Legittimo il rifiuto di presentarsi al lavoro in un'azienda che, sorda alle richieste di attribuzione di mansioni confacenti, lo ha confinato nella sostanziale inattività

Corte di appello di Genova – Sezione lavoro – sentenza 10 gennaio 2006 - Presidente Russo – Relatore Ravera - Ricorrente Boeri c. Ilva SpA
 
Demansionamento pluriennale con riduzione in inattività – Adozione da parte del lavoratore di misura di autotutela ex art. 1460 c.c. (consistente nella preavvisata non presentazione in azienda e nel contemporaneo permanere a disposizione nella propria abitazione in attesa del conferimento aziendale di mansioni confacenti al livello categoriale posseduto) – Licenziamento – Illegittimità – Legittima misura assunta dal lavoratore in quanto proporzionata reazione all’inadempimento aziendale – Spettanza altresì del risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c. nell’interpretazione costituzionalmente orientata.
 
Il lavoratore, a fronte del protratto e reiterato inadempimento datoriale, ha agito con una certa cautela chiedendo di essere messo in condizione di lavorare, ed anzi anticipando la futura condotta onde non aggravare la propria condizione di salute (su cui il datore di lavoro ha l’obbligo di protezione ex articolo 2087 Cc).
Ora il datore di lavoro si chiama appunto così perché deve (e non può) assegnare il lavoro, secondo le mansioni pattuite o quelle comunque dovute ex articolo 2103 Cc. È quindi di assoluta evidenza l’inadempimento di ILVA che ha leso il diritto del Boeri a lavorare.
L’articolo 2103 Cc, infatti, consacra il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni corrispondenti alla propria qualifica e tale disposizione viene violata ogniqualvolta il dipendente sia assegnato non solo a mansioni inferiori (c.d. dequalificazione), ma anche (e soprattutto) quando il medesimo (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti (c.d. demansionamento), costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto (cfr. Cassazione 8835/91).
Occorre allora stabilire se al reiterato inadempimento di ILVA risulta corretta la reazione del Boeri di non presentarsi più al lavoro, pur rimanendo a disposizione seppure a casa propria.
La correttezza risulta per due ordini di ragioni.
La prima trova ragione nell’articolo 1460 Cc secondo cui, nel contratto a prestazioni corrispettive, un contraente può rifiutare di adempiere alla sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente alla propria (il concetto di contemporaneità non consente che una parte possa procrastinare il proprio adempimento, pretendendo l’altrui). Al riguardo questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’adempimento datoriale rilevante a tal fine «non consiste soltanto nella retribuzione, ma nella adibizione del lavoratore a mansioni per le quali è stato assunto, cosicché può dirsi che l’oggetto del contratto è lo svolgimento di prestazione lavorativa con attribuzione di mansioni adeguate ex articolo 2103 Cc, dietro pagamento di retribuzione. In caso contrario, (…) limitando l’obbligazione datoriale alla sola retribuzione, si giungerebbe ad ammettere che un datore possa pretendere – come avvenuto nel caso di specie – la presenza del dipendente nel luogo di lavoro senza espletamento di alcun compito, con conseguente violazione dei principi di diritto al lavoro (che deve intendersi pieno, non limitato alla retribuzione) e di dignità dell’individuo, ridotto - perché economicamente debole - alla mera soggezione al volere altrui nella totale inattività» (Lasagna/Ilva, 2.4.2003).
Sussistono quindi tutti gli elementi previsti dall’eccezione di cui al citato articolo 1460 Cc: infatti la reazione del Boeri deve considerarsi proporzionata al comportamento tenuto dall’ILVA; quest’ultimo infatti era costituito dallo svuotamento di mansioni e sotto tale profilo era quindi totalmente inadempiente. Il comportamento contra legem (articolo 2103 Cc) inoltre è stato tenuto per un periodo di tempo significativo, e la decisione del Boeri quindi è maturata nonostante la messa in mora. Il non recarsi più al lavoro ha costituito pertanto la estrema ratio, tra l’altro onde evitare compromissione ulteriore di beni costituzionalmente protetti (diritto al lavoro, diritto alla salute). Il comportamento è quindi proporzionato all’inadempimento di ILVA ed inoltre è stato tenuto con buona fede. Infatti Boeri ha prima messo in mora l’azienda e si è tenuto a sua disposizione, dichiarandosi disposto a svolgere le mansioni cui doveva essere adibito (sulla necessità della buona fede e della proporzione v. Cassazione 12121/95; 2346/87).
Il secondo ordine di ragioni muove dal fatto che il comportamento tenuto da ILVA (demansionamento) si pone “al di fuori del contenuto contrattuale” (Cassazione 13187/91; 1088/94), sicché non è dovuta la prestazione richiesta in violazione del limite al potere datoriale di modificazione delle mansioni (nel caso in esame modificazione attuata con lo svuotamento delle mansioni stesse).
Il lavoratore quindi non ha rifiutato una prestazione dovuta, ma una prestazione non dovuta. Nessun inadempimento quindi da parte del Boeri.
Al lavoratore spetta altresì il danno morale negatogli in primo grado, stante  la nuova – dal 2003 – interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., che lo fa discendere da ogni violazione di valori costituzionali, sganciandolo dal riscontro del reato nel comportamento dell’inadempiente.

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Genova Boeri Giorgio esponeva:
di essere stato assunto nel luglio 1976 dalla società ITALSIDER e da ultimo di essere inquadrato nella 6^ categoria di cui al CCNL per i dipendenti da aziende metalmeccaniche a partecipazione statale;
di essere stato collocato in più momenti in CIGS;
che nel 1994 (9 maggio) al rientro dalla CIGS si era presentato in servizio ma gli era stato rifiutato l’ingresso non venendo adibito ad alcun compito;
successivamente veniva licenziato e poi reintegrato ed il 2 aprile 1995 veniva reintegrato come addetto all’archivio con l’unico compito di fare fotocopie;
il 22 ottobre 1998 veniva convocato dal sig. Belli dell’ufficio personale che gli comunicava che in stabilimento non aveva futuro per cui si era deciso di trovargli una collocazione (letteralmente) presso la ex sede di via Corsica;
presentatosi in via Corsica trovò adibito uno stanzone di circa 400 mq scarsamente illuminati dove erano stivate 32 scrivanie e altrettante seggiole senza nessuno strumento operativo;
vi erano concentrati una trentina di persone totalmente prive di qualsiasi lavoro da svolgere;
veniva poi posto in CIGO ed al rientro la situazione era rimasta invariata: sebbene in virtù di accordo sindacale l’ILVA avrebbe dovuto utilizzare il personale di cui sopra per la costituzione di un nuovo ufficio denominato “Ufficio di marketing e relazioni statistiche”, in realtà il ricorrente dal rientro in servizio gli fu affidato l’unico compito, in otto mesi, di fare una trentina di fotocopie;
a seguito della vicenda sopra descritta dal 1997 era in cura per una situazione ansiosa depressiva di livello elevato,asma bronchiale e gli esami effettuati presso la Clinica del lavoro di Milano avevano diagnosticato “disturbo dell’adattamento con ansia, umore depresso e sintomi somatici multipli, reattivo a situazione occupazionale avversa”;
Chiedeva la condanna dell’ILVA SPA ad attribuirgli mansioni proprie della 6^ categoria di cui al CCNL di settore e la condanna dell’ILVA a risarcirgli il danno patrimoniale, morale procurato alla salute, alla professionalità, all’immagine, alla vita di relazione, nella misura da accertarsi in corso di causa.
Con separato ricorso, successivamente riunito dal tribunale, l’esponente, dopo avere riesposto i fatti di cui sopra, esponeva ulteriori fatti, ed in particolare
Di avere inviato in data 10 febbraio 2000 lettera rar alla Società con cui intimava di dargli un lavoro concreto e coerente con il suo inquadramento e professionalità, perché in difetto si sarebbe visto costretto a non presentarsi più in servizio fino a che non si fosse provveduto in merito;
che la Società replicava affermando che la sua posizione sarebbe stata conforme all’inquadramento e diffidandolo dal non presentarsi in servizio;
che iniziava un primo carteggio che sfociava in un provvedimento di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in data 21 marzo;
che la Società gli aveva contestato con lettera 24 marzo 2000 una assenza ingiustificata dal 14/3 cui il Boeri replicava che non appena ILVA avesse provveduto ad attribuirgli un compito concreto e reale corrispondente alla sua professionalità e al suo inquadramento sarebbe stata sua cura ripresentarsi in servizio ed espletarlo;
che ILVA con missiva del 3 aprile lo licenziava in tronco;
chiedeva dichiararsi la illegittimità del provvedimento di sospensione e di recesso con le conseguenze economiche come meglio precisato nelle conclusioni riportate in epigrafe al ricorso.
