- La
tutela risarcitoria del danno alla professionalità in caso di
demansionamento, giudizio equitativo ed elementi presuntivi (*)
-
- 1.
La sentenza ivi pubblicata riguarda due dipendenti di una S.p.a. i quali,
nei due giudizi di merito, oltre a chiedere il riconoscimento di un
inquadramento superiore, hanno lamentato danni da demansionamento.
- Con
il secondo motivo del ricorso in Cassazione, in particolare, la parte
datoriale evidenzia che "il giudice del gravame ha apoditticamente
proceduto alla liquidazione equitativa del danno, senza apprezzare
l'esistenza di prove dell'asserito demansionamento e considerando il danno
come esistente in re ipsa, come conseguenza automatica dell'assegnazione a
mansioni inferiori o non equivalenti".
- La
società sostiene, inevitabilmente, la tesi per cui "il
riconoscimento del danno alla professionalità -quale presupposto del
risarcimento- è subordinato alla prova dell'effettivo pregiudizio subito
dal lavoratore", ed aggiunge che nessuna allegazione né prova è
stata articolata dal lavoratore, il quale doveva provare il danno alla
libera esplicazione della personalità come ulteriore presupposto del
risarcimento della dequalificazione.
- La
Corte, nella pronuncia annotata, ritiene che l'errore della sentenza
d'appello sia stato quello di aver ipotizzato "un nesso autonomatico
e scontato tra assegnazione a mansioni deteriori e danno alla
professionalità suscettibile di autonomo risarcimento". "Il che
-per i giudici di legittimità- non può affermarsi in via generale se è
vero che la regola dettata dall'art. 2103 c. c. provvede già di per sé a
sanzionare la modifica in pejus delle mansioni già attribuite al
dipendente, ricorrendo al principio della irriducibilità della
retribuzione nonostante l'assegnazione e lo svolgimento di mansioni
inferiori o meno pregiate".
- Dopo
aver asserito che "non ogni demansionamento determina un danno
risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento
retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, la citata
norma codicistica", i giudici affermano che "trattandosi di
danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornire la prova, mentre
resta al giudice di merito -le cui valutazioni, se sorrette da congrua
motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità- il compito di
verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussiste,
individuare la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo
ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a
particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere
anche presuntiva" (1) .
- I
criteri giudicati utili per una valutazione adeguata del quantum da
risarcire sono "la perdita di opportunità di carriera, anche presso
altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello
medio-alto"; "la posizione gerarchica perduta cui possono essere
connessi il danno all'immagine e la sofferenza psico-fisica del
lavoratore"; "la durata della dequalificazione
professionale"; "l'età del lavoratore", "l'elemento
psicologico della condotta del datore di lavoro".
- La
Cassazione rileva, infine, la necessità di "applicare i principi
enunciati in via generale dagli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c. c.
rispettando il principio di proporzionalità fra comportamento illecito e
sanzione.
- In
questa direzione, utili strumenti di riferimento possono essere suggeriti
al giudice dalla contrattazione collettiva -ove applicabile e ritualmente
acquisita al processo- che, in certi settori, prevede l'istituzione di
comitati paritetici, con funzioni di garanzia e prevenzione del
conflitto".
- Gli
spunti offerti dalla pronuncia in oggetto sono numerosi e consentono di
esaminare le pronunce più recenti nelle quali si è affrontato il tema
del danno alla professionalità (2), approfondendo particolarmente la
questione della tutela risarcitoria in via equitativa e della rilevanza
degli elementi presuntivi.
- 2.
Le incertezze sul rilevamento e sulla determinazione del danno conseguente
a dequalificazione o forzata inattività hanno originato, soprattutto
negli ultimissimi anni, un interessante contenzioso giurisprudenziale (3)
.
- Sull'onere
probatorio un primo filone interpretativo ha adottato il principio secondo
cui "nell'ipotesi di demansionamento non è configurabile un danno in
re ipsa alla professionalità del lavoratore [...] essendo necessaria la
prova diretta o per presunzioni attendibili ex art. 2729 c. c. che
l'inattività o l'attività in mansioni deteriori ha determinato una
riduzione dell'attitudine lavorativa. A tal fine debbono essere utilizzati
criteri di esperienza comune come la qualità e quantità dell'esperienza
lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpito, la durata del
demansionamento, l'esito finale della dequalificazione" (4) .
