatamente gli infligge anche la vessazione della mancata promozione: e la prova al magistrato della discriminazione indebita potrà esser data evidenziando concludentemente che i colleghi di pari anzianità e con similari o identiche mansioni l’hanno invece ricevuta -, con la precisazione che «l’apprezzamento del giudice di merito circa l’inesistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e la loro rispondenza ai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici» ([11]).

Per la tutela di situazioni di danno “in zona grigia” è stata elaborata già da tempo – ed ora recepita dalla stessa Consulta nella decisione n. 233/2003 - la categoria del “danno esistenziale”. Come si era fatto notare, nel passato prossimo, in dottrina: «più volte gli stessi giudici si sono trovati di fronte a situazioni sicuramente ingiuste, per lo meno rispetto alla sensibilità sociale che il magistrato impersona e concretizza nel momento interpretativo/applicativo della norma, tuttavia senza la possibilità di condannare il responsabile al risarcimento del danno, a causa della mancanza di una condotta di tipo penale in grado di ammettere l’esistenza del danno morale» ([12]).

Si era anche condivisibilmente osservato che per essere coerenti con le indicazioni della Corte costituzionale che ha legittimato nel 1986 il danno biologico in relazione a lesioni della salute, se altri diritti sono assistiti da pari garanzie costituzionali, ed è questo il caso dei diritti inviolabili della personalità, non può non essere fatto valere nei confronti delle lesioni di essi lo stesso ragionamento fatto per le lesioni del diritto alla salute: vale a dire, anche in questi casi (in precedenza esemplificati e ricondotti nella categoria del danno esistenziale) il danno non patrimoniale deve essere risarcito ex art. 2043 c.c. come species di danno ingiusto ([13]).

Nello svolgimento evolutivo della tematica ha prevalso la tesi – affermata ora esplicitamente da Corte cost. n. 233/2003 e da Cass. n. 2050/2004 – dell’autonomia della nuova figura del danno esistenziale, quale fattispecie di danno non patrimoniale.

Tale species di danno è quello conseguente alla lesione di un “diritto della personalitàdi rango costituzionale, in grado di contenere anche tutte quelle figure risarcitorie che, seppure sorte nell’ambito del danno biologico, tuttavia non concernono direttamente il diritto alla salute, quanto piuttosto il profilo relazionale-sociale. Il danno esistenziale, così come è stato prospettato e recepito autorevolmente, verrebbe – pertanto - a tutelare interessi diversi ed ulteriori rispetto a quelli del “danno biologico” (perché non circoscritti al solo diritto alla salute), dal momento che assicurerebbe una salvaguardia risarcitoria a fronte di ogni modificazione peggiorativa patita dal danneggiato nell’esplicazione della propria personalità, intesa come valore fondamentale dell’individuo, cui l’ordinamento deve tendere e perciò tutelare adeguatamente.

L’esigenza di riconoscimento del danno esistenziale, d’altra parte, si imponeva in quanto un eventuale disconoscimento avrebbe finito per realizzare una disparità di trattamento del tutto ingiustificata ove si consideri la perfetta assimilabilità – dal punto di vista ontologico – tra danno biologico e danno esistenziale, derivante dalla lesione di altre situazioni costituzionalmente garantite.

E’ stato ancora condivisibilmente ricordato - da attento autore prima ([14]) e da Cass. pen. n. 2050/2004 poi - che alla contrapposta critica ([15]), secondo cui il riconoscimento della nuova figura di danno avrebbe alimentato quel processo di incontrollata estensione del raggio applicativo dell’art. 2043 c.c., si può replicare sottolineando come il criterio selettivo per valutare la portata dell’interesse leso dal fatto illecito altrui non può che essere dato dai valori affermati nella Carta fondamentale, «al fine di evitare [...] che germoglino richieste di tutela risarcitoria in relazione a posizioni soggettive che l’ordinamento giuridico non eleva a diritti inviolabili dell’uomo costituzionalmente tutelati» ([16]). La tutela risarcitoria non è dunque invocabile nel caso di generici pregiudizi esistenziali – quelli che Cass. n. 2050/2004 definisce ironicamente “bagatellari” - conseguenti alla lesione di un qualsivoglia interesse, bensì soltanto nel caso di lesione di beni-interessi che godano di una copertura, diretta o indiretta, di rango costituzionale. In tali casi soltanto, riconosciuto il valore assoluto dei diritti inviolabili come beni e valori personali, garantiti dalla Costituzione come diritti fondamentali dell’individuo, al pari della salute, il pregiudizio alla sfera esistenziale cagionerà un danno riparabile in quanto suscettibile di valutazione patrimoniale, attraverso il ricorso al potere equitativo del giudice.

Questa nuova figura di danno, attraverso la quale si riconosce un autonomo spazio di salvaguardia anche sul terreno risarcitorio ai valori della persona (diversi dal diritto alla salute ex art. 32 Cost.) si viene così ad inserire – nel nuovo assetto delineato dall’orientamento della Corte costituzionale e della Cassazione - nell’ambito del danno non patrimoniale, quale sottospecie ad ampio raggio contenutistico. Riteniamo poi - come fu osservato ([17]) - che dalla avvenuta legittimazione di tale nuova figura di danno (esistenziale) non discenda consequenzialmente un’indebita duplicazione delle poste attive nella sfera giuridica del soggetto leso, perché anche laddove per effetto della lesione ingiusta concorrano le diverse voci di danno, il giudice dovrà pur sempre procedere ad una valutazione complessiva del pregiudizio subito, con un procedimento logico-giuridico motivato e sindacabile (in tal senso si è espressa la giurisprudenza della S.C.). In questi casi, trattandosi comunque di risarcimento equitativo, il giudice sarà obbligato a operare «un’allocazione globale delle somme che sia equa» ([18]), contemperando a tal fine le diverse somme dovute per le singole voci di danno, che se considerate autonomamente potrebbero portare alla quantificazione di una somma complessiva non equa rispetto al caso in questione, se costituite dalla mera sommatoria aritmetica di titoli non sempre autonomi di per sé, ma correlati concausalmente nella determinazione dell’effetto pregiudizievole per la persona. Inoltre, se e in quanto ne ricorrano i presupposti di legge, può essere riconosciuto addizionalmente al danno esistenziale il risarcimento del danno biologico per lesione – sanitariamente accertata con ricorso o no a c.t.u. e individuazione del grado di invalidità permanente (desumibile dalla tabella allegata al d.m. Sanità del 5 febbraio 1992 emessa per la valutazione dell’invalidità civile, ovvero, in caso di malattia professionale o infortunio, dalla “tabella per le menomazioni” emessa dal Ministero del lavoro con d.m. 12 luglio 2000 in applicazione del d. lgs. n. 38 del 2000 di riforma dell’INAIL) – nonché il danno morale ex art. 2059 c.c. ([19]).

