Sospensione della prestazione quale reazione alla dequalificazione: illegittimità

 

Cass., sez. lav., 9 maggio 2007, n. 10547 – Pres. De Luca – Rel. Balletti – M. R. c. Azienda Ospedaliera Universitaria “Ospedali Riuniti” di Trieste.

 

Demansionamento – Reazione di autotutela secondo il principio inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 c.c.– Sospensione della prestazione in presenza di dequalificazione, peraltro indimostrata – Illegittimità.

 

In caso di assegnazione di mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza, si rimarca che, ove pur sussista una situazione di dequalificazione di mansioni, non può il lavoratore sospendere in tutto od in parte la propria attività lavorativa, se il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, garanzia del posto di lavoro), potendo una parte rendersi inadempiente soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte, non quando vi sia contestazione e controversia solo su una delle obbligazioni a carico di una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle immediate esigenze vitali del lavoratore (cfr. Cass. n. 1307/1998).

In tema di obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni non dequalificanti, in caso di inesatto adempimento di tale obbligo incombe sul lavoratore l'onere dell'allegazione della cennata inesattezza (cfr. Cass. n. 20523/2005).

In tema di sanzioni disciplinari, mentre la contestazione disciplinare deve avvenire in ogni caso a immediato ridosso dell'infrazione (ovvero della notizia che di essa abbia avuto il datore di lavoro), l'irrogazione della successiva sanzione può avvenire anche a distanza di tempo sempre nel rispetto del principio della buona fede contrattuale.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. dinanzi al Giudice del lavoro di Trieste M. R. ‑ medico radiologo già dipendente dell'Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Trieste ‑ conveniva in giudizio la cennata Azienda esponendo che dall'ottobre 2000 era stato oggetto di trattamento discriminatorio da parte datoriale in cui si era innestato anche un procedimento disciplinare (per asserita condotta contraria agli obblighi contrattuali) conclusosi con provvedimento di licenziamento per giusta causa. Il ricorrente ‑sostenendo che la cennata sanzione espulsiva era frutto dell'azione di dequalificazione ingiustamente subita e, quindi illegittima e, comunque, formalmente priva dei requisiti ex lege richiesti ‑ chiedeva all'adito Giudice del lavoro di voler dichiarare "inesistente, nullo, annullabile, inefficace, illegittimo" il licenziamento intimatogli con ogni relativa conseguenza reintegratoria e risarcitoria, anche in ordine alla dequalificazione posta in essere dalla convenuta.

L'Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Trieste si costituiva in giudizio impugnando integralmente la domanda attorea e chiedendone il rigetto.

Il Tribunale‑giudice del lavoro di Trieste ‑ con sentenza del 27 agosto 2003 ‑ respingeva il ricorso e ‑ su impugnativa del dott. M. R. e costituitasi in giudizio l'Azienda Ospedaliera Universitaria '"Ospedali Riuniti" di Trieste (succeduta all'Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Trieste, soppressa nella more del giudizio, come evidenziato e comprovato all'atto della costituzione in giudizio del soggetto giuridico effettivamente esistente) ‑ la Corte di appello di Trieste respingeva l'appello e condannava l'appellante al pagamento delle spese del grado.

Per quello che rileva in questa sede la Corte territoriale ha rimarcato che: a/1) «al dott. R. venne contestato di non aver svolto il servizio affidatogli il giorno 11 ottobre 2000, di aver generato disservizio nelle settimane successive e di non aver più espletato il proprio servizio dal 9 gennaio 2001»; a/2) «al riguardo l'appellante non contesta la realtà dei fatti, ma adduce delle giustificazioni, le quali comunque non soddisfano, posto che risulta comunque sacrificato il servizio reso al cittadino, utente del sistema sanitario, dall'Ente pubblico appellato»; b) «conclusivamente, corretta s'appalesa la decisione dell'Azienda di risolvere il rapporto di lavoro per inadempimento grave del dipendente»; c) «al di là della generica contestazione della valenza probatoria ed affidabilità dei testi escussi, l'appellante non offre supporto probatorio alle sue asserzioni nemmeno in punto condotto di dequalificazione professionale».

Per la cassazione di tale sentenza M. R. propone ricorso ‑ instato contro l'Azienda Ospedaliera "Ospedali Riuniti di Trieste" ed a detta Azienda notificato ‑affidato a due motivi.

L'Azienda Ospedaliera‑Universitaria "Ospedali Riuniti" di Trieste resiste con controricorso ritualmente notificato al ricorrente.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Motivi della decisione

 

I ‑ Con il primo motivo di ricorso il ricorrente ‑ denunciando "violazione dell'art. 2103 cod. civ. e vizi di motivazione circa un punto decisivo della controversia: sulla dequalificazione e sul comportamento discriminatorio subito dal dottor R." ‑ rileva che «l'adibizione preponderante al pronto soccorso non era equivalente alla prestazione precedentemente svolta dal dott. R. in quanto non consentiva la piena utilizzazione né, tantomeno, l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore» e censura la sentenza impugnata «evidenziando che, se la Corte d'appello di Trieste avesse correttamente applicato l'art. 2103 cod. civ., avrebbe dovuto riconoscerne la reiterata violazione da parte dell'Azienda Ospedaliera ed il legittimo rifiuto da parte del dott. R. di svolgere la prestazione dequalificante e, inoltre, se avesse correttamente soppesato tutti gli elementi ed argomenti di cui era in possesso, avrebbe dovuto riconoscere il dannoso atteggiamento discriminatorio perpetrato nei confronti del dott. R.».

