Inutili insistenze nella richiesta di prova del pregiudizio da demansionamento: il danno è “in re ipsa”! (*)

 

Sommario:

1.     La nuova decisione di Cass. 1 giugno 2002, n. 7967, in tema di dequalificazione del dirigente

2.    Anche la consistente riduzione quantitativa dei compiti configura la fattispecie dequalificatoria

3.    Rilievi critici sull’asserito onore probatorio dei danni da dequalificazione alla c.d.               “professionalità oggettiva”, correlati a pregiudizi patrimoniali da perdita di “chance” di progressione di carriera all’interno e da privazione (per obsolescenza) di prospettive di ricollocazione all’esterno, sul mercato del lavoro. La necessità del ricorso alle presunzioni ex artt. 2727 e 2729 cod.civ.

 

1. La nuova decisione di Cass. 1 giugno 2002, n. 7967, in tema di dequalificazione del dirigente

 

La nuova decisione della Cassazione n. 7967 del 1 giugno 2002 (1), in tema di demansionamento “quantitativo” – da cui prendiamo le mosse per svolgere addizionali considerazioni sul tema in generale della dequalificazione, dibattuto anche in precedenti decisioni quali la n. 14443/2000 e 10/2002 – risulta pienamente confermativa dell’orientamento oramai consolidato sulla immanenza del danno alla professionalità, conseguente a demansionamento o forzata inattività, non necessitante di prova del pregiudizio subito. Purtuttavia nelle eccezioni difensive dei legali aziendali si riscontra – come nel caso di specie deciso da Cass. n. 7967/2002 – un insistito richiamo alla mancata dimostrazione da parte del demansionato del pregiudizio subito alla professionalità. Si tratta di un’insistenza vana perché oramai si è giunti a riconoscere che il pregiudizio alla professionalità è in re ipsa, consequenziale all’inutilizzo della medesima, lesivo del diritto al lavoro e all’autorealizzazione nella prestazione di lavoro (quindi di diritti inviolabili della personalità e della dignità dell’uomo, rinvenibili negli artt. 4, 35, 1 co., 41, 2 co., Cost. ).

La decisione in questione non si discosta dagli - anzi riconferma esplicitamente gli - autorevoli precedenti [(costituiti da Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299 (2), Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727(3); Cass. 6 novembre 2000 n. 14443 (4), Cass. 7 luglio 2001, n. 9228 (5), Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033 (6), Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 (7), Cass. 14 novembre 2001, nn. 14189 e 14199 (8), Cass. 2 gennaio 2002, n. 10 (9)] che hanno consolidato l’orientamento della immanenza ( o per cosi dire “in re ipsa”) del danno alla professionalità da demansionamento. Risulta peraltro di interesse in quanto conferisce, anche se non è la prima volta che la Cassazione lo fa, risalto al demansionamento “quantitativo” di una certa consistenza - concretizzantesi nella sottrazione di compiti e incarichi significativi e costituente dequalificazione al pari di quello “qualitativo” - relegando indirettamente tra le insipienze le considerazioni volte alla sua negazione ed incentrate, per accreditarne il disconoscimento, sulla banale considerazione per cui “il lavoratore dovrebbe essere ben contento di una diminuzione quantitativa dei compiti e degli incarichi, tali da lasciargli più tempo libero per il relax e la distensione salutare, non già lagnarsi della sollevazione da incombenze, trasferite ad altri”.

La massima (da noi redatta) della decisione è la seguente: «Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'art. 2103 cod. civ. fonda un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro; tale giurisprudenza motiva il suo convincimento sia con il tenore testuale della norma citata, la quale dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia con la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 1° comma, 4, 1° comma, e 35, 1° comma, Cost. La lesione di tale interesse della persona, che assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro prevedente una determinata prestazione, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale.

Tale principio di diritto deve essere qui ribadito, perché esso trova sicuro fondamento giuridico in molteplici valutazioni giuridiche: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 cod. civ., coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 cod. civ.), sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora; il principio di esecuzione in buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 cod. civ.); infine l'attuale evoluzione del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso.

Diversamente da quanto opina la ricorrente incidentale, non solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito, può comportare dequalificazione. E’ evidente poi che ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione quantitativa delle mansioni, l’onere processuale di dedurre e provare lo svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al convenuto datore di lavoro, che l’eccepisce, in base all’art. 2697, 2° comma, cod. civ., del quale erroneamente la ricorrente incidentale deduce violazione.

Ove la parte abbia chiesto, con domanda di condanna specifica, la liquidazione del danno da dequalificazione, il giudice del merito che abbia accertato, anche tramite la prova presuntiva, l'esistenza di un danno patrimoniale da dequalificazione (nella specie per significativa riduzione quantitativa della mansioni), non può sottrarsi all'obbligo di una sua determinazione, anche in via equitatìva, per la quale può costituire utile elemento di riferimento l'entità della retribuzione, che la parte stessa abbia ritualmente chiesto di provare mediante produzione di buste paga (non allegate in primo grado ma depositate in sede di appello)».

