La riconoscibilità del danno nelle molestie

 

Il soggetto "molestato" in ambiente lavorativo, allo stato attuale della normativa, ha a sua disposizione due diversi regimi di tutela risarcitoria (1) : quello fondato sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro per violazione dell'obbligo di protezione ex art.2087 c.c. e quello generale della tutela aquiliana, i cui riferimenti normativi sono rappresentati, come noto, dagli artt. 2043 e - quanto a responsabilità del padrone o committente per il fatto dei propri domestici e commessi - dall'art.2049 c.c.

Secondo affermazione giurisprudenziale consolidata in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali (2) , i due diversi titoli di responsabilità sono tra loro concorrenti quando destinatario della pretesa sia il datore di lavoro e lo stesso fatto lesivo sia a lui stesso ascrivibile tanto a titolo di inadempimento contrattuale quanto a titolo di illecito extracontrattuale, in quanto lesivo di un diritto della persona tutelato dall'ordinamento indipendentemente dal rapporto di lavoro. Il piano di sovrapponibilità delle due tutele - che spesso si traduce in un vero e proprio cumulo delle azioni contrattuale ed extracontrattuale - è rappresentato, da un lato, dalla "atipicità" della condotta lesiva e, dall'altro, dalla (almeno) parziale coincidenza del bene giuridico tutelato: è pacifico, infatti, che l'integrità fisica, che costituisce oggetto dell'obbligo di protezione di cui all'art.2087 c.c., sia anche oggetto di tutela aquiliana sotto l'egida del concetto di danno biologico. E', questa, un'affermazione sulla quale, in positivo e in negativo (ovverosia per ciò che essa sembra escludere, soprattutto con riferimento al danno morale), dovremo ampiamente soffermarci nel prosieguo.

Quando, invece, l'azione risarcitoria trovi causa in una condotta posta in essere da altri dipendenti dell'imprenditore, essa poggerà sull'art.2043 nella misura in cui la pretesa risarcitoria sia rivolta nei confronti del "cattivo collega" (3) , mentre, nella misura in cui sia chiamato in causa anche il datore di lavoro, potranno venire nuovamente in gioco tanto la responsabilità contrattuale che la tutela aquiliana. Laddove, infatti, gli esiti dannosi della condotta "molestatrice" vengano imputati allo stesso imprenditore a titolo di colpa per mancata adozione di cautele doverose, ancora una volta verrà in rilievo l'obbligo di protezione previsto dall'art.2087 c.c., mentre, ove si ponga a suo carico il fatto del dipendente ai sensi dell'art.2049 c.c. (sull'assunto che lo svolgimento delle mansioni abbia almeno agevolato la condotta dannosa (4) ), anche nei suoi confronti verranno in rilievo le regole relative alla responsabilità extracontrattuale.

Le due forme di tutela presentano significative differenze di disciplina.

Oltre a quelle relative alla competenza e al rito (improntati al favor lavoratoris per le cause riconducibili ai rapporti di cui all'art.409 c.p.c.), spiccano quelle relative al regime probatorio, alla prescrizione (decennale per l'azione ex contractu e quinquennale per quella ex delicto) e alla limitazione del risarcimento, nel solo ambito contrattuale, al danno prevedibile nel momento in cui è sorta l'obbligazione.

Dal punto di vista probatorio, l'azione contrattuale, a differenza di quella extracontrattuale, mette al sicuro il danneggiato dal "rischio" del mancato raggiungimento della prova sulla colpa del datore di lavoro, ponendo a carico del soggetto inadempiente l'onere di provare l'impossibilità dell'adempimento (art.1218 c.c.) (5) . Tale affermazione necessita però di alcune precisazioni, che, con particolare riferimento al settore che ci interessa, ne ridimensionano notevolmente la portata. Se è vero, infatti, che spetta al datore di lavoro dimostrare di avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, è pur vero che, per ricorrente affermazione giurisprudenziale, il riconoscimento della responsabilità datoriale non può prescindere dalla individuazione della o delle misure omesse (nella cui omissione possa ravvisarsi l'inadempimento) (6) . Ebbene, può risultare logicamente e giuridicamente difficile ascrivere al datore una condotta molesta posta in essere da suoi dipendenti, specialmente ove egli provi di avere esercitato una effettiva, se pur generica, vigilanza sull'ambiente di lavoro; e sarà tanto più difficile quanto più subdola e occulta sia la molestia. Il che mi induce a evidenziare sin d'ora l'opportunità che il lavoratore molestato esca dall'"ombra" e, direttamente o attraverso le organizzazioni sindacali, denunci all'imprenditore o ad un suo preposto i comportamenti posti in atto nei suoi confronti; ove anche tali sollecitazioni e informative non raggiungano lo scopo primario di rendere possibili gli interventi datoriali a tutela del lavoratore, avranno almeno l'effetto di "mettere a fuoco" le responsabilità datoriali in vista di un futuro, eventuale giudizio, nel quale il silenzio e l'inerzia ne qualificheranno la colpevole omissione ai fini e per gli effetti della responsabilità ex art.2087 c.c. (7)

