Demansionamento giuridicamente agevolato nel Pubblico Impiego

 

Cass., sez. lav., 5 agosto 2010  n. 18283 – Pres. Miani Canevari – Rel. Picone – P.M. Matera (concl. Conf.)- GR. MA. (avv. D’Agostino, Intilisano) c. COMUNE DI CASTELL'UMBERTO

 

Demansionamento nel P.I. - Nozione di equivalenza - Diversità da quella legislativamente configurata, tramite l'art. 2103 c.c., nel settore privato - Equivalenza solo in senso formale - Insussistenza di dequalificazione.

 

Sul concetto di equivalenza, nel settore privato è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera dell'art. 52, comma 1, d. lgs. n. 165/2001 - che disciplina lo ius variandi nel pubblico impiego -invece, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico.

L'equivalenza in senso formale risulta peraltro ribadita dalla norma contrattuale, dal momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali 31/03/1999 (G.U. Serie Generale n. 81 del 24.4.1999), che viene in applicazione nella specie, prevede: "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro".

In conclusione, essendo state assegnate alla G. mansioni equivalenti a quelle esercitate in precedenza secondo la classificazione del personale, nessuna dequalificazione è configurabile sulla base della disciplina del contratto di lavoro.

 

 

Svolgimento del processo

 

1. La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l'appello di G.M. e conferma la decisione del Tribunale di Patti - giudice del lavoro - n. 2524 del 2 ottobre 2002, con la quale era stata giudicata infondata la domanda della G., dipendente del Comune di Castell'Umberto, per l'accertamento del diritto all'assegnazione delle mansioni di istruttore di polizia municipale in precedenza svolte e la condanna dell'amministrazione datrice di lavoro al risarcimento del danno originato dall'attribuzione delle mansioni inferiori di assistente amministrativo addetta alla biblioteca.

2. La Corte di appello di Messina giudica priva di fondamento l'impugnazione della G. sulla base delle seguenti considerazioni:

a) Con legittima scelta organizzativa il Comune aveva modificato l'organico inserendo il servizio di polizia municipale dell'Area (OMISSIS) omogenea quale "servizio di vigilanza", con conseguente soppressione della figura di responsabile del settore vigili urbani, incarico già conferito provvisoriamente alla G., inquadrata nella (OMISSIS) qualifica funzionale e profilo professionale di "istruttore di vigilanza";

b) L'assegnazione di mansioni diverse costituiva conseguenza obbligata della scelta organizzativa, non essendo previsto un posto di comandante della polizia municipale;

c) Le nuove mansioni inerenti al profilo professionale di "istruttore amministrativo" erano equivalenti alle precedenti (area C della classificazione della contrattazione collettiva) e non rilevava la disomogeneità rispetto a quelle svolte in precedenza in assenza di inadempimento imputabile all'amministrazione;

d) Non vi era prova del denunciato comportamento discriminatorio del Comune;

e) La violazione dell'art. 22 dello statuto dei lavoratori era stata dedotta per la prima volta in appello e non risultava che il Comune fosse a conoscenza della carica di dirigente sindacale o che fosse stata limitato nel nuovo luogo di lavoro lo svolgimento di attività sindacale.

3. Il ricorso di G.M. si articola in quattro motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c.; non svolge attività di resistenza il Comune di Castell'Umberto.

 

Motivi della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso, denunziando violazione di norme di diritto e vizio della motivazione, censura la sentenza impugnata per non avere disapplicato l'atto organizzativo (Delib. giunta 12 marzo 1999, n. 95) con il quale il settore della polizia municipale veniva inserito nell'Area (OMISSIS) omogenea quale servizio vigilanza e soppresso il posto di capo settore, conferito alla ricorrente con provvedimento 11.4.1997; si afferma che la scelta organizzativa risultava in contrasto con le disposizioni dettate dalla L. 7 marzo 1986, n. 65 e dalla L.R. Sicilia 1 agosto 1990, n. 17, nella parte in cui stabilivano che il servizio, non soltanto il Corpo, di polizia municipale, doveva necessariamente, per il tipo di funzioni espletate, avere una sua autonomia, garantita dall'esistenza di un comandante (ufficiale di polizia giudiziaria) e doveva dipendere funzionalmente dal sindaco e non da altro dirigente, come era avvenuto a seguito del collocamento nell'Area (OMISSIS) omogenea e della soppressione del posto di responsabile.

