- Demansionamento
del Comandante di Polizia Municipale
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- Corte
d'Appello di Roma 16 maggio 2002 — Pres. Sorace — Est. Ciampi
— Proia c. Comune di Monte San Biagio.
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- Pubblico
impiego - Giurisdizione - Attribuzione della titolarità di un ufficio -
Atto privatistico - Giurisdizione del giudice ordinario - Sussistenza.
- L'attribuzione
al dipendente di unente locale della titolarità di un ufficio configura
un atto a carattere operativo-organizzativo connesso alla gestione del
rapporto avente
natura di atto privatistico, sul quale la giurisdizione appartiene al
giudice ordinario.
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- Categorie
e qualifiche - Comandante della Polizia Municipale - Modificazione delle
mansioni - Legittimità -
Condizioni - Limiti.
- La
destinazione del comandante della Polizia Municipale ad altro incarico
(nella specie, preposizione all'ufficio commercio e, poi, all'ufficio
protezione civile) viola l'art. 2103 c.c., sia perché trattasi di figura
professionale che nell’ambito del Comune gode di una disciplina speciale
che non ne consente la sostituzione con altro soggetto, sia perché
l'assegnazione non tiene conto della professionalità in precedenza
acquisita.
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- Categorie
e qualifiche - Mansioni - Danno professionele conseguente a dequalificazione - Diritto al risarcimento - Sussistenza - Liquidazione in
via equitativa e
omnicomprensiva - Ammissibilità.
- Il
bene della professionalità,
protetto dagli artt. 2 Cost, e 2103 c.c., costituisce una componente
dell'identità personale; pertanto, la sua lesione è risarcibile di per sé,
indipendentemente dagli ulteriori effetti lesivi eventualmente prodotti
dall'inadempimento datoriale sul piano patrimoniale o dell'integrità
psicofisica, ed il danno è liquidabile con valutazione equitativa ed
omnicomprensiva.
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- Svolgimento
del processo
- Con
ricorso depositato in data 22 marzo 2000 A. Proia proponeva appello
avverso la sentenza di cui in oggetto che aveva rigettato la domanda dallo
stesso proposta nei confronti del Comune di Monte S. Biagio. Con
l'originario ricorso in 1° grado l'odierno appellante aveva richiesto la
reintegra nelle funzioni di Comandante dei Vigili Urbani ed il
risarcimento del danno da demansionamento. La vicenda traeva la sua più
immediata origine dalla disposizione di servizio emessa dal Sindaco del
Comune appellato in data 30 aprile 1998 e con cui, previa sottrazione del
precedente incarico di Comandante dei Vigili Urbani, allo stesso Proia era
stato assegnato quello di istruttore direttivo di 7° livello funzionale
nel settore commercio, cui era seguita ulteriore disposizione di servizio
del 19 novembre 1998 con cui l'odierno appellante era stato nominato
responsabile del servizio di Protezione Civile e sostituito all'ufficio
commercio da un impiegato di VI livello, prima addetto all'ufficio
elettorale. Successivamente l'Ufficio protezione civile veniva trasferito
fuori dagli uffici comunali nei locali di una ex scuola materna,
ritenuti dal Proia del tutto inidonei. A seguito di ricorso dell'odierno
appellante il T.a.r. con sentenza passata in cosa giudicata annullava la
prima delle disposizioni surricordate per illegittimità e sviamento di
potere. Con il successivo ricorso al Tribunale di Latina il Proia chiedeva
venisse dato atto dell'annullamento da parte del T.a.r. della disposizione
di servizio in data 30 aprile 1998; dato altresì atto che lo stesso
Tribunale amministrativo aveva ritenuto collegati e consequenziali tutti i
successivi provvedimenti; accertato che il Comune di Monte S. Biagio aveva
esercitato illegittimamente lo ius variandi e che i provvedimenti
adottati avevano costituito demansionamento del ricorrente con
ripercussioni sulla sua integrità psico-fisica. Il giudice di primo grado
con la sentenza impugnata aveva rigettato ogni domanda ritenendo
insussistente il denunciato demansionamento in quanto le mansioni di
responsabile della protezione civile non determinavano nel ricorrente una
posizione più sfavorevole nell'ambito della gerarchia del Comune.
