Il danno da dequalificazione professionale non necessita di prove di pregiudizio economico (è in re ipsa, immanente alla lesione del bene della professionalità e dell’immagine)

Cass. sez. lav. 23 ottobre 2001, n. 13033 (ud. 9 aprile 2001) –  Pres. Saggio – Rel. Mileo – Fiorucci SpA (avv. Marazza) c. Arturo Tronti (avv. Panici)

 

Dequalificazione professionale – Assegnazione di un lavoratore con mansioni di  progettazione e di allestimento di stands promozionali di un azienda alimentare, dopo il provvedimento giudiziale di reintegrazione, a mansioni di manovalanza (carico e scarico merci e confezionamento salsicce) – Violazione dell’art. 2103 c.c. – Esistenza - Sussistenza del danno da dequalificazione in re ipsa, senza necessità di prova di pregiudizio economico – Conseguente  obbligo risarcitorio.

 

Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma da luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del dipendente, e costituisce anche lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione, che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, va riconosciuta un’indubbia dimensione patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale, secondo quanto previsto dall’art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. nn. 11727/1999; 8577/99; 14443/2000).

Va pertanto condivisa  la decisione del Tribunale (in riforma di quella pretorile che mentre aveva ordinato la reintegrazione nelle mansioni  originarie aveva negato il risarcimento del danno da dequalificazione per supposta mancanza di prove di pregiudizio economico al riguardo) il quale ha stabilito a favore del ricorrente la somma di £. 70 milioni a risarcimento del danno alla professionalità (in ragione del parametro di 1/3 ca. della retribuzione mensile correlata alla qualifica superiore, per l’intero periodo corrispondente all’utilizzo in regime di demansionamento), in quanto il Tribunale ha dimostrato non solo la sussistenza della lamentata dequalificazione, ma anche la configurabilità di una lesione (nel senso che precede) per effetto della stessa, atteso che detta lesione al patrimonio professionale e di immagine per effetto del demansionamento è da ritenere in re ipsa, sicché sussistendo automaticamente il presupposto dell’an debeatur, la liquidazione equitativa del conseguente danno cagionato al lavoratore ben poteva essere effettuata dal giudice di merito.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso del 13 dicembre 1991 Tronti Arturo esponeva al Pretore di Roma di aver lavorato alle dipendenze della S.p.A. Fiorucci dal 1971 al giugno 1990, con inquadramento nel 3° livello del C.C.N.L. dell’industria alimentare; di essere stato licenziato in tale ultima data ed indi reintegrato nel posto di lavoro a seguito di sentenza del 10 dicembre 1990, venendo peraltro adibito a mansioni dequalificanti di semplice manovalanza (carico e scarico merci e confezionamento salsicce), a fronte di quelle espletate in precedenza (progettazione ed allestimento di stands promozionali della Società in Italia ed all’estero, controllo dei prezzi di vendita al dettaglio e dell’esposizione dei prosciutti nei supermercati).

Chiedeva, in conseguenza, che fosse dichiarata l’illegittimità del comportamento della Società datrice di lavoro e, per l’effetto, la condanna della stessa a reintegrarlo nelle mansioni espletate prima del licenziamento, ovvero in altre equivalenti, nonché al risarcimento dei danni correlati alla violazione dell’art. 2103 c.c., ai sensi dell’art. 13 Legge n. 300/1970, in ragione di £ 2.400.000 mensili a decorrere dall’aprile 1991, per le mansioni inferiori svolte in tale periodo, e con gli accessori ex art. 429 c.p.c..

Resistente la convenuta, la quale evidenziava l’infondatezza delle pretese avverse e specificava che le funzioni in concreto espletate dal ricorrente erano equivalenti a quelle cui era adibito prima del licenziamento, il giudice adito, dopo pertinente istruttoria, accoglieva la domanda relativa al lamentato demansionamento del dipendente, condannando la Società ad attribuirgli quelle relative alla fase precedente al recesso, e rigettava la richiesta di risarcimento dei danni, per carenza di prove a riguardo.

All’esito degli appelli, principale della Fiorucci, ed incidentale del Tronti per la parte concernente il mancato ristoro dei danni, il Tribunale del luogo, con decisione del 12 ottobre 1998, rigettava il primo ed accoglieva il secondo, condannando la datrice di lavoro al pagamento in favore del dipendente della somma di £ 70.000.000 a titolo di risarcimento dei danni.