- Tale
orientamento è stato accolto anche in alcune sentenze di Cassazione:
secondo i giudici di legittimità il lavoratore che vuole ottenere il
risarcimento deve fornire la prova dell'effettiva lesione della
professionalità, ma è ammessa la possibilità di fornire la prova anche
in via presuntiva, con un ricorso alla liquidazione equitativa (5) .
- Taluni
Autori ritengono che il risarcimento -a differenza delle sanzioni
afflittive penali- non sia una conseguenza automatica dell'illecito, ma
che abbia una funzione essenzialmente riparatoria di un danno da provare
in concreto (6) . Altri considerano sufficienti le sole prove indiziarie e
probabilistiche fornite tenendo presente la concreta organizzazione
aziendale, valutando il comportamento del prestatore, raffrontando i tempi
e i modi di sviluppo della carriera per posizioni simili a quella del
lavoratore ricorrente (7) .
- L'orientamento
giurisprudenziale che sembra prevalere negli anni più recenti, esclude,
invece, l'onere della prova del danno alla professionalità in quanto in
re ipsa. La giurisprudenza si era già pronunciata, con alcune sentenze di
merito (8) ed una di legittimità (9), nel senso che dalla violazione del
precetto di cui all'art. 2103 c. c., c. 1, è possibile desumere la
sussistenza di una lesione alla professionalità, senza la necessità di
prove specifiche circa l'effettività di tale pregiudizio.
- Dal
1999 la Corte è intervenuta sempre più spesso sull'immanenza di tale
danno.
- In
una "prima" pronuncia la Cassazione (10) ha stabilito che
"la dequalificazione costituisce un danno di per se, che il giudice
al riscontro della dequalificazione- deve comunque liquidare,
eventualmente anche in via equitativa" (11) : richiamando il
principio già espresso nella sentenza n. 13299/1992 ha cassato la
sentenza d'appello in quanto aveva respinto la domanda di risarcimento del
danno proposta dal lavoratore demansionato sull'assunto del mancato
assolvimento, da parte dello stesso, dell'onere probatorio relativo alla
sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile.
- Relativamente
ad essa, in dottrina, sono state espresse alcune osservazioni critiche:
"l'impostazione accolta dalla S.C. suscita forti perplessità nel
momento in cui sostiene la ricorrenza in astratto di una posizione
tutelabile sul piano risarcitorio in presenza di un qualsiasi
demansionamento, pur in presenza di una fattispecie caratterizzata da una
indubbia modestia intrinseca delle mansioni poste a confronto, con la
conseguente dubbia percepibilità di un diritto azionabile da parte del
lavoratore alla effettiva prestazione", ed ancora che, per
riconoscere la sussistenza in concreto del diritto del lavoratore alla
effettiva prestazione, "in quanto istituzionalmente estrinseco
rispetto alla struttura sinallagmatica del rapporto di lavoro, occorre
l'asseverazione (il cui onere grava sul lavoratore richiedente)
dell'esistenza di specifiche implicazioni negative conseguenti al
lamentato demansionamento, alla cui stregua poter poi procedere alla
successiva identificazione del tipo di danno sofferto ed alla relativa
quantificazione" (12) .
- In
senso analogo altro Autore ha ritenuto preferibili "le argomentazioni
di quella parte della giurisprudenza che, in ossequio alle regole
generali, tengono chiaramente distinti il momento della violazione
dell'obbligo di cui all'art. 2013 da quello (solo eventuale) della
produzione del pregiudizio, ancorando l'accertamento del danno alla
professionalità a circostanze concrete e alle qualità della persona.
Solo così, d'altro canto, l'utilizzo dell'apprezzamento equitativo resta
limitato alla sua caratteristica funzione che non consiste nel sopperire
all'inerzia del richiedente, ma che è quella di colmare le inevitabili
lacune al fine della determinazione del danno" (13) .
- L'anno
successivo la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla materia
precisando che "il demansionamento professionale di un lavoratore dà
luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla
potenzionalità economica del lavoratore; esso infatti non solo viola lo
specifico divieto di cui all'art. 2103 c. c., ma costituisce offesa del
diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del
lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio
correlato a tale lesione che incide sulla vita professionale e di
relazione dell'interessato- va riconosciuta una indubbia dimensione
patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione
anche equitativa pur nell'ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione
dell'effettivo pregiudizio patrimoniale" (14) .