In passato per coprire la molteplicità dei danni, in specie quelli correlati alla sfera psichica, di carattere transitorio e suscettibili di remissione (ansia, disturbi post-traumatici da stress, depressione, e simili) è stata “superutilizzata” la figura o fattispecie del danno biologico, anche quando le alterazioni non erano tali da determinare una patologia cronica e invalidante (secondo le varie misure percentuali tabellate). Questo “necessitato” abuso d’utilizzo - in mancanza di una pacifica accettazione del danno esistenziale - mette ora in chiara evidenza una carente valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 2087 c.c. ([20]), con evidente pregiudizio per le ragioni del prestatore di lavoro, in particolare, nelle ipotesi in cui il danno collegato alla lesione dei diritti della personalità finiva per costituire l’unica voce di danno possibile. In casi di questo genere la giurisprudenza si è a lungo sforzata di rintracciare comunque nella lesione della professionalità, della dignità e della personalità del lavoratore una sindrome psichica, vale a dire una vera e propria lesione della salute, piuttosto che ammettere la risarcibilità del danno collegato alla compromissione della sfera esistenziale-personale del prestatore di lavoro ([21]).

Non v’è dubbio alcuno che l’introduzione della figura del danno biologico nel sistema abbia generato effetti creativi o di trascinamento nel diritto vivente della nuova figura del danno esistenziale, per aver rappresentato  l’introduzione del danno biologico «un cambiamento di approccio nei confronti della protezione della persona complessivamente intesa» ([22]), favorendo la «rifondazione di un sistema di ‘diritto civile costituzionale’, imperniato sulla ‘funzionalizzazione’ delle situazioni soggettive patrimoniali alle situazioni esistenziali, cui si riconosce, per l’appunto in ossequio ai canoni costituzionali, una indiscutibile preminenza» ([23]). Prima dell’attuale recepimento della categoria del danno esistenziale nell’ordinamento positivo o nel diritto vivente, si era evidenziato come nell’ambito dei rapporti di lavoro non si potesse procedere con il solo strumento del danno biologico, non potendosene estendere irragionevolmente oltre misura l’ambito applicativo, attraverso un progressivo allargamento delle ipotesi di danno psichico; doveva potersi riconoscere una tutela risarcitoria anche quando la lesione di una prerogativa costituzionale, pur cagionando un danno effettivo, non aveva comportato una patologia clinicamente accertabile (acquisizione ora pacifica). In tale ottica si è affermato che la « figura di sintesi in grado di garantire quanto sin qui auspicato è rappresentata dal danno esistenziale. (...) In ambito lavoristico una simile figura di sintesi sarebbe in grado di assicurare un adeguato ristoro in tutti quei casi di ingiustificata e dannosa compromissione della personalità morale del lavoratore, anche se non tali da originare traumi o sindromi psichiche di natura patologica. Si intende fare riferimento, in particolare, alle ipotesi di danno da illegittimo licenziamento del lavoratore, o da licenziamento ingiurioso, ovvero ancora alle ipotesi di dimissioni determinate da molestie sessuali, o alle diverse ipotesi di dequalificazione professionale, con conseguente lesione della professionalità e menomazione della capacità di concorrenza lavorativa ed avanzamento di carriera, o infine a nuove particolari ipotesi di danno da mobbing . Dunque, secondo questa ricostruzione, due sarebbero le voci di danno attraverso le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il danno biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del diritto alla salute, e il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente garantiti» ([24]).

 

4. Il riconoscimento del danno esistenziale ([25]) si inserisce nella più generale tendenza, manifestata con vigore negli ultimi anni dalla giustizia di merito e di legittimità, a una maggiore attenzione verso i temi della famiglia (legami parentali, potestà dei genitori, vincoli di solidarietà familiare) e delle relazioni sociali della persona.

Dopo l’introduzione del danno biologico, in affiancamento al danno patrimoniale e non patrimoniale, è apparsa evidente la non esaustività dell’assetto così realizzato: infatti un fatto-evento causato da terzi può rivelarsi dannoso quand’anche non si traduca nella concreta e materiale lesione dell’integrità fisio-psichica, se idoneo ad incidere sulle possibilità realizzative della persona umana, ledendo il diritto allo svolgimento della personalità umana, considerato globalmente ex art. 2 Cost. ovvero qualsiasi diritto comunque assistito da garanzia costituzionale. La mera frustrazione prodotta dal fatto, con il suo carico di speranze e aspettative vanificate, di affetti e relazioni umane messi in discussione, può riverberarsi – anche nel lungo periodo – sulla quotidiana esistenza dell’individuo, a prescindere da un danno fisico medicalmente accertabile, integrando quella «lesione in sé» di cui parla la sentenza su ricordata. Tale pregiudizio, in quanto efficace, ingiusto e causalmente riconducibile al fatto, legittima la richiesta di risarcimento.

Siffatta esigenza – soddisfatta dal recepimento del danno esistenziale - ben si inserisce anche nell’alveo dell’orientamento già consolidato della Corte costituzionale, in ordine alla necessità del «risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana» ([26]).

Seguendo tale impostazione è altresì possibile tentare l’inquadramento dogmatico della figura del danno esistenziale. Mentre in passato veniva pacificamente ricollegato all’art. 2043 c.c., il quale concerne il danno «ingiusto» (cioè lesivo di situazioni soggettive giuridicamente protette, atteso che la tutela costituzionale non distingue tra categorie di diritti tutelabili), ora la Corte costituzionale lo ricollega – quale sottospecie del danno non patrimoniale – all’art. 2059 c.c. evolutivamente interpretato come sganciato dall’ipotesi penalistica del reato.