Si costituiva la ILVA Spa.
Nella memoria relativa al primo giudizio (demansionamento e danno biologico) rilevava la improcedibilità della domanda per violazione dell’articolo 412bis Cpc, la nullità della notificazione del ricorso introduttivo, notifica avvenuta presso un sito produttivo della società e non presso la sede legale in Milano, la carenza di interesse ad agire ex articolo 100 Cpc del ricorrente in quanto, essendo nelle more intervenuto il recesso, la domanda di condanna all’inquadramento doveva ritenersi nulla perché ineseguibile e comunque il ricorrente doveva ormai ritenersi carente di interesse ad agire.
Nel merito eccepiva che il ricorrente non aveva descritto le mansioni da lui svolte e contestava l’asserita dequalificazione nonché la quantificazione del danno richiesto.
Con altra memoria di costituzione avverso il secondo ricorso, ILVA Spa svolgeva eccezioni del tutto sovrapponibili a quelle dianzi riportate rilevando inoltre l’avvenuta decadenza dall’impugnare il licenziamento, posto che l’impugnativa era avvenuta non presso la sede legale, ma presso una unità operativa e, nel merito, rilevava comunque la legittimità del licenziamento fondato sull’illegittimo rifiuto della prestazione lavorativa. Stessa cosa per quanto riguarda la sanzione conservativa della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
 Il tribunale, con sentenza non definitiva, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava ILVA a reintegrare il Boeri nel posto di lavoro, oltre al pagamento della retribuzione dal recesso al dì della reintegra; dichiarava illegittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, rigettava la domanda di risarcimento del danno morale pur dichiarando che il ricorrente con decorrenza 1 novembre 1998 aveva subito un demansionamento.
Rimetteva la causa in istruttoria al fine di quantificare il danno biologico ed il danno derivato dall’articolo 2103 Cc.
Avverso la sentenza ha proposto appello Boeri Giorgio che si duole del fatto che il tribunale abbia respinto la domanda di condanna dell’IULVA ad attribuirgli le mansioni della 6^ categoria nonché la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale.
Si costituiva in giudizio ILVA Spa che chiedeva la conferma della sentenza in ordine ai due capi impugnati dal Boeri e svolgeva appello incidentale sugli altri capi della sentenza riproponendo tra l’altro anche le eccezioni svolte in primo grado.
All’esito della odierna discussione la causa veniva decisa dal Collegio con separato dispositivo di cui veniva data lettura

Motivi della decisione

L’appello è fondato e deve essere accolto, deve invece essere respinto l’appello incidentale. Per semplicità di esposizione le singole questioni verranno trattate per paragrafi.
L’eccezione di improcedibilità ex articolo 412bis Cpc.
L’eccezione è infondata sia perché contraria a costanti precedenti della Suprema Corte, sia perchè comunque, le conseguenze che la Società ne vorrebbe trarre, si pongono in contrasto con il principio di tassatività dei casi di rinvio al primo giudice.
Procedendo con ordine, come noto, ai sensi dell’articolo 410bis Cpc il tentativo di conciliazione deve intendersi espletato trascorso inutilmente il termine di sessanta giorni che decorre dalla presentazione della relativa richiesta e comunque l’articolo 412bis indica nella prima udienza di cui all’articolo 420 Cpc il termine ultimo entro cui possa rilevarsi l’assenza della condizione di procedibilità.
Orbene, la Suprema corte, con riferimento all’articolo 5 legge 108/90, la cui formulazione è nella sostanza sovrapponibile a quella di cui all’articolo 412bis ha affermato che la mancata richieste del tentativo di conciliazione è rilevabile anche d’ufficio nella prima udienza di discussione della causa; ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine la questione non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio (Cassazione 15956/04; 10089/00; v. anche Cassazione 6673/02 con riferimento al processo previdenziale).
L’orientamento giurisprudenziale citato è del tutto condivisibile sicché non essendovi ragione per discostarsene, il motivo di gravame deve essere respinto.
Del resto, la prova dell’infondatezza di tale doglianza, emerge dal fatto che secondo ILVA il processo di primo grado sarebbe nullo con conseguente ritorno del giudizio al giudice di primo grado. I casi previsti dagli articoli 353 e 354Cpc, come noto, sono però tassativi (Cassazione 11292/05; 8604/05; sin da Su 12541/98) perché costituiscono deroga al principio generale in base al quale i motivi di nullità si convertono in motivi di gravame: trattandosi poi di disposizioni che si pongono come eccezioni non è possibile l’interpretazione analogica (cfr. articolo 14 preleggi) .
L’eccezione è quindi inammissibile.
La nullità della notificazione del ricorso di primo grado
Sostiene l’appellante ILVA che il ricorso di primo grado RG 510/00 (relativo al demansionamento) sarebbe nullo perché notificato non alla sede legale della Società, in Milano, viale Certosa 249, ma in Genova-Cornigliano, via Muratori, 15.
Al contrario risulta dai documenti in atti (v. ad esempio doc. 12 Boeri, carta intestata della Società ILVA) che mentre la sede legale è all’indirizzo dianzi indicato di Milano, la direzione di stabilimento è in via Muratori, 15 in Genova-Cornigliano..
La notificazione è quindi avvenuta presso una sede che ben può definirsi effettiva in quanto luogo dove si svolge l’attività direttiva ed amministrativa dell’impresa. Non si tratta cioè di una notifica presso un ufficio periferico o distaccato ma presso un ufficio addirittura indicato nella carta intestata della Società (e posto prima della sede legale).
Comunque, come rilevato dalla difesa Boeri, nella memoria di costituzione avverso l’appello incidentale, ai sensi del combinato disposto degli articoli 160 e 156 ultimo comma Cpc «la nullità non può essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato».
ILVA infatti si è regolarmente costituita svolgendo le proprie difese, tra l’altro assai articolate. E la nullità non può pronunciarsi neppure se la costituzione sia avvenuta solo al fine di farla pronunciare (Cassazione 11140/2004; Cassazione 7062/2004).
È infatti principio consolidato sia in dottrina che in giurisprudenza quello secondo cui la costituzione del convenuto in giudizio sana ogni vizio della notificazione e si verifica pertanto una sanatoria con effetti ex tunc.
Omesso rilievo da parte della sentenza impugnata della nullità del ricorso introduttivo della causa Rg 510/00 (causa di demansionamento).
Il motivo di gravame si articola in realtà in tre sottomotivi.
Secondo l’appellante incidentale la Società aveva eccepito nella memoria difensiva il difetto di interesse alla domanda di attribuzione di mansioni proprie del 6^ livello ed il difetto di produzione del contratto collettivo. Inoltre aveva eccepito la nullità del ricorso per omessa descrizione delle mansioni svolte.
Riguardo alle prime due eccezioni, secondo ILVA, il tribunale non si sarebbe espresso con conseguente violazione dell’articolo 112 Cpc e conseguente nullità della sentenza.
Invero entrambe queste due eccezioni sono palesemente infondate.
Quanto alla prima (difetto di interesse), deve innanzitutto premettersi che l’interesse ad agire è una condizione dell’azione e deve essere concreto ed attuale, anche se può sopravvenire in corso di causa, dovendo sussistere al momento della decisione della domanda. (principio della effettività sostanziale) (v. Cassazione 17064/02; 4524/83; 2406/83, 2726/86, tra le tante).
Ciò, posto, il ricorrente è stato sicuramente licenziato dopo la proposizione del ricorso per demansionamento (licenziamento del 3 aprile 2000, notifica del ricorso il 13 marzo 2000) ma ciò che conta è che, avvenuta la riunione del giudizio sul recesso con quello di demansionamento, il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento condannando ILVA a reintegrare il lavoratore nelle mansioni, sicché al momento della pronuncia l’interesse alla domanda di attribuzione di mansioni proprie del 6^ livello sicuramente sussisteva.
Anche l’eccezione relativa alla mancata produzione del CCNL è infondata.