- Fra
i commentatori vi è chi ha evidenziato come "lo schema della
risarcibilità del danno-evento è ripreso dalla sentenza [...] che, con
la sola apparente modifica del precetto di riferimento e del bene tutelato
(non più l'art. 32 Cost. ed il danno biologico, ma il combinato disposto
degli artt. 2, 3 e 41 Cost. e 2103 c. c. e la dignità e la personalità
del lavoratore), giunge ad annoverare anche la dequalificazione
professionale tra le condotte (automanticamente) lesive di beni
costituzionalmente protetti, e perciò fonte in re ipsa di danno da
risarcire, con esonero del lavoratore dall'onere di provarne l'effettiva
sussistenza" (15) .
- In
due sentenze del 2001 (16) i giudici di legittimità si sono, invece,
pronunciati in modo opposto. Nella prima hanno ritenuto che "il
giudice del merito, accertata l'esistenza di una dequalificazione, può
desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in
via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione
della prova, anche presuntiva (sufficiente di per sé sola a sorreggere la
decisione secondo Cass. 18 gennaio 2000, n. 491), in base agli elementi di
fatto relativi alla durata della dequalificazione, e alle altre
circostanze relative al caso concreto". Nella seconda si sono
espressi nel senso che "l'accertamento della sussistenza e
dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle varie specie di
danno, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia denominazione,
è compito del giudice di merito e si risolve in una valutazione di fatto
incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata. La
liquidazione può avvenire in via equitativa qualora non sia possibile
individuare con precisione l'esatto ammontare del danno. Il danneggiato,
tuttavia, ha l'onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto
in suo possesso per consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per
quanto possibile, limitato e riconducibile alla sua caratteristica
funzione di colmare solo le inevitabili lacune al fine della precisa
determinazione del danno".
- La
differenza fra esse è stata bene evidenziata (17) : mentre nella prima,
posto che il danno alla professionalità è in re ipsa, al giudice compete
una determinazione di buon senso che sia legata a valutazioni di carattere
indiziario; nella seconda è "il lavoratore che deve fornire il
necessario supporto probatorio, non solo al fine di dimostrare la
ricorrenza dell'illecito, ma anche per delinearne le conseguenze.
- Non
basta la mera prova del comportamento vietato, per ricavarne l'implicita
conseguenza che un danno si è effettivamente verificato. Occorre anche
addurre elementi che comprovino quest'ultimo, poiché esso non costituisce
conseguenza automatica dell'infrazione e che forniscano al giudice criteri
per la sua determinazione.
- Soltanto
allora il giudice può intervenire con un giudizio di carattere equitativo
fondato però su dati di una certa consistenza".
- In
una fattispecie riguardante un dirigente oggetto di una rilevante
riduzione quantitativa delle mansioni i giudici hanno chiarito che:
"secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'art. 2103
c. c. fonda un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della
propria prestazione di lavoro e motiva tale suo convincimento sia con il
tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di
lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto,
sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di
sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della
personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, c. 1, 4, c. 1, e 35,
c. 1, Cost. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a
diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente
una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da
parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere
le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da
dequalificazione professionale. Tale principio di diritto, benché non
condiviso da una parte della dottrina, deve essere qui ribadito, perché
esso trova sicuro fondamento giuridico in molteplici valutazioni
giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è
puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c. c., coinvolgendo
la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di
organizzazione (art. 2094 c. c.), sicché la disciplina degli aspetti
patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono necessariamente
coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo
che lavora; il principio di esecuzione di buona fede del contratto di
assunzione (art. 1375 c. c.); infine, l'attuale evoluzione del mercato del
lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale
caratteristica dell'attuale momento storico-economico, valorizza la
funzione della prestazione lavorativa in tal senso. Da quanto precede
deriva che non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle
mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al
giudice del merito, può comportare dequalificazione.
- E'
evidente poi che ove il lavoratore deduca una dequalificazione per
rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l'onere processuale di
dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata
dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l'eccepisce,
in base all'art. 2697, c. 2, c. c. [...]." (18) .
- 3.
Sul risarcimento del danno da demansionamento in via equitativa, con
accertamento per presunzioni, la Suprema Corte (19), in una delle pronunce
più recenti, ha ricordato il principio direttivo secondo cui
"illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni diverse di minor
qualificazione rispetto a quelle anteriori non solo viola lo specifico
divieto posto dalla disposizione di legge, ma integra la lesione di un
diritto fondamentale dello stesso lavoratore, quale cittadino, in ordine
alla esplicazione della sua personalità anche nel luogo di lavoro
-garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione- con la conseguenza che il
pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi nella vita professionale
e di relazione dell'interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale
che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione può
trovare applicazione l'art. 1226 c. c. che consente al giudice di
procedere alla liquidazione del danno con criterio equitativo" (20) .
