Inattività protratta conseguente a inottemperanza alla sentenza di reintegra e risarcimento del danno alla professionalità

Corte d’Appello di Brescia, 27 giugno 2007 – Pres. Nora – Rel. Terzi – Italgen Spa  (avv. Trifirò, Favalli, Santinoli, Codignola) c. Ronzani (avv. Fezzi, Chiusolo, Berruti).

 

Licenziamento illegittimo – Mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione ex art. 18 SL – Impossibilità del lavoratore di svolgere qualsiasi attività -  Art. 2103 c.c. – Diritto al risarcimento del danno da demansionamento – Sussiste – Prova per presunzioni – Ammissibilità.

 

La mancata ottemperanza del datore di lavoro all'ordine di reintegrazione susseguente a licenziamento illegittimo mette il dipendente nell'impossibilità di esercitare qualsiasi tipo di capacità professionale, situazione che rientra nel più ampio concetto di demansionamento, disciplinato dall'art. 2103 c. c.; in applicazione di tale norma va dunque risarcito al lavoratore, oltre alla perdita delle retribuzioni fino alla reintegrazione come previsto dall' art. 18,4° comma, SL, l'ulteriore danno (quale lucro cessante) derivante dalla forzata inattività e consistente nella perdita o mancata acquisizione della professionalità con conseguente, minore capacità di guadagno. La natura delle mansioni specifiche precedentemente esercitate e la durata del periodo di forzata inattività possono fare ritenere raggiunta la prova logica per presunzioni in ordine alla sussistenza del danno lamentato.

 

(...) La controversia ha per oggetto gli stessi fatti già esaminati da questa Corte nella sentenza n. 147/05 per il periodo di lavoro alle dipendenze della Italcementi Spa, anteriormente alla cessione del rapporto a Italgen Spa ex art. 2112 c.c. e le stesse argomentazioni.

Non può dunque questa Corte, in attesa della decisione della Corte di Cassazione avanti alla quale è stata impugnata la sentenza, che ribadire gii stessi concetti già espressi nella sua procedente pronuncia.

Preliminarmente vanno disattese le tesi difensive in ordine all'ambito di applicazione degli artt. 2103 c.c. e 18 L. 300/70.

L'art. 2103 c.c. disciplina il demansionamento, che quale concetto più ampio contiene in sé anche l'inutilizzazione del dipendente e quindi la sua collocazione in una situazione di impossibilità di esercitare qualsiasi tipo di capacità professionale. Nel caso in esame, comunque, si verte più in generale in un inadempimento ancor più radicale, non essendovi stata nemmeno la riammissione in servizio e dunque un reinserimento in azienda, con tutte le conseguenze di cui all'art. 1223 c. c., che contiene in sé anche il lucro cessante sotto il profilo della perdita o della mancata acquisizione della professionalità, che ha sicuramente un contenuto patrimoniale traducendosi immediatamente in una minore capacità di guadagno.

In questo ambito la disciplina di cui all'art. 18 L. 300/70 riguarda solo quella parte del mancato guadagno statica corrispondente alle retribuzioni perse e non anche l'accrescimento della capacità professionale che esprime il mancato guadagno sul piano dinamico della perdita di chances (qualificazione professionale, progressione di carriera ecc.).

L'appello si impernia sulla contestazione dell'esistenza di allegazione e prova del pregiudizio concreto alla professionalità del lavoratore per non essere stato reintegrato a seguito e in esecuzione delle sentenze che dal 30/10/97 hanno accertato, ogni volta con i tre gradi di giudizio, l'illegittimità del licenziamento intimato in data 11/9/96 e poi in data 13/1/98. Se in astratto si può convenire che non può essere affermato un danno in re ipsa per l'omessa reintegrazione, con conseguente impossibilità di esercitare e accrescere la propria professionalità, a prescindere dalle circostanze del caso (nel quale in ipotesi il lavoratore potrebbe avere trovato tempestivamente altra occupazione o avere esercitato mansioni non soggette a «obsolescenza»), va rilevato che nella fattispecie all'esame di questa Corte sono proprio le allegazioni della società che danno pienamente conto dell'esistenza del danno lamentato. Si verte infatti in un'ipotesi in cui il lavoratore, per le mansioni specifiche precedentemente esercitate, ma soprattutto per il lunghissimo tempo in cui è stato tenuto inattivo, ha sicuramente raggiunto la prova logica per presunzioni del pregiudizio alla sua professionalità. Pretendere, come vorrebbe l'appellante, una prova ulteriore e più specifica sarebbe davvero impossibile, atteso che, proprio per l'espulsione dal ciclo produttivo e da ogni attività aziendale, il lavoratore non può essere a conoscenza né dell'evoluzione delle tecniche e dei saperi all'interno dell'impresa, né delle eventuali diverse organizzazioni dell'attività lavorativa, né infine delle possibilità di carriera e di progressione professionale che altri dipendenti del suo stesso livello hanno goduto e che lui stesso avrebbe con elevata probabilità potuto godere se non fosse stato prima illegittimamente licenziato e poi per ben otto anni non riammesso in servizio.

