Posto che dalla attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantito dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, e posto che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, promanantesi nella vita professionale e di relazione dell'interessato e avente indubbia natura patrimoniale, è suscettibile, di per sé, di risarcimento, l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice del merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c. c., anche in mancanza della allegazione di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, la liquidazione dovendo essere effettuata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto (1).
Con ricorso del 16 maggio 1991 Georges Pournos conveniva davanti al
Pretore del lavoro di Milano la s.p.a. Panalpina Trasporti Mondiali, della
quale era dipendente, ed esponeva che con sentenza emessa dal medesimo Pretore
di Milano il 6 aprile 1990 e passata in giudicato era stato accertato che nel
periodo dal 1° febbraio 1988 al 30 maggio 1990, durante il quale era stato
disposto prima il suo trasferimento da Milano a Bologna e, poi, da Bologna a
Lucernate di Rho, la società lo aveva adibito a mansioni inferiori a quelle per
le quali lo aveva assunto (quale corrispondente di lingua greca) e, inoltre,
che analogo demansionamento gli era stato imposto anche nel periodo successivo,
vale a dire dal 1° giugno 1990 in poi. Il ricorrente chiedeva, quindi, che la
convenuta, previa declaratoria dell'illegittimo comportamento dalla stessa
posto in essere anche nel secondo periodo, fosse condannata a risarcirgli i
danni da lui subiti in entrambi i periodi.
Instauratosi il contraddittorio, il Pretore con sentenza del 30
ottobre 1991 accoglieva il ricorso e condannava la società Panalpina a pagare
al Pournos, a titolo di risarcimento dei danni, la complessiva somma di L.
20.000.000.
Questa pronuncia, impugnata dalla società Panalpina, veniva
riformata dal Tribunale di Milano con sentenza del 20 ottobre 1993, con la
quale veniva rigetta la domanda proposta dal Pournos.
A seguito di ricorso proposto da quest'ultimo, questa Corte con
sentenza n. 10196 del 18 ottobre 1997 cassava la decisione impugnata e rinviava
la causa al Tribunale di Lodi.
Riassunto il giudizio dal Pournos, il giudice del rinvio, con sentenza del 29 marzo 1999, in
riforma della pronuncia resa nel giudizio di primo grado dal Pretore di Milano,
rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore e
condannava lo stesso a restituire alla società Panalpina la somma di danaro
erogatagli in esecuzione della sentenza appellata, oltre agli interessi al
tasso legale.
Il Tribunale di Lodi osservava, riguardo al primo periodo - in
relazione al quale il demansionamento subito dal lavoratore era stato oggetto
di accertamento con sentenza passata in giudicato - che, non avendo il Pournos
dimostrato in concreto il danno subito, non poteva essere accolta la domanda di
risarcimento, dato che, nella ricorrenza di "una assoluta carenza
probatoria", non poteva essere condiviso "l'automatismo operato in
prime cure" mediante la disposta liquidazione equitativa; e, quanto al
secondo periodo, che dalle deposizioni testimoniali erano risultate smentite le
allegazioni del Pournos circa lo svolgimento di mansioni inferiori a quelle
assegnategli al momento dell'assunzione in servizio.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
Pournos in base a due motivi.
La società Panalpina ha resistito con controricorso.
Con il primo motivo del ricorso il Pournos denuncia la violazione e
la falsa applicazione degli artt. 2909, 2103, 1226 c.c. e il vizio
di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e
sostiene che il Tribunale non avrebbe applicato i principi di diritto più volte
enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno
conseguente al demansionamento subito dal lavoratore, giacché, una volta
definitivamente accertato - con efficacia di giudicato, come aveva rilevato la
Corte di Cassazione nella sentenza n. 10196 del 1997 - che nel periodo dal 1°
febbraio 1988 al 30 maggio 1990 gli erano state attribuite mansioni inferiori a
quelle per le quali era stato assunto, occorreva valutare il comportamento
posto in essere dal datore di lavoro, per verificare se il fatto in sé
dell'assegnazione alle inferiori mansioni, oltre a provocare un concreto
pregiudizio alla sua vita di relazione, avesse causato la lesione dei valori
della sua personalità, in modo da consentire la liquidazione equitativa del
complessivo danno da lui patito.