Si tratta di un danno autonomo ontologicamente diverso dal danno biologico (danno alla salute medicalmente accertabile), dal danno morale soggettivo (sofferenze transeunti) e, naturalmente, dal danno patrimoniale, con essi cumulabile, ai fini della determinazione del quantum complessivamente risarcibile, auspicabilmente scisso nelle sue componenti (cfr. Cass. n. 8827/2003) o onnicomprensivamente liquidato (tuttavia in maniera tale da rendere possibile il riscontro e l’individuazione, dietro motivazione, delle componenti medesime).

Il danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni concrete (a differenza del danno biologico), sussiste altresì al di là di una incidenza del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno patrimoniale) e sussiste infine anche in assenza di comportamenti penalmente rilevanti e secondo dottrina potrebbe essere ricondotto in una configurazione da genus a species, rispetto alle altre figure menzionate (danno biologico, danno morale) e si specificherebbe in quei danni alla personalità ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, che  - ad es. nel campo del lavoro - sono il danno professionale, e – nella vita quotidiana – rinvengono nel  danno psicologico transeunte, nel danno alla serenità della vita familiare e nella comunità lavorativa,  nel danno alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali. A differenza del danno biologico – il quale, identificandosi nella concreta lesione suscettibile di accertamento medico-legale, deve essere provato rigorosamente nell’eziologia e nell’entità, ai fini risarcitori – il danno esistenziale (nelle sfaccettature o componenti sopraspecificate), pur qualificato «lesione in sé», deve essere solo specificamente provato nei suoi stessi presupposti e può sussistere, come si è cercato di chiarire, anche in mancanza di una lesione, e presentarsi, anzi, come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo. Talché, una volta provati, tramite semplici indizi in ordine alla entità, intensità e durata del pregiudizio (per fare un esempio, nel caso di demansionamento, una volta provata la consistente erosione di mansioni o la totale inattività, rifluenti rispettivamente nei caratteri della entità e intensità del pregiudizio anche in relazione alla tipologia delle mansioni esplicate, nonché la durata del demansionamento), il pregiudizio sarà risarcibile dal giudice in via equitativa ex art. 1226 e 2056 c.c., in quanto dall’illegittimo comportamento demansionante conseguono – per valutazione di indizi concludenti e per dato di comune esperienza o fatto notorio ex art. 115 c.p.c. - i danni lamentati alla professionalità e all’immagine interno/esterna all’impresa. Nello stesso modo si dovrà procedere, ai fini risarcitori, anche nell’ipotesi (invero di netta minoranza in tema di danno da demansionamento), in cui si volesse disconoscere che il danno è in re ipsa in quanto non è danno-evento ma danno-conseguenza, quantunque sul danno esistenziale da demansionamento la prevalente giurisprudenza della Cassazione degli ultimi dodici anni abbia sostenuto talora che è in re ipsa e poi si sia attestata con prevalenza nel sostenere la pacifica sufficienza della prova presuntiva riconoscendo che il puro danno professionale (eminentemente di natura esistenziale da mortificazione inferta alla dignità del prestatore) è risarcibile anche in mancanza di una rigorosa prova di pregiudizio patrimoniale (invero pressochè o del tutto impossibile a darsi), essendo intuitivo che le mansioni sottratte e non esercitate determinano, oltre alla lesione del diritto costituzionale all’autorealizzazione nel lavoro e nella formazione sociale dell’impresa (artt. 1 e 2 Cost.), altresì un automatico degrado professionale specialmente in capo alle qualifiche più specializzate e professionali. E’ infatti del tutto pacifico e nozione di comune esperienza che il mancato espletamento di tali compiti occasiona inevitabilmente obsolescenza delle capacità specialistiche e, se preposti al coordinamento di risorse umane o di uffici, determina perdita esponenziale con il passare del tempo (per durata protratta del demansionamento) sia delle capacità decisionali o propositive, sia delle competenze e attitudini di coordinamento e addestrativo-formative dei collaboratori di cui si è subita la sottrazione, tramite ad esempio il ben noto espediente aziendale dello spostamento del demansionato da una posizione di line (o funzionale) a una di staff (o di mero supporto o studio e ricerche uti singulus) .

Nello stesso nostro ordine di idee si muove, in una relazione, un’autrice ([27]) sostenendo che «...l’orientamento che ha posto...a carico del lavoratore demansionato l’onere di provare pienamente l’esistenza e l’entità del danno lamentato – richiesta il cui rigore se può sembrare razionale relativamente alla tipologia del danno biologico – davvero non pare adeguatamente considerare che, trattandosi di eventi dannosi che si producono pur sempre su beni immateriali, quali la professionalità, la dignità, l’immagine, anche se suscettibili di valutazione patrimoniale, comportano inevitabilmente il ricorso alla prova per presunzioni, che nel nostro ordinamento trova pieno diritto di cittadinanza attraverso la previsione dell’art. 2729 c.c.». E nello stesso senso si esprime l'estensore di una approfondita decisione di merito ([28]), secondo cui: «La violazione dell’art. 2103 c.c. assume dimensioni intollerabili ove il dipendente, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione, sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti. L’ inattività forzata del lavoratore è la forma più grave di dequalificazione e demansionamento e dal demansionamento o dalla forzata inattività del lavoratore non deriva solo un danno inerente il patrimonio del soggetto, ma anche un danno relativo alla sua professionalità, intesa essa sia come lesione al “patrimonio” professionale del dipendente sia come lesione alla qualità della vita dello stesso, e quindi un danno propriamente esistenziale, che colpisce la persona in quanto tale (si tratta di danni a beni immateriali, non suscettibile di valutazione medico-legale ma liquidabili solo in via equitativa)».

Circa la non necessità di una (rigida) prova del danno alla professionalità afferma ancora la S.C. che ove« la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa delle mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l'entità della retribuzione» ([29]); «la liquidazione equitativa (...) deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000, n. 14443), dato che la prova presuntiva va ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre 2001 n. 13580)» ([30]).