Ritenevano i giudici di merito che, sulla base delle risultanze istruttorie e tenuto conto delle tabelle particolari dei vari livelli contrattuali vigenti nel periodo in contestazione, effettivamente in detto lasso temporale si era verificato un demansionamento illegittimo nei confronti del ricorrente a partire dal momento della sua reintegrazione, come emerso dalle prove raccolte circa le funzioni svolte prima del licenziamento e dopo, con evidente violazione dell’art. 2103 cod. civ.; e che da tale situazione era derivato al dipendente quanto meno un danno al patrimonio professionale in senso stretto, inevitabile ed in re ipsa per effetto di una significativa dequalificazione, nonché un danno alla personalità ed alla dignità del lavoratore, il cui quantum andava equitativamente liquidato nella somma di cui alla condanna.

Avverso tale sentenza la Società ha proposto ricorso per cassazione, ancorandolo a due motivi articolati in diverse direzioni; il Tronti ha depositato soltanto la procura, ma il difensore ha partecipato all’udienza di discussione.

La Fiorucci ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103. cod. civ., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ..

In sintesi, deduce: che il Tronti pacificamente non ha subito alcuna diminuizione della retribuzione dal 1991 in poi; che dagli atti di causa non risulta che egli, inquadrato nel quarto livello in sede di assunzione, abbia conseguito il terzo livello per le mansioni più qualificate espletate, rispetto a quelle di competenza nell’ambito del magazzino e limitate al movimento merci, atteso che quelle ritenute dal Tribunale a livello di allestimento degli stands furono effettuate dal dipendente soltanto in via saltuaria, sotto la direzione del promoter e, comunque, unicamente a partire dal 1985, mentre, per il riconoscimento di un inquadramento superiore di fatto, occorre che le relative mansioni in concreto svolte siano prevalenti rispetto a quelle attribuitegli in precedenza; che la linea difensiva della ricorrente sul punto non afferisce alla occasionalità delle superiori mansioni espletate, ma al profilo di non prevalenza rispetto a quelle tipiche dell’originario inquadramento, ed al riguardo indagine e motivazione sono palesemente carenti, posto che le mansioni normalmente espletate dal convenuto non comportavano una speciale professionalità, come invece da lui preteso e ritenuto erroneamente dai giudici di merito.

Il motivo è infondato in tutte le sue articolazioni.

A confutazione dello stesso è sufficiente osservare che la mancata diminuzione retributiva si appalesa del tutto inconferente, atteso che il thema decidendum attiene unicamente al profilo della denunciata dequalificazione, con le conseguenze correlate; che l’assunto della occasionalità delle espletate mansioni superiori negli stands non pregio, siccome superato dal preciso e rigoroso accertamento contrario effettuato in fatto dal Tribunale ed evidenziato ampiamente con congrua motivazione; che, del pari, la tesi della mancata prevalenza delle mansioni superiori non può sortire positiva considerazione, atteso che i giudici di merito, con esaustiva motivazione, hanno dimostrato l’esistenza comprovata di una situazione di fatto contraria, rispetto alle mere competenze manuali di magazzinaggio, carico e scarico merci e confezionamento salsicce, come da livello di assunzione e da elevate competenze, ed hanno inequivocabilmente evidenziato, altresì, che il dipendente non operava negli stands sotto la direzione di superiori, ma direttamente, sotto la propria responsabilità decisionale e di allestimento e, talvolta, assumendo egli stesso la veste di promoter nell’attività necessaria per le incombenze agli stessi correlata; che l’argomento della mancata prevalenza delle funzioni superiori rispetto a quelle di propria competenza, come sostenuto dalla Società, oltre che apparire ampiamente confutato dai precisi e puntuali accertamenti in fatto, è contraddittorio rispetto al tema della occasionalità e saltuarietà delle funzioni più elevate, già sostenuto inizialmente nel ricorso e poi negato in proseguo, a riprova sintomatica di una carenza di elementi probatori a supporto delle proprie tesi difensive (v. in raffronto pag. 7 e pagg. 10 e 11 del gravame).

Con la seconda censura la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697 e 1226 cod. civ., nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., e vizio di ultrapetizione, con riferimento all’art. 360, n. 3, stesso codice di rito, deduce: che, nel caso di ritenuto demansionamento, non è stata fornita dall’interessato la prova, necessaria, del solo an, presupposto sine qua non della liquidazione equitativa, ne risulta indicata quale lesione la condotta aziendale abbia arrecato al lavoratore, essendo la stessa meramente potenziale, e dunque non accertata nella sua concreta essenza e nei suoi effetti dannosi; che il Tronti non ha evidenziato alcun elemento idoneo a far ritenere tale lesione, quale che sia, e comunque idonea a danneggiarlo, pur necessario sotto il profilo dell’an debeatur, tanto più che esso non si configura automaticamente e va rigorosamente provato, come da costante orientamento della Suprema Corte; che il Tribunale erroneamente ha esteso l’indagine ad un periodo successivo a quello in contestazione, dal 1991 in poi, incorrendo in tal modo nel vizio di ultrapetizione, perché non rientrante nell’oggetto della controversia; che i giudici di merito hanno anche errato nel valutare la prova testimoniale circa i motivi dello spostamento del Tronti nel reparto frigorifero, omettendo di esaminare l’intero contenuto delle acquisizioni probatorie al riguardo, per la parte concernente l’inquadramento di tutti gli operatori di tale reparto nel 3° livello.