Questo motivo è fondato.
La censura dedotta dal Pournos, come va subito rilevato per
disattendere la corrispondente eccezione preliminare formulata dalla società
controricorrente, non supera l'ambito del sindacato della Corte
di Cassazione sulla sentenza del giudice del rinvio, ponendosi la stessa,
viceversa, proprio nel solco tracciato dalla precedente pronuncia di
legittimità.
Come si legge in tale pronuncia, il Tribunale di Milano aveva
stigmatizzato l'operato del primo giudice, il quale aveva collegato in maniera
automatica il risarcimento al demansionamento, perché non era stato tenuto
conto del fatto che "non era stata acquisita la prova in ordine alle
effettive mansioni per svolgere le quali il dipendente era stato assunto";
e il Pournos aveva censurato questa motivazione in base al rilievo che il
giudice di appello, "pur riconoscendo che quella pronunciata il 6 aprile
1990 dal Pretore di Milano aveva acquisito forza di giudicato in ordine alla
dequalificazione delle mansioni attribuitegli, ne aveva poi disconosciuto
l'efficacia vincolante ai fini risarcitori, rilevando una presunta
deficienza probatoria relativamente alle mansioni che con il contratto di
assunzione erano state affidate al lavoratore".
Questa censura, come
aveva rilevato la Corte, era fondata, dato che nella precedente sentenza ormai
passata in giudicato il Pretore di Milano, dopo aver individuato tanto le
originarie mansioni assegnate al lavoratore quanto quelle attribuitegli in un
momento successivo, aveva concluso per la non equivalenza delle prime in
relazione alle seconde; sicché, in forza dei principi enunciati dalla
giurisprudenza relativamente alla formazione del giudicato e alla efficacia
oggettiva che ne consegue, il giudice di appello non poteva "rimettere in
discussione sia le mansioni oggetto della assunzione in servizio che quelle
successivamente svolte in occasione dei due precedenti trasferimenti e il
carattere deteriore di queste rispetto alle prime".
Come risulta da
queste argomentazioni e al
contrario di quanto sostiene la società resistente, la doglianza ora
dedotta dal Pournos
è perfettamente aderente al tema
discusso nella precedente sentenza emanata da questa Corte: la cui motivazione
non solo era stata per intero rivolta proprio a sindacare la decisione,
impugnata dal lavoratore, con la quale dal Tribunale di Milano era stata
rigettata la domanda di risarcimento del danno, ma addirittura già conteneva -
a ben vedere, proprio per aver
fatto riferimento all'elemento
oggettivo del demansionamento - i criteri direttivi ai quali il giudice del
rinvio avrebbe dovuto attenersi nella liquidazione del danno (e ai quali, come si vedrà, lo stesso non si
è uniformato).
Ciò premesso, riconosciuta l'ammissibilità della censura, per
rilevarne la fondatezza va richiamata la sentenza n. 13299, emanata da questa
Corte il 16 dicembre 1992, alla quale ha fatto riferimento il Pournos nel
ricorso per cassazione e che, in effetti, ha costituito punto fermo per la
successiva elaborazione giurisprudenziale in tema di conseguenze derivanti
dalla violazione dell'art. 2103 c.c. da parte del datore di lavoro.
In tale sentenza è stato affermato che l'illegittima assegnazione
del lavoratore a mansioni diverse e di minor qualificazione rispetto a quelle
anteriori non solo viola lo specifico divieto posto dalla disposizione di
legge, ma integra la lesione di un diritto fondamentale dello stesso
lavoratore, quale cittadino, in ordine alla esplicazione della sua personalità
anche nel luogo di lavoro - garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione -
con la conseguenza che il pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi
nella vita professionale e di relazione dell'interessato, ha una indubbia
dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui
determinazione può trovare applicazione l'art. 1226 c.c. che consente al
giudice di procedere alla liquidazione del danno con criterio equitativo.