In buona sostanza, così suona, oramai da più di un decennio, il prevalente orientamento della S. corte sul danno alla professionalità “pura” o "soggettivamente intesa" ([31]) - che si sostanzia eminentemente in "danno esistenziale", in quanto lesione del diritto costituzionale (ex art. 2 e 41 Cost.) al pieno ed effettivo spiegamento della professionalità del lavoratore nella società e nella comunità di lavoro nonché al rispetto della sua intangibilità, escludente qualsiasi forma di negazione o compressione ad opera di pratiche dequalificatorie datoriali - conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c. e dei precetti costituzionali (artt. 1 e 2 Cost.): «Il demansionamento professionale dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Non solo viola lo specifico divieto di cui all'articolo 2103 c.c., ma costituisce offesa alla dignità professionale del prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa (Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727). L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998, n. 7905; 4 febbraio 1997, n. 1026 e 13 agosto 1991, n. 8835)» ([32]).

Poiché il danno alla professionalità pura da demansionamento o danno alla professionalità soggettivamente intesa (sostanziantesi in danno psicologico da mortificazione, in sofferenza da inibizione all’autorealizzazione professionale, in danno all’immagine ed alla reputazione ed a beni immateriali similari, quali la dignità umana, il rispetto, ecc.) è (eminentemente) un tipico danno esistenziale – pur con una sua componente patrimonialmente valutabile per quanto attiene al degrado ed all’obsolescenza della professionalità specifica – e, quindi, partecipa della stessa natura del danno (esistenziale) da “irragionevole durata del processo”, riteniamo sia del tutto pertinente l’accostamento e l’equiparazione, anche in ordine all’identità del regime probatorio, tra di esso ed il predetto danno da “irragionevole durata del processo”. Relativamente a quest’ultimo così si sono espresse le sezioni unite della Suprema corte ([33]): “«...mentre l'esistenza del danno patrimoniale, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l'interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l' id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell'art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001, cd. legge Pinto), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d'animo, un'ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l'id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso). Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che, dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate». Il che equivale, praticamente, ad inversione dell’onere della prova, incombente pertanto su chi sostiene non  essersi realizzata (come di norma avviene) tale consequenzialità pregiudizievole.

Diversamente è stata valutata la fattispecie del danno alla professionalità “oggettivamente intesa” – implicante danno patrimoniale in se e per se, di norma in forma di “lucro cessante" probabilistico -  cioè a dire la fattispecie del danno da demansionamento o forzata inattività implicante le connesse perdite di chances promotive interne o di miglioramento professionale nel mercato esterno, ove prevale la tesi giurisprudenziale che tali perdite vanno rigorosamente provate ex art. 2697 c.c. nella loro causalità dal demansionamento. Si esprime, al riguardo, tuttavia l’avviso che anche qui sarebbe sufficiente il ricorso alle presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c., giacché è intuitivo che chi mobbizza demansionando certamente nega la promozione all’inviso quando solitamente la conferisce invece ai di lui colleghi di pari anzianità o svolgenti le stesse o similari mansioni. Cosicché questo comportamento – quando venga statisticamente in risalto ed acclarato dal magistrato come non occasionale o episodico - costituisce parimenti “prova incontestabile”, tramite un indizio preciso, certo e concordante, di discriminatorietà con finalità vessatorie cioè a dire espressivo di un uso illegittimo del potere discrezionale datoriale che in un rapporto obbligatorio soggiace all’osservanza dei principi di “correttezza e buona fede” ex artt. 1175-1375 c.c..

       In conclusione, riteniamo vada ribadita l’autonomia della categoria del danno alla persona e che, quale categoria unitaria, vada considerata quella del danno da atto illecito tout court, al cui interno ricomprendere tutte le tipologie di danno rispondenti ai requisiti posti dalla norma (ingiustizia del danno, dolo o colpa, nesso causale) qualunque sia poi, in concreto, il diritto costituzionalmente protetto che abbia subito un pregiudizio.

       Altri sostenitori ([34]), in campo lavoristico, del danno esistenziale – ora accreditato in maniera generalizzata - hanno sottolineato come: «La situazione creatasi, in particolare per la giurisprudenza di merito di alcuni giudici che cercavano di tutelare situazioni comunque riconosciute meritevoli di tutela dall’ordinamento, seppure non da normative specifiche ma dalle regole generali dettate dalla Costituzione, determinava una incertezza definitoria proprio perché con il termine di danno biologico non si indicava più una realtà ben definita ed univoca. Parte della dottrina aveva proposto di introdurre l’altro concetto di danno esistenziale per coprire quel settore che innaturalmente era stato tutelato dal danno biologico ed al quale non apparteneva. Veniva definito danno esistenziale quello che andava a colpire la qualità della vita del soggetto danneggiato in maniera da renderla differente in termini considerevoli ed evidenti. Probabilmente l’ostacolo maggiore all’affermarsi del concetto di danno esistenziale prima della definizione normativa del danno biologico è stato proprio l’elemento di duttilità di questo secondo concetto, che rendeva sostanzialmente non indispensabile la creazione di una nuova categoria, per altro dai contorni quantomeno evanescenti.

      «Oggi si può affermare con sicurezza che l’intervenuta definizione normativa del danno biologico (che secondo l’art. 13 D.lgs. n. 38/2000 di riforma dell’Inail è “la lesione dell’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona”) rende i termini della questione sicuramente più chiari, senza possibilità di sovrapposizioni di concetti e con l’esigenza di riconoscere il danno esistenziale se non si vuole lasciare priva di copertura tutta quell’area di situazioni prima coperte con l’estensione del concetto di danno biologico, oggi non più possibile per la riconducibilità del medesimo all’esclusivo ambito delle lesioni all’integrità della salute sanitariamente acclarabili e, valutabili e quantificabili in termini di grado di invalidità.

      «Riassumendo: nella materia di danni alla persona non patrimoniali… ci troviamo oggi con il concetto di danno biologico che richiama esplicitamente ed esclusivamente la lesione suscettibile di valutazione medico legale. Tutta quella parte di situazioni soggettive comunque riconosciute dalla Costituzione come meritevoli di tutela, a cominciare nel settore del lavoro dalla dignità del lavoratore stesso, devono essere comunque tutelate e tale tutela non può oggi essere offerta che dalla nuova categoria del danno esistenziale se non si vuole correre il rischio che tali situazioni non vengano più riconosciute come meritevoli di tutela. Pensiamo al principio sancito dall’art. 41, secondo comma, della Costituzione per il quale l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità della persona umana e colleghiamolo all’art. 2043 c.c. ed avremo un sistema adeguatamente rispondente a quanto richiesto dall’art. 2059, almeno quanto il combinato disposto dello stesso art. 2043 c.c. con l’art. 32 Costituzione per il danno biologico.

