Demansionamento per esproprio di competenze, aziendalmente legittimato

1.    La decisione della Pretura di Roma (del 1 aprile 1999, est. Vincenzi, integralmente riportata in Lavoro e Previdenza Oggi, n.6/2000, p. 1238, in causa Mazzocchi c. Gruppo editoriale l’Espresso, divisione "La Repubblica") che qui si commenta rivela – sia pure tramite l’asetticità della prosa del magistrato estensore, l’equilibrio e le doti di misura in essa riscontrabili – una fattispecie piuttosto intuitiva, evidente ed emblematica d'accantonamento (da parte della nuova gestione del convenuto quotidiano) di una matura e ben qualificata professionalità in campo giornalistico, invece apprezzata dalla precedente gestione che, per i suoi meriti, l’aveva gratificata con il conferimento del trattamento economico di vice capo redattore.

Per necessaria comprensione del lettore (in assenza della sentenza in questa sede omessa) ne riferiamo la massima che così recita: "Configura danno all’immagine professionale del giornalista inviato speciale la rarefazione fino alla scomparsa della firma di articoli nel settore di competenza specifica ventennale, a seguito di esautoramento per assegnazione da parte dei responsabili aziendali degli incarichi di sua tradizionale competenza ad altra collega neo assunta al quotidiano direttamente dal Direttore. Il giornalista ha, infatti, un interesse sicuramente apprezzabile all’esecuzione della prestazione perché la sua autorevolezza e capacità di informare vengono seriamente pregiudicate quando egli non può esercitare o esercita in modo estremamente ridotto la professione, così come viene pregiudicata la sua capacità raccogliere informazioni che dipende direttamente dalla rete di relazioni che lo stesso è in grado di crearsi, cosicché tali relazioni, se non coltivate continuamente,(come nella fattispecie), si allentano inesorabilmente. Alla violazione dell’art. 2103 c.c., per accertata dequalificazione professionale, consegue l’ordine per la società convenuta di riassegnare il giornalista alle mansioni originarie o ad altre equivalenti e la condanna al risarcimento di danno all’immagine professionale, liquidabile equitativamente, in misura di una mensilità netta di retribuzione moltiplicata per i 27 mesi di demansionamento".

E’ la storia che si ripete, quando ci si avvicina o si raggiunge l’età dei 50 anni, dopo un rapporto di lavoro durato oltre venti o trent’anni, caratterizzato dallo spiegamento di una professionalità per così dire neutra e non asservibile: c’è sempre qualcuno che scopre che questo tipo di professionalità ha oramai fatto il suo tempo in quanto non è funzionale alle esigenze della (nuova) "flessibilità"e della (vecchia e sempre apprezzata) "disponibilità" che invece si scoprono (in) e vengono messe in luce da altri soggetti "rampanti" che vengono preferiti, agevolati, favoriti nella costruzione di una rapida carriera, realizzabile e realizzata calpestando impunemente diritti ed aspettative di altri che hanno solo il demerito di non essere più giovani, ai quali si ritiene legittimo e naturale sottrarre, erodere, espropriare competenze consolidate, mansioni di ultradecennale pertinenza, ruoli rivestiti, con effetti di pregiudizio per la professionalità e l’immagine interna ed esterna, sovente accompagnati da incisivi danni alla stato di salute psico-fisica.