Non è poi vero che nel ricorso introduttivo non. vi sia allegazione specifica del pregiudizio, Mario Ronzani ha da un lato specificato le sue mansioni e dall'altro argomentato in via logica-deduttiva sull'esistenza del danno alla professionalità, soprattutto con riferimento al lungo tempo trascorso senza essere riammesso in servizio ed è pertanto del tutto irrilevante che nel suo argomentare abbia anche richiamato la giurisprudenza che ritiene sussistente un danno in re ipsa.

Poiché la Italgen Spa è succeduta nel rapporto a Italcementi Spa deve essere ricondotta in capo all'appellante la situazione di inadempimento all'obbligo di reintegrazione con decorrenza dalla cessione del rapporto ed è pacifico che la nuova datrice di lavoro, subentrata nel rapporto, non ha preso alcuna iniziativa per la reintegrazione fino al luglio 2004, mentre Mario Ronzani ha nuovamente offerto la sua prestazione (doc. 11 e 12 appellato). Tanto basta per costituirla sicuramente in mora ex art. 1219, n. 2, c. c., con conseguente insussistenza di obbligo alcuno per il dipendente, alla stregua dei criteri di correttezza e buona fede, di offrire ulteriormente di riprendere servizio (offerta in realtà reiterata: v. docc. 11 e 12 appellato e le contestazioni successive in ordine alla reintegrazione da ultimo finalmente eseguita non attengono affatto alla riammissione in servizio in sé considerata a cui è stata data esecuzione, ma alle mansioni assegnate, ritenute non equivalenti alle precedenti, oggetto di altro contenzioso).

Passando quindi all'esame in concreto del pregiudizio subito, va osservato che la società, come ha già rilevato il giudice di primo grado, non ha sostanzialmente contestato le mansioni svolte dal dipendente prima del licenziamento.

Mario Ronzani, impiegato di livello C era addetto all'ufficio tecnico presso la centrale elettrica di Villa Serio con mansioni varie, descritte nel ricorso introduttivo di primo grado. La società si è limitata a fornirne una versione riduttiva allegando che era sostanzialmente addetto all'archiviazione di documenti in base a dati forniti da altri.

Ebbene appare evidente a questa Corte che le precisazioni della società, chiaramente rispondenti a una volontà riduttiva delle capacità professionali del dipendente, nulla tolgono all'argomentare della sentenza di primo grado, che viene condiviso. Si tratta sempre di mansioni impiegatizie e quindi di concetto, svolte all’ interno di un'organizzazione aziendale, per le quali in ragione, si ribadisce, del lunghissimo tempo di inattività, si deve ritenere dimostrata una perdita di professionalità e ciò tanto più per quelle svolte in settori in rapida, evoluzione come quello tecnico normativo. Diversamente opinando e contraddicendo la comune esperienza, si dovrebbe concludere che queste mansioni, di natura impiegatizia, non necessitino di alcuna pratica ed esperienza, ragione per la quale la mancanza dì esercizio non potrebbe comportare alcun danno. Ma ciò non è sostenuto nemmeno dalla società appellante, che si guarda bene anche dall'entrare nel merito della seconda questione ossia quella della probabilità che la continuità dell'inserimento aziendale avrebbe comportato una progressione di carriera.