Dopo aver giudicato viziata la sentenza del Tribunale che "non ha
compiuto alcun accertamento in ordine alla lesione del diritto alla
esplicazione della personalità del P. nel luogo di lavoro, con riflessi
nella sua vita professionale e di relazione, né ha considerato che la
mancata allegazione di uno specifico elemento di prova diretta in merito
al pregiudizio derivante da tale lesione non valeva ad escludere la
valutazione equitativa del danno". La Corte aggiunge: "è noto
che il potere discrezionale assegnato dall'art. 1226 c. c. al giudice del
merito presuppone la ricorrenza di una duplice condizione e cioè che sia
certa l'esistenza del danno e che sia impossibile o sommamente difficile
provarne il preciso ammontare (Cass. 11 febbraio 1998, n. 1382 e Cass 12
gennaio 1996, n. 188) e, a tal fine, vanno tenuti presenti i seguenti
criteri: a) poiché la liquidazione equitativa del danno va effettuata
soprattutto quando, in relazione alla peculiarità del fatto dannoso,
riesca difficoltosa la precisa determinazione del pregiudizio subito dal
danneggiato, il giudice, pur essendo tenuto a dare conto degli elementi di
fatto presi in considerazione per pervenire alla decisione finale, non è
però obbligato a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata
del rapporto di consequenzialità fra gli elementi esaminati e l'ammontare
del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento
scaturisca dall'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al
giudizio e da un esame della situazione processuale globalmente
considerata (Cass. 15 gennaio 2000, n. 409 e Cass. 25 settembre 1998, n.
9588); b) la liquidazione equitativa, proprio riguardo alla specifica
materia oggetto del presente giudizio, deve essere compiuta anche quando
sia addirittura mancata la dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza
di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. 2 novembre 2001, n.
13580)".
- 4.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte è tornata anche ad occuparsi
del giudizio equitativo e della rilevanza degli elementi presuntivi (21) a
distanza di pochi mesi da altre due pronunce. Una ha richiamato
"l'ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla
illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a
quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la
violazione dell'art. 2103 c. c., ma anche la violazione del diritto
fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità
nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui
deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale
conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di
relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai
sensi dell'art. 1226 c. c., anche in mancanza di uno specifico elemento di
prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere
operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al
giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del
demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto"
(22) . La seconda, pur richiedendo la prova al lavoratore, ha ritenuto
assolto l'onere dal ricorso alle presunzioni (indizi che possono trarsi
anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso concreto,
quali la natura, l'entità e la durata del demansionamento) (23) .
- 5.
Nella sentenza ivi annotata si indicano con particolare attenzione i
parametri cui ancorare la valutazione di equità (24) : oltre alla
retribuzione mensile vengono elencati i criteri della perdita di
opportunità di carriera (anche presso altre realtà produttive, specie
nei casi di qualifiche a livello medio-alto); della posizione gerarchica
perduta cui possono essere connessi il danno all'immagine e la sofferenza
psico-fisica del lavoratore; della durata della dequalificazione
professionale (25) ; dell'età del lavoratore, dell'elemento psicologico
della condotta del datore di lavoro.
- In
altre sentenze sono stati indicati: la specificità e le caratteristiche
della prestazione lavorativa oggetto del contratto di scrittura artistica,
oltre che il grado di notorietà acquisito dal lavoratore (26) ; oppure la
verifica in concreto del contenuto professionale delle mansioni
attribuite, senza fermarsi al dato formale del riferimento ad un certo
livello di inquadramento (27) . Nella maggior parte dei casi il parametro
del risarcimento viene correlato all'entità della retribuzione (28) .
- 6.
Infine, i giudici ritengono che "utili strumenti di riferimento
possono essere suggeriti al giudice dalla contrattazione collettiva -ove
applicabile e ritualmente acquisita al processo- che in certi settori,
prevede l'istituzione di comitati paritetici, con funzioni di garanzia e
prevenzione del conflitto".