«Secondo questa ricostruzione due sono le voci di danno attraverso le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il danno biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del diritto alla salute, ed il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente garantiti».

Queste argomentazioni scandiscono i passi e strutturano i gradini dell’irto percorso in salita che ha portato all’attuale, pacifico, riconoscimento del danno esistenziale, rilevante nel campo delle lesioni della personalità nell’ambito e nel settore del rapporto di lavoro (a risarcimento del danno conseguente ad una serie di atti illegittimi datoriali quali il licenziamento ingiustificato, il licenziamento ingiurioso, la dequalificazione, il demansionamento ed il confinamento in inattività, il mobbing nella sua varietà di vessazioni e persecuzioni psicologiche, le molestie sessuali, le discriminazioni a vario titolo, ecc.).

 

5.          A proposito del “danno esistenziale” da perdita di rapporto parentale per uccisione di congiunto, la Cassazione ha negato che ci si trovi in presenza di un danno “in re ipsa” (costituendo danno-conseguenza e non danno-evento) ed ha affermato - tuttavia temperandolo subito con la legittimazione al ricorso a valutazioni prognostiche ed alle presunzioni sulla base di obbiettivi elementi che sarà onere del danneggiato fornire - che il pregiudizio deve essere provato ed allegato.

La S. C. é poi entrata nel merito del “rischio” (fino ad oggi frenante la legittimazione pacifica del “danno esistenziale”, cui si é mosso da più parti l’addebito dell’essere un mero “espediente” dilatatorio o accrescitivo del quantum risarcibile) connesso o conseguente al cumulo, a fini risarcitori, delle varie componenti del danno - rectius delle varie specie di danno ontologicamente distinte ed autonome - , legittimandone il cumulo dietro una equilibrata valutazione complessiva dell’intero ristoro per l’unitario evento dannoso. Esprimendo, tuttavia - accanto alla legittimazione (che s’imponeva imprescindibilmente) -, l’avviso, con finalità di contenimento, che: «E’ conclusivamente il caso di chiarire che la lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato della poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l’interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ad ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto. Deve anche dirsi che, tutte le volte che si verifichi la lesione di un tale tipo di interesse, il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) é risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona » (così Cass. n. 8827/2003).

Sempre a proposito del “danno esistenziale” da rottura del vincolo parentale per morte di congiunto, nella decisione n. 8828/2003, la S.C. ha asserito che la liquidazione non potrà che essere equitativa «vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non potrà che avvenire in base a valutazione equitativa (articoli 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età della vittima e dei singoli superstiti. Ed è appena il caso di notare che il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento. Ma va altresì precisato che, costituendo nel contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla persona, unitariamente considerata, la riparazione del pregiudizio effettivamente subito, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento.»

La Cassazione ha così affermato che per un unitario evento pregiudizievole, è del tutto legittima la quantificazione del danno attraverso un cumulo “bilanciato” delle varie tipologie “ontologicamente” autonome di danno, in cui a soffrirne nel complesso appare essere destinato il “danno morale” da sofferenza interiore, rispetto a quello esistenziale, a quello biologico ed al patrimoniale.

Questo richiamo al giudice del merito ad un prudente equilibrio in ordine al quantum (non conseguente ad una pura e semplice operazione di sommatoria delle poste indennizzanti) ha occasionato - anche da parte di dottrina che l’ha condiviso - la considerazione o addebito, per motivi di par condicio o simmetrici, di aver sofferto la “sindrome del pompiere”, cioè di aver voluto svolgere un ruolo calmieratore, a detrimento della vittima ([35]) . Altre valutazioni critiche o in forma di apprezzamento espresse da Cendon, nella stessa nota a commento di getto, meritano di essere riferite e così suonano: «Non bene insomma, da parte della 8828, il non rimarcare abbastanza il fatto che nel momento stesso in cui si viene a confermare, sia pur lungo alvei diversi, il trend di maggior attenzione per la persona sotto i profili del quantum, con riguardo al danno non patrimoniale, occorrerebbe saper dire ai giudici e a tutti quanti noi: “Sia il tempo e lo spazio che ti concederai - facendo il tuo lavoro - sempre diviso in due parti, fra loro eguali, quella dell’an e quella del quantum; scrivendo potrai se vuoi concedere più spazio al quantum, mai il contrario» ([36]).

Sul punto centrale del quantum risarcibile, ci fa piacere notare come il prof. Cendon giunga a considerarlo il “punto focale” del danno esistenziale. Nel nostro piccolo, siamo dello stesso avviso: da tempo stigmatizziamo il fatto dell'essere passati nel corso del tempo da indennizzi, con effetto realisticamente deterrente, dei 500 milioni di vecchie lire per il caso del vicedirettore generale C., mobbizzato dalla Banca Nazionale del lavoro ([37]) e tramite il ricorso al parametro della mensilità intera, alla decina di milioni degli altri casi successivi e regredendo al parametro risarcitorio di una porzione percentuale della mensilità ordinaria sempre più ridotta.

Non si rendono pienamente conto taluni magistrati ([38]) che (aldilà delle affermazioni di principio in positivo), tramite simili indennizzi non  si combatte il fenomeno del mobbing ma lo si legittima nella sostanza, in quanto - svuotati i risarcimenti del carattere della deterrenza alla reiterazione -  essi indirizzano ai "concreti" datori di lavoro il messaggio (tutt'altro che subliminale) che possono cavarsela con poche decine di milioni per perseverare in comportamenti illeciti che ledono i primari diritti della personalità dei prestatori di lavoro e che pregiudicano e segnano indelebilmente il mobbizzato (o demansionato), nella carriera, nella salute, nella vita familiare e relazionale.

C'è nel nostro Paese una reale sottostima - a differenza che nel mondo anglosassone e a prescindere dalla problematica e/o ammissibilità dei cd. punitive damages - verso le lesioni dei diritti della personalità che va ripensata seriamente da parte della magistratura che in essi si imbatte, anche se sembra invece che sia, purtroppo, sensibile all'opposto rischio del "troppo concedere" tramite una duplicazione risarcitoria di un danno, seppure con componenti ontologicamente diverse (quali il danno biologico, esistenziale e morale soggettivo), in capo alla stessa persona danneggiata, come si legge anche nelle recentissime e complessivamente ottime Cass. n. 8828/2003 e Cass. n. 2050/2004.