Infatti, se è vero che il CCNL non è stato prodotto con il primo ricorso (ma sicuramente lo è stato prodotto con il secondo), rileva il fatto che il primo ricorso faceva esplicito riferimento al CCNL metalmeccanici pubblici e privati. Gli stessi documenti prodotti richiamavano inoltre tali contratti ed alla udienza del 10 giugno 2003, il ricorrente, senza opposizione alcuna di ILVA, produceva il testo integrale dei due citati contratti.
La mancata produzione non può di certo determinare la nullità del ricorso ma, semmai, la infondatezza delle domande. Comunque nel caso in esame il CCNL era presente in causa sin dall’inizio perché ILVA ne aveva prodotti stralci rilevanti indicandone il contenuto nella memoria difensiva, ed infine il testo integrale di entrambi i CCNL sono stati prodotti sul pacifico accordo delle parti. L’eccezione di nullità del ricorso, di cui a pag. 19 della memoria di costituzione nella causa RG 510/00 deve pertanto ritenersi rinunziata a seguito della non opposizione del procuratore ILVA alla produzione dei documenti (CCNL industria metalmeccanica pubblica e CCNL industria metalmeccanica privata) alla udienza del 10 giugno 2003 (v. verbale di udienza in cui espressamente il difensore dell’ILVA a fronte della produzione dei due CCCNL nulla ha detto, opponendosi invece alla richiesta CTU).
Comunque, per completezza, deve ricordarsi quanto affermato dalla Suprema Corte secondo cui «se la richiesta alle associazioni sindacali, a norma dell'articolo 425 Cpc, di informazioni o del testo dei contratti collettivi costituisce esercizio, da parte del giudice di merito, di una facoltà discrezionale il cui uso è in linea di massima insindacabile in sede di legittimità, il rigore che ispira tale principio non ha ragion d'essere allorquando - come nella specie - non sia controversa l'esistenza di un contratto collettivo ed esso sia stato per di più prodotto in giudizio da una delle parti, con esclusione, dovuta a mero disguido, di quelle norme che avrebbero dovuto formare oggetto di esame: in tal caso, infatti, il contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale comporta per il giudice il potere-dovere di provvedere di ufficio all'acquisizione delle parti mancanti, ai fini della relativa valutazione e interpretazione e del superamento dell'incertezza in ordine ai fatti costitutivi del diritto in contestazione (per riferimenti in tal senso, cfr. Cassazione 9724/94; e 4432/95), a meno che la omessa acquisizione non abbia formato oggetto di adeguata motivazione (ad esempio, mancata esibizione di esse nonostante la sollecitazione rivolta alle parti e-o alle associazioni sindacali)» (Cassazione 2633/97). Pertanto, qualora i CCNL non fossero stati acquisiti al giudizio mediante la produzione sarebbe stato compito del tribunale acquisirli d’ufficio per decidere la causa.
Nullità del ricorso (per demansionamento) per omessa descrizione delle mansioni svolte
Secondo ILVA il ricorso (RG 510/00) doveva essere dichiarato nullo perché carente dei requisiti di cui all’articolo 414 Cpc ed in particolare dell’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fondava. Infatti il Boeri affermava di avere subito il presunto demansionamento a partire dal 1990 quando era stato trasferito dal servizio di vigilanza e veniva assegnato all’archivio tecnico.
Inoltre, sempre secondo ILVA, il ricorrente aveva completamente omesso di descrivere le mansioni che svolgeva nell’ambito del predetto servizio di vigilanza (ossia prima del 1990) limitandosi ad affermare apoditticamente di essere stato inquadrato nella 6^ categoria del CCNL applicato.
In sostanza per accertare che le mansioni svolte dopo il 1990 erano deteriori rispetto a quelle svolte in precedenza occorre conoscere le mansioni antecedenti, per poterle confrontare.
Quanto sostenuto da ILVA sarebbe condivisibile qualora il lavoratore avesse svolto nel tempo diverse attività che solo se comparate tra loro potrebbero fare comprendere il rispetto o la violazione dell’articolo 2103 Cc.
Nel caso in esame, invece, la prospettazione della domanda, come emerge dal ricorso, è quella che a partire dal 1990 il Boeri è stato privato delle mansioni: nel senso che è stato lasciato a non fare nulla, o a svolgere compiti di bassissimo profilo (fotocopie, rifilatura copie fotostatiche), a fronte di un inquadramento sin dal 1985 al 6^ livello.
La domanda quindi di demansionamento è sufficientemente determinata perché al giudice è richiesto di verificare se i fatti allegati (inattività assoluta, fotocopiatura, rifilatura fotocopie) costituiscano o meno, secondo gli invocati CCNL, attività di 6^ livello, livello acquisito pacificamente dal Boeri sin dal 1985.
Nullità dell’atto di appello
Secondo ILVA l’atto di appello sarebbe nullo perché non specificate chiaramente le ragioni di fatto e di diritto in base alle quali la sentenza dovrebbe essere riformata.
Il ricorrente si sarebbe limitato a riproporre nell’atto di appello sic et simpliciter le difese svolte in primo grado, senza individuare specificamente i vizi che inficerebbero la sentenza de qua, né effettuare una precisa e puntuale contestazione sui capi di quest’ultima.
In realtà la semplice lettura dell’atto di appello evidenzia come, con riguardo al primo motivo di gravame (attribuzione al Boeri delle mansioni di 6^ livello), l’appellante critichi la decisione di primo grado che ha dichiarato inammissibile la domanda perché diretta ad ottenere un facere infungibile. Spiega l’appellante che si tratta di un errore di diritto e allega giurisprudenza della Suprema Corte in ordine al diritto del lavoratore ad ottenere la condanna del datore di lavoro ad adibirlo alle mansioni precedentemente svolte. Distingue poi il diverso problema della coercibilità, cioè la possibilità di ottenere l’adempimento esecutivamente, per distinguere proprio il diverso piano dei problemi che il primo giudice ha invece confuso.
Quanto poi al secondo motivo di gravame (demansionamento e conseguente diritto al risarcimento anche per il periodo 1990-1998) in realtà il primo giudice ha omesso di trattarne sicché l’appellante ha esposto tutti gli elementi di fatto e di diritto a sostegno del gravame.
Quanto infine al terzo motivo di gravame il Boeri si duole che sia stata rigettata la domanda di danno morale perché fondata sulla insussistenza di fatto reato. L’appellante ha invece specificamente evidenziato il diverso orientamento giurisprudenziale formatosi nel 2003 ed evidenziando come nella prosecuzione del giudizio di primo grado (per il danno biologico) stesse emergendo elementi del reato di cui all’articolo 590 Cp.
Anche questa complessiva eccezione si appalesa pertanto infondata.
Il primo motivo di appello principale (inammissibilità della domanda di condanna di ILVA ad attribuire le mansioni proprie della 6^ categoria)
Il tribunale ha respinto la domanda perché inammissibile in quanto, per principio generale, non è ammissibile la condanna del datore all’esecuzione di una prestazione infungibile.
La tesi non è condivisible.
La disciplina delle mansioni di cui all’articolo 2103 Cc è disciplina imperativa ed ogni provvedimento ad essa contrario è nullo (cfr. ultimo comma).
La violazione quindi dell’articolo 2103 facoltizza il lavoratore, oltre all’azione risarcitoria, anche all’azione di accertamento e ripristino dello status quo ante.
Il lavoratore potrà quindi chiedere oltre alla dichiarazione di nullità, una pronuncia di condanna del datore all’adempimento in forma specifica, cioè alla rassegnazione delle mansioni precedentemente svolte (o quelle equivalenti, secondo l’esercizio dello jus variandi). La dottrina al riguardo ha definito tale azione ripristinatoria appartenente alla c.d. tutela reale di diritto comune: reale perché «l’ordinamento non riconosce ab origine gli effetti dell’atto vietato, rendendo il rapporto insensibile allo stesso, con il conseguente accertamento della sua persistenza e dell’integrale obbligazione retributiva. Ma di diritto comune perché non è prevista la speciale tutela inibitoria-ripristinatoria data dalla sentenza di condanna all’adempimento con l’ordine di reintegrare il lavoratore nel precedente posto di lavoro di cui al citato articolo 18 statuto lavoratori. Pertanto, alla sentenza di condanna consegue il diritto alla prosecuzione del rapporto e al ripristino dello status quo ante».