- Sul
ruolo della contrattazione collettiva si è espressa la dottrina con
opinioni contrastanti: taluni Autori hanno proposto una "penale"
rapportata alla durata dell'illegittima modificazione delle mansioni,
quale misura sanzionatoria di carattere pecuniario, che potrebbe
funzionare quale valido mezzo di coercizione indiretta, sul modello dell'astreinte,
per indurre il datore a riassegnare il lavoratore a mansioni quanto meno
equivalenti a quelle precedenti (29) .
-
- Silvia
BRUZZONE
- Avvocato
in Genova
- [
*] (nota a Cass. sez. lav. 8.11.2003, n. 16792 in MGL 2004, p.
260)
NOTE
- (1)
E' espressamente richiamata Cass. 2 novembre 2001, n. 13580, in "Riv.
giur. lav." 2002, I, 233, con nota di MILLI.
- (2)
Sulla definizione di danno alla professionalità v. Trib. Milano, 10
giugno 2000, in "Or. giur. lav." 2000, 367; Pret. Milano 9
aprile 1998, in "Riv. crit. dir. lav." 1998, 704; Pret. Bologna
8 aprile 1997, in "Lav. giur." 1998, 140, con nota di BOSCATI, Danno
alla professionalità: lesione di un interesse morale di natura
contrattuale; Pret. Milano, 9 dicembre 1997, in "Riv. crit. dir.
lav." 1998, 421, con nota di BOTTANI; Pret. Milano, 11 marzo 1996,
ibidem 1996, 677; Trib. Milano, 16 dicembre 1995, ibidem 1996, 460.
- (3)
Per un'ampia ed accurata disamina della materia, oltre alle osservazioni
critiche, si veda l'opera di MEUCCI, Danni da mobbing e loro
risarcibilità, Roma 2002, 41 e ss.: relativamente alla normativa a
tutela della professionalità e alla risarcibilità dei danni. Cfr. anche
LANOTTE, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino
1998, 205 ss.; MONTUSCHI, Rimedi e tutele nel rapporto di lavoro,
in "Dir. rel. ind." 1997, n. 1, 3 e ss.; SCOGNAMIGLIO, Danno
biologico e rapporto di lavoro subordinato , in "Arg. dir. lav."
1997, 31; MONTUSCHI, Problemi del danno alla persona nel rapporto di
lavoro, in "Riv. it. dir. lav." 1994, I, 317.
Sulla tutela risarcitoria, fra gli altri, Pedrazzoli (a cura di), Danno
biologico e oltre. La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del
lavoratore, Torino 1995; DI MAJO, Tutela risarcitoria,
restitutoria, sanzionatoria, in Enc. giur. Treccani, vol.
XXXI, Roma 1994, 2 ss.; GHERA, Le sanzioni civili nella tutela del
lavoro subordinato , in "Giorn. dir. lav. rel. ind." 1979,
311.
- (4)
Così la già citata sentenza del Trib. Milano, 10 giugno 2000, e sempre
recentemente Trib. Milano, 12 marzo 2001, in "Or. giur. lav."
2001, 43; Corte d'Appello Milano, 10 giugno 2000, in "Lav. giur."
2000, 1170.
Lo stesso Tribunale di Milano, con sentenza del 16 ottobre 1998, in
"Or. giur. lav." 1998, I, 912, ha precisato che "il danno
da dequalificazione è cosa diversa dalla dequalificazione. Questa indica
la violazione del dovere, quella l'effetto lesivo che la dequalificazione
produce su un bene protetto dall'ordinamento. [...] la violazione di un
dovere non equivale a danno: questo non può essere dedotto
-automaticamente- dalla violazione del dovere. Secondo i principi, occorre
l'individuazione di un effetto della violazione su un determinato
bene".
Cfr. Pret. Milano, 28 marzo 1997, in "Riv. crit. dir. lav."
1997, 791; Trib. Milano, 11 gennaio 1996, ibidem 1996, 741, con nota di
TAGLIAGAMBE; Trib. Milano, 9 novembre 1996, ibidem 1997, 361. Secondo
Trib. Milano, 26 novembre 1993, in "Dir. prat. lav." 1994, 1416,
"Il lavoratore ha l'onere di provare non solo il danno ed il nesso di
derivazione di questo dalla dequalificazione, ma anche l'effettività di
quest'ultima".
Fra le pronunce più datate Pret. Milano, 21 gennaio 1992, in "Riv.
giur. lav." 1993, II, 94 con nota di BIANCA, Pret. Roma, 3 ottobre
1991, in "Riv. crit. dir. lav." 1992, 390, con nota di MUGGIA, Dequalificazione,
inattività e danni risarcibili; Trib. Potenza, 5 giugno 1991, in
"Giur. mer." 1993, 527; Pret. Milano, 28 dicembre 1990, in
"Riv. it. dir. lav." 1991, II, 388 con nota di PERA; Pret.