Avuto riguardo a questo fondamentale principio direttivo - sempre
poi interamente recepito, come sopra è stato detto, dalla giurisprudenza di
legittimità (v., fra le altre sentenze, Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727, Cass.
16 novembre 2000 n. 14443 e Cass. 2 novembre 2001 n. 13580) - affetta dai vizi
denunciati dal ricorrente deve essere considerata la motivazione che sorregge
la sentenza impugnata su questo punto della controversia, dato che il Tribunale
di Lodi, venendo meno a quello che era un suo precipuo dovere, non ha compiuto
alcun accertamento in ordine alla lesione del diritto alla esplicazione della
personalità del Pournos nel luogo di lavoro, con riflessi nella sua vita
professionale e di relazione, né ha considerato che la mancata allegazione di
uno specifico elemento di prova diretta in merito al pregiudizio
derivante da tale lesione non valeva ad escludere la valutazione equitativa del
danno.
Per quanto concerne, in particolare, questo secondo vizio che
inficia la sentenza impugnata, è noto che il potere discrezionale assegnato
dall'art. 1226 c.c. al giudice del merito presuppone la ricorrenza di una
duplice condizione e cioè che sia certa l'esistenza del danno e che sia
impossibile o sommamente difficile provarne il preciso ammontare (cfr., fra le
tante sentenze, Cass. 11 febbraio 1998 n. 1382 e Cass. 12 gennaio 1996 n. 188)
e, a tal fine, vanno tenuti presenti i seguenti criteri: a) poiché la
liquidazione equitativa del danno va effettuata soprattutto quando, in
relazione alla peculiarità del fatto dannoso, riesca difficoltosa la precisa
determinazione del pregiudizio subito dal danneggiato, il giudice, pur essendo
tenuto a dare conto degli elementi
di fatto presi
in considerazione per pervenire alla decisione finale, non è però
obbligato a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata del
rapporto di consequenzialità fra gli elementi esaminati e l'ammontare del danno
liquidato, sufficiente essendo che il suo accertamento scaturisca
dall'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e "da
un esame della situazione processuale globalmente considerata" (Cass. 15
gennaio 2000 n. 409 e Cass. 25 settembre 1998 n. 9588); b) la liquidazione
equitativa, proprio riguardo alla specifica materia oggetto del presente
giudizio, deve essere compiuta anche quando sia addirittura mancata la
dimostrazione, in via diretta, dell'esistenza di un effettivo pregiudizio
patrimoniale (Cass. 16 novembre 2000 n. 14443), dato che la prova presuntiva va
ricavata dagli elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento e
dalle altre circostanze del caso concreto (Cass. 2 novembre 2001 n. 13580).
Tenuto conto di tutti questi rilievi, non può essere tenuta ferma
la sentenza impugnata nella parte in cui è stato escluso il risarcimento del
danno derivante dal demansionamento (ormai definitivamente) acclarato nella
sentenza passata in giudicato, avendo il giudice del rinvio, senza svolgere
alcuna indagine in ordine alla concreta lesione patita dall'interessato e in
base a una non attenta lettura della sentenza di annullamento pronunciata da
questa Corte, preteso che da parte del danneggiato venisse fornita la prova rigorosa di un danno il cui ammontare era
sommamente difficoltoso dimostrare.
Con il secondo motivo dell'impugnazione il ricorrente deduce un
ulteriore vizio di violazione di legge (artt. 2909, 2103, 1226 c.c.) e di
motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360,
primo comma n. 3 e 5, c.p.c., e lamenta che il Tribunale di Lodi abbia ritenuto
che fosse carente la prova in ordine all'attuato demansionamento anche nel
secondo periodo (dal 1° giugno 1990 al 16 maggio 1991) . Sostiene il
Pournos che il Tribunale ha lasciato intendere che le successive mansioni erano
inferiori a quelle originarie e che l'errore di fondo che inficia la sentenza
impugnata consiste nell'assunto secondo cui bene aveva fatto la società datrice
di lavoro ad attribuire al lavoratore tali inferiori mansioni
per essere state soppresse quelle in precedenza assegnategli (di traduttore
dalla lingua greca).