Quando poi gli "espropriati" – in omaggio alla dignità ed al rispetto di se stessi che li caratterizza – decidono di chiedere giustizia, si assiste al tradizionale, consunto, stereotipo processuale della difesa aziendale di ribaltare sulla "vittima" la responsabilità della dequalificazione o dell’inattività nella quale si è stati confinati. Confidando in un clima omertoso aziendale, nella latitanza dei colleghi e nella disponibilità alla compiacente e talora addirittura falsa testimonianza dei preposti (in posizioni di rappresentanza dell’azienda) o di colleghi che intendono acquisire "meriti e crediti" dall’azienda – elementi che, grazie al rigido onere probatorio incombente ex art. 2697 c.c. su chi adduce la discriminazione o addebita le vessazioni, hanno sovente portato le vittime alla soccombenza giudiziale – la difesa aziendale prospetta al magistrato adito, quali cause dirette della lamentata dequalificazione o inattività, la "mancanza di iniziativa" dell’emarginato, gli "impegni extralavorativi " che non gli consentivano di essere pienamente partecipe della vita aziendale, le varie "distrazioni" ora individuate nell’impegno pubblicistico ora nella partecipazione a trasmissioni televisive ora a convegni, ora in impegni di natura sindacale o di rappresentanza in seno ad enti ed istituzioni.

Se alla vittima manca la solidarietà di qualche teste (sulla cui correttezza ed onestà faceva affidamento) e se si imbatte in un magistrato che, anche una volta accertata la veridicità delle "vessazioni", dopotutto le ritiene superficialmente riconducibili alla categoria delle normali "beghe da competizione" tra colleghi in azienda, il gioco è fatto e la strategia aziendale di "mobbing" (orizzontale e verticale) non solo ha il sopravvento fattuale ma riceve addirittura la legittimazione giudiziale. Se la vittima non è già caduta in sindrome depressiva o in stati d’ansia in diretta conseguenza delle frustrazioni correlate al demansionamento, saranno le risultanze giudiziali negative a dare il via al libero sfogo delle patologie psichiche e somatiche ed il demansionato o "mobbizzato" passerà dalla fase della distruzione della vita di lavoro, alla fase della "catastrofe emotiva" generalizzata ed onnicomprensiva che gli avvelenerà ed affliggerà l’intera esistenza, la vita familiare e quella di relazione e che, se disgraziatamente si innesta su una personalità non solida, determinerà non solo pensieri ma tentativi concreti di suicidio, come documentano le indagini internazionali effettuate dagli studiosi di "mobbing".

2.    Ciò detto in linea astratta e di carattere generale, tornando alla fattispecie della giornalista, inviato speciale, specializzata in diversi ambiti settoriali ma eminentemente in quello della "cronaca e politica giudiziaria", risulta meritevole di essere evidenziata la considerazione di principio effettuata dal Pretore – che come noi ha ritenuto non poter prestar fede alle deposizioni dei testi di parte convenuta, evidenziandone le immanenti contraddizioni, in presenza di testimonianze e di prove documentali di segno opposto - secondo cui: "Occorre evidenziare che il giornalista ha un interesse sicuramente apprezzabile all’esecuzione della prestazione perché la sua autorevolezza e capacità di informare vengono seriamente pregiudicate quando egli non può esercitare o esercita in modo estremamente ridotto la professione. Così la capacità del giornalista di raccogliere informazioni dipende dalla rete di relazioni che lo stesso è in grado di crearsi e tali relazioni, se non coltivate continuamente, come nella fattispecie, si allentano inesorabilmente. Risulta, pertanto, acclarato che, nella fattispecie, il Gruppo Editoriale l’Espresso – divisione La Repubblica, ha violato l’art. 2103 c.c., considerata sia la progressiva riduzione dell’attività della ricorrente nella redazione di articoli affidati nel corso degli ultimi due anni, essendo stata di fatto sostituita dalla collega Milella, sia l’impoverimento del contenuto degli articoli richiesti, tale da non consentire l’utilizzo del livello di conoscenza acquisito dalla Mazzocchi nella pregressa fase del rapporto. Appare dunque evidente il danno subito dalla ricorrente alla sua immagine professionale (particolarmente importante nel settore giornalistico), atteso che la sostanziale scomparsa negli ultimi due anni della sua firma sul giornale, se si esclude qualche articolo di routine, e la contemporanea, crescente, presenza degli articoli scritti da Liana Milella nel medesimo settore di sua tradizionale competenza ha certamente suscitato delle considerazioni negative sulla professionalità della ricorrente da parte dei lettori del quotidiano, abituati da anni alla presenza costante degli articoli di "giudiziaria" redatti dall’inviato speciale Mazzocchi."