Del resto la pronuncia di condanna non può ritenersi inutiliter data solo perché in sede esecutiva non sarebbe suscettibile di esecuzione forzata: infatti dal punto di vista del lavoratore la pronuncia di condanna consente di configurare e misurare il danno risarcibile e soprattutto di rendere meno rischioso l’esercizio della cosiddetta autotutela, di rifiutare cioè un’attività diversa indicata in un provvedimento illegittimo.
Del resto la Suprema Corte ha ormai da tempo affermato che il lavoratore illegittimamente dequalificato e/o demansionamento ha diritto alla reintegrazione nelle originarie mansioni svolte anche se non si tratta di una vera e propria reintegrazione quale quella prevista all’articolo 18 Statuto lavoratori, (Cassazione 6381/97; 9734/98; 4221/99).
In sostanza al lavoratore è accordata la tutela piena con obbligo del datore di lavoro di ripristinare la posizione di lavoro del dipendente.
La domanda è quindi ammissibile e sul punto la sentenza deve essere riformata (anche se, per effetto dell’appello incidentale di ILVA, occorre verificare se effettivamente c’è stato demansionamento).
La dequalificazione dall’aprile 1990 all’ottobre 1998 (secondo motivo di appello principale) e dall’ottobre 1998 al licenziamento (primo motivo di appello incidentale)
I due motivi di gravame devono essere trattati unitariamente.
In realtà il tribunale nulla ha detto relativamente al periodo 1990-1998: la sentenza è sul punto priva di motivazione.
Occorre quindi accertare innanzitutto come si sono svolti i fatti.
Il Boeri, nel ricorso di primo grado, ha allegato di essere stato inquadrato sin dal 1985 tra gli impiegati di 6^ categoria di cui al Ccnl per i dipendenti da aziende metalmeccaniche a partecipazione statale.
Tale inquadramento era stato mantenuto anche con il passaggio nel 1988 al CCNL per gli addetti ad aziende metalmeccaniche private.
Tale allegazione risulta provata dai cedolini paga in atti sicché il Boeri ha diritto ad essere adibito a mansioni corrispondenti a quelle della 6^ categoria del Ccnl in quanto aveva acquisito tale inquadramento.
ILVA ha eccepito nella difesa in primo grado (e la stessa eccezione costituisce motivo di gravame in ordine al periodo di demansionamento riconosciuto dal Tribunale) che tale diritto non sussisterebbe perché l’attribuzione della categoria superiore non corrisponde ad un diritto ma da una generosa erogazione del datore di lavoro.
Rileva peraltro il Collegio al riguardo che, siccome il riconoscimento della qualifica è stato effettuato pacificamente dall’ILVA, era suo onere dare la prova che le mansioni svolte non corrispondessero all’inquadramento formale ma che si trattasero invece di una condizione di miglior favore. Si tratta infatti di una eccezione alla inefficacia del fatto (inquadramento formale nella 6^ categoria) la cui prova, secondo i principi generali, compete a chi l’eccepisce: infatti in caso di eccepita dequalificazione «l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro che l’eccepisce in base all’articolo 2697, comma 2, Cc» (Cassazione 7967/02).
L’onere probatorio che ILVA ritiene che il Boeri non abbia assolto riguarda invece il diverso caso del lavoratore che rivendichi la superiore qualifica, situazione affatto diversa da quella allegata in ricorso.
ILVA ritiene che il teste BILLI avrebbe dato la prova della prassi aziendale in uso in azienda quando era ancora in mano pubblica, prassi secondo cui, quando veniva concesso un aumento retributivo, veniva assegnata, convenzionalmente ed a titolo di superminimo, una categoria contrattuale superiore, pur senza alcun mutamento delle mansioni effettivamente svolte.
Il teste BILLI avrebbe infatti dichiarato che «sotto il regime anteriore all’applicazione del CCNL settore privato era prassi consolidata per l’Italisider, non potendo procedere ad aumenti retributivi, procedere all’inquadramento ad un livello superiore».
Del resto secondo ILVA è emerso pacifico in causa che il Boeri era prima stato inquadrato nella 4^ categoria (sino al 31 dicembre 1980) e successivamente, nella 5^ categoria, pur avendo svolto in tutto questo periodo, come da lui stesso riconosciuto, sempre mansioni di addetto alla vigilanza, mansioni pacificamente inquadrate nella 3^ categoria del Ccnl Intersind (v. doc. 1 ILVA).
In sostanza, secondo ILVA con gli aumenti di categoria la Società non intendeva in modo alcuno conferire al lavoratore il diritto a svolgere le mansioni corrispondenti alla nuova categoria, ma solo attribuirgli il minimo tabellare previsto dal CCNL applicato.
In realtà, anche ad accedere alla tesi ILVA, è in atti la prova che il ricorrente dal 1990 non ha mai svolto neppure mansioni di 3^ livello.
Infatti, nel periodo aprile 1990-ottobre 1998, il BOERI così è risultato occupato:
dall’aprile 90 al marzo 1991 addetto al compito di fotocopiare disegni (fatto ammesso anche da ILVA cfr. punto 15 del paragrafo 1 della memoria di costituzione ILVA in appello);
dall’aprile 91 al 23 gennaio 1994 è stato posto in CIGS (impugnata e dichiarata illegittima);
nel febbraio 1994 è stato licenziato (licenziamento impugnato cui ha fatto seguito reintegra e nuova collocazione in CIGS impugnata e dichiarata illegittima);
il 25 maggio 1994 veniva licenziato e il licenziamento veniva dichiarato illegittimo;
il 2 aprile 1995 veniva reintegrato ed addetto a fare fotocopie;
nell’ottobre 1998 veniva collocato nello stanzone in via Corsica.
Come è possibile apprezzare dai fatti sopra esposti e pacifici tra le parti, il ricorrente dall’aprile 1990 all’ottobre 1998 è stato o fuori azienda (perché illegittimamente cassaintegrato o illegittimamente licenziato), oppure addetto a fare fotocopie.
Si tratta allora di verificare innanzitutto se, l’inquadramento al 3^ livello Ccnl relativo alle mansioni reali assegnate al ricorrente (a fronte di un inquadramento formale di 6^ livello), sia corretto.
I brevi periodi di occupazione hanno riguardato la fotocopiatura di documenti, attività che non rientra nella 3^ categoria perché in essa sono compresi: «i lavoratori qualificati che svolgono attività richiedenti una specifica preparazione risultante da diploma di qualifica di istituti professionali o acquisita attraverso una corrispondente esperienza di lavoro; i lavoratori che, con specifica collaborazione, svolgono attività esecutive di natura tecnica o amministrativa che richiedono in modo particolare preparazione e pratica d’ufficio o corrispondente esperienza di lavoro».
La fotocopiatura di documenti non rientra quindi nel 3^ livello: si tratta infatti di attività estremamente semplice che non richiede alcuna specifica preparazione (tantomeno acquisita con diploma di qualifica di istituti professionali).
Quindi anche ad accedere alla tesi ILVA il BOERI è stato dequalificato perché adibito a fare fotocopie, attività non rientrante nel terzo livello del Ccnl (ed a maggior ragione, secondo il dato formale, nel 6^ livello).
Ma in realtà la sovraqualificazione affermata da ILVA non trova alcun riscontro.
Innanzitutto ILVA non ha allegato, avendone l’onere probatorio, che prima del 1985 (da quando cioè BOERI è stato inquadrato al 6^ livello), il ricorrente svolgesse mansioni inferiori rispetto al livello formale di inquadramento. Infatti la Società ha allegato che il ricorrente svolgeva mansioni di distribuzione buoni pasto, assegnazione degli spogliatoi alle ditte appaltatrici, verifica della presentazione da parte degli stessi di documenti senza peraltro specificate se si trattasse di attività meramente esecutiva o concettuale e quale fosse o non fosse il livello di responsabilità.
In realtà ILVA non ha fornito la minima prova di cosa in concreto il ricorrente facesse: infatti il legale rappresentante si è dichiarato non informato ed i testi nulla hanno riferito in proposito.
Il teste BILLI ha poi riferito, quanto alla prassi di cui sopra, per sentito dire, in quanto all’epoca dei fatti (1985) non era in azienda e comunque non è stato in grado di dire se in concreto BOERI fosse rientrato o meno in tale situazione.
In sostanza manca la prova di una attribuzione convenzionale della qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni effettivamente svolte. Come affermato dalla difesa del BOERI, «manca quindi qualsiasi prova in ordine sia alla congruenza delle mansioni svolte dal 90 in poi rispetto a quelle attribuite fino all’85; manca altresì qualsiasi prova sulla esistenza di una attribuzione convenzionale della qualifica».
