La tutela risarcitoria del danno alla professionalità in caso di demansionamento, giudizio equitativo ed elementi presuntivi (*)
 
1. La sentenza ivi pubblicata riguarda due dipendenti di una S.p.a. i quali, nei due giudizi di merito, oltre a chiedere il riconoscimento di un inquadramento superiore, hanno lamentato danni da demansionamento.
Con il secondo motivo del ricorso in Cassazione, in particolare, la parte datoriale evidenzia che "il giudice del gravame ha apoditticamente proceduto alla liquidazione equitativa del danno, senza apprezzare l'esistenza di prove dell'asserito demansionamento e considerando il danno come esistente in re ipsa, come conseguenza automatica dell'assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti".
La società sostiene, inevitabilmente, la tesi per cui "il riconoscimento del danno alla professionalità -quale presupposto del risarcimento- è subordinato alla prova dell'effettivo pregiudizio subito dal lavoratore", ed aggiunge che nessuna allegazione né prova è stata articolata dal lavoratore, il quale doveva provare il danno alla libera esplicazione della personalità come ulteriore presupposto del risarcimento della dequalificazione.
La Corte, nella pronuncia annotata, ritiene che l'errore della sentenza d'appello sia stato quello di aver ipotizzato "un nesso autonomatico e scontato tra assegnazione a mansioni deteriori e danno alla professionalità suscettibile di autonomo risarcimento". "Il che -per i giudici di legittimità- non può affermarsi in via generale se è vero che la regola dettata dall'art. 2103 c. c. provvede già di per sé a sanzionare la modifica in pejus delle mansioni già attribuite al dipendente, ricorrendo al principio della irriducibilità della retribuzione nonostante l'assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori o meno pregiate".
Dopo aver asserito che "non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, la citata norma codicistica", i giudici affermano che "trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornire la prova, mentre resta al giudice di merito -le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità- il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste, individuare la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva" (1) .
I criteri giudicati utili per una valutazione adeguata del quantum da risarcire sono "la perdita di opportunità di carriera, anche presso altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello medio-alto"; "la posizione gerarchica perduta cui possono essere connessi il danno all'immagine e la sofferenza psico-fisica del lavoratore"; "la durata della dequalificazione professionale"; "l'età del lavoratore", "l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro".
La Cassazione rileva, infine, la necessità di "applicare i principi enunciati in via generale dagli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c. c. rispettando il principio di proporzionalità fra comportamento illecito e sanzione.
In questa direzione, utili strumenti di riferimento possono essere suggeriti al giudice dalla contrattazione collettiva -ove applicabile e ritualmente acquisita al processo- che, in certi settori, prevede l'istituzione di comitati paritetici, con funzioni di garanzia e prevenzione del conflitto".
Gli spunti offerti dalla pronuncia in oggetto sono numerosi e consentono di esaminare le pronunce più recenti nelle quali si è affrontato il tema del danno alla professionalità (2), approfondendo particolarmente la questione della tutela risarcitoria in via equitativa e della rilevanza degli elementi presuntivi.
2. Le incertezze sul rilevamento e sulla determinazione del danno conseguente a dequalificazione o forzata inattività hanno originato, soprattutto negli ultimissimi anni, un interessante contenzioso giurisprudenziale (3) .
Sull'onere probatorio un primo filone interpretativo ha adottato il principio secondo cui "nell'ipotesi di demansionamento non è configurabile un danno in re ipsa alla professionalità del lavoratore [...] essendo necessaria la prova diretta o per presunzioni attendibili ex art. 2729 c. c. che l'inattività o l'attività in mansioni deteriori ha determinato una riduzione dell'attitudine lavorativa. A tal fine debbono essere utilizzati criteri di esperienza comune come la qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpito, la durata del demansionamento, l'esito finale della dequalificazione" (4) .
Tale orientamento è stato accolto anche in alcune sentenze di Cassazione: secondo i giudici di legittimità il lavoratore che vuole ottenere il risarcimento deve fornire la prova dell'effettiva lesione della professionalità, ma è ammessa la possibilità di fornire la prova anche in via presuntiva, con un ricorso alla liquidazione equitativa (5) .