Avendo poi constatato il Pretore che – a differenza di quanto sostenuto dal convenuto quotidiano - gli articoli da pubblicare non dipendevano dalla discrezionale iniziativa del giornalista inviato speciale ma che la "distribuzione degli incarichi spettava alla direzione ed ai capi redattori, i quali decidono quali articoli debbono essere scritti e chi li deve fornire, a seconda delle fonti di conoscenza possedute dal giornalista", il magistrato ha correttamente attribuito la rarefazione della firma sul giornale da parte della ricorrente ad una scelta aziendale di non commissionargli articoli, richiedendoli invece alla collega oggetto di preferenza, e quindi di "accantonarla", con conseguente riconducibilità all’azienda ed ai suoi preposti della di lei sostanziale inattività o dequalificazione in articoli di mera routine e del correlativo danno all’immagine professionale.

Il danno – una volta riscontrato il demansionamento – è stato considerato sussistente "in re ipsa", in quanto il degrado d’immagine professionale è stato immanentemente – quanto correttamente - ritenuto discendere dalla mancata (o vistosamente ridotta) apparizione della firma della ricorrente sul quotidiano, nel settore della "giudiziaria".

Può infatti considerarsi superato – o quanto meno errato, per la pretesa di sottoporre il lavoratore ad una "probatio diabolica" che in nient’altro si risolve che nella negazione dei suoi diritti - quell’orientamento, invero affermatosi eminentemente (rectius, esclusivamente o quasi) in relazione all danno biologico, richiedente al lavoratore l’onere della prova per i danni rivendicati alla professionalità o all’immagine o di tipo esistenziale. Mentre si conviene che la regola del rigido onere probatorio debba essere fatta valere per il danno biologico, cioè a dire per le lamentate afflizioni dello stato di salute – prova fornibile agevolmente tramite certificazione sanitaria di parte o riscontro ad opera di Consulenza Tecnica d’Ufficio, attinente anche alla dimostrazione del nesso eziologico o di causalità fra danni alla salute e comportamento omissivo o colposo datoriale – la prova del degrado alla professionalità è immanente al mancato esercizio delle mansioni qualificanti di propria competenza (così come il pregiudizio d’immagine interno ed esterno). Non si riesce infatti ad ipotizzare quale prova dovrebbe fornire, per certificare il degrado alla professionalità o il pregiudizio d’immagine, il soggetto demansionato o ridotto in stato di inattività per anni, se non quella – impossibile ed inottenibile – di farsi attestare da un’azienda o società di selezione (cui dovrebbe essersi rivolto per una nuova occupazione e dalle quali è stato scartato o gli sono stati preferiti altri), che è stato riscontrato "obsoleto" a causa di inesercizio di attività, mancato aggiornamento nelle nuove tecniche gestionali e simili, conseguente al demansionamento praticato in precedenza da altri. Quando mai e chi mai rilascerebbe una simile testimonianza, attestato o certificazione?

E’ invece intuitivo che dal mancato esercizio di attività intellettuali, gestionali e tecniche – che consentono con la trattazione e la soluzione concreta dei problemi quotidiani non solo il mantenimento del preesistente livello di professionalità ma necessariamente il suo affinamento – non può che discendere "decadimento" o "degrado" di professionalità, senza necessità alcuna di prove specifiche, inimmaginabili in teoria quanto inattuabili in pratica.