Un parziale superamento del problema potrà derivare, ove si arrivi all'approvazione dei progetti di legge in discussione, dalla "canonizzazione" dei doveri di prevenzione e intervento, posti a carico del datore di lavoro (8) : l'esplicitazione a livello normativo delle azioni positive, delle quali il datore di lavoro deve farsi carico, andrebbe, a mio giudizio, ad integrare opportunamente il panorama dellenorme specifiche di prevenzione sulla violazione delle quali potrà essere fondata l'affermazione della responsabilità datoriale.

Sempre con riguardo all'ipotesi in cui il datore non sia chiamato in giudizio come autore materiale - diretto o indiretto - della molestia, mi pare possa evidenziarsi un ulteriore profilo di vantaggio per il lavoratore nel regime dell'onere della prova garantito dall'art.2087 c.c., così come interpretato dalla giurisprudenza: la prova del nesso di causalità - che grava sul lavoratore - non richiede la dimostrazione che, ove il datore avesse adottato le cautele omesse (e astrattamente idonee a prevenire l'evento), il danno non si sarebbe verificato, essendo invece sufficiente che sia provato il rapporto di causalità adeguata fra evento lesivo e svolgimento della prestazione lavorativa.

Fino a qui le differenze di disciplina fra azione contrattuale ed extracontrattuale che, dal punto di vista del lavoratore danneggiato fanno apparire senz'altro preferibile la prima; ma se dal piano processuale ci spostiamo a quello, sostanziale, della individuazione del danno risarcibile, il piatto della bilancia sembra decisamente pendere a favore della seconda.

In primo luogo, infatti, il solo illecito contrattuale conosce la limitazione del risarcimento al danno che era prevedibile al momento in cui sorse l'obbligazione, ai sensi dell'art.1225 c.c.; un limite importante, che, in ipotesi, potrebbe pesantemente limitare gli ampi margini di riconoscimento del rapporto di causalità derivanti dall'accoglimento della teoria della causalità adeguata. Laddove, infatti, questo consente di addebitare al soggetto responsabile del fatto lesivo tutte le conseguenzeche, tenuto conto di ogni circostanza del caso concreto, consentono di individuare tra fatto e danno una relazione naturalistica di causa-effetto, ove si proceda all'individuazione del danno risarcibile avendo riguardo a criteri di comune esperienza rapportati a fatti normali e normali circostanze (criterio tendenzialmente coincidente con quello della "regolarità causale" (9) ) si corre il rischio di vedere grandemente ridotto il margine di tutela del soggetto danneggiato.

E tuttavia, nel settore del quale specificatamente ci occupiamo, tale rischio è, forse, meno grave di quanto non possa apparire in prima battuta.

In primo luogo, perché, in tutti i casi di molestia direttamente ascrivibile al datore di lavoro (10) l'intenzionalità della condotta integra sicuramente l'ipotesi del dolo ed esclude, quindi, l'operatività del limite suddetto, secondo la previsione dello stesso art.1225 c.c.

In secondo luogo, grande rilevanza assumono due ordini di affermazioni giurisprudenziali: quelle che riconoscono la rispondenza a criteri di "normalità sociale" del rapporto di causa - effetto fra lo stress lavorativo, da una parte, e la sofferenza psichica o la stessa malattia fisica (sub specie di malattia psicosomatica ma anche di infarto) (11) , dall'altro, e quelle che "innalzano" la soglia di diligenza pretendibile dal datore di lavoro ai sensi dell'art.2087 c.c. affermandone la responsabilità anche per lesioni cui abbia contribuito la particolare fragilità emotiva del lavoratore, in nome del principio secondo il quale "la Costituzione, nel suo art.32, e la legge, nell'art.2087 c.c., tutelano indistintamente tutti i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere" (12) .

Esiste, peraltro, una seconda ragione - sempre attinente alla problematica della individuazione del danno risarcibile - che spesso induce a valorizzare il profilo extra contrattuale della responsabilità datoriale; essa risiede nel prevalente convincimento che l'art.2087 c.c. non autorizzi il giudice alla liquidazione di un risarcimento a titolo di danno "morale", il ristoro del quale si ritiene possibile solo nell'ambito della tutela aquiliana (13) e alle condizioni dell'art.2059 c.c. (ovverosia, sostanzialmente, a condizione che il fatto illecito integri gli estremi di un fatto di reato (14) ).

