Demansionamento e onere probatorio sul lavoratore, anche per presunzioni

 

Corte di Cassazione, sez. lav. 8 novembre 2003, n. 16792 (ud. 17 giugno 2003) - Pres. Prestipino - Rel. Foglia - P.M. Pivetti (concl. diff.) - FIAT AUTO S.p.A. c. (avv. De Luca Tamajo, Italico, Perlini) c. Bergantino e Carbone (avv. Alessandrini, Marziale)

 

Adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle già attribuite – Irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. – Sussistenza – Danno ulteriore da demansionamento – Onere del lavoratore di dimostrarne la sussistenza, anche in via presuntiva.

 

Non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria tramite l’irriducibilità della retribuzione, la norma codicistica dell’art. 2103. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass., 14.5.2002, n. 6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).

Trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornirne la prova, mentre resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto,il suddetto danno sussiste, individuarne la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580).

In sintesi, molteplici sono i criteri utilizzabili per una adeguata valutazione del quantum da riconoscersi al lavoratore illegittimamente demansionato. Tra questi può considerarsi la perdita di opportunità di carriera, anche presso altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello medio-alto; altro parametro potrebbe essere individuato nella posizione gerarchica perduta cui possono essere connessi il danno all'immagine e la sofferenza psico-fisica del lavoratore; l'entità del danno dipende anche dalla durata della dequalificazione professionale; ad influire sulla determinazione sia dell' an che del quantum del risarcimento può contribuire anche l'età del lavoratore, non privo di rilievo può essere anche l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso del 20.11 2000 alla Corte di appello di Roma- sez. Lavoro, Francesco Esposito Bergantino e Attilio Carbone impugnavano la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva respinto la loro domanda, proposta nei confronti della s.p.a. Fiat Auto volta al riconoscimento di un inquadramento superiore, in base all'art. 2103 c.c. ed al risarcimento dei danni per la dequalificazione subita a far tempo dal 12.2.1996.

In primo grado i ricorrenti avevano dedotto di essere stati assunti dalla società convenuta negli anni 1972/73, inquadrati nel IV livello del ccnl metalmeccanici; di aver svolto, sino al 12.6.1992, rispettivamente, mansioni di "manutentore dei convogliatori" il primo, e di "manutentore di verniciatura" il secondo; di aver diritto, per dette mansioni, all'inquadramento nel V livello con relative maggiorazioni retributive; di essere stati adibiti, dal 12.2.1996 a mansioni di livello inferiore a quelle precedentemente esercitate e comunque al livello di inquadramento posseduto; di avere, pertanto, diritto, ex art. 2103 c. c., alla reintegrazione nelle mansioni precedenti o comunque in altre equivalenti, oltre al risarcimento del danno.

Deducevano gli appellanti che dall'escussione dei testi sarebbe emerso che essi svolgevano in piena autonomia sia le operazioni di individuazione e valutazione dei guasti, sia le scelte del tipo di intervento e delle relative modalità di esecuzione.

Costituitosi il contraddittorio, il Giudice del gravame, con sentenza del 4.10.2001, parzialmente riformando la decisione di primo grado, ordinava alla società convenuta di reintegrare i ricorrenti nelle mansioni espletate sino al 12.2.1996 o in altre equivalenti; condannava la società medesima al risarcimento del danno subìto dagli attori in virtù dell'illegittimo demansionamento, danno liquidato equitativamente nella misura di £. 2.000.000 ciascuno, oltre ad accessori.

Con riferimento a quest'ultima domanda, osservava il Giudice di appello che le mansioni affidate ai due lavoratori non erano riferibili al loro livello di inquadramento: in particolare, il Bergantino svolgeva sostanzialmente mansioni di carrellista (riconducibile al III livello), mentre il Carbone era addetto a mansioni estremamente semplici, certamente estranee al IV livello contrattuale.

Avverso detta sentenza la Fiat Auto ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi, ulteriormente illustrati in memoria depositata ex art. 378 c.p.c. Gli intimati si sono costituiti con controricorso, formulando, altresì ricorso incidentale.