Questo motivo non può essere oggetto di esame e di decisione da
parte della Corte, giacché, come bene deduce la società resistente, la
questione relativa al suddetto secondo periodo era ormai preclusa - e sulla
stessa, per conseguenza, non doveva essere svolta alcuna indagine da parte del
giudice del rinvio - non avendo il Pournos a suo tempo censurato davanti a
questa Corte, su questo punto della controversia, la sentenza emessa dal
Tribunale di Milano.
Come risulta dal precedente ricorso per cassazione nonché dal
contenuto della sentenza emessa da questa Corte il 18 ottobre 1997, il Pournos
con il suddetto ricorso aveva investito la sentenza di appello solamente nella
parte in cui era stata rigettata la sua domanda di danni relativa al primo
periodo, ma non aveva dedotto alcuna specifica doglianza riguardo al mancato
riconoscimento del demansionamento per il periodo dal 1° giugno 1990 al
16 maggio 1991: tanto è vero che la Corte nella decisione sopra indicata non
aveva speso alcuna parola per argomentare su tale secondo periodo, avendo
conclusivamente rilevato, a compendio di tutte le considerazioni esposte per
sindacare la decisione impugnata, che, una volta "rilevate le conclusioni
raggiunte con il precedente giudicato, al giudice di appello era inibito
rimettere in discussione sia le mansioni oggetto della assunzione che quelle
successivamente svolte in occasione dei due precedenti trasferimenti e il
carattere deteriore di queste rispetto alle prime".
Pertanto, per effetto della intervenuta preclusione nella
precedente fase del giudizio, il processo su questo punto della controversia
non poteva proseguire davanti al giudice del rinvio, il quale, lungi dal
deciderla nel merito, avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità della
relativa questione dedotta dall'interessato, non più prospettabile, per
conseguenza, con l'impugnazione per cassazione.
Avuto riguardo a tutte le argomentazioni che precedono, in
accoglimento del primo motivo del ricorso e pronunciando sul secondo motivo, la
sentenza impugnata deve essere cassata. La cassazione - in applicazione,
rispettivamente, degli artt. 383, primo comma, e 382, terzo comma, secondo
periodo, c.p.c. - deve essere seguita dal rinvio della causa ad un altro
giudice per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1°
febbraio 1988-30 maggio 1990) e senza rinvio per la parte relativa al secondo
periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991).
Il
giudice del rinvio, che deve essere designato nella Corte di appello di
Brescia, dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: "posto che
dalla attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle assegnategli al
momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione
dell'art, 2103 c.c., ma anche la lesione del diritto fondamentale alla libera
esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantito dagli artt. 1
e 2 della Costituzione, e posto che il pregiudizio correlato a siffatta
lesione, promanantesi nella vita professionale e di relazione dell'interessato
e avente indubbia natura patrimoniale, è suscettibile, di per sé, di
risarcimento, l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal
giudice del merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226
c.c., anche in mancanza della allegazione di uno specifico elemento di prova da
parte del danneggiato, la liquidazione dovendo essere effettuata in base
all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre
circostanze del caso concreto".
Il giudice del rinvio dovrà anche provvedere sulle spese del
presente giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata per la parte relativa al primo periodo del dedotto demansionamento (1° febbraio 1988-30 maggio 1990) e rinvia la causa alla Corte di appello di Brescia. Pronunciando sul secondo motivo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata per la parte relativa al secondo periodo (1° giugno 1990-16 maggio 1991). Il giudice del rinvio pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.
******
(1) Le sentenze citate in motivazione si trovano pubblicate nel sito ed in ogni caso nell’appendice del libro di Mario Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse ed., Roma 2002.
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