Nella fattispecie un dirigente d’azienda era stato spostato (come si usa fare quando si vuole mobbizzare ed indurre alle dimissioni un soggetto scomodo) ad incarichi speciali – consistenti in “inconsistenti” compiti di “ricerche di mercato” - e quivi lasciato praticamente inattivo per circa un anno. Adito il magistrato questi aveva riconosciuto il demansionamento e rinviato per l’indennizzo a separato giudizio. Il Tribunale di Roma in sede di appello aveva confermato la dequalificazione su testimonianze concordanti ed in via di presunzione (per raffronto tra le vecchie e le nuove mansioni) osservando che non si poteva pretendere la dimostrazione del pregiudizio patrimoniale del danno alla professionalità destinata a risolversi in una “prova diabolica” per il lavoratore, ma – a mò di beffa – aveva negato il risarcimento perché non sarebbero state fornite dal ricorrente le indicazioni (l’ammontare della retribuzione) da utilizzare quale parametro per la liquidazione equitativa. Anzi aveva respinto, come nuove prove, la produzione in appello di due buste paga, dalle quali il Tribunale avrebbe potuto (rectius, dovuto) desumere il parametro per la liquidazione equitativa del danno alla professionalità. La Cassazione nel convenire con l’affermazione di principio in ordine alla correttezza dei criteri (testimonianze e prove presuntive) utilizzate per raggiungere il convincimento della sussistenza della del demansionamento (nel caso da incisiva riduzione quantitativa delle mansioni, idonea anch’essa, se significativa, a determinare dequalificazione alla pari del peggioramento qualitativo delle stesse), ha censurato il mancato accoglimento da parte del Collegio d’appello della richiesta di indennizzo, stante il potere-dovere del giudice di procedere alla liquidazione equitativa, una volta accertato il danno professionale, ed ancor più l’errore compiuto dal Tribunale nel non consentire la produzione in appello delle buste paga da cui desumere il parametro della retribuzione, in quanto, come ha dovuto insegnargli la Cassazione, tali documenti non costituiscono – per giurisprudenza consolidata – “prove nuove” ma c.d. “prove precostituite”, strutturate da documenti preesistenti, producibili anche in grado di appello, nell’atto di ricorso, nel caso se ne sia omessa la produzione nel giudizio di primo grado (cfr. di recente, Cass. 5 agosto 2000, n. 10335).

 

2. Anche la consistente riduzione quantitativa dei compiti configura la fattispecie dequalificatoria

 

Sulla idoneità a configurare dequalificazione anche da parte di una consistente riduzione quantitativa delle mansioni – stante l’intrinseca correlazione tra aspetti quantitativi e qualitativi delle mansioni – ed in contrasto con irridenti opinioni correnti a connotazione negativa fondate sull’esaltazione gratificante dell’ozio, aveva avuto modo di esprimersi con brillantezza ed incisività Cass. 4 agosto 2000, n. 10284 (10) le cui considerazioni meritano di essere diffuse e rese note al lettore. Essa asserì che: « L'art. 2103 c.c. nella sua originaria stesura subordinava l'interesse del lavoratore a quello dell'impresa in quanto, come è stato precisato in dottrina, in caso di conflitto tra le esigenze dell'impresa e le esigenze di difesa del patrimonio professionale dei lavoratori le prime prevalevano sulle seconde sia pure “nei limiti fissati dalle regole (non scritte) della normalità tecnico-organizzativa”.

A seguito dell'entrata in vigore dello statuto dei lavoratori, con l'art. 13 di detta legge si è radicalmente modificata tale situazione perché la ratio dell'art. 2103 c.c. va ora identificata - in linea con la legge 20 maggio 1970, n. 300 diretta a garantire la libertà e dignità dei lavoratori, nei luoghi di lavoro - nell'esigenza di apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio professionale del lavoratore. Coerente con lo spirito informatore del vigente art. 2103 c.c. è, pertanto, l'affermazione che detta norma sia tesa a far salvo il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo di nozioni di esperienza e di perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto (cfr. in tali sensi, tra le altre: Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, in Foro it. 1995, I, 3133; Cass.13 novembre 1991, n. 12088, in Not. giurisp. lav. 1991, 830; Cass., 10 febbraio 1988, n. 1437, inedita a quanto consta; Cass., 6 giugno 1985, n. 3372, in Not. giurisp. lav. 1985,648; Cass., 15 giugno 1983, n. 4106, ibidem 1983, 451), ed ad impedire conseguentemente che le nuove mansioni determinino una perdita delle potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per altro verso comportino una sotto utilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avendosi riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore, ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, nonché alla posizione del dipendente nel contesto dell'organizzazione aziendale del lavoro (cfr. Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, cit.; Cass., 14 luglio 1993, n. 7789, in Not. giurisp. lav. 1993, 808).

In siffatta ottica, una violazione della lettera e della ratio dell'art. 2103 c.c. può quindi ipotizzarsi, in considerazione degli interessi sostanziali tutelati dal legislatore, anche allorquando si sia in presenza di una modifica solo quantitativa delle mansioni assegnate al lavoratore, che si traduca in una riduzione dei compiti lavorativi del dipendente.