Taluni Autori ritengono che il risarcimento -a differenza delle sanzioni afflittive penali- non sia una conseguenza automatica dell'illecito, ma che abbia una funzione essenzialmente riparatoria di un danno da provare in concreto (6) . Altri considerano sufficienti le sole prove indiziarie e probabilistiche fornite tenendo presente la concreta organizzazione aziendale, valutando il comportamento del prestatore, raffrontando i tempi e i modi di sviluppo della carriera per posizioni simili a quella del lavoratore ricorrente (7) .
L'orientamento giurisprudenziale che sembra prevalere negli anni più recenti, esclude, invece, l'onere della prova del danno alla professionalità in quanto in re ipsa. La giurisprudenza si era già pronunciata, con alcune sentenze di merito (8) ed una di legittimità (9), nel senso che dalla violazione del precetto di cui all'art. 2103 c. c., c. 1, è possibile desumere la sussistenza di una lesione alla professionalità, senza la necessità di prove specifiche circa l'effettività di tale pregiudizio.
Dal 1999 la Corte è intervenuta sempre più spesso sull'immanenza di tale danno.
In una "prima" pronuncia la Cassazione (10) ha stabilito che "la dequalificazione costituisce un danno di per se, che il giudice al riscontro della dequalificazione- deve comunque liquidare, eventualmente anche in via equitativa" (11) : richiamando il principio già espresso nella sentenza n. 13299/1992 ha cassato la sentenza d'appello in quanto aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull'assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell'onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile.
Relativamente ad essa, in dottrina, sono state espresse alcune osservazioni critiche: "l'impostazione accolta dalla S.C. suscita forti perplessità nel momento in cui sostiene la ricorrenza in astratto di una posizione tutelabile sul piano risarcitorio in presenza di un qualsiasi demansionamento, pur in presenza di una fattispecie caratterizzata da una indubbia modestia intrinseca delle mansioni poste a confronto, con la conseguente dubbia percepibilità di un diritto azionabile da parte del lavoratore alla effettiva prestazione", ed ancora che, per riconoscere la sussistenza in concreto del diritto del lavoratore alla effettiva prestazione, "in quanto istituzionalmente estrinseco rispetto alla struttura sinallagmatica del rapporto di lavoro, occorre l'asseverazione (il cui onere grava sul lavoratore richiedente) dell'esistenza di specifiche implicazioni negative conseguenti al lamentato demansionamento, alla cui stregua poter poi procedere alla successiva identificazione del tipo di danno sofferto ed alla relativa quantificazione" (12) .
In senso analogo altro Autore ha ritenuto preferibili "le argomentazioni di quella parte della giurisprudenza che, in ossequio alle regole generali, tengono chiaramente distinti il momento della violazione dell'obbligo di cui all'art. 2013 da quello (solo eventuale) della produzione del pregiudizio, ancorando l'accertamento del danno alla professionalità a circostanze concrete e alle qualità della persona. Solo così, d'altro canto, l'utilizzo dell'apprezzamento equitativo resta limitato alla sua caratteristica funzione che non consiste nel sopperire all'inerzia del richiedente, ma che è quella di colmare le inevitabili lacune al fine della determinazione del danno" (13) .
L'anno successivo la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla materia precisando che "il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzionalità economica del lavoratore; esso infatti non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 c. c., ma costituisce offesa del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato- va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa pur nell'ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione dell'effettivo pregiudizio patrimoniale" (14) .
Fra i commentatori vi è chi ha evidenziato come "lo schema della risarcibilità del danno-evento è ripreso dalla sentenza [...] che, con la sola apparente modifica del precetto di riferimento e del bene tutelato (non più l'art. 32 Cost. ed il danno biologico, ma il combinato disposto degli artt. 2, 3 e 41 Cost. e 2103 c. c. e la dignità e la personalità del lavoratore), giunge ad annoverare anche la dequalificazione professionale tra le condotte (automanticamente) lesive di beni costituzionalmente protetti, e perciò fonte in re ipsa di danno da risarcire, con esonero del lavoratore dall'onere di provarne l'effettiva sussistenza" (15) .
In due sentenze del 2001 (16) i giudici di legittimità si sono, invece, pronunciati in modo opposto. Nella prima hanno ritenuto che "il giudice del merito, accertata l'esistenza di una dequalificazione, può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva (sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione secondo Cass. 18 gennaio 2000, n. 491), in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione, e alle altre circostanze relative al caso concreto". Nella seconda si sono espressi nel senso che "l'accertamento della sussistenza e dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle varie specie di danno, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia denominazione, è compito del giudice di merito e si risolve in una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata. La liquidazione può avvenire in via equitativa qualora non sia possibile individuare con precisione l'esatto ammontare del danno. Il danneggiato, tuttavia, ha l'onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso per consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e riconducibile alla sua caratteristica funzione di colmare solo le inevitabili lacune al fine della precisa determinazione del danno".