In prossimità dell'udienza perveniva atto di conciliazione perfezionato in sede amministrativa tra il Carbone e la soc. Fiat con rispettivi atti di rinunzia al giudizio di legittimità.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va, preliminarmente dichiarata l'estinzione del presente giudizio in conseguenza delle reciproche rinunzie al presente giudizio, perfezionate dal Carbone e dalla soc. Fiat.

Va altresì disposta - ex art. 335 c.p.c. - la riunione dei ricorsi (principale ed incidentale) rispettivamente proposti dalla soc. Fiat Auto e dal Bergantino avverso la medesima sentenza impugnata.

Col primo motivo del ricorso principale - deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 414 c.p.c., in relazione all'art. 2103 c.c. - lamenta la società ricorrente che, in assenza di qualsiasi specifica allegazione e prova, il Giudice di appello ha apoditticamente accolto la domanda di demansionamento.

Il motivo non può essere accolto.

Contrariamente all'avviso della società ricorrente la sentenza, dopo aver escluso - sulla base di una compiuta istruttoria documentale e testimoniale - il diritto degli intimati ad un superiore inquadramento, sia in difetto di prova circa l'assenta rilevante complessità delle mansioni svolte dai medesimi, o circa particolari capacità tecniche richieste dalle stesse mansioni, sia in presenza di una supervisione e di un controllo dei caposquadra sulla loro attività, ha tuttavia ritenuto provato un effettivo demansionamento in conseguenza della assegnazione dei dipendenti in causa ad attività lavorative (consistenti, per il Bergantino, in particolare, nello "sganciare la catena che trattiene la scocca durante la discesa dall'alto") certamente non riferibili al loro livello di inquadramento (il terzo, riguardante i "conduttori di mezzi di trasporto, carrelli elevatori e traspoelevatori per il trasporto, smistamento e sistemazione dei materiali).

La sentenza di appello si è pure fatta carico di contestare la difesa della società incentrata sulla riferita soppressione delle posizioni lavorative delle controparti e sul presunto conseguente diritto del datore di lavoro di modificare in pejus le mansioni quale unica alternativa al licenziamento, considerando privi di pregio tali argomenti anche in considerazione del fatto che entrambi i resistenti avevano prontamente reagito al demansionamento, negandone la legittimità. Trattasi, come è evidente, di apprezzamenti di merito che, in quanto esenti da vizi logico-giuridici non possono formare oggetto di sindacato in questa sede di legittimità.

Col secondo motivo - denunciando l'insufficiente e/o omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, oltre alla violazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 414 c.p.c. - lamenta la ricorrente che il giudice del gravarne ha apoditticamente proceduto alla liquidazione equitativa del danno, senza apprezzare l'esistenza di prove dell'asserito demansionamento, e considerando il danno come esistente "in re ipsa", come conseguenza automatica dell'assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti. Al contrario, il riconoscimento del danno alla professionalità - quale presupposto del risarcimento - è subordinato alla prova dell'effettivo pregiudizio subito dal lavoratore. Quanto poi al danno alla libera esplicazione della personalità – quale ulteriore presupposto del risarcimento da demansionamento - nessuna allegazione né prova è stata articolata dal lavoratore che ne era onerato.

Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1226 c.c., oltre a vizi della motivazione, avendo il giudicante d'appello liquidato equitativamente il danno senza indicare puntualmente gli elementi fattuali forniti dalle parti sui quali ha operato la quantificazione dei danni

Con l'unico motivo del ricorso incidentale - deducendo la violazione degli artt. 2103 e 1226 c.c. - lamenta l'intimato che il Giudice di appello ha errato nel determinare il quantum del danno risarcibile, senza tener conto nè della durata né dell'entità del demansionamento.

Il secondo motivo del ricorso principale appare fondato e meritevole, quindi, di accoglimento.

La sentenza impugnata ha riconosciuto l'esistenza di un danno risarcibile sulla base della sola assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del loro livello contrattuale, senza individuare in termini precisi gli elementi di valutazione quali la consistenza effettiva del demansionamento, la durata dello stesso, nonché l'esistenza di un pregiudizio autonomo e ulteriore rispetto a quello strettamente connesso alla perdita dei compiti precedentemente svolti, in termini di impoverimento del proprio patrimonio professionale, ovvero della propria immagine all'interno dei luoghi di lavoro e nei confronti degli altri colleghi.