In questo stesso senso di è orientata, da ultimo, Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727 (in Lavoro e Previdenza Oggi, 1999, 2342, con nostra nota dal titolo, Il carattere immanente del danno da dequalificazione, ed ivi anche citazioni e riferimenti al contrario orientamento in via di superamento) secondo la quale: "il danno da demansionamento professionale di un lavoratore…non si identifica con un pregiudizio unico ed immediato – come potrebbe essere, ad es., per quella parte relativa alla maggior sofferenza nell’espletamento delle inferiori mansioni – ma si risolve in un effettivo, concreto ed inevitabile ridimensionamento dei vari aspetti della vita professionale, che costituisce a sua volta bagaglio peggiorativo diretto ad interferire negativamente nelle infinite espressioni future dell’attività lavorativa". Ed a conferma della immanenza del danno alla professionalità a seguito di dequalificazione, in violazione dell’art. 2103 c.c., la decisione della Cassazione in questione richiama il precedente conforme di Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299 (in Foro it. 1993,I, 2883 e in Riv. crit. dir. lav. 1993,315), asserendo che "esattamente ‘in thema’ questa Corte si è così espressa nella ipotesi di demansionamento nel settore giornalistico…" affermando che " …assume prioritario rilevo l’esigenza che sia risarcito il pregiudizio subito dal lavoratore in conseguenza di una dequalificazione che oltre ad essere in violazione del diritto alla qualifica di cui all’art. 2103 cod. civ., sia anche il risultato di un fatto, per altro verso, già di per sé ingiusto e lesivo di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, in quanto cittadino. Ne consegue che un fatto come quello in esame, che si incentra (in sostanza) prima ancora che sulla qualifica, sul ‘vulnus’ alla personalità ed alla libertà del lavoratore-giornalista, contiene oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo d carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica. Quindi il danno va risarcito: questo è l’essenziale, che, cioè, un risarcimento (la cui misura va fissata dal giudice del rinvio, che, ove ne ricorrano le condizioni, potrà procedere anche con il ricorso al criterio di cui all’art. 1226 c.c.) vi deve essere , perché resti tutelata l’esigenza del libero svolgimento dell’attività lavorativa e della salvaguardia della personalità del lavoratore".

Anche il Tribunale di Roma, sez. IV - in veste di giudice unico del lavoro di primo grado – nella decisione del 4 aprile 2000 (est. Buonassisi, Bellumori c. Telecom SpA, in Guida al lavoro, n.21/2000, pag. 28) si è conformato all’orientamento più recente della Suprema corte, asserendo che "Il demansionamento, inteso quale privazione delle mansioni o svuotamento del loro contenuto, costituisce un danno in sé,… Gli stessi principi non possono essere estesi al danno biologico, o alla salute, rispetto ai quali è il lavoratore a dover provare in modo specifico il danno subito e il nesso causale con la condotta datoriale" (nello stesso senso, per il riconoscimento che il danno da dequalificazione è "in re ipsa" si è espresso in maniera consolidata un anteriore orientamento di merito costituito da Pret. Milano 21 gennaio 1992, in Riv. crit. dir. lav 1992,417; Pret. Roma, 25 marzo 1988, in Riv. giur. lav. 1989,II,160; Trib. Roma 28 febbraio 1990, in Lav. 80 1990, 659; Pret. Milano 8 aprile 1993, in Riv. crit. dir. lav. 1993,659; Pret. Milano 28 marzo 1997, in Riv. crit.dir.lav. 1997, 791; Pret. Milano 9 aprile 1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 704).

Aderendo poi al criterio di liquidazione equitativa – ex artt. 1226, 2056 c.c. e 113 e 432 c.p.c - del danno alla professionalità ed all’immagine (per una trattazione approfondita ci sia ancora consentito rinviare al nostro articolo titolato, Ancora sul risarcimento del danno alla professionalità e del danno biologico, in Lavoro e Previdenza Oggi 1999, 1742), il Pretore, individuata la durata del demansionamento in 27 mesi, adotta quale parametro "una mensilità netta di retribuzione" (moltiplicata per i 27 mesi di durata della dequalificazione), con l’effetto di liquidare oltre 173 milioni di indennizzo risarcitorio.