Ma la tesi difensiva ILVA, secondo cui il BOERI era una 6^ categoria formale, che però svolgeva mansioni di terzo livello, è smentita innanzitutto dal fatto che le mansioni in concreto svolte erano propri della 2^, se non della 1^ categoria, cioè un lavoro d’ordine di bassissimo rilievo (fare fotocopie), che non richiedeva nessuna tecnicalità e qualificazione.
Inoltre dalla stessa prospettazione difensiva della Società appellata emerge la prova che le mansioni di 6^ livello erano quelle di effettivo inquadramento: e ciò per due ordini di ragioni.
La prima è legata al fatto che come affermato ai punti 41, 42 e 43 di pag. 11 della memoria di costituzione in questo grado, il ricorrente doveva essere inserito nell’Ente Marketing e Statistiche produzione acciaio fra il personale tecnico amministrativo con inquadramento nel 7^ livello impiegatizio del Ccnl industria metalmeccanica privata: mansioni che addirittura al punto 43 in particolare vengono definite assegnate al ricorrente.
La seconda al fatto che con l’accordo di confluenza del 31 maggio 1988 (accordo stipulato tra COGEA –dante causa di ILVA- e OO.SS) le parti avevano espressamente stabilito che «premesso che verranno verificate le categorie professionali attribuibili ai profili dei diversi posti di lavoro, si concorda che l’inquadramento come sopra definito sarà mantenuto ad personam per quei lavoratori che di fatto opereranno in posizioni di lavoro il cui profilo rientri in una categoria professionale inferiore».
Ne deriva allora che quantomeno dal maggio 1988 al ricorrente era stato assegnato l’inquadramento al 6^ livello senza peraltro che negli anni a seguire (per oltre un decennio) venisse da parte ILVA effettuata alcuna verifica sulla sua correttezza: in sostanza, dal 1988, mai ILVA ha verificato che l’inquadramento fosse ad personam; ed allora nel momento in cui il lavoratore chiede mansioni di quel livello è il datore di lavoro che deve provare che tale inquadramento era invece ad personam: ma come si è già detto ILVA nulla ha provato al riguardo. Anzi per ammissione della stessa Società quantomeno dal maggio 1999 per oltre due anni il ricorrente era meritevole della 7^ categoria, categoria peraltro mai assegnatagli: il che fa ritenere ragionevole (secondo l’id quod plerumque accidit) che la 7^ categoria venisse conferita ad un 6^ livello effettivo e non ad un 6^ livello ad personam che in realtà svolgeva mansioni di 3^ livello.
Ma la prova documentale emerge dallo statino (anzi da tutti gli statini prodotti in causa) del ricorrente: nulla è infatti indicato alla voce “ad personam assorbibile” il che comprova che le somme erogate al Boeri riguardavano le mansioni effettive e non mansioni inferiori con mantenimento del superiore inquadramento ad personam.
Risulta quindi provato che dall’aprile 1990 all’ottobre 1998 il ricorrente è stato demansionato.
Al riguardo ILVA lamenta che il Boeri abbia introdotto in questo grado allegazioni nuove costituite dalla inoccupazione per licenziamento illegittimo o collocamento illegittimo in CIGS.
Tale eccezione è destituita di fondamento.
Infatti a pagina 5 del ricorso (RG 510/00) si legge che «l’esponente a partire dal 1990 o è stato totalmente privato di mansioni o è stato adibito a compiti di infimo rilievo propri di un mero fattorino, archivista». Tali conclusioni devono tenere conto dei fatti allegati da pag 1 e ss del ricorso che danno puntuale contezza delle varie CIGS, dei licenziamenti e dei provvedimenti giurisdizionali che avevano annullato tali atti datoriali. Ed allora nella valutazione del periodo di mancata occupazione deve tenersi conto sia dei periodi di illegittimità della CIGS che di quelli fuori azienda per illegittimo licenziamento come indicato appunto a pagina 5 del ricorso intoduttivo.
Del resto il ricorrente chiede il risarcimento del danno per il comportamento tenuto dal datore di lavoro in un arco temporale in cui gli episodi di CIGS e licenziamento costituiscono elementi di un più complesso quadro di demansionamento di cui costituiscono episodi sintomatici.
Quanto al periodo successivo al 22 ottobre 1998, da quando cioè il Boeri è stato trasferito in via Corsica, dall’istruttoria svolta in primo grado è emerso in maniera assolutamente precisa la assurda situazione in cui si è venuto a trovare il ricorrente.
Egli ha affermato di essere stato collocato in uno stanzone scarsamente illuminato dove si trovavano altri colleghi tutti anch’essi privi di mansioni.
Anche se nell’aprile 1999 si parla della costituzione di un nuovo reparto chiamato “marketing e rilevazioni statistiche”, tale progetto rimane sulla carta, almeno così per quanto riguarda la posizione BOERI.
Infatti viene utilizzato per fare qualche fotocopia, alternandosi con 30 colleghi, con una sola fotocopiatrice operante; dopo qualche mese le fotocopiatrici diventano 2 e ad esse si alternano sempre i 30 lavoratori.
Dal settembre 1999, BOERI rimase senza nulla fare.
I fatti sopra esposti sono stati confermati dai testi escussi.
Il teste MINI riferisce che nell’ottobre 1998 i dipendenti che erano stati fisicamente ubicati nel salone in via Corsica non avevano alcun compito neppure modesto da svolgere e tra questi vi era appunto il ricorrente. Il teste ha poi confermato il capitolo 15 del ricorso, e cioè che dopo il rientro dalla CIGO, e costituito l’ufficio marketing, l’unica attività svolta dal ricorrente fu quella di fare qualche fotocopia alternandosi con altri 30 colleghi a due sole macchine per le fotocopie precisando che dopo tale attività di fotocopiatura il ricorrente non ebbe più nulla da fare.
Il teste DE NADAI riferisce che «proprio nell’ottobre 98 conobbe il ricorrente, il quale non svolgeva alcun compito operativo così come i suoi colleghi».
Al rientro dalla CIGO riferisce che i telefoni non erano collegati con l’esterno e che non c’era alcuna attrezzatura fatta eccezione inizialmente per una fotocopiatrice (che funzionava male, teste De Nadai, successivamente ne arrivò un’altra) con cui i lavoratori furono utilizzati per attività di fotocopiatura che li occupò per circa 4 mesi per non più di 20 ore complessive a testa (il teste ha riferito il calcolo effettuato «vista la situazione di inattività io sin da allora effettuai dei calcoli per individuare il lavoro complessivo del reparto e quantificato in 1000 h in circa un anno e un mese, poi facendo la divisione è venuto fuori approssimativamente un’attività individuale di 20h»).
Finita l’attività di fotocopiatura il ricorrente non ebbe più nulla da fare. Anche il teste Croce ha riferito che il BOERI in via Corsica non aveva nulla da fare e la stessa dichiarazione è stata fatta dal teste BERGAMASCHI che parla di poche fotocopie.
Anche il teste BILLI ha riferito che dall’ottobre a dicembre 98 il BOERI era «rimasto costantemente a disposizione dell’ufficio personale», ma nulla sa dire anche per il periodo successivo in che cosa consistessero le attività svolte.
In sostanza emerge che di tutti i testi escussi ben cinque hanno riferito che BOERI, a parte qualche fotocopia non ha svolto alcuna attività rimanendo del tutto inoperoso, mentre tre testi (SIRTORI, SCARPELLINI e BILLI, tutti indotti da ILVA) hanno confermato che il ricorrente negli ultimi mesi del 1998 era a disposizione della Società, ma nulla hanno riferito dicendo che non erano a conoscenza dell’attività del ricorrente.
In concreto è emerso che il BOERI ha svolto per pochi minuti al giorno qualche fotocopia rimanendo per la restante parte della giornata lavorativa privo di mansioni.
ILVA ha quindi negato in radice, con il suo comportamento, dal punto di vista datoriale, l’essenza della subordinazione, smettendo di essere datore di lavoro e violando così quanto stabilito dall’articolo 2103 Cc.
Il rapporto di lavoro infatti richiede che una delle due parti, cioè il datore di lavoro, assegni al lavoratore le mansioni: e ciò deve avvenire quotidianamente onde evitare che il lavoratore rimanga senza lavoro, perché se ciò avviene il datore di lavoro si rende inadempiente.