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IL DANNO ESISTENZIALE NEL RAPPORTO DI LAVORO – Riassunto:

L’ A. analizza il “danno esistenziale” quale danno arrecato alla realizzazione dei valori garantiti alla persona dalla Costituzione, riconducendolo all’interno del genus del “danno non patrimoniale”, accanto alle due species del danno morale e del danno biologico. In campo giuslavoristico rientra primariamente, in tale danno – ad avviso dell’A. - quello arrecato alla professionalità pura, implicante la privazione - per demansionamento - del diritto all’autorealizzazione nel lavoro, ai cui fini risarcitori è sufficiente la prova per presunzioni o per fatto notorio.

 

EXISTENTIAL DAMAGE IN EMPLOYER-EMPLOYEE RELATIONSHIP: Summary:

The Author analyses the “existential damage” suffered by a person in the realization and respect of Constitutional rights. This damage belongs to the the genus of “non patrimonial damages”, next to moral and biological damage. In the field of employer-employee relationship, it essentially consists in the “pure professional damage” caused by downgranding, depriving the constitutional and individual right of realizing his own personality with work and in the worker’s community, damage whose compensation in judgement needs the presumptive trial or the well-known event.

MARIO MEUCCI

Redattore capo di LPO

Roma, 30 aprile 2004 (di prossima pubblicazione sul n. 2/2004 di Riv. it. dir. lav., p. 337 e ss., slittato sul n. 3/2004)

 

In formato PDF, v. a questo link:http://www.personaedanno.it/attachments/allegati_articoli/AA_002388_resource1_orig.pdf

 


[1]      Corte cost. n. 233 dell’11 luglio 2003, è leggibile in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6313 e in http://www.altalex.it/index.php?idnot=6334, con nota di Cassano (La responsabilità civile con due (belle?) gambe, e non più zoppa).

[2] Trattasi di Cass. sez. III civ. n. 8827 e 8828, entrambe del 31 maggio 2003, leggibili in www.studiocelentano.it/dannoesistenziale/ - cui si è successivamente conformata Cass. n. 12124 del 19 agosto 2003 - e di Cass. sez. IV pen. n. 2050 del 22 gennaio 2004, leggibile al sito http://dirittolavoro.altervista.org/cassazione_riconosce_dannoesistenziale.html.

[3] Trattasi di Trib. Tempio Pausania n. 157 del 10.7.2003, leggibile nel nostro sito http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_tempio_pausania.html., con nostra postilla.

[4] In Vincitori e vinti (…dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale), nota a commento, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6352 .

[5] Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. n. 8828/2003, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=6335 .

[6] Così Corte cost. n. 184/1986 , in FI, 1986, I, 2053 con nota di Ponzanelli.

[7] Così Pret. Ferrara, 25 novembre 1993,in NGCC, 1995, I, 74.

[8] Cfr. Cass. I Sez. civ. n. 2640 del 21 febbraio 2003, leggibile in http://www.altalex.com/index.php?idstr=20&idnot=5823; Cass., I Sez. civ., n. 5333 del 29 maggio 1998 (in FI Rep. 1998, v. Filiazione, n. 81) e Cass. n. 2008 del 13 febbraio 2001 (ibidem 2001, voce Procedimento civile, n. 161), che hanno dato rilevanza ai fini del riconoscimento di paternità ad elementi concludentemente indiziari.

[9] Così Monateri-Bona-Oliva, Mobbing, vessazioni sul lavoro, Milano 2000, 91.

[10]  Espresso, tra l’altro, incisivamente nella sopracitata decisione n. 5333 del 29 maggio 1998, cit.

[11] Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e Resp. 1999, n. 1, 6.

[12] Così Cass. n. 8828/2003, cit.

[13] Così Ziviz, Il danno non patrimoniale, in La responsabilità civile, VII, a cura di Cendon, Torino 1998, 380

[14] Gambacciani, Le nuove frontiere del danno alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di sintesi: il danno esistenziale, in Italian Labour Law e-Journal (rivista telematica diretta da Carinci) 2000.

[15] I critici verso la categoria del “danno esistenziale” sono stati (e sono) numerosi. Sostenitori di varie tesi, non uniformi ma talora anche differenziate, che noi – in questa sede ed anche per motivi di spazio – non riteniamo di poter passare analiticamente in rassegna. Ci limiteremo pertanto ad evidenziare che la critica più ricorrente al “danno esistenziale” è quella fondata sull’addebito di traguardare la cd. overcompensation: cioè a dire si è ritenuto il “danno esistenziale” espediente dottrinale e giurisprudenziale idoneo e funzionale a superare i limiti e i vincoli della responsabilità civile, sia dal lato codicistico-formale che sul versante probatorio.

Tra i più ostili e critici all’introduzione della categoria, si veda Rossetti: Il danno da lesione della salute, Padova 2001; dello stesso A., in quanto magistrato ed estensore, si veda la sintesi critica al “danno esistenziale” espressa nella Sua decisione emessa da Trib. Roma 7 marzo 2002, in Dir. e Giust. 2002, 43; ID., Danno esistenziale: adesione, iconoclastia o epoké, in Danno e Resp. 2000, 209; sulla stessa posizione di rifiuto, Ponzanelli, Una voce contraria alla risarcibilità del danno esistenziale, ibidem, n. 3/2002, 339; ID., Sei ragioni per escludere il risarcimento del danno esistenziale, ibidem n. 7/2000, 693 e ss; Gazzoni, Alla ricerca della felicità perduta, in www.studiocelentano.it/lenuovevocideldiritto/; D’Adda, Il cosiddetto danno esistenziale e la prova del pregiudizio, FI, 2001, I, 188 e ss.