Ho volutamente utilizzato il termine "danno morale" in luogo dell'espressione letterale dell'art.2059 c.c., che fa riferimento al danno "non patrimoniale", in ossequio a quella giurisprudenza costituzionale che, a partire dalla fondamentale sentenza in tema di danno biologico n.184 del 1986 (15) , limita l'operatività dell'art.2059 c.c. al danno morale puro, legato alla sofferenza morale e al temporaneo turbamento e non coperto da garanzia costituzionale (sì che legittima ne sarebbe la limitata risarcibilità), includendolo in una più ampia categoria di danno non patrimoniale, ove esso convivrebbe con il danno alla salute (coperto, invece, da tutela costituzionale e direttamente risarcibile come danno-evento).

Da questa giurisprudenza trae origine la "tripartizione" del danno risarcibile cui è stata prevalentemente improntata la discussione sulla tutela aquiliana per circa un decennio: danno patrimoniale, danno alla salute e danno morale. Un decennio nel quale il riconoscimento di tutela in presenza di lesioni di beni immateriali della vita diversi dalla integrità psico-fisica ha potuto trovare quasi sempre spazio solo tra le maglie - invero talvolta assai "allargate" - del concetto di danno alla salute, nel quale sono confluite una serie di figure risarcitorie in precedenza elaborate: danno estetico, danno alla vita di relazione, danno alla vita sessuale e ai rapporti coniugali, incapacità lavorativa generica, danno da lesione dell'onore o da turbamento della sfera emotiva per molestie sessuali (16) .Per quanto più specificamente riguarda il tema che qui ci interessa, a tale indirizzo possiamo ancora ascrivere quelle decisioni che, per riconoscere un diritto a risarcimento in capo al lavoratore "molestato", ritengono comunque necessario fare riferimento ad una lesione dell'integrità psico-fisica del prestatore d'opera subordinato (17) .

In tempi più recenti, tuttavia, parte della giurisprudenza, accettata la premessa che non possa darsi danno biologico in assenza di una menomazione della integrità psico-fisica (18) e ribadito il principio della riferibilità del regime dell'art.2059 c.c. al solo danno morale in senso stretto,ha cercato di guardare al di là della sopra ricordata tripartizione e di reperire le basi per un riconoscimento diretto di tutela ad altre specie di danno non patrimoniale, ontologicamente diverse sia dal danno biologico che dal danno morale (19) .Un riconoscimento che, però, dal punto di vista teorico, è frutto di due percorsi logico-argomentativi profondamente diversi. Mentre, infatti, alcune decisioni fanno perno sul concetto di danno-evento, coniato da Corte Cost. 184/86, per giustificare una immediata tutela delle posizioni giuridiche direttamente "attinte" dal fatto illecito (20) , altre valorizzano, in seno a quella stessa, storica sentenza del giudice delle leggi, il profilo tecnico-guridico della necessaria tutela delle posizioni giuridiche soggettive riconosciute a livello costituzionale, riproponendo lo schema giuridico at.2043 cc. + art.32 Cost. per ogniposizione soggettiva costituzionalmente garantita (21) .

Due ordini di considerazioni inducono a preferire la seconda impostazione. La prima riguarda l'opinabilità del concetto di danno - evento; la stessa Corte Costituzionale dimostra di non credere più in quella distinzione fra danno-evento e danno-conseguenza che, quasi quindici anni or sono, servì ad aggirare la tradizionale dicotomia fra danno patrimoniale, risarcibile ai sensi dell'art.2043 c.c., e danno non patrimoniale, costretto nei limiti dell'art.2059 c.c.. Già nella decisione 372 del 1994 (22) la Consulta fa proprio il convincimento del giudice a quo che lo stesso danno biologico, inevitabilmente distinto dalla lesione in se' e per se' considerata, costituisca una conseguenza dell'evento lesivoe non si identifichi con l'evento stesso. Ed invero i tempi sembrano oggi maturi per celebrare le esequie di quell'art.2059 c.c. che per oltre quarant'anni ha conferito un'impronta prevalentemente patrimonialistica alla disciplina della tutela aquiliana, ponendo forti limiti alla risarcibilità dei danni non immediatamente suscettibili di valutazione economica (23) .