Saronno, 8 settembre 1987, in "Or. giur. lav." 1987, 879.
- (5)
Cass. 11 agosto 1998, n. 7905, in questa rivista 1998, 90; Cass. 4
febbraio 1997, n. 1026, ibidem 1997, 22; Cass. 18 aprile 1996, n. 3686, in
"Riv. giur. lav." 1996, I; Cass. 26 gennaio 1993, n. 931, in
"Riv. it. dir. lav." 1994, II, 149, con nota di PIZZOFERRATO;
Cass. 16 marzo 1992, n. 3213, in "Not. giurisp. lav." 1992, 493;
Cass. 13 agosto 1991, n. 8835, in "Riv. it. dir. lav." 1992, II,
954, con nota critica sull'orientamento espresso dalla Corte di FOCARETA, Sottrazione
di mansioni e risarcimento del danno
- (6)
Così PISANI, La modificazione delle mansioni, Milano 1996, 231.
Hanno approfondito lo studio dell'art. 2103 c. c., anche IANNI, Il
cambiamento delle mansioni e la mobilità interna , Padova 2001, 125;
GIAMMARIA, Osservazioni in tema di mutamento di mansioni e tutela
della professionalità, in "Dir. lav.", 1995, I, 507;
BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e
trasferimento. Art. 2103 , in Il Codice civile. Commentario
diretto da P. Schlesinger, Milano 1997, 256 ss.
Sull'obbligo del lavoratore di fornire la prova del pregiudizio subito v.
VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del
lavoratore, Padova 1995, 106; SCOGNAMIGLIO, Risarcimento del
danno , in Noviss. dig.it., vol. XVI, Torino 1967, 7 ss.
- (7)
MUGGIA, Dequalificazione, inattività e danni risarcibili, cit.,
391.
- (8)
Sull'obbligo di risarcire il danno indipendentemente dalla prova, ex art.
1218 c. c., si vedano: Trib. Milano, 30 maggio 1997, in "Riv. crit.
dir. lav." 1997, 789; Pret. Bologna, 8 aprile 1997, cit.; Pret.
Milano, 28 marzo 1997, in "Or. giur. lav" 1997, 791; Pret.
Milano, 7 gennaio 1997, ibidem 1997, 59, con nota di VETTOR, Violazione
dell'art. 2013 c. c. e risarcimento del danno professionale; Pret.
Milano, 26 agosto 1996, ibidem 1996, 825; Pret. Napoli, 10 ottobre 1992,
in "Foro it." 1993, I, 2883.
- (9)
Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299, in "Riv. crit. dir. lav."
1993, 315, con nota di MUGGIA, Lottizzazione, diritti della persona e
danni risarcibili.
- (10)
Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727, in "Lav. giur." 2000, 244, con
nota di MANNACIO e in "Resp. civ. prev." 2000, 629, con nota di
DEL CONTE, La figura giurisprudenziale del "danno da
demansionamento": il problema delle fonti e della prova.
- (11)
MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 85. Per le
opinioni espresse dallo stesso Autore sulla sentenza citata si consiglia
anche la lettura di: Il carattere immanente del danno da
dequalificazione, in "Lav. prev. oggi" 1999, 2342; Immanenza
del danno da demansionamento: riconferma delle vecchie certezze,
ibidem 2000, 2192.
- (12)
Così PAPALEONI, Danno da demansionamento, in questa rivista
1999, 1368 (nota a Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727), secondo cui:
"l'eventuale ricorso alla liquidazione equitativa è operabile solo
quando la lesione del diritto si concreti in un danno professionale
conseguente alla dequalificazione con riflessi sulla persona del
lavoratore, e non in uno specifico danno retributivo connesso al
trattamento erogato per le prestazioni svolte e sempre che il lavoratore
fornisca la prova dell'effettiva sussistenza di tale danno, la quale
costituisce il presupposto indispensabile anche per una liquidazione
equitativa onde consentire che l'apprezzamento equitativo sia per quanto
possibile limitato e ricondotto alla sua caratteristica funzione di
colmare soltanto le inevitabili lacune al fine della precisa
determinazione del danno".
