Danno da demansionamento immanente al depauperamento da inutilizzo professionale

 

Cass. sez. lav. 1 giugno 2002, n. 7967 (ud. 21 marzo 2002) – Pres. Sciarelli – Est. De Matteis -  Rigi Luperti (avv. Minucci, Savini  Zangrandi) c. Agricap Spa in liquidazione - già Siapa Spa  – (avv. Corbo)

 

Dequalificazione del dirigente – Affidamento di incarichi speciali quantitativamente ridotti (c.d. “ricerche di mercato”) – Sussistenza -  Mancata prova del danno patrimoniale – Non necessità perché in re ipsa nel danno professionale da inutilizzo.

Onere datoriale di provare, una volta eccepito di aver conferito incarichi significativi al demansionato, gli stessi e la loro  rilevanza – Liquidazione equitativa per dequalificazione – Spettanza – Parametro della retribuzione documentabile con buste paga depositate in appello  - Utilizzabilità e ammissibilità di produzione, in quanto prove precostituite (non già documenti nuovi).

 

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'art. 2103 cod. civ. fonda un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro; tale giurisprudenza motiva il  suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1° comma, 4, 1° comma, e 35, 1° comma, Cost.  La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.

Tale principio di diritto deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento  giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 cod. civ., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 cod. civ.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora; il principio di esecuzione in buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 cod. civ.); infine l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso.

Diversamente da quanto opina la ricorrente incidentale, non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può comportare dequalificazione. E’ evidente poi che  ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l’eccepisce, in base all’art. 2697, 2° comma, cod.civ., del quale erroneamente la ricorrente incidentale deduce violazione.

Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa della mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l'entità della retribuzione, che la parte stessa abbia ritualmente chiesto di provare mediante produzione di buste paga (non allegate in primo grado ma depositate in sede di appello).

 

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Roma, giudice del lavoro, in data 6 maggio 1990, Paolo Rigi Luperti, dirigente della s.p.a. Siapa, ora Agricap s.p.a. in liquidazione, ha impugnato l'ordine di servizio 16 maggio 1990, con il quale egli veniva destinato a nuove mansioni deducendo la preordinazione del provvedimento ad incidere sulle sue funzioni sindacali e la sua oggettiva portata dequalificante.

Si costituiva la Siapa resistendo alla domanda.

Espletato interrogatorio libero delle parti, avendo il Rigi Luperti rinunziato alla domanda concernente la pretesa antisindacalità del provvedimento, il Pretore accoglieva la tesi di merito dichiarando la natura dequalificante dell'incarico assegnatogli: condannava la Siapa alla reintegrazione del Rigi Luperti nelle mansioni precedenti e rinviava a separato giudizio la liquidazione del danno conseguente.

Contro questa sentenza proponeva appello principale la Siapa, contestando la sussistenza della dequalificazione, nonché la scissione della decisione sul quantum della pretesa risarcitoria in mancanza di richiesta espressa dell'attore e comunque la carenza di prova del pregiudizio subito.  Il Rigi Luperti spiegava appello incidentale, chiedendo la liquidazione in via equitativa dei danni; evidenziava la cessazione della materia del contendere sulla domanda di reintegra nelle mansioni a causa del suo sopravvenuto licenziamento.

Il Tribunale confermava la pretesa natura dequalificante dell’incarico; dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda di reintegrazione, e rigettava la domanda di risarcimento danni, perché, pur ritenendo provata la dequalificazione, il ricorrente non avrebbe fornito gli elementi necessari per la valutazione equitativa del danno.  Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Rigi Luperti, con due motivi.

La intimata sì è costituita con controricorso, resistendo; ha proposto ricorso incidentale, contestando la sussistenza della dequalificazione.

Motivi della decisione

Vanno preliminarmente riuniti il ricorso principale ed il ricorso incidentale proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.