La seconda considerazione muove dalla consapevolezza della necessità di selezionare le posizioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela aquiliana, evitando una crescita esponenziale dei danni risarcibili. Da questo punto di vista, mentre nessun "controllo" è garantito dalla categoria del danno-evento, una, pur difficile e faticosa, delimitazione delle situazioni meritevoli di tutela è resa possibile dalla seconda delle due impostazioni sopra ricordate grazie al riferimento alle sole posizioni giuridiche costituzionalmente garantite.

Queste sono le basi giuridiche della "nuova frontiera del danno risarcibile" che una parte della dottrina già da tempo identifica (24) , e oggi anche certa giurisprudenza riconosce, nella categoria del "danno esistenziale": un danno che si qualifica per la sua incidenza su quelle "attività realizzatrici della persona umana" che già nella sentenza della Corte Costituzionale n.184 del 1986 venivano indicate come terreno di concreta rilevanza giuridica del danno alla persona.

Tutto questo interessa il tema del quale oggi ci occupiamo, non solo perché riguarda in modo diretto l'individuazione dei danni risarcibili ex art.2043 c.c. al lavoratore vittima di molestie sul luogo di lavoro, ma anche perché, se è vero che il dovere di sicurezza imposto al datore di lavoro dall'art.2087 c.c. riassume in ambito contrattuale i contenuti del precetto del neminem laedere (25) , appare evidente che ogni passo avanti compiuto in ambito extracontrattuale sul fronte dell'ampliamento dei danni suscettibili di ristoro ai sensi dell'art.2043 c.c. può e deve tradursi in un corrispondente, pari progresso sul piano della responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Appare, insomma, pienamente configurabile un "danno esistenziale" da lavoro, per il cui riconoscimento può farsi conto - diversamente da quanto avviene nell'ambito dell'art.2043 c.c - sulla esatta individuazione dei beni giuridici tutelati dalla norma; beni individuati, non solo nella integrità fisica, ma anche nella "personalità morale" del lavoratore. 

Questo esplicito richiamo al limite costituzionalmente posto dall'art.41 della Carta fondamentale all'esercizio dell'iniziativa economica privata (26) , è stato anche troppo lungamente lasciato nell'ombra, forse per la difficoltà di dare inquadramento ad una risarcibilità dei danni morali nell'ambito della disciplina dell'inadempimento contrattuale.La nuova categoria del "danno esistenziale" può aiutare a definirne i contenuti e delimitarne la portata, superando la "vischiosità" delle discussioni e delle incertezze evocate dall'uso dell'aggettivo "morale" e collocando più propriamente la previsione in un'ottica di immediata tutela di quei valori della personalità che sono direttamente coinvolti dallo svolgimento dell'attività lavorativa e che la previsione della norma in esame fa assurgere ad oggetto di un preciso dovere contrattuale del datore di lavoro; valori che, per quanto più specificamente riguarda il nostro tema, sono direttamente lesi dalla condotta molesta, a prescindere dalla ricorrenza di un danno patrimoniale o biologico.

Si tratta, a ben guardare, della stessa ottica che, in materia di dequalificazione e demansionamento illegittimi, già da tempo induce buona parte della giurisprudenza - prevalentemente di merito - a valorizzare la professionalità come bene ed interesse del lavoratore direttamente dedotto in contratto ai sensi degli artt.1374 e 2103 cc. e a considerare la sua lesione come voce autonoma del danno risarcibile, indipendente dalla perditapatrimoniale così come dal danno biologico o morale (27) .

Non ci si può esimere dal rilevare come tali operazioni interpretative possano innescare, attraverso il riconoscimento di un danno "in se'", un meccanismo di elisione dell'onere della prova e promuovere la - da molti temuta - sostituzione in via interpretativa del sistema risarcitorio con un sistema sanzionatorio. Ma al tempo stesso non si deve ignorare come l'opposta soluzione possa rendere di fatto impraticabile la tutela risarcitorianei confronti tanto del lavoratore demansionato al quale sia stata sempre conservata la piena retribuzione e che non sia in grado di dedurre un danno da perdita di chance (magari perché in età avanzata) quanto del lavoratore molestato, il cui "disagio" non si sia tradotto in una malattia apprezzabile in termini medico-legali; il che, combinandosi con l'ancora maggiore difficoltà di conseguire un'efficace tutela ripristinatoria, rischia di tradursi in una "resa" dell'ordinamento di fronte a pur illegittime condotte datoriali (28) .