La differenza fra esse è stata bene evidenziata (17) : mentre nella prima, posto che il danno alla professionalità è in re ipsa, al giudice compete una determinazione di buon senso che sia legata a valutazioni di carattere indiziario; nella seconda è "il lavoratore che deve fornire il necessario supporto probatorio, non solo al fine di dimostrare la ricorrenza dell'illecito, ma anche per delinearne le conseguenze.
Non basta la mera prova del comportamento vietato, per ricavarne l'implicita conseguenza che un danno si è effettivamente verificato. Occorre anche addurre elementi che comprovino quest'ultimo, poiché esso non costituisce conseguenza automatica dell'infrazione e che forniscano al giudice criteri per la sua determinazione.
Soltanto allora il giudice può intervenire con un giudizio di carattere equitativo fondato però su dati di una certa consistenza".
In una fattispecie riguardante un dirigente oggetto di una rilevante riduzione quantitativa delle mansioni i giudici hanno chiarito che: "secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'art. 2103 c. c. fonda un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro e motiva tale suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, c. 1, 4, c. 1, e 35, c. 1, Cost. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale principio di diritto, benché non condiviso da una parte della dottrina, deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c. c., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 c. c.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora; il principio di esecuzione di buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 c. c.); infine, l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell'attuale momento storico-economico, valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso. Da quanto precede deriva che non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può comportare dequalificazione.
E' evidente poi che ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l'onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l'eccepisce, in base all'art. 2697, c. 2, c. c. [...]." (18) .
3. Sul risarcimento del danno da demansionamento in via equitativa, con accertamento per presunzioni, la Suprema Corte (19), in una delle pronunce più recenti, ha ricordato il principio direttivo secondo cui "illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni diverse di minor qualificazione rispetto a quelle anteriori non solo viola lo specifico divieto posto dalla disposizione di legge, ma integra la lesione di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, quale cittadino, in ordine alla esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro -garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione- con la conseguenza che il pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell'interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione può trovare applicazione l'art. 1226 c. c. che consente al giudice di procedere alla liquidazione del danno con criterio equitativo" (20) . Dopo aver giudicato viziata la sentenza del Tribunale che "non ha compiuto alcun accertamento in ordine alla lesione del diritto alla esplicazione della personalità del P. nel luogo di lavoro, con riflessi nella sua vita professionale e di relazione, né ha considerato che la mancata allegazione di uno specifico elemento di prova diretta in merito al pregiudizio derivante da tale lesione non valeva ad escludere la valutazione equitativa del danno". La Corte aggiunge: "è noto che il potere discrezionale assegnato dall'art. 1226 c. c. al giudice del merito presuppone la ricorrenza di una duplice condizione e cioè che sia certa l'esistenza del danno e che sia impossibile o sommamente difficile provarne il preciso ammontare (Cass. 11 febbraio 1998, n. 1382 e Cass 12 gennaio 1996, n. 188) e, a tal fine, vanno tenuti presenti i seguenti criteri: a) poiché la liquidazione equitativa del danno va effettuata soprattutto quando, in relazione alla peculiarità del fatto dannoso, riesca difficoltosa la precisa determinazione del pregiudizio subito dal danneggiato, il giudice, pur essendo tenuto a dare conto degli elementi di fatto presi in considerazione per pervenire alla decisione finale, non è però obbligato a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata del rapporto di consequenzialità fra gli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento scaturisca dall'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. 15 gennaio 2000, n. 409 e Cass. 25 settembre 1998, n. 9588); b) la liquidazione equitativa, proprio riguardo alla specifica materia oggetto del presente giudizio, deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 2 novembre 2001, n. 13580)".
4. Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte è tornata anche ad occuparsi del giudizio equitativo e della rilevanza degli elementi presuntivi (21) a distanza di pochi mesi da altre due pronunce. Una ha richiamato "l'ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c. c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c. c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto" (22) . La seconda, pur richiedendo la prova al lavoratore, ha ritenuto assolto l'onere dal ricorso alle presunzioni (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso concreto, quali la natura, l'entità e la durata del demansionamento) (23) .