Da ciò deriva che la sentenza di primo grado deve essere riformata per quanto riguarda il demansionamento attuato da ILVA nel periodo dall’aprile 1990 all’ottobre 1998 mentre la sentenza merita conferma (con conseguente rigetto dell’appello incidentale sul punto di ILVA) per il periodo dall’ottobre 1998 al dì del licenziamento.
La decadenza dall’impugnare le sanzione disciplinare conservativa
ILVA aveva eccepito in primo grado, e sul punto il tribunale nulla aveva detto, che la sanzione conservativa irrogata al ricorrente non era stata impugnata nel termine decadenziale di cui all’articolo 7 St. lav.
Tale eccezione, riproposta come motivo di gravame, è del tutto infondata.
Non risulta che l’articolo 7 preveda un temine di decadenza entro cui impugnare le sanzioni conservative. Forse ILVA si riferisce (perché il riferimento all’articolo 7 è generico non venendo indicato il comma) al termine di 20 giorni previsto per il promovimento del collegio di conciliazione ed arbitrato. Ma nel caso in esame è stata adita l’autorità giudiziaria, sicché l’unico termine per promuovere l’impugnativa è quello di prescrizione ben lungi dall’essere spirato.
La decadenza dell’impugnativa di licenziamento per omessa impugnazione
Anche questa eccezione è del tutto infondata.
Sostiene ILVA che la lettera di impugnativa del licenziamentro non essendo stata inviata alla sede legale ma allo stabilimento produttivo di Genova Cornigliano, sarebbe improduttiva di effetti e quindi il licenziamento non sarebbe stato impugnato nel termine di sessanta giorni previsto, a pena di decadenza, dall’articolo 6 l. 604/66.
Risulta dalla documentazione in atti che lo stabilimento produttivo di Genova-Cornigliano era lo stabilimento presso cui il ricorrente era addetto, quello che risultava dai listini paga (riportanti la dicitura “ILVA stabilimento di Genova-Cornigliano”), nonché quello da cui era partita la lettera di licenziamento, e prima ancora la lettera di contestazione. Inoltre il ricorrente aveva già inviato presso lo stabilimento la lettera di giustificazione che era stata regolarmente ricevuta, tanto che se ne fa cenno nella lettera di licenziamento.
Ma ancor prima il Boeri aveva inviato presso lo stabilimento la propria contestazione e la richiesta di vedersi assegnato un lavoro, richiesta riscontrata il 15 febbraio 2000 e da tale stabilimento perveniva la lettera 13 marzo 2000 con cui gli si contestava l’assenza ingiustificata, a cui Boeri rispondeva (sempre inviando lettera presso lo stabilimento) prima di vedersi sanzionato con la sospensione. Anche in quel caso ILVA dava atto nel provvedimento di avere regolarmente ricevuto le giustificazioni.
ILVA sostiene che la natura recettizia della impugnativa determinerebbe la necessità di indirizzarla alla sede legale, mentre le altre comunicazione, come quelle appunto sopra menzionate, non avrebbero tale natura e quindi potrebbero validamente rivolgersi anche allo stabilimento cui il lavoratore è addetto.
In realtà ritiene il Collegio che anche gli atti sopra menzionati hanno natura recettizia: natura recettiva ha la lettera di contestazione, così come natura recettizia ha la lettera di giustificazioni.
In realtà la recettizietà vuole solo dire che l’atto produce i suoi effetti quando giunge nella sfera di conoscenza del destinatario, sfera di conoscenza che il legislatore tra l’altro presume. Era quindi ILVA che doveva dare la prova (rigorosa) di non essere pervenuta a conoscenza dell’atto di recesso.
Ma la lettera di recesso non è stata spedita dalla sede di Milano ma proprio dallo stabilimento di Genova-Cornigliano su carta intestata di quello stabilimento. Ed infatti ILVA si è ben guardata dallo sostenere di mai avere ricevuto la lettera: d’altra parte essendo intercorsa tutta la corrispondenza tra il Boeri e la Società presso lo stabilimento di Genova, la valutazione di tale situazione (ed in particolare il comportamento tenuto da ILVA che invia lettera dallo stabilimento, rispondendo a quelle ricevute dal BOERI e dando riscontro delle giustificazioni del lavoratore in due provvedimenti disciplinari), se valutata secondo buona fede, porta inevitabilmente a ritenere che nel lavoratore si era determinato l’affidamento sull’idoneità della struttura a ricevere atti ricettivi destinati alla società e riguardanti l’attività lavorativa svolta presso quella struttura.
Il Licenziamento e la sanzione disciplinare conservativa
Secondo ILVA il licenziamento sarebbe illegittimo perché BOERI non poteva sospendere unilateralmente la propria attività lavorativa perché non era stato attuato alcun demansionamento e quindi il lavoratore non poteva rendersi inadempiente sospendendo unilateralmente l’attività lavorativa.
Il Boeri come si è visto ha iniziato ad essere dequalificato nell’aprile 1990.
Nel febbraio 2000, dopo in sostanza 10 anni trascorsi tra cassa integrazione e licenziamenti illegittimi, fare qualche fotocopia e null’altro, il lavoratore decise di scrivere all’azienda lettera del seguente tenore:

 

                                                                                   “Torpiana di Zignago, 10/2/2000
R.R.R.                                                            Spett. ILVA S.p.A.
                                                                                   Via Muratori 15
                                                                                   16152 Cornigliano-Genova

Come vi è noto, dal 1 luglio 1976 sono Vostro dipendente.
Dal 1985 sono inquadrato nella 6^ categoria di cui al CCNL di settore.
A partire dal 1988 mi avete sottoposto ad una serie di provvedimenti, vessazioni, privazione di compiti, messa in cassa integrazione, licenziamento, che già sono stati dichiarati illegittimi da pronuncie della magistratura passata in giudicato.
Da ultimo, al mio rientro in servizio, dopo la sentenza di declaratoria della illegittimità del licenziamento, mi avete dapprima adibito al compito di fare saltuariamente qualche fotocopia, quindi mi avete totalmente privato di compiti.
È evidente che non posso tollerare più oltre tale modo di procedere anche perché ha determinato gravi conseguenze nel mio stato di salute che non potrebbe che aggravarsi con il passare di tale situazione.
In conseguenza Vi affido ad attribuirmi compiti coerenti e coerenti con il mio inquadramento e la mia professionalità.
Resta ovviamente inteso che ove non provvediate entro e non oltre 10 giorni dal ricevimento della presente mi vedrò costretto, allo scopo quantomeno di ridurre il danno, a non presentarmi più in servizio, pur restando a Vostra disposizione per lo svolgimento- se e quando lo riterrete opportuno, di una attività lavorativa conforme e coerente con la mia posizione e il mio inquadramento.
Fermo ovviamente il diritto alla retribuzione e il diritto al risarcimento del danno procurato e procurandi”.
Il Boeri quindi a fronte di un grave demansionamento (e non dequalificazione) effettuato da ILVA nei suoi confronti ha reagito, e ciò ha fatto dopo che era anche peggiorata la situazione di salute (v. certificato clinica Devoto del 5 novembre 1999 e dott. Venuti del 17 gennaio 2000 ove si legge che «il perdurare di tale fattore psichico stressante ha di fatto determinato una composizione del funzionamento sociale ed occupazionale del p. inoltre, allo stato attuale è prevedibile un aggravamento della situazione psico morbosa in atto con possibili ripercussioni anche irreversibile, sul futuro psicologico del p. stesso»). E di ciò dà atto nella lettera sopra trascritta in cui tra l’altro non dichiara all’azienda di non presentarsi più al lavoro, ma richiede all’azienda di adempiere, assegnandogli un lavoro, perché diversamente sarà costretto, per ridurre il danno, a non presentarsi più in servizio, «pur restando a disposizione per lo svolgimento, se e quando lo riterrete opportuno, di una attività lavorativa conforme e coerente con la mia posizione e il mio inquadramento».
A tale lettera ILVA rispondeva nei seguenti termini:
In riferimento alla Sua raccomandata del 10.02.2000, Le comunichiamo che l’attuale posizione da Ella ricoperta è a nostro giudizio conforme al Suo inquadramento.
Non possiamo pertanto acconsentire alla Sua richiesta di non presentarsi più in servizio. Qualunque assenza non debitamente giustificata sarà considerata infrazione disciplinare a norma del vigente CCNL.
Il Boeri, che nel frattempo si era recato regolarmente presso il luogo di lavoro, così rispondeva:
«Riscontro la Vostra del 15 febbraio 2000.