D'altra parte, un aggancio concreto alle peculiarità del caso e alla gravità della lesione può essere realizzato attraverso un uso oculato del criterio dell'equità nella quantificazione del danno risarcibile a questo titolo (anche nel senso di contenere l'entità del risarcimento complessivo nel caso in cui proliferino le voci di danno (29) ). In campo di demansionamento la giurisprudenza ha elaborato - sia pure in modo non omogeneo - criteri di liquidazione basati sulla retribuzione, sull'età e anzianità di servizio del lavoratore, sulla durata e sull'intensità della condotta lesiva (30) . Nel settore che ci interessa - per il quale sono stati talora riproposti analoghi parametri di quantificazione -l'attenzione dovrà essere particolarmente centrata sulle concrete connotazioni dellafattispecie: entità delle sofferenze patite, durata della condotta illecita, particolari modalità del fatto o condizioni della vittima (tali da acuire il danno), genere del turbamento provocato nella vita e nello svolgimento della prestazione lavorativa.

Tutti i progetti di legge sino ad oggi presentati fanno generico riferimento all'equità come unico, possibile criterio di risarcimento del danno; un piccolo sforzo di puntualizzazione dei parametri ai quali rapportare l'esercizio di tale giudizio equitativo potrebbe valere ad evitare che esso di trasformi in arbitrio e che troppo profonde siano le differenze fra le soluzioniaccolte e le liquidazionioperate presso i diversi tribunali.

Assai più collaudati, anche se non meno diversificati sul territorio, sono i criteri per la liquidazione del danno biologico da inabilità temporanea e invalidità permanente, ai quali potrà farsi ricorso tutte le volte che sia accertata - tramite CTU medico-legale ma anche per semplice produzione di certificazione medica (31) (preferibilmente proveniente da una struttura pubblica e specializzata) - l'esistenza di una malattia (psichica o psicosomatica) casualmente ricollegabile alla molestia subita.

Sul piano della valutazione medico-legale dell'eventuale danno permanente,merita di essere evidenziato che, secondo il "prontuario" attualmente più accreditato (32) , il disturbo post-traumatico da stress è valutabile, nelle forme più gravi - quando rigorosamente obiettivate e dopo adeguata osservazione nel tempo - in misura pari anche al 30% di invalidità e, nelle forme lievi, nei termini percentuali del 5 - 10%, mentre più contenuta, nei limiti del 5% si reputa l'invalidità conseguente a disturbi somatoformi e neurastenia (sindrome, non di rado di origine traumatica, che si manifesta attraverso sintomi di astenia, irritabilità, riduzione degli interessi, difficoltà di concentrazione, in grado di autonomizzarsi ed assumere carattere di stabilità).

Sul piano, invece, della monetizzazione del danno, è noto come esista un progetto di legge in stato di avanzata discussione che, accolto il criterio, ormai fatto proprio dalla maggior parte dei Tribunali, della liquidazione "a punto", mira ad introdurre un parametro unico a livello nazionale (peraltro decisamente calmierato verso il basso, stando alle notizie giornalistiche sul tema).

Già operativa, invece, è la riforma del sistema previdenziale INAIL (33) , riforma che, immodificato l'indennizzo per il danno da inabilità temporanea, ha "rivoluzionato" il panorama delle prestazioni dovute in caso di invalidità permanente; e il profilo di maggiore rilevanza di questa "rivoluzione" è certamente rappresentato dalla copertura assicurativa del danno biologico, definito come "lesione dell'integrità psico-fisica suscettibile di valutazione medico-legale" (art.13 comma primo d.lgs. 38/2000). Ricordiamo, per sommi capi, che, nel nuovo sistema, le menomazioni di grado inferiore al 6% sono "in franchigia" (e resteranno, quindi, a totale carico dei soggetti civilmente responsabili, anche nei casi di esonero da responsabilità di cui all'art.10 DPR 1124/65); quelle di grado pari o superiore al 6% ed inferiore al 16% danno diritto ad un indennizzo erogato in capitale per il solo danno biologico; le menomazioni di grado pari o superiore al 16% danno diritto all'erogazione di una rendita, parametrata al danno biologico e aumentata di una quota - rapportata alla retribuzione del soggetto danneggiato - per l'indennizzo del danno patrimoniale.

Il che vuol dire che, per aversi indennizzo di una "malattia professionale da mobbing" dovrà ricorrere, quanto meno, un periodo di inabilità temporanea e/o una invalidità permanente non inferiore al 6%; ipotesi, quest'ultima, piuttosto marginale se si tiene conto che la stessa "tabella delle menomazioni" - emanata con DPR 12/7/2000, in attuazione dell'art.13 del d.lgs. 38/2000 - riconosce al disturbo post-traumatico da stress cronico di grado moderato una valutazione non superiore al 6% (a seconda dell'efficacia della psico-terapia),assegnando solo allo stesso disturbo di grado severo una percentuale di invalidità fino al 15%.