5. Nella sentenza ivi annotata si indicano con particolare attenzione i parametri cui ancorare la valutazione di equità (24) : oltre alla retribuzione mensile vengono elencati i criteri della perdita di opportunità di carriera (anche presso altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello medio-alto); della posizione gerarchica perduta cui possono essere connessi il danno all'immagine e la sofferenza psico-fisica del lavoratore; della durata della dequalificazione professionale (25) ; dell'età del lavoratore, dell'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro.
In altre sentenze sono stati indicati: la specificità e le caratteristiche della prestazione lavorativa oggetto del contratto di scrittura artistica, oltre che il grado di notorietà acquisito dal lavoratore (26) ; oppure la verifica in concreto del contenuto professionale delle mansioni attribuite, senza fermarsi al dato formale del riferimento ad un certo livello di inquadramento (27) . Nella maggior parte dei casi il parametro del risarcimento viene correlato all'entità della retribuzione (28) .
6. Infine, i giudici ritengono che "utili strumenti di riferimento possono essere suggeriti al giudice dalla contrattazione collettiva -ove applicabile e ritualmente acquisita al processo- che in certi settori, prevede l'istituzione di comitati paritetici, con funzioni di garanzia e prevenzione del conflitto".
Sul ruolo della contrattazione collettiva si è espressa la dottrina con opinioni contrastanti: taluni Autori hanno proposto una "penale" rapportata alla durata dell'illegittima modificazione delle mansioni, quale misura sanzionatoria di carattere pecuniario, che potrebbe funzionare quale valido mezzo di coercizione indiretta, sul modello dell'astreinte, per indurre il datore a riassegnare il lavoratore a mansioni quanto meno equivalenti a quelle precedenti (29) .
 
Silvia BRUZZONE
Avvocato in Genova
[ *] (nota a Cass. sez. lav. 8.11.2003, n. 16792 in MGL 2004, p. 260)

NOTE
(1) E' espressamente richiamata Cass. 2 novembre 2001, n. 13580, in "Riv. giur. lav." 2002, I, 233, con nota di MILLI.
(2) Sulla definizione di danno alla professionalità v. Trib. Milano, 10 giugno 2000, in "Or. giur. lav." 2000, 367; Pret. Milano 9 aprile 1998, in "Riv. crit. dir. lav." 1998, 704; Pret. Bologna 8 aprile 1997, in "Lav. giur." 1998, 140, con nota di BOSCATI, Danno alla professionalità: lesione di un interesse morale di natura contrattuale; Pret. Milano, 9 dicembre 1997, in "Riv. crit. dir. lav." 1998, 421, con nota di BOTTANI; Pret. Milano, 11 marzo 1996, ibidem 1996, 677; Trib. Milano, 16 dicembre 1995, ibidem 1996, 460.
(3) Per un'ampia ed accurata disamina della materia, oltre alle osservazioni critiche, si veda l'opera di MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma 2002, 41 e ss.: relativamente alla normativa a tutela della professionalità e alla risarcibilità dei danni. Cfr. anche LANOTTE, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino 1998, 205 ss.; MONTUSCHI, Rimedi e tutele nel rapporto di lavoro, in "Dir. rel. ind." 1997, n. 1, 3 e ss.; SCOGNAMIGLIO, Danno biologico e rapporto di lavoro subordinato , in "Arg. dir. lav." 1997, 31; MONTUSCHI, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in "Riv. it. dir. lav." 1994, I, 317.
Sulla tutela risarcitoria, fra gli altri, Pedrazzoli (a cura di), Danno biologico e oltre. La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del lavoratore, Torino 1995; DI MAJO, Tutela risarcitoria, restitutoria, sanzionatoria, in Enc. giur. Treccani, vol. XXXI, Roma 1994, 2 ss.; GHERA, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato , in "Giorn. dir. lav. rel. ind." 1979, 311.
(4) Così la già citata sentenza del Trib. Milano, 10 giugno 2000, e sempre recentemente Trib. Milano, 12 marzo 2001, in "Or. giur. lav." 2001, 43; Corte d'Appello Milano, 10 giugno 2000, in "Lav. giur." 2000, 1170.
Lo stesso Tribunale di Milano, con sentenza del 16 ottobre 1998, in "Or. giur. lav." 1998, I, 912, ha precisato che "il danno da dequalificazione è cosa diversa dalla dequalificazione. Questa indica la violazione del dovere, quella l'effetto lesivo che la dequalificazione produce su un bene protetto dall'ordinamento. [...] la violazione di un dovere non equivale a danno: questo non può essere dedotto -automaticamente- dalla violazione del dovere. Secondo i principi, occorre l'individuazione di un effetto della violazione su un determinato bene".