Detta modifica, oltre ad una diminuzione retributiva, può infatti determinare in concreto - in ragione dell'inattività o della ridotta attività oltre che dell'entità del ridimensionamento dell'area operativa del lavoratore, della specifica natura delle residuali prestazioni e delle sue concrete modalità di svolgimento - un progressivo deperimento del bagaglio culturale del dipendente e una perdita di quelle conoscenze e esperienze richieste dal tipo di lavoro svolto, che finiscono per tradursi, in ultima analisi, in un graduale appannamento della propria professionalità ed in una sua più difficile futura utilizzazione.

In tale ottica è stato, appunto, affermato da questa Corte che lo svolgimento dapprima in via esclusiva e successivamente con altra persona delle medesime mansioni dà luogo ad una dequalificazione, in violazione dell'art. 2103 c.c., ove si tratti di mansioni di alto livello, quali quelle di direzione tecnica della produzione con responsabilità diretta, perché in un simile caso la “cogestione” dei compiti non comporta una riduzione solo quantitativa delle mansioni ma anche qualitativa, che abbassa il livello professionale dell'attività svolta (cfr. in tali sensi Cass., 11 gennaio 1995, n. 276, in Not. giurisp. lav. 1995, 732). E sempre nella stessa direzione è stato ribadito da questa Corte che nell'ambito dell'esercizio dello ius variandi, consentito dall'art. 2103 c.c., rientra il potere del datore di lavoro di ridurre quantitativamente le mansioni affidate al lavoratore, con la conseguenza che è consentita una diminuzione della retribuzione giustificata dal minore impegno lavorativo, così come le indennità remunerative di una particolare modalità della prestazione lavorativa possono venir meno con il venir meno di tale modalità (cfr. tra le altre: Cass., 23 febbraio 1988, n. 1933; Cass., 23 giugno 1985, n. 3921; Cass., 16 novembre 1982, n. 6133), anche se è stato precisato, ancora una volta, che tale riduzione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore in tanto è consentita in quanto ciò non comporti una riduzione qualitativa delle stesse tali da determinare una dequalificazione professionale (cfr. al riguardo: Cass., 17 gennaio 1987, n. 392, in Giust. civ. 1988, I, 2368, cui adde Cass. 23 marzo 199, n. 2744, in Not. giurisp. lav. 1999, 307; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276, ibidem 1995, 732); Cass. 4 marzo 1983, n. 1619, ibidem 1983, 236).

Il disposto dell'art. 2103 c.c. finisce, così, per essere violato non solo allorquando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma anche quando il medesimo (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità dei soggetto (cfr. sul punto: Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, cit., cui adde Cass., 13 agosto 1991, n. 8835, in Not. giurisp. lav. 1991, 740, che ha osservato come l'accertamento relativo alla sussistenza o meno di circostanze giustificativi della condotta del datore di lavoro - che rileva indipendentemente da una specifica volontà di declassare o svilire il lavoratore e che, comunque, non è giustificabile neppure per le comprovate esigenze organizzative e tecniche - si risolve in una valutazione di fatto che, se correttamente motivata, è incensurabile in Cassazione).

Per concludere può, alla luce di quanto sinora detto, fissarsi il principio di diritto secondo cui, allorquando venga dal lavoratore denunziata una violazione del disposto dell'art. 2103 c.c. con conseguente dequalificazione professionale, il Giudice di merito deve ricostruire l'anamnesi lavorativa del denunziante al fine di stabilire se le modifiche delle mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento delle professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto. In un tale contesto non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con una riduzione delle stesse - sovente giustificata dall'esigenza di pervenire ad una più efficiente organizzazione imprenditoriale - si traduce automaticamente in una “dequalificazione professionale”, incombendo al Giudice accertare, di volta in volta, se l'effettuata “sottrazione” di mansioni sia tale - per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, una sotto utilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un consequenziale impoverimento della sua professionalità. Un siffatto accertamento si traduce in una valutazione di fatto che, se sorretta da motivazione adeguata e logica, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità». Nello stesso senso si è espressa successivamente Cass. 19 maggio 2001, n. 6856 (11), secondo cui: «Quando venga dal lavoratore denunziata la violazione dell'art. 2103 cod. civ., allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale - per natura, portata ed incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un consequenziale impoverimento della sua professionalità». Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva considerato dequalificante per una addetta alle vendite che si occupava anche della stipulazione dei contratti l'affidamento di compiti limitati a prendere contatti telefonici con la clientela, sul principale rilievo che le comunicazioni telefoniche "de quibus" non costituivano, nel caso di specie, un diverso sistema di conclusione dei contratti ma esclusivamente un'attività preliminare rispetto all'attività negoziale vera e propria che era stata affidata ad altri venditori ( e quindi a lei sottratta) i quali si occupavano dei contatti personali diretti con i clienti onde raccoglierne le sottoscrizioni.