- Deduceva
il Proia a sostegno del proposto gravame la violazione del giudicato
esterno formatosi fra le partì per effetto della mancata impugnativa
della sentenza resa dal T.a.r., la violazione della l. 7 marzo 1986, n. 65
con omessa pronuncia su un punto decisivo, la violazione dell'art. 2103
c.c. e della l. n. 142/1990 nonché del principio generale di competenza e
professionalità e chiedeva l'accoglimento delle conclusioni già
formulate in 1° grado.
- Si
costituiva il Comune di Monte S. Biagio resistendo all'appello di cui
chiedeva il rigetto. All'odierna udienza la Corte previ gli adempimenti di
cui all' ari. 437 c.p.c. decideva la causa dando pubblica lettura del
dispositivo.
- Motivi
della decisione
- Sostiene
parte appellata che non vi sarebbe alcuna connessione tra il provvedimento
di preposizione del Proia all'Ufficio Commercio (annullato dal T.a.r. con
la sentenza n. 1170/1999) e il successivo atto del 19 novembre 1998 di
nomina dello stesso Proia quale responsabile dell'Ufficio protezione
civile. In realtà tale «connessione» è stata già affermata dallo
stesso T.a.r. nella decisione su ricordata che ha ritenuto collegati e
conseguenziali al provvedimento annullato tutti i successivi provvedimenti
adottati dal Sindaco e dalla Giunta comunale. A prescindere
dall'intervento del T.a.r. osserva la Corte che ciò che rileva nel
presente giudizio è l'accertamento della sussistenza o meno della
denunciata violazione dell'art. 2103 c.c. (rectius della norma
speciale per il pubblico impiego privatizzato di cui all'art. 56 del
d.lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni, che, con norma
assolutamente sovrapponibile a quella codicistica - comunque direttamente
applicabile una volta esaurita la fase transitoria -, prevede che il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto
o dalle mansioni considerate equivalenti). Secondo l'assunto
dell'appellante, detta violazione si sarebbe asseritamente perpetuata
anche dopo l'annullamento del primo provvedimento datoriale con
l'assegnazione del Proia all'Ufficio protezione civile. In questo senso la
domanda è assolutamente chiara e ben individuabile, non sussistendo né
l'eccepito difetto di giurisdizione dell'Ago (va per inciso osservato che
i fatti oggetto del giudizio sono indubbiamente successivi al 30 giugno
1998), né la sua indeterminatezza come pure eccepito da parte appellata.
Va, al riguardo, osservato che il d.lgs. n. 29 del 1993 nel prevedere che
i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono
disciplinati dalle disposizioni del capo 1° titolo II del libro V del
codice ci-vile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente
decreto e nello stabilire che nell'ambito delle leggi e degli atti
organizzatori di cui all'art. 2, co. 1 le determinazioni per
l'organizzazione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti
alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro
(art. 4, co. 2) ha sostanzialmente attribuito a tutti gli atti
dell'amministrazione direttamente o indirettamente connessi alla gestione
del rapporto di lavoro, natura privatistica. Si tratta, quindi, di atti
non più qualificabili come provvedimenti amministrativi, ma equiparabili
a tutti gli effetti a quelli emessi da un datore di lavoro privato,
soggetti pertanto al regime del diritto civile. Rimangono, invece,
qualificabili come atti amministrativi soltanto quegli atti con cui sono
delineate le linee fondamentali dell'organizzazione degli uffici di cui
all'ari. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993 (atti aventi funzioni di indirizzo
politico-amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi da
attuare, di individuazione e ripartizione delle risorse, ecc.). Ciò ha
sicuramente modificato le caratteristiche della tutela giurisdizionale
del pubblico dipendente nella
materia in argomento, incrementando gli spazi di intervento del giudice
sul rapporto e così rendendo effettiva quella tutela, tenuto conto della
maggiore ampiezza che la legge attribuisce all'intervento del giudice
ordinario sulle controversie di lavoro,
rispetto a quelle del giudice amministrativo, pur sempre caratterizzato
dalla necessaria impugnazione di un atto (amministrativo) con tutti i
limiti formali e sostanziali derivanti da tale impostazione. La riforma ha
inoltre previsto che il giudice del lavoro possa disapplicare eventuali
atti amministrativi presupposti, qualora rilevante
ai fini della decisione. Tale previsione rappresenta una settoriale
applicazione del generale potere di disapplicazione riconosciuto al
giudice ordinario dall'art. 5,1. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E (ed. legge
abolitiva del contenzioso amministrativo) ed è stata dettata - come è
stato efficacemente affermato - dalla esigenza di garantire al massimo
l'effettività del giudizio innanzi
al giudice ordinario, chiudendo in ogni modo la porta
a possibili, causidici tentativi di ritorno alla giurisdizione
amministrativa.