Cfr. Pret. Milano, 28 marzo 1997, in "Riv. crit. dir. lav." 1997, 791; Trib. Milano, 11 gennaio 1996, ibidem 1996, 741, con nota di TAGLIAGAMBE; Trib. Milano, 9 novembre 1996, ibidem 1997, 361. Secondo Trib. Milano, 26 novembre 1993, in "Dir. prat. lav." 1994, 1416, "Il lavoratore ha l'onere di provare non solo il danno ed il nesso di derivazione di questo dalla dequalificazione, ma anche l'effettività di quest'ultima".
Fra le pronunce più datate Pret. Milano, 21 gennaio 1992, in "Riv. giur. lav." 1993, II, 94 con nota di BIANCA, Pret. Roma, 3 ottobre 1991, in "Riv. crit. dir. lav." 1992, 390, con nota di MUGGIA, Dequalificazione, inattività e danni risarcibili; Trib. Potenza, 5 giugno 1991, in "Giur. mer." 1993, 527; Pret. Milano, 28 dicembre 1990, in "Riv. it. dir. lav." 1991, II, 388 con nota di PERA; Pret. Saronno, 8 settembre 1987, in "Or. giur. lav." 1987, 879.
(5) Cass. 11 agosto 1998, n. 7905, in questa rivista 1998, 90; Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026, ibidem 1997, 22; Cass. 18 aprile 1996, n. 3686, in "Riv. giur. lav." 1996, I; Cass. 26 gennaio 1993, n. 931, in "Riv. it. dir. lav." 1994, II, 149, con nota di PIZZOFERRATO; Cass. 16 marzo 1992, n. 3213, in "Not. giurisp. lav." 1992, 493; Cass. 13 agosto 1991, n. 8835, in "Riv. it. dir. lav." 1992, II, 954, con nota critica sull'orientamento espresso dalla Corte di FOCARETA, Sottrazione di mansioni e risarcimento del danno
(6) Così PISANI, La modificazione delle mansioni, Milano 1996, 231. Hanno approfondito lo studio dell'art. 2103 c. c., anche IANNI, Il cambiamento delle mansioni e la mobilità interna , Padova 2001, 125; GIAMMARIA, Osservazioni in tema di mutamento di mansioni e tutela della professionalità, in "Dir. lav.", 1995, I, 507; BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103 , in Il Codice civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano 1997, 256 ss.
Sull'obbligo del lavoratore di fornire la prova del pregiudizio subito v. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova 1995, 106; SCOGNAMIGLIO, Risarcimento del danno , in Noviss. dig.it., vol. XVI, Torino 1967, 7 ss.
(7) MUGGIA, Dequalificazione, inattività e danni risarcibili, cit., 391.
(8) Sull'obbligo di risarcire il danno indipendentemente dalla prova, ex art. 1218 c. c., si vedano: Trib. Milano, 30 maggio 1997, in "Riv. crit. dir. lav." 1997, 789; Pret. Bologna, 8 aprile 1997, cit.; Pret. Milano, 28 marzo 1997, in "Or. giur. lav" 1997, 791; Pret. Milano, 7 gennaio 1997, ibidem 1997, 59, con nota di VETTOR, Violazione dell'art. 2013 c. c. e risarcimento del danno professionale; Pret. Milano, 26 agosto 1996, ibidem 1996, 825; Pret. Napoli, 10 ottobre 1992, in "Foro it." 1993, I, 2883.
(9) Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299, in "Riv. crit. dir. lav." 1993, 315, con nota di MUGGIA, Lottizzazione, diritti della persona e danni risarcibili.
(10) Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727, in "Lav. giur." 2000, 244, con nota di MANNACIO e in "Resp. civ. prev." 2000, 629, con nota di DEL CONTE, La figura giurisprudenziale del "danno da demansionamento": il problema delle fonti e della prova.
(11) MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 85. Per le opinioni espresse dallo stesso Autore sulla sentenza citata si consiglia anche la lettura di: Il carattere immanente del danno da dequalificazione, in "Lav. prev. oggi" 1999, 2342; Immanenza del danno da demansionamento: riconferma delle vecchie certezze, ibidem 2000, 2192.