Con il secondo motivo il ricorrente ‑ denunciando "violazione dell'art. 2119 cod. civ. e vizi di motivazione circa un punto decisivo della controversia: sull'illegittimità del recesso operato nei confronti del dott. R." ‑ rileva, in particolare , «il vizio di motivazione in cui è incorsa la Corte d'appello di Trieste, la quale è giunta ad affermare la proporzionalità del recesso per giusta causa sulla base della sola considerazione di antisocialità" della condotta del dott. R. "che s'intasca lo stipendio ma si rifiuta di eseguire il servizio", omettendo di fatto qualsiasi rilievo alla circostanza che la condotta del ricorrente altro non era se non la reazione/protesta ad un illegittimo comportamento datoriale» ed addebita alla Corte territoriale di avere «del tutto omesso di considerare la completa e palese violazione del fondamentale principio di immediatezza che informa l'art. 2119 cod. civ. e ne costituisce un limite interno che dottrina e giurisprudenza hanno individuato sulla base del concetto stesso di giusta causa fornito dal codice civile».

II ‑ Si deve, anzitutto, esaminare l'eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 366, primo comma n. 1, cod. proc. civ. sollevata dalla controricorrente «per aver evocato il dott. R. in giudizio un ente ormai estinto (l'Azienda Ospedaliera "Ospedali Riuniti" di Trieste) in luogo di quello (l'Azienda Ospedaliera‑Universitaria "Ospedali Riuniti" in Trieste) nei confronti del quale era stata pronunciata la sentenza della Corte di appello di Trieste».

Il cennato rilievo appare formalmente esatto in quanto il ricorso per cassazione de quo è stato proposto nei confronti di un soggetto inesistente sicché non può ritenersi, come sostiene il ricorrente nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. che trattasi di un "banalissimo errore" in quanto il ricorso per cassazione instato nei confronti di una società estinta (perché incorporata da un'altra società) è affetto da nullità assoluta essendo errata l'identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius (così, ex plurimis Cass. n. 8254/2004, Cass. n. 10501/2004, Cass. n. 6409/2004) ‑ ma, sempre secondo la summenzionata giurisprudenza di questa Corte, è stato anche statuito che «tale nullità è sanabile ex nunc per effetto dell'instaurazione del contraddittorio mediante la notifica del controricorso della società incorporante entro il termine utile per l'impugnazione», per cui conclusivamente su tale punto ‑ avendo, nella specie, la società incorporante (Azienda Ospedaliero‑Universitaria "Ospedali Riuniti" di Trieste) notificato il controricorso entro il termine utile per l'impugnazione (scilicet, in data 30 settembre 2005 nel confronti della sentenza depositata il 10 maggio 2005) ‑ l'eccezione di inammissibilità del ricorso non può essere accolta.

III ‑ Passando ora alla valutazione del primo motivo del ricorso ‑ con cui è stato censurata la sentenza della Corte di appello di Trieste per asserita violazione dell'art. 2103 cod. civ. specie sotto il profilo di pretesi vizi di motivazione nella disamina delle risultanze probatorie ‑ si rileva l'assoluta infondatezza dello stesso.

Al riguardo, in merito alla tutela del lavoratore in caso di assegnazione di mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza, si rimarca che, ove pur sussista una situazione di dequalificazione di mansioni, non può il lavoratore sospendere in tutto od in parte la propria attività lavorativa, se il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, garanzia del posto di lavoro), potendo una parte rendersi inadempiente soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte, non quando vi sia contestazione e controversia solo su una delle obbligazioni a carico di una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle immediate esigenze vitali del lavoratore (cfr. Cass. n. 1307/1998).

Sul piano probatorio, in tema di obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni non dequalificanti, in caso di inesatto adempimento di tale obbligo incombe sul lavoratore l'onere dell'allegazione della cennata inesattezza (cfr. Cass. n. 20523/2005): onere probatorio che, nella specie, non è stato certo adempiuto dal ricorrente come ha statuito la Corte di appello di Trieste (confermando sul punto la sentenza di primo grado) con decisione correttamente motivata anche sulla valutazione delle risultanze probatorie demandato al giudice del merito e, comunque, non sindacabile in sede li legittimità.

Infatti, il giudice del merito ‑ nella valutazione delle risultanze probatorie ‑ è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un'esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati.

Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga dedotta l'incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi ‑ mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non avvenuta) ‑ la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. n. 9954/2005).