- Ciò
posto, osserva la Corte come la designazione di un dipendente
quale titolare di un determinato settore del Comune
configura un atto a carattere operativo-organizzativo dell'organo a ciò
preposto (il Sindaco o la Giunta comunale), connesso alla gestione dei
rapporti di lavoro, come tale avente natura di atto privatistico, secondo
quanto previsto dall'art. 4, co. 2 del d.lgs. n. 29/1993,
come sostituito dal d.lgs. n. 80/1998. Va ribadito che tutti gli atti
gestionali attinenti al rapporto di lavoro emessi dall'Amministrazione
sono ormai sottoposti al regime del diritto privato, poiché è la stessa
legge ad attribuire agli organi amministrativi preposti all'organizzazione
del lavoro dei pubblici dipendenti le capacità
ed i poteri del privato datore di lavoro (art. 4, co. 2 cit.), secondo
determinazioni che devono rispettare le leggi e gli atti organizzativi (a
carattere generale) di cui all'art. 2, co. 1 del citato d.lgs. n. 29 del
1993. Del tutto inconferente appare poi il richiamo, ribadito nella
memoria difensiva in appello all'art. 51, co. 3 bis della 1. n.
142/1990, come modificato dalla l. n. 191 del 1998, che consente ai
sindaci dei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, quale è
il Comune appellato di attribuire ai responsabili degli uffici o dei
servizi le funzioni dirigenziali previste dal co. 3 dello stesso art. 51,
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale. Va, a riguardo,
rilevato che la norma in questione disciplina unicamente gli aspetti
organizzatori degli uffici e non può in alcun modo ledere i diritti
soggettivi quali quelli del dipendente ricavabili dalle citate norme di
cui agli arti. 2103 c.c. e 56, d.lgs. n. 29/1993. Nella sentenza impugnata
si è esclusa qualsiasi violazione della norma di cui all'art. 2103 c.c.,
affermandosi che le mansioni di responsabile della protezione civile non
determinerebbero nel ricorrente una collocazione più sfavorevole nella
gerarchia del Comune né lo pregiudicherebbe sul piano della camera in
quanto si tratterebbe comunque di posizioni apicali in un Comune di
ridotte dimensioni. Tale impostazione non può invero essere condivisa. Ed
invero la Polizia Municipale è caratterizzata dalla peculiarità ed
atipicità delle funzioni attribuite che concernono una attività di
polizia locale la cui azione è preordinata alla tutela del pubblico
interesse, dovendo garantire la sicurezza, la salvaguardia e l'ordinata
e civile convivenza della collettività. La normativa di riferimento è
costituita dalla l. n. 65/1986, lex specialis, ai sensi dell'ari.