Ancora , sia sul tema specifico (in vario senso) sia sulle varie categorie del danno risarcibile si menzionano le opere, i saggi e le note di: Franzoni, Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona, RCP 2001, 777 e ss.; Busnelli, Problemi attuali del danno alla salute, in RTDPC 1996, 670; Cendon, Trattato breve dei nuovi danni, Padova, Cedam (in corso di pubblicazione); Cendon – Ziviz, Il danno esistenziale, Milano, Giuffré 2001; Cassano, La giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza 2002; Navarretta, La qualificazione del danno non patrimoniale e la tavola dei valori costituzionali, in Resp. civ. prev. 1997, 396; Petti, Il risarcimento dei danni: biologico, genetico, esistenziale, Torino 2002.

In campo lavoristico si menzionano sul tema, gli studi di: Scognamiglio R., Danno biologico e rapporto di lavoro subordinato, ADL 1997, 5 e ss.; ID., Responsabilità civile, ora in Scritti giuridici, I, Padova 1996, 319 e 581; Scognamiglio C., Il danno biologico: una categoria italiana di danno alla persona, in Europa e dir. priv. 1998, 259; Lanotte, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino 1998; Stanchi A., Danno alla persona nel rapporto di lavoro e oneri di prova, relazione all’incontro di studio di Cosenza del 12 aprile 2003, in www.csdn.it/relazioni_doc/; Pedrazzoli (a cura di), Danno biologico ed oltre. La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del lavoratore, Torino 1995; ID., Lesione dei beni della persona e risarcibilità del danno nei rapporti di lavoro, DLRI, 1995, 271; Nogler, Danni personali e rapporto di lavoro: oltre il danno biologico, RIDL, 2002, I, 287; Pera, Considerazioni problematiche sul danno biologico con particolare riguardo al rapporto di lavoro, GC, 1998, II, 84; Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, RIDL, 2000, I, 251; ID., Recente evoluzione del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Studium iuris, 2000, 950; Zoppoli, Il danno biologico tra principi costituzionali, rigidità civilistiche e tutela previdenziale, DRI, 2001, 389 e ss.; De Angelis, Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore, FI, 2000, I, 1157 e ss.; Pizzoferrato, Mobbing e danno esistenziale: verso una revisione della struttura dell’illecito civile, CI, 2002, 304 e ss. Vallebona, Il danno da dequalificazione tra presunzione e risarcimento equitativo, MGL, 2001, 1015.

[16] Così Pret. Torino 12 luglio 1995, riportata da Ziviz, op. cit. 378-379 ed ora in senso conforme Cass. IV sez. pen. n. 2050/2004, cit.

[17] Ancora  da Gambacciani, op. cit.

[18] Così Monateri, op. cit., 8.

[19] In tal senso Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299 (in NGL, 1993, 648 e in D&L 1993,315) secondo cui: «Il danno va risarcito: questo è l’essenziale perché resti tutelata l’esigenza del libero svolgimento dell’attività lavorativa e della salvaguardia della personalità del lavoratore». Ora in senso conforme Cass. n. 8828/2003, punto 3.1.7 e laddove al punto 3.1.10 laddove afferma, per la fattispecie in esame ed in relazione al cumulo danno morale e danno esistenziale, che: «... è appena il caso di notare che il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale (esistenziale, n.d.r.), in quanto ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento».

[20] Rileva Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, cit. 322, come la giurisprudenza fosse «poco incline all’esaltazione dei valori primari fondamentali», cosicché l’art. 2087 c.c. «è stato pressochè disapplicato dalla giurisprudenza, che non ha saputo coglierne, né valorizzarne, l’intrinseca vocazione alla ‘tutela’ dei valori della persona».

[21] Non mancano tuttavia pronunce giurisprudenziali, per lo più di merito, che hanno riconosciuto ed hanno liquidato come tale “il danno alla personalità morale” ex art. 2087 c.c.; v. Pret. Vicenza, 20 aprile 1999, GLav., 8, 2000, 42; Pret. Milano 9 dicembre 1997, D&L, 1998, 421; Pret. Nocera Inferiore 5 dicembre 1996, ibidem 1997, 348; Pret. Bologna 8 aprile 1997, LG,. 1998, 140, con ampio commento di Boscati.

[22] In tal senso, Montuschi, cit. 325.

[23] Così Montuschi, cit. 325.

[24] Così Gambacciani, Le nuove frontiere del danno alla persona nel rapporto di lavoro. Un modello di sintesi: il danno esistenziale, cit.

[25] Tra le decisioni più incisive, si menziona Cass. 7 giugno 2000 n. 7713, in FI, 2001, I, 187, con nota di D’ADDA; RCP, 2000, 923,  con nota di  ZIVIZ .

[26] Cfr. Corte cost. n. 184/86, cit., e Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in FI, 1994, I, 3297.

[27] Sanlorenzo, Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa, p. 43, in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sanlorenzo.html .

A conforto di quanto detto, si riporta la massima di una delle plurime decisioni della Cassazione, secondo cui: «Va cassata la sentenza resa in sede d’appello in quanto – nel negare il risarcimento del danno alla professionalità per asserita carenza di prova di pregiudizio patrimoniale da parte del dirigente dequalificato, confinato in inattività - ha ignorato come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall'articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche - e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati - in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10)».

[28] Trib. Lecce 20 settembre 2002, in http://dirittolavoro.altervista.org/ (sezione Mobbing, giurisprudenza). Aderisce all’orientamento assertore della natura “non patrimoniale” – id est esistenziale del danno alla professionalità, sostanziantesi in mortificazione del diritto all’autorealizzazione nel posto di lavoro secondo la qualifica rivestita e le mansioni di pertinenza, la recentissima Cass. n. 10157 del 26 maggio 2004 (in http://dirittolavoro.altervista.org/cass_10157.html), con tutte le connesse conseguenze in ordine all’impraticabilità ed infondatezza delle richieste di prova di danno patrimoniale tanto e vero che la  sentenza afferma,  all’opposto,  la necessità intrinseca di una ristorazione del danno mediante liquidazione equitativa giudiziale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto. Nello stesso senso la precedente Cass. sez. II civ. 27 aprile 2004 n. 7980 (afferente al danno non patrimoniale da destituzione dall’incarico del primario ospedaliero, noto cardiochirurgo infantile, prof. Azzolina, leggibile in http://dirittolavoro.altervista.org/demansionamento_azzolina.html).

[29] Cass.n. 7967 del 1 giugno 2002, in LPO,  2002, 1179.

[30] Così Cass. n. 15868 del 12 novembre 2002, in FI, 2003, I, 480.