 

3. Rilievi critici sull’asserito onore probatorio dei danni da dequalificazione alla c.d. “professionalità oggettiva”, correlati a pregiudizi patrimoniali da perdita di “chance” di progressione di carriera all’interno e da privazione (per obsolescenza) di prospettive di ricollocazione all’esterno, sul mercato del lavoro. La necessità del ricorso alle presunzioni ex artt. 2727 e 2729 cod.civ.

 

Facendo il punto sul tema, risulta oramai assodato che il danno alla professionalità - non dissimilmente dal danno da lesione dei diritti del minore all’assistenza, preso in considerazione dalla sentenza n. 7713/2000 (12) in ambito familiare – è indiscutibilmente un danno di tipo “esistenziale” (13), cioè “lesione del bene della professionalità” in violazione di principi costituzionali (artt. 4, 35, 41) che – come la “lesione del diritto alla salute”in violazione dell’art. 32 Cost. -  «si concretizza nel momento stesso in cui si realizza, con interezza, il fatto costitutivo dell’illecito; e non va provatoin quanto è l’essenza antigiuridica dell’intero atto realizzativo del danno…, dell’intero fatto illecito, danno presunto, se è vero che non va provato alcun effettivo impedimento delle attività realizzative del soggetto offeso» (C. cost. n. 184/86). E’ cioè una “lesione in sé” di diritti della personalità posti al vertice dell’ordinamento costituzionale per la dignità dell’uomo ed il compiuto rispetto e sviluppo della persona umana, danno (che non potrebbe essere  propriamente qualificato neppure come “danno evento”, perché  anch’esso provabile come dice Corte cost. n. 184, superata in ordine all’aspetto definitorio dalla successiva giurisprudenza che con il termine “danno evento” ha inteso e fatto coincidere la “lesione in se”, svincolata da oneri probatori) che è totalmente sganciato dalle conseguenze di ordine patrimoniale che ne strutturano effetti patrimoniali riflessi (e che, giustappunto, rientrano tra i “danni conseguenza”). In quanto “danno esistenziale” va «incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in se della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza)» (così Cass. 7713/2000, cit.). E’ intuitiva la conseguenza di questa statuizione (afferente al “danno esistenziale”, applicabile ed applicata al danno professionale) sull’onere probatorio: la lesione in se del bene della professionalità, in pratica, in quanto “danno evento”, deve considerarsi in re ipsa sicché va automaticamente risarcita senza che il demansionato si faccia carico di alcun onere probatorio, al riguardo.

Risulta altresì confermato che anche la consistente riduzione “quantitativa” delle mansioni può concretizzare la fattispecie della dequalificazione.

Ciò acclarato, ci riproponiamo di svolgere qualche considerazione critica sul “distinguo” operato da Cass. n. 14433/2000, in qualche modo reperibile, (invero senza soverchie argomentazioni) anche in Cass. n. 10/2002, con ciò intendendo integrare e precisare il nostro pensiero in precedenza ed in altro scritto espresso (in op.cit. in nt. 17), giacchè chi ad esso ha fatto riferimento ha evidenziato eminentemente le nostre pseudo-concordanze con la Corte e non già le vistose riserve già all’epoca avanzate, che qui più approfonditamente riconfermiamo e sviluppiamo.

Asserita l’immanenza del danno da dequalificazione, non necessitante di prove di pregiudizio patrimoniale per la componente intrinseca di danno esistenziale subito da offesa alla professionalità, eminentemente la prima decisione innanzi citata sostiene che il danno alla professionalità intesa in senso obbiettivo (slegata cioè dal vulnus alla dignità umana e strutturata dagli addotti pregiudizi alle occasioni o chances di migliore collocazione esterna o di progressione di carriera all’interno) deve essere, invece, provato nel suo pregiudizio patrimoniale dal lavoratore. Questo danno, secondo tale decisione, non sarebbe immanente ma soggetto all’onere probatorio ex art. 2697 c.c. La S. corte sembrerebbe aver ricondotto sotto il regime probatorio della responsabilità civile in senso stretto gli effetti “conseguenza” del danno evento, cioè a dire non tanto il “danno emergente”(danno evento) quanto il “lucro cessante”, utilità, benefici o mancati guadagni perduti a causa del danno evento da lesione della professionalità.

Dobbiamo tuttavia osservare come sia del tutto intuitivo – e le precedenti decisioni n. 13299/1992 e n. 11727/1999 l’avevano detto espressamente – che il danno alla professionalità, sotto forma di decremento od obsolescenza del patrimonio professionale di nozioni ed esperienza acquisita si riflette “automaticamente” in negativo sulle opportunità di reperimento di nuova occupazione all’esterno e di avanzamento di carriera all’interno. Ed anche questi pregiudizi sono, in un certo qual senso, immanenti secondo l’id quod plerumque accidit (per usare la dizione di Trib. Treviso 13 ottobre 2000 (14). Ma evidentemente la S. corte, dopo aver compiuto il primo tragitto sul sentiero della “immanenza” al demansionamento del danno equitativamente risarcibile, non se l’è sentita di compierlo fino in fondo, estendendo il riconoscimento del danno “in re ipsa” anche agli addotti pregiudizi di carriera o di occasioni di lavoro all’esterno e ne ha, con un atteggiamento frenante e restrittivo, preteso la dimostrazione. Tuttavia va detto che, in diritto, non si può ragionare secondo il metro “transattivo”, quello dell’«aliquid datum, aliquid retentum».