2. Il secondo motivo di ricorso si basa sulla violazione dell'art. 2103 c.c., rilevando che la stessa sentenza impugnata aveva accertato che le mansioni di addetta alla biblioteca comportavano minori responsabilità rispetto alle precedenti e comunque erano da queste ultime radicalmente diverse nei contenuti professionali, così da non consentire la conservazione e la valorizzazione delle esperienze professionali acquisite negli ultimi due anni.

3. Il terzo motivo concerne il mancato riconoscimento che il provvedimento del Comune relativo al mutamento delle mansioni era stato determinato da intento discriminatorio. Denunzia al riguardo vizio di motivazione sulla mancata ammissione, in primo grado e in appello, dell'interrogatorio formale del sindaco e di prova per testi sulle seguenti circostanze: a) prestazione dell'attività lavorativa in luogo diverso dal precedente e fuori della sede principale del Comune, b) compimento di indagini di polizia giudiziaria nei confronti di talune persone (i signori Gi. e L.).

4. Il quarto motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 22 e vizio di motivazione, perchè nel ricorso introduttivo del giudizio era stato dedotto che la G. era componente della RSU eletta nel novembre 1998 e che il trasferimento violava la detta norma, come comprovato e specificato da nota del Comune prodotta, sicchè la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere nuova la deduzione relativa al mancato rilascio del nulla osta dell'associazione sindacale, sia in relazione all'art. 112 c.p.c., sia ai canoni d'interpretazione della domanda giudiziale;

erronei erano altresì gli argomenti aggiunti della mancata conoscenza da parte del Comune della carica sindacale e del difetto di prova del pregiudizio allo svolgimento dell'attività sindacale nel nuovo posto di lavoro, fatti che, comunque, non potevano rendere legittimo il trasferimento in difetto di nulla osta.

5. La Corte ravvisa l'opportunità di procedere ad un esame congiunto dei motivi, dovendo svolgere un discorso unitario in ordine a profili di censura contenuti nei diversi motivi. Esito dell'esame è il giudizio di non fondatezza del ricorso, risultando conforme al diritto il dispositivo della sentenza impugnata, di cui la Corte deve correggere in parte la motivazione (art. 384 c.p.c., comma 2).

6. Vanno premesse alcune considerazioni di ordine generale. A seguito della riforma della gran parte dei rapporti di pubblico impiego, comunemente denominata "privatizzazione", le pubbliche amministrazioni si procurano le prestazioni di lavoro subordinato mediante la stipulazione dei relativi contratti. Il lavoratore viene così inserito, in esecuzione del contratto, nell'ambito di un'organizzazione che è di natura pubblicistica (affidata ad atti normativi e amministrativi) per i profili più rilevanti dell'organizzazione stessa (elencati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 1 e relativi alla configurazione strutturale degli uffici e dell'organico), mentre, per gli altri aspetti, ha lo stesso regime giuridico delle strutture private (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2). Le fonti di disciplina del rapporto di lavoro sono perciò costituite dalle norme giuridiche e dai contratti collettivi e individuali (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2). In questo quadro normativo, evidentemente, i poteri del datore di lavoro ed i diritti dei dipendenti sono tendenzialmente gli stessi (salva l'operatività di norme speciali: v. art. 2, comma 2, cit., specialmente nel testo modificato dalla L. 4 marzo 2009, n. 15, art. 1, comma 1 e dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 33, comma 1, lett. a, dei rapporti di lavoro alle dipendenze di organizzazioni private.

6.1. Sicuramente però, nell'ambito dei settori precisati dall'art. 2, comma 1, cit., i poteri pubblici possono incidere con effetto recessivo sulle situazioni dì diritto soggettivo derivanti dal rapporto di lavoro, secondo i principi generali in tema di relazione tra attività autoritativa dell'amministrazione e situazioni giuridiche soggettive degli amministrati. Per questa ragione, al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1 il legislatore ha avvertito l'opportunità di richiamare esplicitamente l'istituto generale (L. n. 2248 del 1865, art. 5, all. E) della disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi ad opera del giudice ordinario a tutela dei diritti soggettivi dei lavoratori, con la precisazione però che l'atto deve essere rilevante ai fini della decisione.