Vanno esaminati per primi, in ordinato iter logico i due motivi del ricorso incidentale, con i quali la Agricap, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2103 e 2697 cod.civ., omessa e insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la dequalificazione del dirigente in ragione della affermata pochezza degli incarichi speciali dopo il 1 giugno 1990.  Rileva che, non avendo il ricorrente contestato la natura dirigenziale degli incarichi speciali affidatigli, la differenza, meramente quantitativa e non qualitativa di questi, non poteva integrare dequalificazione professionale.  Si duole inoltre che il Tribunale abbia dedotto la pochezza degli incarichi dal tempo trascorso fra l'ordine di servizio 1.6.1990 n. 1182 impugnato e la presentazione del ricorso nel settembre del 1991, erroneamente ritenendo che i tre incarichi speciali riferiti dal direttore generale nel suo libero interrogatorio fossero gli unici assegnati al Rigi, ed imputa a questi di non avere provato di avere avuto altri incarichi.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'art. 2103 cod.civ. fonda un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1995 n. 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 agosto 1991 n. 8835; Cass. 13 novembre 1991 n. 12098; Cass. 15 luglio 1995 n. 7709; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199); e motiva tale suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di. lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1° comma, 4, l° comma, e 35, 1° comma, Cost.  La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazìone del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere la retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.

Tale principio di diritto, benché non condiviso da una parte della dottrina, deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento  giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 cod. civ., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 cod.civ.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora; il principio di esecuzione in buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 cod. civ.); infine l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso.

Da quanto precede deriva che, diversamente da quanto opina la ricorrente incidentale, non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può comportare dequalificazione.

E’ evidente poi che  ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l’eccepisce, in base all’art. 2697, 2° comma, cod.civ., del quale erroneamente la ricorrente incidentale deduce violazione.

Quanto ai pretesi vizi di motivazione si deve rilevare che il Tribunale ha fondato il proprio convincimento, confermativo di quello del primo giudice, sulla prova testimoniale, la cui valutazione è rimessa al giudice del merito e che la ricorrente non censura specificamente, attestante la pochezza e brevità degli incarichi (tipicamente di “ricerche di marcato”), giungendo alla conclusione che il Rigi è rimasto praticamente inattivo per quasi un anno.  Peraltro il Tribunale ha altresì rilevato la novità, perché proposta per la prima volta in appello, e quindi in modo inammissibile, della deduzione datoriale secondo cui il Rigi avrebbe tenuto un comportamento inattivo e negligente nell’espletamento degli incarichi speciali, il che spiegherebbe il breve tempo impiegato nel loro espletamento.  Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

Con il primo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1226 cod.civ.; 432, 115, 2° comma, 112 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata perché, pur avendo ribadito l'esistenza della dequalificazione accertata dal Pretore, ha negato la liquidazione del relativo danno, sull'erroneo presupposto che non risultavano provati in causa elementi di valutazione e parametri di liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi

Sostiene che gli artt. 1226 cod. civ. e 432 c.p.c., che costituisce una specificazione del primo precetto nel processo del lavoro, richiedono ai fini della loro applicazione, che risulti provata l' esistenza del danno e che la sua entità non sia obiettivamente provabile, o sia di rilevante difficoltà probatoria.

Contesta che le norme invocate richiedano, come affermato dal Tribunale, che la parte fornisca anche la prova di elementi di valutazione e parametri di liquidazione omogenei ed utilizzabili in una generalità di casi analoghi, utili per l'esercizio del potere-dovere della liquidazione equitativa del danno da parte del giudice.

Con il secondo motivo il ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 437, 2° comma, c.p.c., (art. 360, n. 3 c.p.c.) censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto preclusa la possibilità di produrre in grado di appello due buste paga, che il ricorrente intendeva fare valere come parametro per la valutazione equitativa.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.

La sentenza impugnata ha ritenuto provato in causa il danno da dequalificazione, inteso come danno al patrimonio professionale in senso stretto.