Dal lato “politico” o metagiuridico – in un percorso di graduale progressione verso lo sganciamento dei danni risarcibili da oneri probatori “diabolici” a carico del lavoratore - può essere anche in un certo qual modo comprensibile che, di fronte all’affermazione del lavoratore che il danno alla professionalità per colpa datoriale abbia anche comportato una mancata progressione di carriera, la S. corte abbia ritenuto che sia onere del lavoratore (quando non concludentemente risaltante da fatti di indubbia significatività quali l’obiettiva ed incontestata evidenziazione o riscontro, per allegazione nel ricorso, che i colleghi del pretermesso erano avanzati in carriera con ben altra accelerazione rispetto alla staticità o ibernazione o ai superiori tempi di avanzamento del demansionato, specie quando la progressione di carriera non sia lasciata alla incondizionata discrezionalità dell’azienda ma sia la risultante di valutazioni per merito comparativo o secondo procedimentalizzazione contrattuale) dimostrare, integrando la realistica presunzione, che se non fosse stato oggetto del comportamento emarginante sarebbe progredito in carriera come gli altri (o più degli altri) colleghi. Così, nello stesso modo e sempre dal versante metagiuridico, si può anche comprendere che non si possa automaticamente accedere alla richiesta risarcitoria di mancate opportunità di nuove occasioni di lavoro esterno se non si è data in qualche modo la prova di averle sperimentate tentativamente: certo è che non bisogna giungere alla trasformazione di quest’onere in “probatio diabolica” per il lavoratore, quale potrebbe risultare quella di pretendere che un demansionato, per dimostrare la sua non ricollocabilità all’esterno, si debba far rilasciare da un’azienda (o da una società di selezione) cui si è presentato per una nuova occupazione l’attestazione dell’essere stato scartato o ricusato per “obsolescenza” da demansionamento posto in essere dal pregresso datore di lavoro. Chi mai, quando mai, e perché mai un terzo estraneo dovrebbe rilasciare un’attestazione o testimonianza similare?

Ciò detto, proprio per questo, l’atteggiamento “frenante” della S. corte, (auspicabilmente temporaneo perchè “in progress”, cioè in via di superamento graduale) merita le nostre censure dal lato strettamente giuridico.

E’ intuitivo e pacifico che se l’azienda, tramite i suoi preposti, sottopone a “mobbing” o a “dequalificazione e/o forzata inattività” – cioè ad iniziative oggettivamente vessatorie - un determinato dipendente, è ben lontano dai suoi intendimenti includerlo tra i destinatari di una progressione di carriera, la cui negazione insistita costituisce logica e scontata prosecuzione o naturale complemento dell’iniziativa dequalificatoria emarginante. Pertanto, la S. corte non avrebbe dovuto pretendere un “rigido” onere probatorio per i danni patrimoniali correlati alla perdita quantomeno di quella “chance”, concretantesi nella privazione di opportunità di carriera interna (relegandolo residualmente semmai alla perdita di opportunità per migliore collocazione esterna, sul mercato, di soggetti che hanno subito un demansionamento “parziale e non prolungato” e negando ad essi la perdita di chance solo nel caso in cui non dimostrino di essersi presentati presso altre aziende per la ricerca di una nuova occupazione, ritenendo invece “obsoleti” in via di presunzione e destinatari di indennizzo, anche a tale titolo, quelli sottoposti a demansionamento massiccio o a forzata inattività prolungata). Si ha invero motivi più che fondati e ragionevoli per limitare al solo “demansionamento parziale e temporalmente circoscritto” l’onere probatorio, riconducendo sotto l’ombrello delle presunzioni ex art 2729 c.c. invece “forzata inattività di discreta durata” e “demansionamento massiccio”, giacchè com’è stato notato da altri condivisibilmente «se in passato si poteva sostenere che la mancata utilizzazione di un lavoratore non pregiudicava il patrimonio professionale già acquisito, in quanto la staticità delle posizioni lavorative, dei settori e dei comparti produttivi ne consentivano un completo successivo reimpiego, oggi il mutamento qualitativo delle tipologie professionali rende velocemente inutilizzabili gran parte delle conoscenze tecniche acquisite ma non più aggiornate dallo svolgimento quotidiano dell’attività lavorativa» (15).