[31] Così ex plurimis, Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, in LPO, 2000, 2287 e in  NGL., 2001, 170. Qualifica (correttamente quanto obiettivamente) “maggioritario” l’orientamento da noi illustrato tramite la citazione  alla successiva nt.32 del novero delle sentenze ad esso pertinenti, Garofalo D., Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, relazione all’incontro di studio di Cosenza del 12 aprile 2003, nt. 78 di pag. 63, in www.csdn.it/relazioni_doc/.

[32] Per la non necessità della prova del danno (implicito o immanente) alla “professionalità pura” e/o per la sufficienza del ricorso alla prova presuntiva, si è espressa non solo Cass. 6 novembre 2000 n. 14443, cit. (relegando ad opinioni superate le precedenti precitate, isolate, sentenze) ma una nutrita serie di decisioni conformi, precedenti e successive, quali: Cass. 13299/92, cit.; Cass. 11727/99 (NGL  2000, 447), Cass. 7 luglio 2001, n. 9228 ( in LPO, 2001, 1405 e AC, 2001, 1237); Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033 (inedita, a quanto consta); Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 (in LPO, 2001, 1623 e NGL , 2002, 181); Cass. 2 gennaio 2002, n. 10 (in LPO, 2002, 379); Cass. 1 giugno 2002, n. 7967 (in LPO, 2002, 1179); Cass. 12 novembre 2002, n. 15868 (in FI, 2003, I, 480 e in NGL, 2003, 164); Cass. 22 febbraio 2003, n. 2763 (inedita a quanto consta); Cass. 27 agosto 2003 n. 12553 (inedita allo stato); Cass. 29 aprile 2004 n. 8721 (in http://dirittolavoro.altervista.org/liquidazione_equitativa.html).

La prova viene richiesta - senza alcuna distinzione tra danno (immanente o intrinseco) alla professionalità “soggettivamente” intesa ed alla professionalità “in senso oggettivo”, correlata a perdita di chanches promotive o sul mercato esterno – da Cass. 14 maggio 2002 n. 6992 (inedita, a quanto consta) sull’assunto, temperato dal ricorso alla prova per presunzioni: «...che per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia provata non solo l’attività illecita ma anche l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita;che solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. ...».

Richiede la  prova  del pregiudizio – che tuttavia ammette possa essere data anche per presunzioni – anche  Cass. 4 giugno 2003 n. 8904 (in NGL 2003, 721); con un incipit singolare – giacché è notorio che il demansionamento si attualizza di per se con la dequalificazione della prestazione, non già con l’abbattimento del livello retributivo corrispondente - quanto funzionale per veicolare un messaggio “restrittivo”, si presenta poi la massima di Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 (inedita, allo stato) che poi recupera un suo equilibrio nello svolgimento delle successive argomentazioni, così esprimendosi: «Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della retribuzione, la norma codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass., 14.5.2002, n. 6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).

Trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornirne la prova, mentre resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste, individuarne la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580)» .

Si sottolinea come – a nostro avviso - la legittimazione del ricorso alla prova presuntiva non è un’agevolazione di favor operari ma si impone di necessità (più che sufficiente risultando, allo scopo di percepire il degrado da dequalificazione, il comune buon senso del magistrato ed il fatto notorio ex art. 115 c.p.c.). Infatti, se si ha un minimo di esperienza di vita lavorativa e aziendale, ci si rende immediatamente conto che non si può pretendere che il lavoratore certifichi al giudice adito il danno alla “professionalità”... con la presentazione di un attestato di “obsolescenza” da demansionamento, eventualmente rilasciatogli da un’agenzia di lavoro temporaneo ovvero comprovi il corrispondente danno all’immagine ed alla reputazione professionale tramite la presentazione di un attestato rilasciato da una società di ricerche di mercato o di sondaggi d’opinione.

Ragionevolmente e lucidamente asserì a suo tempo Pret. Milano 21 gennaio 1992, (in D&L, 1992,417):«...l'impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.) circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale dipende ed è costituita non solo dalle nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente valutabile».

[33] Nella decisione n. 1339 del 26 gennaio 2004 (inedita in cartaceo e leggibile in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/durata_processi/ssuucassciv_20041339.pdf), il cui orientamento è stato riaffermato recentemente da Cass. sez. I civ. 11 giugno 2004, n. 11087 (inedita allo stato).

[34] Sorgi, La valutazione del danno da mobbing nella giurisprudenza, Intervento al Convegno di Pescara del settembre 2001 (i cui atti sono reperibili nel sito Internet della USL di Pescara all’indirizzo http://www.ausl.pe.it/mobbing/atti_conv/attimobbing.htm.)

[35] Così esplicitato da Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà…, cit.:«Peccato però non dichiarare apertamente – per converso – che, qualora il danno non patrimoniale arrecato a una persona risulti in concreto serio, grave, profondo, esiziale, duraturo, stravolgente, il risarcimento dovrà anch’esso essere adeguato, non simbolico, non spilorcio, non derisorio, non ridicolo, non oltraggioso, non platonico: qui la Corte mostra forse di nutrire un po’ di timore per la supposta capricciosità e prodigalità dei giudici italiani (?), soffre un po’ della sindrome del pompiere, pare eccessivamente ansiosa di mettere “paletti”; i quali giudici nostrani - bisogna dire - nel corso del passato risarcivano semmai troppo poco in almeno il 30% dei casi e forse più (detto altrimenti: perché solo il colpo da parte della S.C./2003 alla botte, della temibile prodigalità/faciloneria delle nostre corti; e non anche il colpo al cerchio, degli eccessi passati di austerità, di tirchieria?)».

[36] Ancora Cendon, op. cit. supra.

[37] Cfr. Pret. Roma 17 aprile l992, in LPO, 1992, 1172, con nota di Meucci;  AC, 1992, 1083; OGL, 1992, 263, nonché nel nostro volume Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma 2002, 349.

[38] Salvo apprezzabili eccezioni, di cui è testimonianza - per compiutezza di analisi e di approfondimento sia in generale sia sulla specifica tematica del danno esistenziale – Trib. Lecce 20 settembre 2002, cit., ove l’estensore dà anche conto del variegato e decrescente percorso giurisprudenziale in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno alla professionalità in caso di demansionamento.

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