(12) Così PAPALEONI, Danno da demansionamento, in questa rivista 1999, 1368 (nota a Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727), secondo cui: "l'eventuale ricorso alla liquidazione equitativa è operabile solo quando la lesione del diritto si concreti in un danno professionale conseguente alla dequalificazione con riflessi sulla persona del lavoratore, e non in uno specifico danno retributivo connesso al trattamento erogato per le prestazioni svolte e sempre che il lavoratore fornisca la prova dell'effettiva sussistenza di tale danno, la quale costituisce il presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa onde consentire che l'apprezzamento equitativo sia per quanto possibile limitato e ricondotto alla sua caratteristica funzione di colmare soltanto le inevitabili lacune al fine della precisa determinazione del danno".
(13) MORONE, Demansionamento del lavoratore e tutela risarcitoria del danno alla professionalità, in "Or. giur. lav." 1999, I, 913 (nota a Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727): "la teoria secondo la quale il danno sarebbe in re ipsa finisce per incrementare le già consistenti incongruenze riscontrabili nell'ambito del dibattito sulla tutela dei diritti della persona nel contratto di lavoro, ancorché non sia mancato chi ha segnalato tale approdo interpretativo come l'esito inevitabile e indispensabile per una giurisprudenza che non vuole ammettere che la lesione di un bene tutelato da una norma imperativa possa restare senza sanzione (SCARPELLI, Dimensione contrattuale del rapporto di lavoro, responsabilità datoriale per la modifica delle mansioni, ruolo del giudice , in "Riv. crit. dir. lav." 1997, 717). Se, tuttavia, alla progressiva espansione del novero delle posizioni soggettive tutelate sotto la voce professionalità si accompagna una riconduzione quasi meccanicistica del risarcimento alla violazione dell'obbligo contrattuale ed una relativa quantificazione del danno operata senza effettivi riscontri probatori, si comprende come il rischio che si corre sia quello del sacrificio della trasparenza dei percorsi ricostruttivi di volta in volta adottati per risalire alla responsabilità e alla quantificazione dell'indennizzo, nonché della loro scarsa coerenza rispetto ai principi generali in tema di inadempimento contrattuale".
(14) Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, in "Lav. prev. oggi" 2000, 2287. Sull'onere probatorio della lesione alla c. d. professionalità oggettiva: MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 97 ss. e ID., Vecchie certezze e nuove riconferme sulla immanenza del danno da demansionamento, in www.dirittolavoro.altervista.org/demansionamento_nuovo.html.
Cfr. sull'immanenza del danno da dequalificazione, Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, in "Riv. crit. dir. lav." 2001, 999 e Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033, inedita.
V. anche Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, in questa rivista 2002, n. 7, 430: "il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 c. c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione in via equitativa.
L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (Cass. n. 7905/1998, n. 1026/1997)".
Per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Treviso, 13 ottobre 2000, in "Lav. prev. oggi" 2000, 2324; Trib. Milano, 22 febbraio 2000, in "Riv. crit. dir. lav." 2000, 446.
(15) Così SALVATORI che, con nota critica a Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, in "Dir. lav." 2001, II, 300, ha, fra l'altro, specificato: "per quanti sforzi si facciano, infatti, la dequalificazione altro non è -nel suo contenuto essenziale- che riduzione di mansioni, impoverimento del contenuto professionale della prestazione del lavoratore, e nulla ha a che vedere con la dignità del lavoratore. L'unico diritto che essa lede automaticamente, è quello sancito dall'art. 2103 c. c.: ossia il diritto del lavoratore di svolgere le mansioni contrattualmente spettantigli. Stravolgere questo dato di fatto, per affermare invece che la dequalificazione professionale pregiudichi sempre anche la dignità e la personalità del lavoratore, sulla scorta non di dati empirici, ma della astratta affermazione che la sua sottoutilizzazione lo umilierebbe e gli impedirebbe di esplicare pienamente la propria personalità sul luogo di lavoro, frustando la particolare tutela attribuita al "valore uomo in quanto tale" dalla nostra Carta costituzionale, significa attribuire alla dequalificazione professionale una carica offensiva che nella realtà non ha, e costruire un inadempimento nel quale la prova del fatto illecito si considera raggiunta in presenza non della prova dell'avvenuta violazione del precetto normativo, bensì in presenza di una condotta solo potenzialmente lesiva del medesimo, e nel quale l'evento di danno perde qualsiasi contenuto concreto, risolvendosi nell'affermazione giudiziale dell'incompatibilità di una condotta (la dequalificazione) con un determinato precetto giuridico (art. 41 Cost.). Il danno da risarcire consisterebbe cioè non nella diminuzione di valore del bene protetto (tant'è che si nega la necessità della prova del pregiudizio), ma nell'illiceità della condotta in sé, nella sua antigiuridicità, da sola sufficiente a far scattare la sanzione risarcitoria indipendentemente dall'esistenza di una perdita da eliminare o di un depauperamento da reintegrare".