La “chance”, poi, è intrinsecamente una probabilità ed il suo risarcimento non è notoriamente corrispondente al 100% del danno da mancata promozione ma alla (solitamente minore) percentuale (30%, 60% e simili del differenziale retributivo fra la categoria rivestita e quella superiore cui non si è stati promossi) di probabilità che il dipendente non promosso avrebbe avuto se non fosse stato oggetto di deliberata o oggettiva trascuratezza. La Cassazione nella decisione n. 12706 del 16 dicembre 1997 ha stabilito che : «nel caso di illegittima esclusione di un lavoratore da una valutazione comparativa ai fini di una promozione, per ottenere il risarcimento del danno egli deve provare che gli altri candidati, ammessi alla valutazione, avevano possibilità di vittoria non distanti dalle sue. Ove il lavoratore escluso non sia in grado di provare che dall’inadempimento del datore di lavoro sia derivata la sua mancata promozione, egli non potrà ottenere un risarcimento del danno commisurato all’intera perdita della maggiore retribuzione connessa alla qualifica non conseguita, ma soltanto il risarcimento per perdita di “chances” commisurabile alla probabilità di conseguire il risultato utile e determinabile in base al parametro delle retribuzioni percipiende, con un coefficiente di riduzione, oppure con giudizio di equità».

Si vuole dire, in sostanza che la S. corte avrebbe dovuto (o dovrebbe, nel prossimo futuro) tener conto dell’esatta affermazione di principio operata da Cass 13299/92 (reiterata dalle successive, tra cui Cass. n. 11727/99), secondo cui la dequalificazione possiede una «inseparabile carica di effettività …per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica. Quindi il danno va risarcito…». In carenza di prova da parte del lavoratore, sul punto e nell’ambito specifico della perdita di “chances” promotive o di opportunità di ricollocazione esterna sul mercato per effetto di subita obsolescenza (sottoposte a “probatio diabolica”), siccome la legge non preclude il ricorso alla prova per “indizi” o “presunzioni” (cfr. Cass. n. 5045/90, Cass. sez. lav. 16 maggio 2000, n. 6366, Cass. sez. un. 30 giugno 1999, n. 379, Cass. sez. lav. 2 ottobre 1999, n. 10962) - quando possiedono le caratteristiche dell’essere gravi, precise e concordanti –, la S. corte avrebbe dovuto pacificamente accreditarle sancendo espressamente che la prova può discendere anche da “presunzioni” ex art. 2729 c.c., come in altre molteplici occasioni (di cui sono espressioni le precitate sentenze) e come avviene più spesso nella giurisprudenza di merito che si richiama al brocardo dell’ «id quod plerumque accidit». Le presunzioni costituiscono uno dei mezzi di prova affidati alla “prudenza” del giudice, legittimate dal codice nel processo del lavoro e nel processo civile – tant’è che sono state utilizzate addirittura nel delicatissimo campo della paternità naturale (cfr. Cass. 1° sez. civ. n. 5333/1998 e Cass. 2008/2001 che ha dato rilevanza ai suddetti fini ad elementi concludentemente indiziari) - in specie su eventi o danni a connotazione intrinsecamente probabilistica (quali, nel caso nostro la perdita di “chance” promotiva e di ricollocazione esterna per obsolescenza da demansionamento o forzata inattività). Come asserisce Cass. 16 maggio 2000, n. 6366 (est. Filadoro) – in tema di licenziamento discriminatorio desunto per concordanti presunzioni – nel processo del lavoro vi sono prove ardue o diaboliche da superare dal lavoratore e «proprio per temperare tali effetti, da tempo la giurisprudenza ammette che in simili fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri conferitigli dall'art. 421 codice di procedura civile, facendo ampio ricorso alla prova per presunzioni di cui agli articoli 2727-2729 codice civile. In base all’art. 421 cod. proc. civ., nel processo del lavoro il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto». Secondo il corretto insegnamento della Cassazione esplicitato in maniera illuminante in Cass. n. 5333/1998: «nella prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto (nel caso nostro la perdita di “chance” promotiva e di riallocazione esterna per obsolescenza, n.d.r.) sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare possa essere desunto dal fatto noto (costituito, nel caso nostro, dal massiccio demansionamento coniugato all’evidenziazione al magistrato, possibilmente in termini di raffronto statistico idoneo a farne risaltare la percentuale, della consistenza della progressione di carriera dei colleghi invece mantenuti nelle stesse mansioni o in mansioni professionalmente equivalenti a quelle del demansionato e non da esse rimossi o ad esse sottratti, ovvero di pari anzianità di servizio e simili, n.d.r.) come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, ossia che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto venga accertata alla stregua dei canoni di probabilità», con la precisazione (operata dalla stessa decisione) che «l’apprezzamento del giudice di merito circa l’inesistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e la loro rispondenza ai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici».

Nel campo del lavoro vi sono molteplici esempi in cui la Cassazione è ricorsa alle presunzioni: tra le molte decisioni si ricordano le più recenti costituite da Cass. 16 maggio 2000 n. 6366 (riconoscimento di natura discriminatoria di un licenziamento apparentemente giustificato), Cass. 2 ottobre 1999, n. 10962 (riconoscimento per presunzioni concordanti della fattispecie del trasferimento d’azienda), Cass. sez. un. 30 giugno 1999, n. 379 (accertamento della subordinazione mediante valutazione globale di indizi precisi, gravi e concordanti), Cass. 24 ottobre 2001, n. 13321 (riconoscimento per presunzioni della perdita di “chance” promotiva ad un lavoratore ingiustificatamente escluso da un corso di addestramento, implicante la promozione di altri partecipanti).