È veramente grottesco che affermiate che l’attuale posizione è conforme all’inquadramento.
La mia attuale posizione –da mesi se non da quasi un anno e mezzo- è quella di stare seduto ad una scrivania totalmente vuota!!!
Nell’arco di tempo suddetto ho solo fatto qualche fotocopia ed un lavoro a computer di qualche ora.
Non sono più in grado di reggere lo stress, la umiliazione che tale situazione comporta.
In tale situazione non posso fare altro che restarmene a casa in attesa che Vi decidiate ad attribuirmi un lavoro preciso, concreto, conforme al mio inquadramento e alla mia professionalità.
Resta peraltro fermo il mio diritto alla retribuzione e al risarcimento del gravissimo danno che mi avete fin qui procurato.
Distinti saluti».
Nel caso in esame, come risulta dalla corrispondenza intercorsa, il lavoratore, a fronte del protratto e reiterato inadempimento datoriale, ha agito con una certa cautela chiedendo di essere messo in condizione di lavorare, ed anzi anticipando la futura condotta onde non aggravare la propria condizione di salute (su cui il datore di lavoro ha l’obbligo di protezione ex articolo 2087 Cc).
Ora il datore di lavoro si chiama appunto così perché deve (e non può) assegnare il lavoro, secondo le mansioni pattuite o quelle comunque dovute ex articolo 2103 Cc. È quindi di assoluta evidenza l’inadempimento di ILVA che ha leso il diritto del Boeri a lavorare.
L’articolo 2103 Cc, infatti, consacra il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni corrispondenti alla propria qualifica e tale disposizione viene violata ogniqualvolta il dipendente sia assegnato non solo a mansioni inferiori (c.d. dequalificazione), ma anche (e soprattutto) quando il medesimo (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti (c.d. demansionamento), costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto (cfr. Cassazione 8835/91).
Occorre allora stabilire se al reiterato inadempimento di ILVA risulta corretta la reazione del Boeri di non presentarsi più al lavoro, pur rimanendo a disposizione seppure a casa propria.
La correttezza risulta per due ordini di ragioni.
La prima trova ragione nell’articolo 1460 Cc secondo cui, nel contratto a prestazioni corrispettive, un contraente può rifiutare di adempiere alla sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente alla propria (il concetto di contemporaneità non consente che una parte possa procrastinare il proprio adempimento, pretendendo l’altrui). Al riguardo questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’adempimento datoriale rilevante a tal fine «non consiste soltanto nella retribuzione, ma nella adibizione del lavoratore a mansioni per le quali è stato assunto, cosicché può dirsi che l’oggetto del contratto è lo svolgimento di prestazione lavorativa con attribuzione di mansioni adeguate ex articolo 2103 Cc, dietro pagamento di retribuzione. In caso contrario, (…) limitando l’obbligazione datoriale alla sola retribuzione, si giungerebbe ad ammettere che un datore possa pretendere – come avvenuto nel caso di specie – la presenza del dipendente nel luogo di lavoro senza espletamento di alcun compito, con conseguente violazione dei principi di diritto al lavoro (che deve intendersi pieno, non limitato alla retribuzione) e di dignità dell’individuo, ridotto - perché economicamente debole - alla mera soggezione al volere altrui nella totale inattività» (Lasagna/Ilva, 2.4.2003).
Inoltre deve rilevarsi come l’azienda, proprio per il fatto che nessun compito gli aveva attribuito, non aveva alcun interesse alla sua prestazione – che non esisteva – e quindi non poteva essere pregiudicata in alcun modo dalla sua assenza: per vedere riconosciute la ragioni poste a base del licenziamento, avrebbe dovuto invece dimostrare che esistevano mansioni concrete ed attuali da attribuire al Boeri, eventualmente anche inferiori, in quanto solo in tal caso in comportamento dell’appellante sarebbe stato ingiustificato.
Tale ragionamento è fondato sul disposto dell’articolo 1455 Cc, che detta la regola secondo la quale «il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra»: come detto, nessuna dimostrazione è stata data circa l’interesse dell’Ilva a mantenere la mera presenza sul posto di lavoro del Boeri, mentre l’assenza dal dipendente era connotata – nel concreto – da scarsa importanza, poiché nessuna attività concreta era chiamato a svolgere.
Sussistono quindi tutti gli elementi previsti dall’eccezione di cui al citato articolo 1460 Cc: infatti la reazione del Boeri deve considerarsi proporzionata al comportamento tenuto dall’ILVA; quest’ultimo infatti era costituito dallo svuotamento di mansioni e sotto tale profilo era quindi totalmente inadempiente. Il comportamento contra legem (articolo 2103 Cc) inoltre è stato tenuto per un periodo di tempo significativo, e la decisione del Boeri quindi è maturata nonostante la messa in mora. Il non recarsi più al lavoro ha costituito pertanto la estrema ratio, tra l’altro onde evitare compromissione ulteriore di beni costituzionalmente protetti (diritto al lavoro, diritto alla salute). Il comportamento è quindi proporzionato all’inadempimento di ILVA ed inoltre è stato tenuto con buona fede. Infatti Boeri ha prima messo in mora l’azienda e si è tenuto a sua disposizione, dichiarandosi disposto a svolgere le mansioni cui doveva essere adibito (sulla necessità della buona fede e della proporzione v. Cassazione 12121/95; 2346/87).
Il secondo ordine di ragioni muove dal fatto che il comportamento tenuto da ILVA (demansionamento) si pone “al di fuori del contenuto contrattuale” (Cassazione 13187/91; 1088/94), sicché non è dovuta la prestazione richiesta in violazione del limite al potere datoriale di modificazione delle mansioni (nel caso in esame modificazione attuata con lo svuotamento delle mansioni stesse).
Il lavoratore quindi non ha rifiutato una prestazione dovuta, ma una prestazione non dovuta. Nessun inadempimento quindi da parte del Boeri.
Per completezza deve tra l’altro osservarsi che ancora di recente la Suprema corte ha affermato, in ipotesi vicina a quella in esame, fattispecie costituita da un caso di trasferimento immotivato, «che gli atti nulli non producono effetti; non si può invece ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio (…)» (Cassazione 18209/02). Il Boeri non ha quindi posto in essere nessun comportamento sanzionabile.
Priva di rilievo poi la considerazione che il Boeri avrebbe ritardato la reazione mostrando quindi acquiescenza al comportamento datoriale.
A parte il fatto che come emerge dall’ultimo comma dell’articolo 2103 Cc ogni patto contrario al demansionamento è nullo (quindi anche il patto per facta concludentia), sicché nessuna acquiescenza potrebbe mai verificarsi, deve invece osservarsi che il Boeri prima di prendere una iniziativa sicuramente molto grave ha cercato di risolvere la situazione invitando il datore di lavoro ad essere adempiente. ILVA non può quindi invocare ritardo nel comportamento del lavoratore che avrebbe sopportato la situazione di demansionamento senza ricorrere a efficaci mezzi di tutela che il nostro ordinamento mette a disposizione dei lavoratori.
Del resto, a ben vedere, l’eccezione di inadempimento non è altro che una forma legittima di autotutela, anche se più rischiosa rispetto alla richiesta ad esempio di un provvedimento cautelare che accertasse il perdurante inadempimento datoriale.
Il licenziamento intimato al ricorrente, nonché la precedente sanzione conservativa, sono dunque illegittimi perché in entrambe le occasioni le assenze dal lavoro sono avvenute a seguito della legittima autotutela posta in essere dal Boeri a fronte dell’inadempimento datoriale. In altri termini, non sussistono i presupposti oggettivi e soggettivi posti alla base delle sanzioni disciplinari perché la nullità dell’attività posta in essere da ILVA (demansionamento), rende illegittime le sanzioni disciplinari, non sussistendo alcun comportamento sanzionabile.
La sentenza sul punto merita pertanto conferma.
Il risarcimento del danno
Il ricorrente ha proposto appello principale perché il tribunale non aveva riconosciuto il demansionamento per il periodo aprile 1990-ottobre 1998. Il Collegio ha riformato sul punto la sentenza sicché deve innanzitutto affrontarsi il tema del risarcimento del danno subito dal lavoratore relativamente a tale periodo.