73, d.lgs. n. 29/1993 che all'art. 9 riconosce al comandante del Corpo,
quella specificità e quella autonomia che sono gli elementi di peculiarità
e di atipicità che lo contraddistinguono dagli altri responsabili delle
massime strutture comunali. In sostanza, essendo il Comandante della
Polizia Municipale l'unica figura professionale nell'ambito del Comune che
gode di una disciplina ad hoc, non è consentita la sua
sostituzione con un altro soggetto, essendogli riservata per espressa
previsione normativa, una disciplina giuridica speciale diversa da quella
degli altri dipendenti (cfr. Consiglio di Stato 12 marzo 1996, n. 262 e 28
aprile 1995, n. 623). In ogni caso lo spostamento del Proia ad altro
incarico è comunque censurabile per non aver tenuto conto della
professionalità acquisita dall'appellante nello svolgimento dell'incarico
di Comandante. L'appello va pertanto accolto e va ritenuta la violazione
delle norme che tutelano la posizione del lavoratore nell'ambito
dell'impresa o comunque dell'amministrazione di appartenenza. In ragione
della ritenuta violazione, va ordinata la reintegra del Proia nelle
mansioni precedentemente svolte (in relazione alla peculiarità del ruolo
rivestito per quanto sopra detto, deve escludersi che possano essere
individuate mansioni equivalenti). A ciò il giudice ordinario è
sicuramente facultizzato a norma dell'art. 68, co. 2, del d.lgs. n. 29 del
1993 e successive modificazioni che completa il quadro dei poteri
spettanti in materia all'autorità giudiziaria ordinaria, attribuendo al
giudice del lavoro oltre al già ricordato potere di disapplicare gli atti
amministrativi se illegittimi e se rilevanti ai fini della decisione, la
potestà di adottare provvedimenti «di accertamento, costitutivi e di
condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati». Va anche accolta
la conseguente domanda di risarcimento del danno.
- Il
bene della professionalità costituisce una componente della identità
personale di ogni soggetto, come tale protetto ex art. 2 della
Costituzione, anche attraverso l'attribuzione di veri e propri diritti
soggettivi. Ed è ciò che appunto avviene con l'art. 13 dello statuto dei
lavoratori che, all'interno del rapporto di lavoro, impone al datore di
lavoro il rispetto della professionalità del dipendente dedotta nel
contratto. Poiché il «bene protetto» è in questo caso espressione di
un valore costituzionalmente rilevante, la sua lesione è, pertanto,
risarcibile di per sé, indipendentemente dalla risarcibilità degli
ulteriori effetti lesivi che l’inadempimento all'obbligo di cui
all'art. 13 statuto dei lavoratori può produrre sul piano patrimoniale o
sul piano dell'integrità psico-fisica del soggetto leso. Trattasi,
infatti, di situazione, in cui l'effettiva lesione del bene della
professionalità è conseguenza immediata e diretta del comportamento
violativo indicato e di tutta evidenza, secondo l'id quod plerumque
accidit.
- Il
danno alla professionalità subito dall'appellante - come da costante
giurisprudenza - non può che
essere valutato in via equitativa e tenuto conto degli ulteriori aspetti
lesivi della condotta datoriale. Il comportamento datoriale illegittimo
ha, infatti, inciso oltre che sulla professionalità del ricorrente anche
sulla credibilità ed il prestigio del Proia e sulla sua considerazione
nell'ambito lavorativo. Tale danno, a prescindere dalla sua indicazione
terminologica, in realtà va da un lato necessariamente limitato
all'effettivo periodo di demansionamento (dovendo escludersi ogni
possibilità di risarcimento del danno futuro) e, d'altro canto, appare
comunque sovrapponibile nei suoi elementi costitutivi al danno della
professionalità. Donde, la necessità già rilevata di una valutazione
equitativa ed onnicomprensiva del danno risarcibile. Va tenuto, pertanto,
conto del periodo in cui si è protratta la lamentata situazione di
illegittimità, del danno economico diretto discendente dalla privazione
dell'incarico per la perdita di alcune indennità erogate in virtù della
funzione esercitata e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso,
appare congrue riconoscere al Proia la somma onnicomprensiva di lire
50.000.000 liquidata in moneta attuale. In tal senso pertanto va riformata
l'impugnata sentenza. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo in calce (Omissis).
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- (pubblicata
in MGL 2002, n.1-2, 72 con nota di Tatarelli).