Anche sul punto specifico esprimiamo la nostra condivisibilità sull’adozione di un parametro che la giurisprudenza più recente ha tentato di ridimensionare al ribasso, non solo perché i danni ai diritti inviolabili della personalità debbono essere risarciti congruamente – mutuando quel rispetto tipico dei Paesi anglosassoni che non sembra essersi fatto ancora strada presso la maggioranza delle aule di giustizia del nostro Paese – ma anche perché l’indennizzo non deve solo possedere carattere intrinscamente risarcitorio ma deve caratterizzarsi di una valenza "dissuasiva" e di un carattere di "deterrenza" idonei a scoraggiare la reiterazione delle pratiche vessatorie e dei comportamenti inadempienti, eminentemente da parte di soggetti, enti ed aziende che si possono permettere di sanare "mettendo mano agli spiccioli del ricco portafoglio" i danni più incisivi ed offensivi per la dignità dei lavoratori, per le frustrazioni ed i pregiudizi talora irreversibilmente inflitti alle loro umane aspettative ed ambizioni di realizzazione nella vita di lavoro.

Comunque, nel panorama di merito, il ricorso al parametro dell’integrale mensilità di retribuzione per ciascun mese compreso nell’intero periodo di demansionamento – in aggiunta alla retribuzione corrente – non costituisce assolutamente una novità (semmai una riaffermazione, a fronte di incomprensibili tendenze riduttive), essendosi in tal senso espressa una nutrita giurisprudenza, tra cui Pret. Milano 17 giugno 1993, in Or. giur. lav., 1993, p. 821; Pret. Milano 8 aprile 1993 in Riv. crit. dir. lav., 1993, p. 659; Pret. Milano 20 agosto 1990, in Or. giur. lav., 1991, p. 14; Pret. Milano 28 dicembre 1990, in Riv. it. dir. lav. 1991, II,338 (con nota di Pera ); Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Lav. 80, 1990, p. 144, e molte altre.

3.     Correttamente il magistrato, riscontrato il demansionamento in violazione dell’art. 2103 c.c., ha ordinato all’azienda la riassegnazione alla ricorrente delle mansioni di sua specifica competenza o di altre dotate dei requisiti dell’equivalenza, intesa nel senso di consentire la conservazione del pregresso patrimonio di professionalità ed il suo affinamento e perfezionamento, al fine di evitare la dispersione di un patrimonio "collettivo" di professionalità, nell’interesse generale.

C’è tuttavia da osservare e portare a pubblica conoscenza - come è ben noto a noi che collaboriamo ad un sito finalizzato alla lotta contro il mobbing, l’emarginazione ed il disagio sociale nell’ambiente di lavoro - che l’ordine giudiziale sovente non equivale a cessazione del trattamento vessatorio, dequalificante e discriminante sanzionato giudizialmente. Molte aziende non si adeguano all’ordine giudiziale – pur in presenza dell’art. 388 c.p. che sanziona la "mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice" – e pongono in atto soluzioni defatiganti ed ostruzionistiche alla rimozione (anche per psicologica resistenza) dei meccanismi escogitati per strutturare la precedente strategia "vessatoria ed emarginante" a danno del mobbizzato o del demansionato.