L'A. evidenzia "i limiti di una tesi che, avendo rinunciato alla prova dell'evento lesivo, è inidonea a selezionare correttamente gli eventi meritevoli di tutela" e conclude che "la lesione di diritti della personalità (così come di diritti a contenuto patrimoniale) non può mai essere presunta; e che, perciò, anche nel caso della dequalificazione professionale la strada da seguire è una sola: quella di pretendere dal lavoratore, sempre, la prova dell'avvenuta lesione di tale diritti, verificando caso per caso se la condotta del datore abbia inciso o meno sui beni protetti dall'ordinamento e se il lavoratore sia stato limitato o meno nel loro godimento".
(16) Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 e Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, in "Lav. giur." 2002, 1077.
(17) Così RONDO, Aspetti problematici del giudizio equitativo per la definizione del ristoro dei danni da dequalificazione, commento nel commento, alle sentenze citate nella nota n. 16, in "Lav. giur." 2002, 1083.
(18) Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in "Lav. prev. oggi" 2002, 1179, con nota di MEUCCI, Ancora sul demansionamento. Ulteriori insistenze sulla prova del pregiudizio alla professionalità ormai considerato immanente, 1042 ss.
(19) Cass. 12 novembre 2002, n. 15868, in "Guida dir." 2003, 2, 63.
(20) Sul principio secondo cui "la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con un'indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa" v. Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, cit.; Cass. 22 febbraio 2003, n. 2763, inedita.
(21) Sul danno esistenziale da pregiudizio alla professionalità e prova per presunzioni si veda l'interessante articolo di MEUCCI, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in www.dirittolavoro.altervista.org/danno_esistenziale.html
(22) Cass. 27 agosto 2003, n. 12553, inedita.
(23) Cass. 4 giugno 2003, n. 8904, inedita.
(24) RONDO, op. cit., 1086; OCCHIPINTI, MIMMO, Mansioni superiori e mansioni equivalenti, Milano 2002, 175 ss.
(25) Sulla durata v. Trib. Milano 30 maggio 1997, in "Riv. crit. dir. lav." 1997, 789.
(26) Così Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, cit.; Cass. 10 aprile 1996, n. 3341, in "Riv. it. dir. lav." 1997, II, 66, con nota di CALAFA'.
(27) Cass. 22 aprile 1995, n. 4561, in "Lav. giur." 1995, 1059.
(28) Così Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, cit.; Corte d'Appello 21 giugno 2001, in "Riv. crit. dir. lav." 2001, 1007; Trib. Milano, 24 gennaio 2000, in "Lav. giur." 2000, 569; Trib. Milano, 26 aprile 2000, in "Riv. crit. dir. lav." 2000, 750 con nota di PAVONE, Illegittima dequalificazione: le "voci" di danno, l'accertamento e la misura del risarcimento; Trib. Milano, 10 giugno 2000 cit.; Trib. Roma, 12 ottobre 1998, in "Riv. crit. dir. lav." 1999, 167. Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, cit.; Cass. 17 marzo 1999, n. 2428, in "Mass. giur. civ." 1999, 587; Cass. 10 aprile 1996, n. 3341 cit.
(29) Così BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., 272-273. "La penale potrebbe conseguire un risultato simile a quello perseguito dalla giurisprudenza, utilizzando la tecnica del risarcimento del danno, eludendo alcuni rischi: ad esempio, in tema di prova (con una penale sganciata dalla verifica in concreto) e di quantificazione del danno demandando tale compito alla contrattazione collettiva"; cfr. anche BOSCATI, commento a Pret. Bologna, 8 aprile 1997, in "Lav. giur." cit., 150-151; PISANI, La modificazione delle mansioni, cit., 233. Contra CARINCI, Una prospettiva: dal risarcimento all'inibitoria, in Pedrazzoli (a cura di), Danno biologico ed oltre, cit., 188 ss.

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