Peraltro è necessario premettere al riguardo che a seguito degli arresti giurisprudenziali della primavera-estate 2003 (Cassazione 8827/03 e 8828; Corte costituzionale 233/03) il quadro di riferimento legislativo per il danno patrimoniale e non patrimoniale è il seguente:
il danno patrimoniale resta sempre ancorato al paradigma dell’articolo 2043 Cc;
il danno non patrimoniale invece trova tutela ampia ed articolata nell'articolo 2059 Cc ma:
non più nell’interpretazione restrittiva ed esclusiva che l’applicava ai casi tradizionali del danno morale soggettivo (ex articolo 185 Cp);
ma bensì, in tutti i casi di lesioni che, incidendo sui valori della persona costituzionalmente garantiti non possono non costituire figure di danno risarcibile, a prescindere da risvolti penalistici, non più condizionanti.
«Dalla nuova sistemazione deriva che il danno non patrimoniale è categoria ampia, nella quale trovano collocazione tutte le ipotesi di lesione di valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo (concretantesi nella perturbatio dell'animo della vittima), sia il danno biologico in senso stretto (o danno all'integrità fisica e psichica, coperto dalla garanzia dell'articolo 32 Costituzione), sia il c.d. danno esistenziale (o danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale)» (CdS, 125/06).
Orbene, deve innanzitutto rilevarsi, come il diritto a lavorare e il conseguente diritto alle mansioni è diritto che trova fondamento ancor prima che nell’articolo 2103 Cc in precisi parametri costituzionali. Infatti il lavoro è mezzo che consente all’individuo di esplicare la propria personalità sicché la sua compromissione costituisce violazione dell’articolo 1, articolo 2, comma 1, articolo 4, comma 1 e 35, comma 1, della Costituzione (cfr. Cassazione 2763/03; Cassazione 14199/01). In particolare, «la lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale principio di diritto, benché non condiviso da una parte della dottrina, deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato,che non è puramente di scambio, ai sensi degli articoli 1174 e 1321 Cc, coinvolge la persona del lavoratore, e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (articolo 2094 Cc), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell’uomo che lavora; il principio di esecuzione di buona fede del contratto di assunzione (articolo 1375 Cc); infine l’attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico, valorizza la funzione delle prestazione lavorativa in tal senso» (Cassazione 14199/01).
Peraltro occorre evidenziare come la condotta di demansionamento sia condotta plurioffensiva: infatti tale condotta può ledere sia diritti patrimoniali che non patrimoniali e questi ultimi possono consistere sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità psico-fisica, sia nella lesione al diritto alla professionalità, all’immagine, alla vita di relazione.
Ed infatti il ricorrente ha allegato di avere subito danno biologico (domanda in ordine alla quale il tribunale ha disposto ulteriore istruttoria), nonché alla professionalità, all’immagine, alla vita di relazione. Si tratta di danni c.d. danni esistenziali (secondo la più recente classificazione della dottrina) danni cioè che attengono al peggioramento della qualità della vita del soggetto.
Nel caso in esame è indubbio che il Boeri, che svolgeva una certa attività lavorativa con cui esplicava la propria personalità, ha cessato di svolgerla per l’illegittimo comportamento di ILVA. È provato quindi l’esistenza della violazione del diritto costituzionalmente protetto nonché la sua lesione.
Occorre ora quantificare il danno.
Al riguardo è pacifico che nessun danno patrimoniale viene rivendicato dal Boeri il quale chiede gli venga invece risarcito il danno relativo al mero fatto del demansionamento.
Siccome il demansionamento costituisce lesione di un bene non patrimoniale attinente alla sfera del lavoratore, la sua lesione viene a determinare un danno, costituito dall’entità del sacrificio sofferto nel singolo caso dal lavoratore.
Ora nel caso in esame, secondo l’id quod plerumque accidit, è oltre ogni ragionevole dubbio ritenere che il Boeri sia stato leso nella sua dignità professionale e nella sua immagine di lavoratore, tanto più che il demansionamento non è durato qualche giorno ma per lunghissimo periodo. È quindi ragionevole ritenere che proprio per il lungo tempo trascorso senza svolgere la propria attività, perché nulla faceva o perché svolgeva attività marginali come quella di focopiatura e tra l’altro per poco tempo nella giornata, il Boeri sia stato leso proprio nella dignità di svolgere un’attività lavorativa con cui realizzare la propria personalità. Il Boeri in sostanza è stato posto in essere nella condizione di non poter più fare il proprio lavoro, di non potere più agire per quel fine. Con il demansionamento ILVA ha privato il ricorrente, secondo il comune sentire, della soddisfazione che ciascuna persona trae dal lavoro. È quindi provato che il ricorrente abbia subito un danno dal demansionamento subito.
Per quanto riguarda la sua quantificazione ritiene il Collegio che la retribuzione possa ben essere utilizzata come parametro di riferimento. Infatti la retribuzione misura le mansioni del lavoratore perché costituisce il corrispettivo per l’attività lavorativa, sicché a rovescio ben può costituire il parametro per misurare l’attività non svolta, ma che doveva invece essere svolta.
Quanto alla percentuale di retribuzione, ritiene il Collegio, che vada determinata nel 50% della retribuzione globale di fatto maturata in tale periodo e che tale percentuale possa costituire adeguato ristoro al danno non patrimoniale subito.
Dal risarcimento così determinato deve peraltro detrarsi quanto già corrisposto da ILVA al Boeri a titolo di TFR, titolo che è venuto meno a seguito della disposta reintegrazione nel posto di lavoro. Il tutto oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze fissate per il pagamento della retribuzione al soddisfo.
Il danno morale
Il tribunale ha respinto la domanda del ricorrente tesa ad ottenere il risarcimento del c.d. danno morale, perché non conseguente a fatto reato.
La tesi del tribunale è ormai stata superata dalla giurisprudenza della primavera-estate 2003, sopra citata
Il c.d. danno morale transeunte può quindi essere risarcito anche in assenza di fatto reato purchè, come nel caso in esame, siano lesi diritti di rango costituzionale.
Il periodo da prendere in esame inizia nell’aprile 1990 e termine con il recesso.
Come ampiamente sopra argomentato il ricorrente ha subito un comportamento di demansionamento continuato, una sorta di illecito permanente, che è cessato con il licenziamento. È quindi evidente che ogni giorno di demansionamento ha determinato la c.d. pecunia doloris,
Occorre per chiarezza non confondere tale danno con quello non patrimoniale liquidato per la lesione della professionalità e dignità del lavoratore.
Quello morale attiene infatti all’intimo sentire della persona offesa, mentre il secondo riguarda proprio il fatto storico di non avere potuto più svolgere le mansioni.
Il primo si sostanzia quindi nel fatto che dalla forzata inattività lavorativa viene meno la considerazione in se stessi, diminuisce l’autostima ed il senso di sentirsi utile per qualcosa, elementi tutti che attengono la sfera più intima della persona.
Ritiene allora il Collegio che tale danno vada risarcito in via equitativa nella misura di complessiva di euro 15.000 onnicomprensivi al valore attuale.

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Nel resto la sentenza deve essere confermata e l’appello incidentale per quanto sopra argomentato respinto.
Le spese del grado, nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
 
Definitivamente pronunciando sull’appello proposto contro la sentenza 1673 emessa in data 10.6.2003 dal Tribunale di Genova
In parziale riforma dell’impugnata sentenza
Condanna ILVA sp, in persona del legale rappresentante pro tempore ad attribuire a BOERI Giorgio le mansioni proprie della 6^ categoria di cui al CCNL di settore;
accerta che il demansionamento si è verificato anche per il periodo dall’aprile 1990 all’ottobre 1998 e conseguentemente condanna l’ILVA Spa a risarcire al ricorrente il danno subito corrispondendogli il 50% della retribuzione globale di fatto maturate in tale periodo, detratto quanto già corrispostogli a titolo di TFR; il tutto oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze fissate per il pagamento della retribuzione al soddisfo.
Condanna ILVA Spa a risarcire a Boeri Giorgio il danno morale per il periodo dall’aprile 1990 al dì del licenziamento che quantifica in euro 15.000,00 onnicomprensivi al valore attuale.
Conferma nel resto e respinge l’appello incidentale.
Condanna ILVA Spa al pagamento a favore del Boeri delle spese processuali del presente grado di giudizio che liquida in euro 12,00per esborsi, euro 1.700,00 per diritti ed euro 5000,00 per onorari oltre rimborso spese forfetario, IVA e CPA.

Il Presidente (G. Russo)

Il Giudice est, (E.Ravera)

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