- (13)
MORONE, Demansionamento del lavoratore e tutela risarcitoria del danno
alla professionalità, in "Or. giur. lav." 1999, I, 913
(nota a Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727): "la teoria secondo la quale
il danno sarebbe in re ipsa finisce per incrementare le già consistenti
incongruenze riscontrabili nell'ambito del dibattito sulla tutela dei
diritti della persona nel contratto di lavoro, ancorché non sia mancato
chi ha segnalato tale approdo interpretativo come l'esito inevitabile e
indispensabile per una giurisprudenza che non vuole ammettere che la
lesione di un bene tutelato da una norma imperativa possa restare senza
sanzione (SCARPELLI, Dimensione contrattuale del rapporto di lavoro,
responsabilità datoriale per la modifica delle mansioni, ruolo del
giudice , in "Riv. crit. dir. lav." 1997, 717). Se,
tuttavia, alla progressiva espansione del novero delle posizioni
soggettive tutelate sotto la voce professionalità si accompagna una
riconduzione quasi meccanicistica del risarcimento alla violazione
dell'obbligo contrattuale ed una relativa quantificazione del danno
operata senza effettivi riscontri probatori, si comprende come il rischio
che si corre sia quello del sacrificio della trasparenza dei percorsi
ricostruttivi di volta in volta adottati per risalire alla responsabilità
e alla quantificazione dell'indennizzo, nonché della loro scarsa coerenza
rispetto ai principi generali in tema di inadempimento contrattuale".
- (14)
Cass. 6 novembre 2000, n. 14443, in "Lav. prev. oggi" 2000,
2287. Sull'onere probatorio della lesione alla c. d. professionalità
oggettiva: MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit.,
97 ss. e ID., Vecchie certezze e nuove riconferme sulla immanenza del
danno da demansionamento, in
www.dirittolavoro.altervista.org/demansionamento_nuovo.html.
Cfr. sull'immanenza del danno da dequalificazione, Cass. 7 luglio 2001, n.
9228, in "Riv. crit. dir. lav." 2001, 999 e Cass. 23 ottobre
2001, n. 13033, inedita.
V. anche Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, in questa rivista 2002, n. 7, 430:
"il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui
all'art. 2103 c. c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla
libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro,
determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che
lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione in via equitativa.
L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente
collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente
sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e
integra la precedente affermazione che la mortificazione della
professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove
venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno
patrimoniale (Cass. n. 7905/1998, n. 1026/1997)".
Per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Treviso, 13 ottobre 2000, in
"Lav. prev. oggi" 2000, 2324; Trib. Milano, 22 febbraio 2000, in
"Riv. crit. dir. lav." 2000, 446.
- (15)
Così SALVATORI che, con nota critica a Cass. 6 novembre 2000, n. 14443,
in "Dir. lav." 2001, II, 300, ha, fra l'altro, specificato:
"per quanti sforzi si facciano, infatti, la dequalificazione altro
non è -nel suo contenuto essenziale- che riduzione di mansioni,
impoverimento del contenuto professionale della prestazione del
lavoratore, e nulla ha a che vedere con la dignità del lavoratore.
L'unico diritto che essa lede automaticamente, è quello sancito dall'art.
2103 c. c.: ossia il diritto del lavoratore di svolgere le mansioni
contrattualmente spettantigli. Stravolgere questo dato di fatto, per
affermare invece che la dequalificazione professionale pregiudichi sempre
anche la dignità e la personalità del lavoratore, sulla scorta non di
dati empirici, ma della astratta affermazione che la sua
sottoutilizzazione lo umilierebbe e gli impedirebbe di esplicare
pienamente la propria personalità sul luogo di lavoro, frustando la
particolare tutela attribuita al "valore uomo in quanto tale"
dalla nostra Carta costituzionale, significa attribuire alla
dequalificazione professionale una carica offensiva che nella realtà non
ha, e costruire un inadempimento nel quale la prova del fatto illecito si
considera raggiunta in presenza non della prova dell'avvenuta violazione
del precetto normativo, bensì in presenza di una condotta solo
potenzialmente lesiva del medesimo, e nel quale l'evento di danno perde
qualsiasi contenuto concreto, risolvendosi nell'affermazione giudiziale
dell'incompatibilità di una condotta (la dequalificazione) con un
determinato precetto giuridico (art. 41 Cost.). Il danno da risarcire
consisterebbe cioè non nella diminuzione di valore del bene protetto (tant'è
che si nega la necessità della prova del pregiudizio), ma nell'illiceità
della condotta in sé, nella sua antigiuridicità, da sola sufficiente a
far scattare la sanzione risarcitoria indipendentemente dall'esistenza di
una perdita da eliminare o di un depauperamento da reintegrare".