Essa così si è espressa: «…Orbene ove si consideri che in ipotesi di dequalificazione professionale la sussistenza del danno discende direttamente dallo stesso fatto del depauperamento, in quanto lesivo di beni primari della persona del lavoratore, rappresentandone una logica ed ineluttabile conseguenza, sicché suole parlarsi di danno in re ipsa per la cui esistenza non occorre fornire alcuna prova, o che comunque lo stesso può desumersi presuntivamente dalle modalità del fatto attesa la evidente natura diabolica di una rigorosa prova, risulta all'evidenza che nella fattispecie si era raggiunta la prova della esistenza del danno, anche se non della sua determinazione quantitativa…nell'ambito generico del danno alla professionalità da demansionamento si è distinto il danno al patrimonio professionale in senso stretto, in quanto effetto inevitabile e in re ipsa di un significativo demansionamento, il danno alla personalità e alla dignità del lavoratore, quando la dequalificazione assume anche modalità lesive di tali beni e danno alla vita di relazione ed eventuale danno biologico, quando i comportamenti lesivi siano tali da creare pregiudizio a tali sfere della persona. Con riferimento al primo di essi o ai primi due, anche a non condividere la tesi del danno in re ipsa, se è pur vero che la sussistenza e l'entità di tale danno varia in relazione alla delicatezza, complessità delle mansioni svolte e al grado di responsabilità, e alla loro obsolescibilità, in relazione alla concreta situazione strutturale, risultando maggiormente apprezzabile nelle mansioni di più elevata qualificazione professionale in realtà dinamiche di maggiore evoluzione tecnologica, non può negarsi la sussistenza dello stesso in relazione alla c.d. carenza di prova della effettiva esistenza del danno, attesa la natura a volte diabolica della medesima e la sua rilevabilità e accertabilità, viceversa, presuntivamente soprattutto in relazione al tipo di lesione e conseguentemente al maggiore o minor divario tra le mansioni precedenti e le nuove nell'ambito dei valori di riferimento diffusi nel contesto contrattuale nel quale si svolge il rapporto. E nel caso di specie tale danno emerge presuntivamente dal raffronto tra le funzioni/mansioni svolte dal Rigi Luperti e lo stato di totale inattività che impoverisce, con modalità ingravescenti con il passare del tempo, la sua professionalità non solo sotto il profilo del mancato esercizio e del mancato aggiornamento ma anche sotto il profilo di ulteriore sviluppo professionale e di possibilità di collocamento nel mercato…».

Ciò posto sul piano sostanziale della natura e della prova del danno, il Tribunale ha poi affermato, sul piano processuale, che il Pretore ha errato nell'emettere sentenza di condanna generica, rinviando la liquidazione del danno a separato giudizio, perché tale sdoppiamento del processo non è consentito nei casi in cui, come il presente, la parte aveva richiesto una condanna specifica con valutazione equitativa del danno; ma ha concluso che la domanda doveva essere rigettata in toto, perché la parte che richieda una valutazione equitativa del danno deve fornire gli elementi di riscontro, quale ad es. l’ammontare della retribuzione, che il giudice possa impiegare per applicare i parametri di liquidazione omogenei e utilizzabili in una generalità di casi analoghi.

Dallo stesso tenore testuale della motivazione sopra riportata risalta la contraddizione tra premesse, corrette, e conclusioni, errate.

E’ corretto, e corrispondente alla giurisprudenza di questa Corte, che il danno da dequalificazione professionale puó assumere aspetti diversi, in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all'immagine o alla vita di relazione (Cass.14.11.2001 n. 14199; Cass.6.11.2000 n. 14443; Cass. 18.10.1999 n. 11727). Non è dubbio che la prova di tali aspetti di danno debba essere data dal lavoratore (Cass. 11.8.1998, n. 7905; Cass.19.4.1996 n. 3696), e possa essere articolata in relazione al tipo di danno preteso, e quindi data anche mediante la prova presuntiva (Cass. 2.11.2001 n. 13580), sufficiente di per sé sola a sorreggere la decisione (Cass. 18.1.2000 n. 491: Cass. 3.2.1999 n. 914). Così, se per il danno biologico è necessaria la prova della lesione dell'integrità psico-fisica, nella quale si sostanzia il danno (Corte cost. sent. 372/1994; Cass. 11.1.2001 n. 333), per la perdita della capacità concorrenziale sul mercato del lavoro può essere sufficiente la allegazione e la prova di circostanze di fatto gravi, precise e concordanti (art. 2729 cod.civ.) dalle quali il giudice del merito possa dedurre l'esistenza di tale danno patrimoniale.