Questo significa che, perché possa porsi il problema della disapplicazione di un atto amministrativo (nel caso di specie, la riorganizzazione degli uffici comunali con inserimento del servizio di polizia municipale nell'Area (OMISSIS) omogenea), è necessario previamente accertare la titolarità di un diritto soggettivo inciso dal provvedimento amministrativo (nel caso di specie, il diritto all'assegnazione di mansioni equivalenti alle ultime esercitate), siccome, ove il diritto dovesse restare escluso per avere il datore esercitato legittimamente un potere attribuito dal contratto, la conformità a legge dell'atto amministrativo, ancorchè atto costituente il motivo della determinazione assunta in ordine alla gestione del rapporto di lavoro, non sarebbe rilevante ai fini della decisione (in linea con questi concetti, vedi Cass. 15 maggio 2006, n. 11103; 26 settembre 2007, n. 20170).

7. Procedendo alla detta indagine, si deve, in primo luogo, escludere che il diritto azionato trovi fondamento nell'art. 2103 c.c., nella parte in cui obbliga il datore di lavoro ad assegnare mansioni professionalmente equivalenti alle ultime esercitate. Al riguardo la giurisprudenza della Corte si è già espressa (Cass., sez. un., 4 aprile 2008, n. 8740; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835), rilevando che la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In questa ottica il D.Lgs. n. 165 del 2001 disciplina interamente la materia delle mansioni all'art. 52 (rendendo così inapplicabile quella generale dell'art. 2103 c.c.) e, in particolare, al comma 1, sancisce il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1).

Com'è noto, sul concetto di equivalenza, nel settore privato è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato art. 52, comma 1, invece, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico.

L'equivalenza in senso formale risulta peraltro ribadita dalla norma contrattuale, dal momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali 31/03/1999 (G.U. Serie Generale n. 81 del 24.4.1999), che viene in applicazione nella specie, prevede: "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro".

In conclusione, essendo state assegnate alla G. mansioni equivalenti a quelle esercitate in precedenza secondo la classificazione del personale, nessuna dequalificazione è configurabile sulla base della disciplina del contratto di lavoro.

8. Al rapporto di lavoro pubblico trova applicazione, invece, l'art. 2103 c.c. nella parte in cui tutela il lavoratore contro i "trasferimenti" in senso stretto, cioè i mutamenti geografici del luogo di lavoro, condizionandone la legittimità alla sussistenza di comprovate ragioni giustificative, profilo questo che non è considerato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52.

Ma all'oggetto della controversia è rimasta estranea la causa petendi fondata sull'illegittimità del "trasferimento" come tale, considerato che vi è solo un accenno alla prova testimoniale articolata (peraltro in termini di assoluta genericità) per dimostrare che l'assegnazione alla biblioteca aveva comportato l'esecuzione della prestazione "in luogo diverso dal precedente e fuori della sede principale del Comune", richiamata tuttavia solo ai fini del carattere discriminatorio del provvedimento.

9. Quanto alla asserita natura ritorsiva del mutamento delle mansioni, il giudizio di infondatezza delle censure consegue al costante principio giurisprudenziale secondo cui l'onere della prova del carattere ritorsivo del provvedimento datoriale grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, il quale deve avere avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento illegittimo (cfr. Cass. n. 10047 del 2004; n. 7188 del 2001). Tutto ciò si riflette, sul piano processuale, nella necessità per il lavoratore, che in sede di legittimità censuri la sentenza di merito per aver negato il carattere ritorsivo del provvedimento, di non limitarsi a dedurre la mancata considerazione da parte del giudice di merito di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma di indicare elementi idonei a individuare la sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia (cfr. Cass. n. 7768 del 1996).