Al riguardo ‑ sul punto concernente l'asserita dequalificazione subita dal dott. R. ed il preteso comportamento discriminatorio adottato nei suoi confronti dall'Azienda Ospedaliera ‑ la Corte di appello di Trieste ha fornito congrua e completa motivazione, sicché, con riferimento ai pretesi vizi di motivazione sui quali si fondano sostanzialmente le censure del ricorrente, vale sintetim rilevare che: a) il difetto di motivazione, nel senso d'insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece ‑ come per le doglianze mosse nella specie dal ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della controversia ‑ irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta ‑; c) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi - come sicuramente ha fatto la Corte di appello di Trieste ‑ le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

Benvero, le censure con cui una sentenza venga impugnata per vizio della motivazione non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ‑ pure in relazione al valore da conferirsi alle "presunzioni" [la cui valutazione è anch'essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003)]‑ in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 380, n. 5, cod. proc. civ.: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza sì revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

IV ‑ Anche il secondo motivo di ricorso ‑ con cui il ricorrente addebita alla Corte di appello di Trieste di avere violato l'art. 2119 cod. civ. per avere trascurato (mediante una motivazione asseritamente viziata) di verificare l'inesistenza di una giusta causa e, inoltre, per avere omesso di considerare il principio di immediatezza dell'irrogazione della sanzione caratterizzante il citato art. 2119 ‑ deve essere respinto.

In ordine alla prima censura si rileva che, in tema di licenziamento per giusta causa, spetta unicamente al giudice del merito ‑ e non può essere sindacato in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o giuridici ‑ l'accertamento che il fatto addebitato sia di gravità tale da integrare la fattispecie di cui all'art. 2119 c.c. (così, ex plurimis, Cass. n. 9884/2005, Cass. n. 11674/2005).

Nella specie, la Corte di appello di Trieste ha statuito che la decisione dell'Azienda di risolvere il rapporto di lavoro per inadempienza grave del dott. R. è stata corretta e questo mediante (ed al termine di) un percorso motivazionale certamente congruo e sicuramente esente da vizi logico‑giuridici, sicché per contrastare le doglianze proposte sul punto dal ricorrente valgono le considerazioni già sviluppate nel precedente "capo III" sulle modalità di applicazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ..

In ordine alla seconda censura circa l'asserita mancata tempestività dell'irrogazione della sanzione espulsiva rispetto alla contestazione della infrazioni disciplinari, si rileva che il principio della immediatezza nel procedimento disciplinare deve essere applicato con riferimento al momento della "contestazione" dell'infrazione e non a quello della "irrogazione" della sanzione tenuto conto della necessità di usare ‑ quale chiave di lettura dell'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (a cui l'ordinamento, vale evidenziare, ha riconosciuto la facoltà del tutto peculiare di irrogare "pene private" al prestatore di lavoro) – il principio della "buona fede" al fine di evitare che sanzioni disciplinari irrogate senza consentire all'incolpato un effettivo diritto di difesa (o rendendo difficile l'esercizio dello stesso) si pongano non solo come violazione dell'art. 7 Stat. lav., ma anche quale trasgressione in re ipsa della buona fede [che è la matrice fondativa dei doveri sanciti dall'art. 7 cit. e, anche, dall'art. 2106 cod. civ. (relativamente alla"proporzionalità" delle sanzioni) : norme poste dall'ordinamento per riequilibrare ex art. 3, capoverso, Cost. la posizione delle parti impegnate nel rapporto di lavoro solo formalmente in situazione paritaria in quanto, nella realtà effettuale, il lavoratore adempie alla propria obbligazione in posizione di subordinazione rispetto alla controparte contrattuale.

In questo senso deve essere precisato quanto indicato in motivazione da questa Corte nella sentenza n. 5947/2001 poiché, mentre la contestazione disciplinare deve avvenire in ogni caso a immediato ridosso dell'infrazione (ovvero della notizia che di essa abbia avuto il datore di lavoro), l'irrogazione della successiva sanzione può avvenire anche a distanza di tempo sempre nel rispetto del principio della buona fede contrattuale. Ciò in particolare quando, come è avvenuto nella specie, il preteso ritardo nell'irrogazione della sanzione è dipeso dalla necessità per l'Azienda Ospedaliera di sentire il parere del "Comitato dei Garanti", istituito ai sensi dell'art. 23 del c.c.n.l. applicabile al rapporto di lavoro de quo (Comitato obbligatoriamente chiamato ad esprimere, appunto, parere preventivo sulle ipotesi di licenziamento proposte dalle aziende nei confronti dei dipendenti): momento procedurale ‑ previsto dalla contrattazione collettiva per una maggiore garanzia a difesa del lavoratore‑incolpato ‑ che è stato osservato nella specie e che, comunque, comprova esaustivamente l'osservanza (da parte dell'Azienda) del principio della buona fede contrattuale.

V ‑ In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da M. R. deve essere integralmente respinto.

Il ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in euro 54,00, oltre a euro 2.000,00 per onorari, nonché alle spese generali ed agli accessori di legge.

 

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