Il motivo è, del pari, inconsistente in relazione a tutte le sue prospettazioni.

Sul punto giova, anzitutto, evidenziare che l’art. 2103 cod. civ., pur nel nuovo testo, non ha eliminato lo ius variandi del datore di lavoro, ove giustificato da esigenze organizzativa e direzionali, ovvero da radicale e profonda ristrutturazione dell’azienda, ma ne ha soltanto limitato rigorosamente l’esercizio.

Ne consegue che, qualora il dipendente ne contesti la legittimità per asserita dequalificazione professionale, l’indagine devoluta al giudice di merito, da effettuare per gradi, si articola in varie direzioni ed afferisce: all’eventuale violazione del livello retributivo raggiunto; alle mansioni, da accertare, previste nell’atto dell’assunzione e concretamente poi svolte, nonché all’esatto inquadramento delle stesse nel corrispondente livello del contratto collettivo di categoria; alla rigorosa individuazione delle nuove mansioni affidate al lavoratore, inquadrandole come da contrattazione collettiva; all’equivalenza o meno delle nuove mansioni a quelle precedentemente espletate, rispetto all’inquadramento astratto e formalistico di categoria secondo le previsioni contrattuali; all’accertamento comparativo delle stesse in concreto, sotto il profilo della loro equivalenza o meno in relazione alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta; all’applicazione del principio secondo cui il lavoratore deve essere adibito a funzioni confacenti alle proprie qualità, nell’ottica di un costante affinamento e di una progressiva evoluzione delle stesse.

Ciò posto, osserva il Collegio che il Tribunale, correttamente muovendosi in tale alveo di indagini, ha dimostrato non solo la sussistenza della lamentata dequalificazione, ma anche la configurabilità di una lesione nel senso che precede per effetto della stessa, atteso che detta lesione al patrimonio professionale e di immagine per effetto del demansionamento è da ritenere in re ipsa (v. pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata), sicché sussistente automaticamente il presupposto dell’an debeatur, la liquidazione equitativa del conseguente danno cagionato al lavoratore ben poteva essere effettuata dal giudice di merito.

Ed invero il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma da luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del dipendente, e costituisce anche lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione, che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, va riconosciuta un’indubbia dimensione patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale, secondo quanto previsto dall’art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. nn. 11727/1999; 8577/99; 14443/2000).

Tanto atteso, poi, e ritenuto che l’indagine residuale demandata al giudice si incentra sui limiti della liquidazione equitativa da effettuare, non si configura nella specie neppure il vizio di ultrapetizione lamentato con riferimento al periodo preso in considerazione successivo a quello in contestazione, in quanto detto riferimento è stato effettuato unicamente a titolo parametrale per la liquidazione equitativa del danno, e correttamente l’entità di questo è stata fissata nella misura di circa un terzo della retribuzione mensile correlata alla qualifica superiore, per l’intero periodo corrispondente all’utilizzo in regime di demansionamento (cfr. Cass. n. 1982/94).

Per ciò che attiene, infine, alla prospettata erroneità di valutazione della prova da parte dei giudici di merito, va ribadito che tale valutazione costituisce accertamento in fatto da eseguire unicamente nei giudizi di primo e secondo grado, non suscettibile di riproposizione in sede di legittimità ove correttamente e congruamente motivato, come nella specie, e che, in particolare, il vizio denunciato quanto alla testimonianza Conti, appare inconferente rispetto all’attuale thema decidendum, che afferisce unicamente alla configurabilità del demansionamento, alla ricorrenza di un danno risarcibile ad esso conseguente ed ai limiti della sua liquidazione equitativa ai sensi dell’art. 432 cod. proc. civ..

In definitiva la sentenza impugnata non appare inficiata dalle violazioni di legge e dai vizi di motivazione denunciati nel ricorso; per l’effetto questo va rigettato.

Per il principio della soccombenza la Società ricorrente va condannata al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 91 cod. proc. civ., liquidate come da dispositivo, attesa la partecipazione del difensore di parte convenuta all’udienza di discussione.

 

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la Società ricorrente al pagamento delle spese concernenti il presente giudizio di cassazione, liquidate in £ 12.000, oltre all’onorario difensivo, liquidate il £ 3.500.000.

Roma, 9 aprile 2001 (depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2001)

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