L'errore della sentenza è quello di ipotizzare un nesso automatico e scontato tra assegnazione a mansioni deteriori e danno alla professionalità, suscettibile di autonomo risarcimento. Il che non può affermarsi in via generale se è vero che la regola dettata dall'ari. 2103 c.c. provvede già di per sé a sanzionare la modifica in pejus delle mansioni già attribuite al dipendente, ricorrendo al principio della irriducibilità della retribuzione nonostante l'assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori o meno pregiate.

Si può dire, dunque che non ogni demansionamento determina un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, la citata norma codicistica. Invero, non ogni modifica delle mansioni in senso riduttivo comporta di per sé una dequalificazione professionale, poiché questa fattispecie si connota, per sua natura, con un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione - non transeunte - della sua professionalità (si pensi alla dispersione o riduzione delle capacità professionali, in relazione ad un periodo di prolungato sottoutilizzo delle esperienze lavorative, particolarmente dannoso in settori ad alta tecnologia, ecc.) nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (Cass., 14.5.2002, n. 6992; Cass., 14.11.2001, n. 14199).

Trattandosi di danno ulteriore, spetta al lavoratore l'onere di fornirne la prova, mentre resta al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto,il suddetto danno sussiste, individuarne la specie e determinarne l'ammontare, eventualmente procedendo ad una liquidazione in via equitativa. In base agli elementi di fatto ed a particolari circostanze del caso concreto, la prova del danno può essere anche presuntiva (in questo senso, cfr. Cass., 2.11.2001, n. 13580).

In sintesi, molteplici sono i criteri utilizzabili per una adeguata valutazione del quantum da riconoscersi al lavoratore illegittimamente demansionato. Tra questi può considerarsi la perdita di opportunità di carriera, anche presso altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello medio-alto; altro parametro potrebbe essere individuato nella posizione gerarchica perduta cui possono essere connessi il danno all'immagine e la sofferenza psico-fisica del lavoratore; l'entità del danno dipende anche dalla durata della dequalificazione professionale; ad influire sulla determinazione sia dell' an che del quantum del risarcimento può contribuire anche l'età del lavoratore, non privo di rilievo può essere anche l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro.

Si tratta, in conclusione, di applicare i principi enunciati in via generale dagli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c., rispettando il principio di proporzionalità fra comportamento illecito e sanzione. In questa direzione, utili strumenti di riferimento possono essere suggeriti al giudice dalla contrattazione collettiva - ove applicabile, e ritualmente acquisita al processo - che, in certi settori, prevede l'istituzione di comitati paritetici, con funzioni di garanzia e prevenzione del conflitto.

Accolto, nei termini che precedono, il secondo motivo, restano assorbiti sia il terzo motivo del ricorso principale, sia l'unico motivo del ricorso incidentale che parimenti mirano ad una diversa quantificazione del danno lamentato dal Bergantino.

La sentenza impugnata, va dunque cassata in relazione al motivo accolto, con conseguente rinvio della causa alla Corte di appello di L'Aquila, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie, nei confronti di Bergantino Esposito, il secondo motivo del ricorso principale. Rigetta il primo motivo e dichiara assorbito il terzo motivo del medesimo ricorso principale. Dichiara altresì assorbito il ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di L'Aquila. Dichiara estinto il processo con riferimento ad Attilio Carbone ne cui confronti nulla va statuito per le spese.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2003  

Nota 

Il gusto di veicolare un messaggio restrittivo...

 

La sopra riportata sentenza è - a nostro avviso -  sbagliata in quanto si fonda su presupposti errati e su ipotesi astratte totalmente irriscontrabili (o quasi) nella realtà della vita aziendale.

L'estensore ritiene che il danno "intrinseco" del demansionamento sia costituito dallo spostamento al livello retributivo deteriore, corrispondente alle inferiori mansioni.

E sbaglia! 