Concludendo, sul tema del danno alla professionalità (“danno evento”) – ivi incluso quello “riflesso” (o “danno conseguenza” di natura patrimoniale) e logicamente consequenziale della mancata progressione di carriera a differenza dei colleghi in pari o professionalmente equivalenti mansioni, di pari anzianità di servizio e/o inquadramento iniziale nonché quello costituito dalla difficoltà/impossibilità di ricollocazione esterna per subita obsolescenza da demansionamento massiccio e/o prolungata inattività forzata – la valutazione risarcitoria dovrà essere rispondente all’effettività dei danni subiti e tutto si giocherà sul buon senso, in dipendenza ed attraverso le misure che il magistrato utilizzerà, con metro equitativo, per “quantificare” il risarcimento del danno alla professionalità, alla dignità, alla personalità morale, all’immagine, alla reputazione del lavoratore demansionato, all’esterno e all’interno dell’azienda. Sarà pertanto il giudice – da una parte tenendo conto delle c.d. componenti indiscutibilmente immanenti (per intrinseca natura di “danno esistenziale”) del danno alla professionalità per violazione di diritti inviolabili della personalità, dall’altro delle considerazioni e circostanze concludentemente probanti per rispondenza al fatto notorio, a fondatezza e realismo (ex art. 2729 c.c.) – che dovrà calibrare, in via equitativa, l’integrale misura risarcitoria del danno, la cui quantificazione dovrà essere altresì intrinsecamente dotata di un sostanzioso e tangibile carattere di “deterrenza” o “dissuasività” dalla reiterazione. La misura risarcitoria cioè dovrà essere improntata di idoneità a scoraggiare il ripetersi o perpetuarsi del comportamento emarginante, lesivo e contra legem [(allo scopo graduandola caso per caso, tenendo anche opportunamente presente il principio codificato nell’art. 26, comma 2°, c.p. – gia utilizzato nell’art. 38 Stat. lav. – in ordine alla presumibile inefficacia della (indiretta) sanzione pecuniaria in ragione della capacità di resistenza economica dell’azienda, desumibile dal capitale sociale o da indici similari di consistenza economica e significativa presenza sul mercato)]. I nostri giudici si devono allineare ai loro colleghi anglosassoni nel conferire la giusta valenza alle lesioni dei diritti fondamentali ed inviolabili della personalità, in modo tale da non consentire ulteriormente di farci imbattere in cifre risarcitorie dell’ordine dei 10 milioni come si è letto nelle recenti ed isolate sentenze del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999 (16) e del 30.12.1999 (in diritto identica alla precedente) in tema “anti-mobbing”, perché non è certo questa la strada per realizzare l’obiettivo della dissuasione dei comportamenti vessatori, discriminatori ed emarginanti dei prestatori di lavoro ad essi (quasi impunemente) sottoposti e per ristorare equitativamente il danno da perdita o abbandono (non certo volontario) del bene del posto di lavoro (come riscontrabile nelle due precedenti fattispecie decise dal tribunale di Torino, dello stesso estensore). Per la verità va detto che il messaggio indirizzato – già in precedenza (17) – deve aver indotto a qualche rimeditazione e sortito qualche effetto se, nella decisione del 10 agosto 2001 (18), lo stesso estensore torinese ha sanzionato un caso di “mobbing” (della non eccessiva durata di un anno e mezzo ca., deciso in un procedimento della durata di soli 4 mesi, che dovrebbe costituire un esempio per tutti i colleghi magistrati!) a carico di un dirigente ultrasessantente, sollecitato psicologicamente da un’azienda di credito al pensionamento anticipato tramite pratiche di emarginazione ed accantonamento, con la liquidazione di un indennizzo a suo favore di 100 milioni (e con spese di lite a carico della resistente per ben 18 milioni, il che – sotto questo profilo - appare veramente una cifra record di pregnante valenza dissuasiva).

 

Roma10 agosto 2002

Mario Meucci

 

(*) Il presente articolo è pubblicato col titolo "Ancora sul danno da demansionamento. Ulteriori insistenze sulla prova del pregiudizio alla professionalità oramai considerato immanente", in Lav. prev. oggi, 10/2002, 1042 (in corso di stampa).

Note

(1)In Lav. prev. oggi, 10/2002, p.1179.

(2)Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299, trovasi in Riv. crit. dir. lav. 1993, 315, con nota di Muggia, Lottizzazione, diritti della personalità e danni risarcibili.

(3)Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727 trovasi in Lav. prev. oggi 1999, 2342.

(4)Cass. 6 novembre 2000, n. 14433 trovasi in Lav. prev. oggi 2000, 2287.

(5)Cass. 7 luglio 2001 n. 9228, trovasi in Lav. prev. oggi 2001, 1405.

(6)Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033, trovasi nel ns. sito http://clik.to/dirittolavoro (sezione Articoli, n. 83)

(7)Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 trovasi in Lav. prev. oggi 2001, 1263 e Not. giurisp. lav. 2002, 181.

(8)Cass. 14 novembre 2001, n. 14199, trovasi in Lav. prev. oggi 2002, 156 e Not. giurisp. lav. 2002, 175.