Nel caso di specie il Tribunale, con motivazione articolata e rispondente ai principi di diritto sopra cennati, e che per tale motivo supera il vaglio di legittimità, ha statuito che la lunghezza dell’inattività (circa un anno), la elevata qualità professionale delle mansioni, le caratteristiche concorrenziali del mercato del lavoro, siano indizi sufficienti per dedurre l’esistenza di un danno professionale.

La sentenza impugnata ha quindi ben risolto il primo quesito che la causa gli poneva, e cioè di come si provi il danno da dequalificazione.

Una volta provata l'esistenza del danno, che costituisce il necessario presupposto per la valutazione equitativa, il giudice che abbia accertato, in relazione alle particolarità della fattispecie, l'impossibilità o la rilevante difficoltà di provare il danno nel suo preciso ammontare non può sottrarsi dall’obbligo della sua valutazione equitativa, ed incorre in violazione dell’art. 1226 cod. civ. ed in vizio logico di motivazione la sentenza che respinga la domanda sul mero rilievo che le prove fornite non sono sufficientemente precise (Cass. 10.3.2000 n. 2796).

Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo che sia onere della parte, una volta provata l'esistenza del danno fornire gli elementi di riscontro, quali l’ammontare della retribuzione, perché il giudice possa utilizzare parametri di valutazione omogenei ed impiegabili in una generalità di casi analoghi, ma non ha consentito la produzione delle buste paga in appello, ritenendoli documenti nuovi.

L’elaborazione di parametri di valutazione omogenei ed impiegabili in una generalità di casi analoghi per la determinazione del danno in via equitativa è compito della giurisprudenza (con l’ausilio della dottrina). Così, ad es., ove la parte richieda il risarcimento del danno biologico oggettivo, ella dovrà provare la lesione della integrità psico fisica e la sua gravità mediante appropriata certificazione medica, eventualmente verificabile con consulenza tecnica d'ufficio medico legale; sarà poi il giudice del merito ad elaborare i criteri omogenei per la sua valutazione equitativa (ex plurimis Cass. 8.5.2001 n. 6396); ove poi chieda il danno biologico soggettivo, dovrà provare altresì quelle particolari abitudini di vita che la lesione ha inciso peggiorando la qualità della vita stessa.

Poiché nella presente causa è chiesto il danno da dequalificazione professionale che comprende anche una componente patrimoniale, il Tribunale non poteva negare al ricorrente la possibilità processuale, ove ritualmente esercitata, di offrire un elemento di riscontro (la retribuzione), per la valutazione equitativa di tale danno. La giurisprudenza di questa corte si è consolidata nel ritenere che nel rito del lavoro, la disciplina restrittiva sull'ammissione delle nuove prove non si applica alla produzione di nuovi documenti, che può avvenire senza necessità di una preventiva valutazione, ad opera del collegio, della loro indispensabilità, sempre che essi siano specificamente indicati nel ricorso dell'appellante o nella memoria difensiva dell'appellato e depositati contentualmente a tali atti e comunque prima dell'udienza di discussione, e senza che sia influente la circostanza che la parti avrebbero potuto o dovuto esibirli nel primo grado di giudizio (ex plurimis: Cass. 5.6. 2000 n. 10335).

Poiché nella specie non è mai stato affermato che la produzione dei documenti nuovi in appello sia stata effettuata al di fuori delle condizioni richieste dalla giurisprudenza di legittimità citata, il ricorso principale va accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti rimessi al giudice del rinvio, che si designa nella Corte d’appello di Firenze, la quale deciderà la controversia attenendosi al seguente principio di diritto: «Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa della mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in via equitativa, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l'entità della retribuzione, che la parte stessa abbia ritualmente chiesto di provare mediante produzione di buste paga».

Il giudice del rinvio provvederà altresì alle spese del presente giudizio.

P. Q. M.

accoglie il ricorso principale per quanto di ragione, rigetta l’incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 21 marzo 2002.

 

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