9.1. Nella specie, la ricorrente affida, in sostanza, la dimostrazione del carattere ritorsivo del provvedimento di modifica delle mansioni alle circostanze dedotte con la richiesta di interrogatorio formale del sindaco e di prova per testi, circostanze contrassegnate, come già osservato, da estrema genericità e prive perciò del carattere di decisività (luogo della prestazione e indagini a carico di talune persone, senza specificare la natura e la qualità dei soggetti). La sentenza impugnata ha, pertanto, correttamente ritenuto che dell'intento discriminatorio non fosse stata fornita alcuna prova, dovendo altresì aggiungere che la decisione di assegnazione alle nuove mansioni risultava assunta in conseguenza del provvedimento di riorganizzazione degli uffici, legittimo o illegittimo che fosse.

10. La domanda di tutela ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 22 è stata ritenuta, in realtà, inammissibile perché non formulata in primo grado. La sentenza impugnata precisa al riguardo che non era stato dedotto il mancato rilascio del nulla osta dell'associazione sindacale, nè che il Comune fosse a conoscenza della qualifica di dirigente sindacale, nè allegato il pregiudizio arrecato allo svolgimento dell'attività sindacale.

La ricorrente oppone di avere denunciato la violazione dell'art. 22 st. lav. e che la tutela non è condizionata alla dimostrazione di fatti diversi dal possesso della qualità di dirigente di RSU.

10.1. L'error in procedendo, così denunziato, non sussiste.

La Corte di Messina ha esattamente constatato la violazione del disposto dell'art. 414 c.p.c., nella parte in cui impone all'attore di esporre i fatti e gli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni (n. 4).

Questo onere non poteva ritenersi assolto con il solo riferimento, contenuto nel ricorso introduttivo del giudizio, alla violazione dell'art. 22 st. lav., non corredato da alcuna precisazione ulteriore e senza riscontro nelle conclusioni formulate. In particolare, non solo si omettevano le deduzioni relative al mancato rilascio del nulla osta e alla conoscenza della carica sindacale da parte del Comune, ma neppure si allegavano le condizioni di applicabilità della tutela richiesta, che, cioè, a norma della L. n. 300 del 1970, at. 19 la rappresentanza sindacale fosse stata costituita nell'ambito di associazioni firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva (vedi Cass. 9 aprile 2009, n. 8725).

Invero, in merito a queste precisazioni, la ricorrente sostiene di aver prodotto una nota del Comune che le conteneva, ma tale documento non risulta offerto in comunicazione nel ricorso introduttivo a norma dell'art. 414 c.p.c., n. 5, e non può, di conseguenza, servire a colmarne le lacune.

11. Conclusivamente, il complesso delle considerazioni svolte dimostra che per la decisione della controversia non è rilevante la verifica della conformità a legge dell'atto organizzativo che ha dato inizio alla vicenda litigiosa.

L'eventuale disapplicazione dell'atto, infatti:

a) non avrebbe incidenza diretta sulla determinazione dell'amministrazione di spostare da un ufficio ad altro la G., che avrebbe potuto essere adottata, in ipotesi, anche lasciando immutato il precedente disegno organizzativo, assumendo perciò il ruolo di semplice "motivo" della misura di gestione del rapporto di lavoro, come tale irrilevante se non illecito;

b) non potrebbe rilevare per eliminare la giustificazione di un "trasferimento" in senso stretto, trattandosi di questione esulante dall'oggetto della controversia;

c) non concorrerebbe certo a dimostrare il carattere discriminatorio dell'assegnazione al nuovo ufficio, anzi, al contrario, indipendentemente dalla sua legittimità o illegittimità, nella prospettiva della ricorrente è stata proprio la soppressione del posto di comandante dei vigili a costituire il motivo dell'assegnazione al nuovo posto di lavoro;

d) infine, non potrebbe essere sindacato in relazione all'effetto limitativo della tutela offerta dall'art. 22 st. lav. trattandosi di domanda da ritenere non proposta. 12. Al rigetto del ricorso non consegue alcun provvedimento in ordine alle spese e agli onorari del giudizio di cassazione, in difetto di attività di resistenza del Comune.

 

P.Q.M.

 

LA CORTE rigetta il ricorso; nulla da provvedere in ordine alle spese e agli onorari del giudizio di cassazione

 

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