(9)Cass. 2 gennaio 2002 n. 10, trovasi in Lav. prev. oggi, 2002, 379. Successivamente Cass. n. 10/2202 è stata pubblicata anche nelle due riviste delle associazioni imprenditoriali Confindustria e Abi, cioè rispettivamente in Mass. giur lav. 220, 430 (ed ivi 435, con nota della collaboratrice in sede universitaria, Bruzzone) e in Not. giurisp. lav. 2002, 310 (con nota redazionale). Va segnalata la “singolarità”, in linea generale, delle annotazioni di collaboratori alle riviste possedute dalle organizzazioni imprenditoriali – valutate altresì in continuità con le precedenti sul tema - caratterizzate al fondo dal dover prendere atto “obtorto collo” dell’orientamento oramai affermato in nutrite decisioni di legittimità, in ordine alla immanenza del danno da dequalificazione (non necessitante di prove di pregiudizio patrimoniale a carico del lavoratore), sempre osteggiato da tali organizzazioni di tendenza con l’insistito richiamo alle (e la riproposizione anche in tale occasione delle) infelici e dichiaratamente superate decisioni di Cass. nn. 7905/98, 1206/97, 3686/96 e 8835/91. Decisioni, quest’ultime, rese peraltro in un ambiguo contesto di danno biologico congiunto a quello professionale - per cui l’onere probatorio di carattere generale costituiva un “trascinamento” di quello pertinente esclusivamente per il danno biologico - richiedenti irrealisticamente un onere probatorio vanificante, se generalizzato ad entrambi i tipi di danno, il diritto al risarcimento di un pregiudizio alla professionalità tanto scontato quanto praticamente indimostrabile dal lavoratore. Poiché la S. corte ha invece richiesto, ora, la sola dimostrazione dell’ulteriore danno alla c.d. professionalità oggettiva, conseguente a perdita di opportunità (chance) di progressione di carriera interna e di occasioni di ricollocazione all’esterno per subita obsolescenza (intuitiva, nel caso di forzata inattività) – danni che ben possono essere dal magistrato desunti concludentemente per allegazione, specie in contesti contrattuali di promozioni proceduralizzate per merito comparativo, del fatto che colleghi del “mobbizzato” nelle stesse mansioni sono progrediti invece in carriera a differenza di lui o sono avanzati in tempi mediamente più brevi – si riscontra negli annotatori delle riviste datoriali una tendenza a sottolineare per l’occasione, in via residuale ma a fini di enfatizzazione, l’affermazione di questo secondo “onere probatorio” a carico del lavoratore (anche se Bruzzone, pur peccando non venialmente di incompletezza con l’omissione dal riferire la componente critica del nostro pensiero sul punto specifico, conviene con noi, che con questo nuovo onere, si giunge ad imporre a carico del lavoratore una reale “probatio diabolica”), onere sul quale la S. corte dovrà rimeditare marginalizzandolo, per evitare che anch’esso rientri nella specie degli “oneri impossibili”, vanificanti l’effettività del risarcimento di danni realisticamente subiti. E’ intuitivo che non si promuove chi si vuole “mobbizzare”e che quindi la mancata progressione di carriera è ascrivibile al solo comportamento vessatorio datoriale, con obblighi risarcitori ricavabili da semplici presunzioni (come detto in prosieguo nel testo dell’articolo) e comune buon senso per fatto notorio ex art. 115 c.p.c.

(10)  Cass. 4 agosto 2000, n. 10284 trovasi in Not. giurisp. lav. 2001, 47 (est. Vidiri).

(11)  Cass. 19 maggio 2001, n. 6856, trovasi in Not. giurisp. lav. 2001, 595.

(12)   Cass. , 1° sez. civ. 7 giugno 2000, n. 7713 è stata annotata da Bruno Recupero, Il danno esistenziale: i nuovi argomenti suggeriti dalla sentenza 7713/2000 della Corte di cassazione, in www.diritto.it/articoli/civile/bruno.html.

(13)  Per l’approfondimento di tale danno, si rinvia a le opere di Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, II, a cura di Cendon, Milano 1994, 1299 e ss.; Ziviz, La tutela risarcitoria della persona, Milano 1999; Ziviz, Il danno esistenziale preso sul serio, in Resp. civ. prev. 1999, 1035; Monateri, Alla soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 1999, 5; Monateri – Bona –Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano 1999; Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, Milano 1999.

(14)  Trib. Treviso 13 ottobre 2000, trovasi in Lav. prev. oggi 2000, 2324.

(15)  Così Lanotte, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino 1998, 224.

(16)  In Lav. prev. oggi, 2000, 154.

(17)  Nell’articolo Immanenza del danno da demansionamento: riconferma delle vecchie certezze, in Lav. prev. oggi 2000, 2192 ed ivi, 2199.

(18)  Trib. Torino 10 agosto 2001 (est Ciocchetti, in causa Solinas c. Sanpaoloimi SpA), in Lav. prev. oggi 2002, 165, ed ivi 171 una nostra breve annotazione.

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