Giacchè confonde l'assegnazione (spesso deliberata e quindi vessatoria) in incombenze deteriori o addirittura in inattività completa (che come ha, recentissimamente, osservato Corte cost. n. 113/2004, non è affatto ipotesi di scuola!) con l'abbattimento del livello retributivo, che come realisticamente rileva ancora Corte cost. n. 113/04, non si verifica di norma, continuando l'azienda a corrispondere al prestatore, anche del tutto inattivo, la pregressa retribuzione. Scambia cioè  l'essenza del demansionamento con una "sotto remunerazione" vietata dall'art. 2103 c.c. e quindi già "precompensata", secondo il magistrato, dall'inibitoria legislativa. Eppure già l'aveva detto Cass. sez. lav. 14 novembre 2001, n. 14199 che : ...«il danno da dequalificazione professionale..., non si identifica con il danno derivante dalla mancata corresponsione del trattamento retributivo dovuto in relazione alle mansioni...ma può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della propria professione».

Purtroppo, sviato da una  astratta costruzione mentale, irrealistica e distorta della fattispecie del "demansionamento" - che è, invece, privazione delle incombenze ordinarie e confinamento in altre deteriori e/o non equivalenti, non necessariamente collocate nella qualifica contrattuale inferiore, e comunque pressoché mai (o quasi mai) accompagnato  da una riduzione retributiva - l'estensore edifica così due gradi di danno: il primo "immanente", costituito dalla predetta riduzione retributiva (corrispondente alle mansioni inferiori), inibita dallo Statuto dei lavoratori; il secondo, "ulteriore" e da dimostrare dal  lavoratore, costituito da un "abbassamento...non transeunte...del livello globale delle prestazioni". 

Invero quest'ultimo è il solo ed esclusivo danno da "demansionamento" o "dequalificazione" nella sua più concreta, consolidata e corretta accezione, essendo la "sottoremunerazione" solo una lontana eventualità di natura aggravante.

Ne consegue che - ricondotta la fattispecie nel suo alveo più proprio - non esiste un "danno primario" pre-compensato dal legislatore e un danno "ulteriore" della cui dimostrazione il lavoratore debba essere onerato, sull'assunto dell'essere giustappunto di natura "addizionale".

Perché mai il lavoratore demansionato dovrebbe dimostrare questo ipotetico danno "ulteriore" (inferto a beni immateriali, tra l'altro!) - che di norma è poi l'esclusivo danno da demansionamento - quando è nozione di comune esperienza che la sottrazione ed il confinamento (mobbizzante) in mansioni squalificate, determina automaticamente un degrado del pregresso livello di professionalità?

Si potrà semmai ed a tutto concedere consentire al magistrato di discutere (fra se e se) sul "quantum" del danno alla professionalità - giammai sull'an - a secondo che lo spossessamento vessatorio concerna una professionalità semplice (quella dell'operaio) od una più complessa ed articolata (quali quelle dell'impiegato specialista informatizzato o del coordinatore gerarchico di altre risorse). 

Ma anche in questa operazione di "distinguo" bisogna evitare il pericolo del "classismo" che, invero, la decisione  sembra lasciar trasparire, laddove autorizza a dare per acquisito il fatto che l'operaio - in quanto "manovalanza" impegnata in operazioni muscolari semplificate - non abbia soverchie ragioni di dolersi di un insussistente danno professionale. E, di conseguenza - o per converso - la legittimazione a rivendicare il danno da demansionamento spetterebbe all'impiegato specialista, ai  cd. professionals ed ai coordinatori gerarchici privati del ruolo e delle funzioni, lesi nell'immagine e nella dignità.