Ma ancora prima del problema della quantificazione del danno, il lavoratore che voglia ottenere dall'INAIL l'indennizzo di una lesione dell'integrità psico-fisica "da molestie" si troverà dinanzi alla difficoltà di fornire l'indispensabile prova della "causa di lavoro"; prova sempre ammissibile (da Corte Cost., 179/88 in avanti) ma di fatto non facile (soprattutto nei casi di molestie sessuali).

Tuttavia, alcune indicazioni della giurisprudenza di legittimità lasciano sperare in una "nuova" sensibilità verso il danno "da lavoro" e sulla irrinunciabilità di una sua tutela, anche previdenziale: perché, come affermato dalla Suprema Corte in una non più recentissima decisione (34), "l'ordinamento non può lasciare esclusivamente a carico del lavoratore un danno alla sua salute occasionato proprio dall'attività lavorativa senza che ne' la collettività attraverso il sistema antinfortunistico, ne' il datore di lavoro contribuiscano a risarcirlo".

D. Verrina -Tribunale di Genova

Note

1. Oltre, naturalmente, alle norme di protezione eventualmente invocabili in presenza disingoli, specifici atti datoriali dei quali possa dimostrarsi l'illegittimità: l'art. 15 dello Statuto dei lavoratori, le norme in materia di illegittimo licenziamento, le leggi 903 del 1977 e 125 del 1991 per la realizzazione della parità di trattamento sul luogo di lavoro, l'art.2103 c.c (sul risarcimento del danno da demansionamento ci soffermeremo nel prosieguo).

2. Cfr. Cass, 8/4/1995, n.4078, in Notiziario della giurisprudenza del lavoro, 1995, 4078 e, in una fattispecie di molestie sessuali, Cass. S.L., 17/7/1995, n.7768, in Giur. It., 1995, I, 1, 1110 ss.

3. Il che, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, non vuol dire escludere le regole di competenza e rito del processo del lavoro, almeno tutte le volte che il rapporto di lavoro, pur non costituendo causa petendi della domanda, costituisca presupposto necessario (siccome tale da rendere possibile o agevolare il fatto illecito) e non meramente occasionale della situazione di fatto in ordine alla quale è richiesta la tutela: così, in una fattispecie di molestie sessuali poste in essere da un superiore gerarchico della lavoratrice molestata, Trib. Milano, 9/5/1998, in Orientamenti della giurisprudenza del lavoro, 1998, 345 ss. e, in una analoga fattispecie di mobbing "orizzontale", Cass., 8/9/1999, n.9539, in Lavoro e previdenza oggi, 1999, 2333, con nota di C.M Dal Masso, Risarcibilità del danno biologico patito dal prestatore di lavoro per abuso del potere disciplinare e responsabilità solidale del datore di lavoro e del Capo del personale.

Le proposte di legge in discussione sembrano avere recepito tale visione giuslavoristica del tema e, ad eliminazione di ogni dubbio, quasi tutte esplicitamente prevedono che l'azione risarcitoria sia esercitata nelle forme del ricorso ex art.413 c.p.c.

4. E', infatti, consolidata in giurisprudenza l'affermazione che la responsabilità indiretta del datore di lavoro non richiede un vero e proprio nesso di causalità fra le mansioni e il fatto lesivo, "essendo sufficiente che l'incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre il limite delle sue incombenze e persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purchè sempre nell'ambito delle sue mansioni": Cass., 7 agosto 1997, n.7331.

5. Vedi, per tutte, Cass., S.L., 5/2/2000, n.1307, in Foro It., 2000, I, 1554 ss..

6. Nel senso che l'affermazione della responsabilità dell'imprenditore debba trovare fondamento nella violazione di una norma di legge o di contratto o di una regola d'esperienza cfr. Cass., S.L., 21/12/1998, n.12763, in Notiziario della giurisprudenza del lavoro, 1999, 184 ss.

7. Cfr. Trib. Milano, 9/5/1998, cit., che ha fondato il riconoscimento della responsabilità della società datrice di lavoro ex art.2087 c.c. per le molestie sessuali poste in atto da un proprio dipendente proprio sulla mancata adozione di qualsiasi provvedimento benché i fatti fossero stati sufficientemente portati a sua conoscenza.