La liquidazione del danno operata dal giudice di primo grado nella misura estremamente prudenziale e ragionata del 20%, non può che essere condivisa. Le censure mosse ai parametri di riferimento, e nello specifico alla retribuzione di cui alla busta paga prodotta in giudizio, sono infondate atteso che si tratta di una liquidazione in via equitativa e che il parametro è pertinente attenendo al valore di mercato della prestazione di lavoro e al mancato incremento della stessa in ragione della perdita e del mancato sviluppo delle capacità professionali,

Mario Ronzani ha dichiarato nell'interrogatorio libero di non avere reperito altra occupazione e ha prodotto le dichiarazioni dei redditi degli anni 2003 e 2004 da cui risultano solo redditi dì lavoro dipendente in ammontare corrispondente al corrisposto dalla datrice di lavoro (che ha pagato regolarmente le retribuzioni, senza procedere alla reintegrazione). Le ulteriori istanze istruttorie dell'appellante vanno quindi disattese, essendo fondate su ipotesi e non su circostanze specifiche, con chiaro intento meramente esplorativo.

L'appello va pertanto respinto. (...)

 

NOTA

 

Va risarcito il danno da demansionamento derivante da mancata ottemperanza all'ordine di reintegrazione ex art 18 SL

 

La pronuncia in esame affronta la questione relativa alla possibilità per il lavoratore ille­gittimamente licenziato di ottenere, oltre all'indennità di cui all'art. 18, 4° comma, SL, il risarcimento del danno causato al proprio patrimonio professionale dalla forzata inattività.

Sottesa, vi è la questione se la norma statutaria si sostituisca integralmente, quale disciplina speciale, alle norme di diritto comune in materia di risarcimento del danno, ovvero se a queste ultime possa continuare a farsi riferimento per determinare e quantificare il danno susseguente a un licenziamento illegittimo.

In proposito, come noto, l'orientamento consolidato della giurisprudenza propende per tale seconda ipotesi, ritenendo che la disciplina di cui all'art. 18 SL costituisca semplicemente una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale sancito dall'art 1228 c.c., (cfr. Cass. 23/6/01 n 8621), le cui regole dunque trovano regolare applicazione per tutti quegli aspetti in cui non vengono specificamente derogate,

I profili di specialità della disciplina di cui all'art 18 SL vengono dunque individuati essenzialmente nel fatto che vi è una misura minima e irriducibile del risarcimento .fissata in cinque mensilità (che vengono considerate una sorta di «penale» fondata su di una presunzione iuris et de iure di danno e avente la sua radice nel rischio di impresa: si vedano in proposito, ex plurimis, Cass. 3/5/04 n. 8364, con nota di Bulgarini D'Elci, in questa Rivista 2004, 637; Cass. 15/7/02 n. 10260, in Riv. it. dir. lav. 2003, II, 387), e nel fatto che, al di là di tale misura minima, la commisurazione dell'indennità spettante al lavoratore alle retribuzioni globali di fatto perdute fino alla reintegrazione costituisce una presunzione legale iuris tantum circa l'entità del danno da questi subito (laddove, secondo i principi generali, incomberebbe al danneggiato fornire la prova dell'esistenza nonché dell'entità del danno - cfr. Cass. 3/5/04 n. 8364, cit).

Al di fuori di tali aspetti, la giurisprudenza ritiene applicabili tutti gli ordinari princìpi in materia di responsabilità risarcitoria: e così viene riconosciuta la detraibilità ex art. 1223 c.c. dalle somme dovute a titolo di risarcimento del danno ex art 18 SL dell'aliunde perceptum (cfr. per tutte Cass. 21/3/2000 n. 3345, in Riv. it dir. lav. 2001, II, 133; peraltro, si afferma altresì che non tutti ì redditi percepiti dal lavoratore possono considerarsi compensativi del danno cagionato dal recesso illegittimo, ma solo quelli ottenuti attraverso l'impiego della stessa capacità lavorativa resa libera dal licenziamento, con esclusione dunque dei trattamenti pensionistici, di disoccupazione o anche dei redditi ottenuti tramite prestazioni di lavoro autonomo ab origine compatibili con l'impiego da dipendente: cfr. Cass. 29/8/06 n. 18637, in questa Rivista 2006, 1229; Cass. 19/5/2000 n. 6548, ivi 2001, 226); la riduzione dei risarcimento spettante al lavoratore per il caso di concorso colposo di questi nel causare il danno ex art. 1227 c. c., ad esempio allorché non abbia ricercato una diversa collocazione lavorativa (cfr. Cass. 1/8/01 n. 10523) ovvero agisca in giudizio con rilevante ritardo (Trib. Milano 20/2/06, in Lav. giur. 2006, 11, 1139); l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità risarcitoria oltre la misura minima delle cinque mensilità qualora egli dimostri ex art 1218 c. c. che il proprio inadempimento consegue a impossibilità della prestazione a lui non imputabile (ad esempio qualora il recesso sia motivato da erronea valutazione medica di inidoneità fisica allo svolgimento della prestazione lavorativa: cfr. Cass. 15/7/02 n. 10260, in Mass. giur. lav. 2002, 788; si veda anche Cass. 30/5/05 in Riv. it. dir. lav. 2006, II, 640).