Nel sito Internet "La punta dell’iceberg" in cui siamo impegnati nella lotta al "mobbing", ci sono giunte molte testimonianze di questa forma di "revanchismo" aziendale o individuale (comunque sempre avallato dai responsabili aziendali), l’ultima delle quali è costituita dalla lettera e-mail che, per significatività, riproduciamo al lettore. Scrive un mobbizzato che ha avuto l’ardire di adire il tribunale amministrativo regionale contro le "prevaricazioni", i "soprusi", la negazione di ruolo e delle mansioni ad opera di un suo preposto: "Sapevo che me l'avrebbe fatta pagare, ma il mio ricorso al T.A.R. per annullare un provvedimento iniquo significava ripristinare condizioni di giustizia. L' ho vinto, ma quale prezzo avrei dovuto pagare non lo poteva immaginare neppure la mia fervida fantasia. Lo scoprii negli anni successivi. Emarginato dal lavoro, dai colleghi, trasferito d'ufficio e relegato in una stanza buia, sporca e mal arredata, che prima era un ingresso secondario. "L'aguzzino" era stato costretto a nominarmi responsabile d'area a seguito del ricorso vinto, ma nessun lavoro mi è stato attribuito e neppure personale. Affinché capissi che non servivo a niente, istituì un ufficio doppione del mio a cui andava tutto il lavoro, solo gli scarti al sottoscritto. Il mio comportamento in ufficio è stato esemplare, sempre in orario, gentile con i colleghi e superiori. Dopo qualche mese mi avvicinarono alcuni colleghi che conoscevo da prima, forse impietositi. Si strinse un rapporto di amicizia che però fu fonte di ulteriore gelosia da parte del "mobber" e così maggiori vessazioni e discredito sulla mia persona. Solo la mia intelligenza mi ha permesso di non impazzire e grazie alla mia fervida fantasia mi sono impegnato in altri settori della vita così da trascorrere il tempo. Già, il passare lento delle ore in ufficio: sono convinto che durino 180 minuti anziché 60. Avevo grandissime gratificazioni per l'impegno profuso fuori dall'ufficio e questo anziché lenire la mia sofferenza l'aumentava. Quel poco di lavoro d'ufficio lo facevo con grande professionalità e successi, ovviamente ignorati dal "mobber". Lentamente il mobbing incominciava a corrodermi dentro. Speravo che ciò non avvenisse ma a lungo andare….Altri fatti si sommano a quelli negativi ed ad essi si aggiungono quasi ad infierire, riducendo le difese immunitarie che ti danno la voglia di vivere, così da perdere ogni risorsa arrivando ad un punto di non ritorno. Certe volte mi sono chiesto perché sono stato mobbizzato. Avevo un buon rapporto con il mio futuro "mobber", l'avevo aiutato a capire procedure burocratiche a lui sconosciute e poi non potevo insidiare la sua carriera. Solo ora ho capito che la mia cordialità e il mio aiuto verso il prossimo può anche portare a gelosie latenti che vengono messe in luce quando si sono superate le difficoltà. Oggi le cose non sono cambiate. Il tempo si è fermato 5 anni fa. Il "mobber" non c'è più, è stato defenestrato ma chi gli è subentrato ha acquisito l'eredità lasciata e senza motivazioni si continua nel mobbing. Vallo ora a spiegare in giro che tu non hai nessuna colpa del tuo stato di riconferma di mobbizzato. Possibile che tutti si accaniscano contro di te ? E' questo il pensiero di chi ti sta attorno anche se non te l' ha mai detto. Non so se continuerò a lottare. Arrendermi tuttavia significherebbe lasciare la vita perché senza lavoro oggi non si può vivere…".

In questo contesto che si sta sempre più progressivamente affermando in epoca di aggregazioni, fusioni societarie, concentrazioni ed esuberi di personale – con conseguente diffusione degli inutilizzi e degli accantonamenti, molto più comodi degli sforzi di fantasia finalizzati alla ricerca di confacenti e soddisfacenti riallocazioni da parte di gestori delle risorse umane esperti e professionalmente preparati oltre che dotati di senso etico e principi d’imparzialità – giacciono in Parlamento ben sei progetti di legge (il primo sin dal 1996) per la prevenzione e la repressione del "mobbing", in attesa che si trovi il tempo per la loro discussione. Ma, evidentemente, i nostri politici "strapagati" (retributivamente, prima, pensionisticamente, poi) a carico della "collettività", hanno ben altro di cui occuparsi…

Mario Meucci

(pubblicato in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 6/2000, p. 1246)

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