8. Vedi: art.4 d.d.l. 38 d'iniziativa del senatore Smuraglia, art.3 del progetto di legge 601 d'iniziativa dell'on. Elena Emma Cordoni, art.2 della proposta di legge n.5090 d'iniziativa dell'on. Stefania Prestigiacomo in materia di molestie sessuali; art.3 della proposta n.6410 d'iniziativa dell'on. Benvenuto, art.3 del d.d.l. 4265 d'iniziativa del senatore Tapparo, art.5 del d.d.l.4313 d'iniziativa del sen.Athos De Luca, art.3 del d.d.l. 4512 d'iniziativa del sen. Antonio Tomassini quanto alle proposte di legge relative al mobbing.

9. Cfr. Cass., 19/1/1999, n.475.

10. Casi che non possono essere limitati alla diretta commissione del fatto da parte dell'imprenditore-persona fisica, ma debbono essere riconosciuti,nelle ipotesi di bossing o bullying (ovverosia di mobbing posto in atto nell'ambito di una precisa strategia aziendale), anche nei confronti delle persone giuridiche, laddove la molestia sia ascrivibile, sotto il profilo della intenzionalità,a chi agisce in nome e per conto della società (il quale, invece, potrà essere chiamato a rispondere del fatto solo ai sensi dell'art.2043 c.c. ove venga evocato in giudizio a titolo personale e non nella sua veste di legale rappresentante: Cass., S.L., 25/6/1994, n.6125 in Giust. Civ. Mass., 1994). 

11. Cfr.Pret. L'Aquila, 10/5/1991, in Foro it., 1993, I, 317 ss.;Pret. Milano, 14/12/1995, in Il lavoro nella giurisprudenza, 1996, 385 ss. con il commento di E.D'Avosso; Cass., S.L. 17/7/1995, n.8267, in Foro it., 1998, I,131 ss.; la "eccezionalità" ed "assoluta imprevedibilità" del danno alla salute psichica del lavoratore (una sindrome psiconevrotica)comprovatamene causato dall'atteggiamento datoriale di rifiuto ed indifferenza a fronte delle legittime richieste del lavoratore di riconoscimento dei meriti acquisiti costituiscono, invece, le ragioni del rifiuto di tutela opposto da Cass., S.L. 20/12/1986, 7801, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1997, II, 578 ss.

12. Così Trib. Torino, 16/11/1999, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2000, 361 ss. con il commentodi R. Santoro.

13. Sulla risarcibilità del danno morale solo "all'interno" della tutela aquiliana, cfr., da ultimo, Cass, 20/1/2000, n.602, inedita, nonchè Cass., 8/4/1995, n.4078, in Notiziario della giurisprudenza del lavoro, 1995, 885 ss., che, a fronte della prescrizione dell'azione extracontrattuale, ha negato la risarcibilità del danno morale, pur in presenza del concorrente esercizio dell'azione contrattuale.

14. Eventualmente ascrivibile al datore di lavoro anche ai sensi dell'art.2049 c.c.: pacifica è, infatti, l'estensione dell'obbligazione risarcitoria del padrone o committente per il fatto del domestico o commesso anche all'eventuale danno morale: cfr., da ultimo, Cass., 11/8/2000, n.10719, inedita.

15. Nello stesso senso, cfr. Corte Cost., ord. 22/7/1996, n.293, in Danno e responsabilità, 1999, 679 con nota di G. Ponzanelli. Nel senso, invece, della riconducibilità all'art.2059 c.c. della malattia psichica che origini da quel medesimo turbamento, nel quale consiste il danno morale, v. Corte Cost., 27/10/1994, n.372 in Foro it., !994, I, 3297 ss., con nota critica di G. Ponzanelli, La Corte costituzionale e il danno da morte.

16. Cfr. Pret. Trento, 22/2/1993, in Giustizia civile, 1994, I, 555 ss. con nota di A. Raffi, Dimissioni per corteggiamento indesiderato e risarcimento dei danni.

17. Cass., S.L. 8/1/2000, n.143, commentata da M. Miscione in Italian Labour Law e- Journal, 2000, 2.

18. Affermazione ricorrente nella giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass., 9/2/1999, n.911, in Responsabilità civile e previdenza, 1999, 753 ss., secondo cui "il danno alla salute, per quanto normalmente si risolva in un peggioramento della qualità della vita, presuppone pur sempre una lesione dell'integrità psico-fisica, di cui quel peggioramento è solo la conseguenza. Non dunque la minore godibilità della vita è in se' risarcibile, ma solo la lesione della salute".