L'A. evidenzia "i limiti di una tesi che, avendo rinunciato alla
prova dell'evento lesivo, è inidonea a selezionare correttamente gli
eventi meritevoli di tutela" e conclude che "la lesione di
diritti della personalità (così come di diritti a contenuto
patrimoniale) non può mai essere presunta; e che, perciò, anche nel caso
della dequalificazione professionale la strada da seguire è una sola:
quella di pretendere dal lavoratore, sempre, la prova dell'avvenuta
lesione di tale diritti, verificando caso per caso se la condotta del
datore abbia inciso o meno sui beni protetti dall'ordinamento e se il
lavoratore sia stato limitato o meno nel loro godimento".
- (16)
Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 e Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, in
"Lav. giur." 2002, 1077.
- (17)
Così RONDO, Aspetti problematici del giudizio equitativo per la
definizione del ristoro dei danni da dequalificazione, commento nel
commento, alle sentenze citate nella nota n. 16, in "Lav. giur."
2002, 1083.
- (18)
Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in "Lav. prev. oggi" 2002, 1179,
con nota di MEUCCI, Ancora sul demansionamento. Ulteriori insistenze
sulla prova del pregiudizio alla professionalità ormai considerato
immanente, 1042 ss.
- (19)
Cass. 12 novembre 2002, n. 15868, in "Guida dir." 2003, 2, 63.
- (20)
Sul principio secondo cui "la negazione o l'impedimento allo
svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale,
ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione
della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando
un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione
dell'interessato, con un'indubbia dimensione patrimoniale che rende il
pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche
in via equitativa" v. Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, cit.; Cass. 22
febbraio 2003, n. 2763, inedita.
- (21)
Sul danno esistenziale da pregiudizio alla professionalità e prova per
presunzioni si veda l'interessante articolo di MEUCCI, Il danno
esistenziale nel rapporto di lavoro, in
www.dirittolavoro.altervista.org/danno_esistenziale.html
- (22)
Cass. 27 agosto 2003, n. 12553, inedita.
- (23)
Cass. 4 giugno 2003, n. 8904, inedita.
- (24)
RONDO, op. cit., 1086; OCCHIPINTI, MIMMO, Mansioni superiori e
mansioni equivalenti, Milano 2002, 175 ss.
- (25)
Sulla durata v. Trib. Milano 30 maggio 1997, in "Riv. crit. dir. lav."
1997, 789.
- (26)
Così Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, cit.; Cass. 10 aprile 1996, n. 3341, in
"Riv. it. dir. lav." 1997, II, 66, con nota di CALAFA'.
- (27)
Cass. 22 aprile 1995, n. 4561, in "Lav. giur." 1995, 1059.
- (28)
Così Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, cit.; Corte d'Appello 21 giugno 2001,
in "Riv. crit. dir. lav." 2001, 1007; Trib. Milano, 24 gennaio
2000, in "Lav. giur." 2000, 569; Trib. Milano, 26 aprile 2000,
in "Riv. crit. dir. lav." 2000, 750 con nota di PAVONE, Illegittima
dequalificazione: le "voci" di danno, l'accertamento e la misura
del risarcimento; Trib. Milano, 10 giugno 2000 cit.; Trib. Roma, 12
ottobre 1998, in "Riv. crit. dir. lav." 1999, 167. Cass. 14
novembre 2001, n. 14199, cit.; Cass. 17 marzo 1999, n. 2428, in
"Mass. giur. civ." 1999, 587; Cass. 10 aprile 1996, n. 3341 cit.
- (29)
Così BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., 272-273.
"La penale potrebbe conseguire un risultato simile a quello
perseguito dalla giurisprudenza, utilizzando la tecnica del risarcimento
del danno, eludendo alcuni rischi: ad esempio, in tema di prova (con una
penale sganciata dalla verifica in concreto) e di quantificazione del
danno demandando tale compito alla contrattazione collettiva"; cfr.
anche BOSCATI, commento a Pret. Bologna, 8 aprile 1997, in "Lav. giur."
cit., 150-151; PISANI, La modificazione delle mansioni, cit.,
233. Contra CARINCI, Una prospettiva: dal risarcimento all'inibitoria,
in Pedrazzoli (a cura di), Danno biologico ed oltre, cit., 188
ss.