Sempre in forza dell'applicazione dell'art. 1223 c. c. (giusta il quale il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta) è stata quindi anche riconosciuta in linea di principio la possibilità del lavoratore licenziato di ottenere il risarcimento di danni ulteriori rispetto alla perdita in sé delle retribuzioni, purché - non operando in questo caso la presunzione iuris tantum di cui all'art. 18, 4° comma, SL - egli ne fornisca specifica prova. Di fatto, peraltro, a tale affermazione di principio sono seguite il più delle volte pronunce di rigetto delle richieste risarcitorie: talora è stata negata la risarcibilità della fattispecie di danno lamentata (così Cass. 24/3/98 n. 3131, in fattispecie in cui veniva domandato il risarcimento del danno alla personalità per la mortificazione e l'umiliazione seguita alla mancata riammissione in servizio); talora, e proprio con riguardo alla possibilità di ravvisare nell'inottemperanza all'ordine di reintegrazione una dequalificazione e il conseguente diritto del lavoratore a ottenere il risarcimento per essa previsto, è stata affermata (in maniera poco convincente) l'inapplicabilità dell'art. 2103 c. c. in quanto esso presupporrebbe l'attualità in fatto e in diritto del rapporto di lavoro, e in ogni caso la mancanza di prova del danno conseguente alla lesione della professionalità del lavoratore, da valutarsi anche sulla base della natura delle mansioni da questi svolte e della durata dell'inattività forzata (cfr. Cass. 13/7/02 n. 10203, su Riv. it. dir. lav. 2003, II, 380, con nota critica di Lovo).

Per contro, la giurisprudenza di merito ha avuto modo di affermare il diritto del lavoratore ex art. 2043 c. c. al risarcimento del danno esistenziale causato dall'ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di ottemperare all'ordine di reintegrazione, per la lesione che tale comportamento arreca alla sua dignità e professionalità (ex art. 35 Cost.) e al diritto (derivante dall'art. 2 Cost.) di vedere riconosciuta e realizzata la propria personalità nella comunità lavorativa (Trib. Pistoia 23/4/01, in questa Rivista 2001, 993).

Ora, in questo quadro la sentenza in commento appare di particolare interesse per il corretto inquadramento della situazione che segue alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento e all'ordine di reintegrazione: la ricostituzione del rapporto, infatti (diversamente da quanto affermato nella citata Cass. 10203/02), non può non comportare la piena operatività di tutte le norme che regolano il contratto di lavoro e dunque anche dell’art. 2103 c. c., alla luce del quale la forzata inattività del dipendente non può riguardarsi che come illegittimo demansionamento, da sanzionarsi secondo le regole e i principi ordinari.

E sul punto, la pronuncia in commento fa altresì corretta applicazione dei principi in materia di allegazione e prova del danno da dequalificazione da ultimo stabiliti dalla Cassazione (cfr. Cass. sez. un. n. 6572 del 24/3/06, in questa Rivista 2006, 473,, con nota di S. Huge; Cass. 21/6/06 n. 14302, ivi 2006, 807; Cass. 4/4/07 n. 8475, ivi 2007, 449), giusta i quali occorre da parte del lavoratore l'allegazione dì uno specifico pregiudizio alla professionalità (anche deducendo specificatamente di svolgere un/attività soggetta a evoluzione o comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale o indicando quali concrete aspettative di carriera sono state frustrate dalla forzata inattività), mentre sul piano probatorio il convincimento circa l'esistenza del danno denunciato ben può essere raggiunto anche tramite la prova per presunzioni ex art. 2729 c. c. o richiamandosi alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza ex art. 115 c.p.c (in tal senso, la sentenza conferma la rilevanza probatoria di aspetti quali il contenuto professionale intrinseco delle mansioni sottratte e la durata in sé della forzata inattività).

 

Davide Bonsignorio

(fonte, Riv. crit. dir. lav. 4/2007, 1119 e ss.)

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