19. Così, per il danno da morte del congiunto, cfr. Trib. Torino, 8 agosto 1995, in Responsabilità civile e previdenza, 1996, 282 ss., con nota di P. Ziviv, Quale futuro per il danno dei congiunti? (Riflessioni indotte dalla sentenza n.372/94 della Consulta); per il danno all'identità personale, Trib. Verona, 26/2/1996, in Diritto, informazione, informatica, 1996, 576;per il danno alla programmazione familiare da nascita di un figlio non voluto, Trib. Milano, 20/10/1997, in Danno e responsabilità, 1999, 82 ss. con nota di M. Bona; in ultimo, per il danno da alterazione delle normali attività dell'individuo, derivante dalla sottoposizione ad immissioni acustiche intollerabili, Trib. Milano, 21/10/1999, e, per il danno da perdita del feto, Pretore Casamassima, 10/6/1999, entrambe in Responsabilità civile e previdenza, 1999, 1335 ss., con nota di P. Ziviv, Il danno esistenziale preso sul serio.

20. Così, in un caso di licenziamento ingiurioso, Pret. Ferrara, 25/11/1993, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 1995, I, 70 ss.

21. In tal senso, con ampia motivazione, Trib. Torino, 8/8/1995, cit.

22. Corte Cost., 27/10/1994, n.372, cit.

23. Cfr.P. G. Monateri, Danno biologico da uccisione o lesione della serenità familiare? (L'art.2059 c.c. visto come un brontosauro), nota a Cass., 20 dicembre 1988, n.6938, in Responsabilità civile e previdenza, 1989, 1173 ss.

24. Cfr. P. Cendon e P. Ziviz, Il danno esistenziale, in Le nuove voci della responsabilità civile, Milano, 1992.

25. Cfr. L.Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1994, I,328.

26. Ne' si dimentichi che l'art.29 comma primo del Progetto di Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea sancisce il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.

27. Vedi, fra le numerose pronunce,Pret. Milano, 7/1/1997 e 31/7/1997, entrambe in Orientamenti della giurisprudenza del lavoro, 1997, e, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, Cass., S.L. 18/4/1996, n.3686, in Giurisprudenza italiana, 1997, I, 926 ss, con nota di F. Giammaria, Osservazioni in tema di danno da dequalificazione professionale.. Particolarmente interessante è, poi, Cass., 16/12/1992, n.13299, in Giurisprudenza italiana, 1995, I, 168 ss., con nota di P. Campanella, "Lottizzazione", "vulnus" alla personalità del lavoratore e problemi di risarcibilità del danno", che, in un caso di demansionamento riguardante un giornalista, ha riconosciuto e liquidato tanto il danno da perdita di professionalità quanto il danno da lesione della reputazione e dell'identità personale.

28. Secondo Cass., S.L., 16/12/1999, n.13299, cit., assume primario rilevo che, a fronte dell'attacco alla libera personalità del lavoratore, rappresentato dalla sua dequalificazione, sia risarcito il pregiudizio consistito tanto nella violazione del diritto alla qualifica di cui all'art.2103 c.c. quanto il danno alla vita di relazione e all'immagine del lavoratore in quanto persona., beni tutelati direttamente dall'art.2 Cost: "il danno va risarcito: questo è l'essenziale, che, cioè, un risarcimento … vi deve essere, perché resti tutelata l'esigenza del libero svolgimento dell'attività lavorativa e della salvaguardia della personalità e libertà del lavoratore".

29. Senza, però, cadere nell'estremo opposto della liquidazione di un risarcimento inadeguato, se non addirittura irrisorio: errore nel quale mi sembra essere incorso Trib. Torino, 11/12/1997, in Foro it., 2000, I, 1557 ss. che, a fronte del riconoscimento di una dequalificazione "pesante" protrattasi per nove mesi, di una malattia neurologica documentata con assenza dal lavoro per sei mesi, di dimissioni "forzate" seguite da un lungo periodo di disoccupazione, ha ritenuto di liquidare equitativamente un importo complessivo di £.10.000.000.

30. Cfr. Pret. Roma, 17/4/1992, in Rivista giuridica del lavoro, 1992, II, 1058 ss..

31. Il ricorso alla CTU medico-legale potrà, infatti, rivelarsi incongruo tutte le volte che la molestia non abbia prodotto danni permanenti alla salute - e saranno le più frequenti, visto la natura fortunatamente transeunte del disturbo da stress, ove ne venga rimossa la causa- ; il che costituisce un motivo in più per rivolgersi immediatamentea un medico specializzato allorquando il disturbo si manifesti.

32. M Bargagna ed altri, Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente, Milano, 1998, 22 ss.

33. Attuata con l.17/5/1999, n.144 e decreto legislativo delegato 23/2/2000, n.38.

34. Cass., S.L., 20/4/1998, n.4012, in Foro it., 1999, I, 969 ss.

 

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