E in questa operazione - che potrebbe apparire  astrattamente rispondente ad una "certa" razionalità (pur sempre classista!) - si dimentica che nelle qualifiche di più basso livello (di norma operaie) ci sono fra l'una e l'altra pur sempre sensibili differenze (una cosa è il tornitore, altra il fresatore, altra l'alesatore, altra ancora il verniciatore, il carrellista movimentatore, il conduttore di veicoli a motore, ecc.) e che ognuno di questi lavoratori si realizza nella specifica mansione conseguita e nella quale si è specializzato e riceve quantomeno una mortificazione se spostato ad libitum ad altra difforme. Sulla necessità del riscontro del requisito della equivalenza anche nello  spostamento tra di loro  tra mansioni semplici ed elementari (che di norma la contrattazione pone sullo stesso livello contrattuale e quindi le dota di un'equivalenza in senso "oggettivo", non sempre corrisposta da una equivalenza in senso "soggettivo"), si è espressa recentissimamente Cass. sez. lav. 11 dicembre 2003 n. 18984 (in MGL 2004, 253 con nota di Gramiccia, Jus variandi, mansioni equivalenti e rilevanza di attività lavorative semplici e ripetitive) ove addirittura l'annotatore (ex dirigente Confindustria) con indubbio equilibrio conviene sull'esattezza del principio affermato dalla S.C. asserendo che : «...la regola dell'equivalenza delle mansioni, nei termini chiariti dalla giurisprudenza, che condiziona la legittimità dello jus variandi, deve operare a tutto campo, la modestia delle mansioni di provenienza e di nuova assegnazione non potendo fondare un'eccezione all'applicazione della regola generale medesima: eccezione non giustificabile in base alla lettera e alla ratio dell'art. 2103, co.1 c.c., e suscettibile di pregiudicare il lavoratore che si trova all'inizio della sua vita di lavoro. Dunque il principio ora enunciato dal giudice di legittimità è corretto nel senso in cui esige l'indagine del giudice di merito anche in ordine all'equivalenza tra mansioni semplici e ripetitive, negando il falso presupposto della necessaria equivalenza nell'ambito di tale categoria di mansioni» (cit. p. 256-7). E per la configurazione di "dequalificazione" anche in caso di destinazione a mansioni inferiori per breve periodo, si è espressa Cass. 25 febbraio 2004 n. 3772.

Si vuole in buona sostanza dire che il vizio di fondo della decisione da noi annotata - errata nei presupposti ed al fondo classista - risiede nel non aver capito che il danno alla cd. professionalità concerne sia l'operaio qualificato o specializzato (non il manovale, incaricato di scopare il piazzale antistante l'officina) sia l'impiegato sia il dirigente (sul quantum per le varie qualifiche si può discutere), non già  e non solo perché nessuno dei demansionamenti di basso livello e anche di durata limitata è irrilevante ai fini di attualizzare un degrado professionale, ma principalmente perché il danno di cui si discetta (e che si vuole misurare col "bilancino" del farmacista) comunque sussiste sempre, giacché è essenzialmente e prevalentemente un danno da mortificazione della dignità individuale di qualunque lavoratore. E' infatti essenzialmente una lesione della dignità e del rispetto che ogni uomo merita in quanto, attraverso il proprio lavoro, traguarda una sua autorealizzazione (non certo la "felicità", cui non ha diritto in azienda come è stato infelicemente scritto in una opaca relazione dal dottrinario Gragnoli, insensibile o poco versato sulla tematica dei danni da mobbing). 

Va finalmente capito che il "danno alla professionalità" è danno "esistenziale" da mortificazione -  anche se la designazione lessicale incentrata sul pregiudizio alla "professionalità" rischia di richiamare un contenitore ambiguo e composito -  e come tale va indennizzato, in forme e misure che non rasentino, come talora si assiste, l'irrisorietà o l'inadeguatezza risarcitoria di danni a contenuto invero incisivamente pregnante. Naturalmente, ricorrendone - come di norma accade - i presupposti, al danno esistenziale si addizionerà l'indennizzo di  altri danni non patrimoniali (come ben evidenziato da Trib. Pinerolo 2 aprile 2004) quali il danno biologico fisico o il danno psichico puro ed il danno morale (cd. pretium doloris) oramai sganciato da Corte cost. n. 233/2003 dal riscontro del reato, secondo la nuova lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.

P.S. - La decisione è pubblicata anche su MGL 2004, 258 ed ivi 260 con nota problematica di Bruzzone (La  tutela risarcitoria del danno alla professionalità in caso di demansionamento, giudizio equitativo ed elementi presuntivi), autrice cui va riconosciuto il merito di dar conto - e non è pregio trascurabile nella cerchia dei "lecchini" accademici che si citano pressoché esclusivamente nell'ambito delle loro cordate o se deviano verso altra scuola o rivista dipende normalmente dal fatto che i beneficiari potrebbero essere ipotizzati, futuri, commissari d'esame accreditati per ascendente e potere - anche di opinioni, opere ed articoli di segno difforme (quali, nella fattispecie, i nostri, visualizzati anche su questo sito).

 

Roma 22 aprile 2004 (integrata il 5 maggio 2004)

Mario Meucci

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