I CASI  DI  DEQUALIFICAZIONE  PROFESSIONALE  LECITA

 

La nullità, ai sensi del 2° comma dell'ari. 2103 c.c. (sostituito dall'art. 13 della legge n. 300/1970), di ogni patto contrario alla disciplina dettata dalle disposizioni dell’articolo citato, in tema di assegnazione ed immutabilità delle mansioni, non è riferibile anche nelle ipotesi in cui la modifica in pejus delle mansioni sia stata concordata nell'interesse del lavoratore e alfine di evitare il licenziamento del medesimo

 

L'art. 2103 c.c. e la dequalificazione professionale

Il testo originario dell'art. 2103 c.c, rubricato «prestazione del lavoro», disponeva che il «prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l'imprenditore può, in relazione alle esigenze dell'impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. Nel caso previsto dal comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, se è a lui più vantaggioso». Tale articolo è stato modificato interamente dall’art. 13 della legge n. 300/1970 (1), meglio noto come Statuto dei lavoratori, il quale dispone che:«I. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo o, per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai CCNL e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

2. Ogni patto contrario è nullo».

La Corte Costituzionale, con sentenza del 9 marzo 1989 n. 103, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2099 e 2103 c.c., in relazione all’art. 41 Cost., nella parte in cui consentono all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo. In particolare, la Corte ha precisato che il «potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento» e che compete «al giudice l'accertamento e il controllo dell’inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge sia dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei... precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall'ordinamento giuridico vigente».

Risulta da questa disposizione che, sebbene il datore di lavoro non possa, in linea di principio, attribuire al lavoratore incombenze diverse da quelle per le quali è stato assunto, tuttavia non può essere escluso, in via assoluta, il suo diritto ad effettuare mutamenti nelle mansioni del dipendente (cd. jus variandi). Lo jus variandi del datore di lavoro incontra il limite della duplice esigenza della garanzia del livello retributivo già raggiunto e del rispetto dell'equivalenza (2) delle nuove mansioni a quelle precedentemente svolte dal lavoratore, al fine di salvaguardare il livello professionale e le conseguenti prospettive di miglioramento. Tale equivalenza, ferma l’irrilevanza di una mera riduzione quantitativa dell'attività svolta in precedenza, deve tuttavia essere verificata tenendo conto che determinate mansioni per la loro elevatezza, non sono suscettibili di essere svolte da più lavoratori senza scadimento del proprio livello qualitativo; sicché il successivo svolgimento di esse da parte di due persone implica un abbassamento del livello professionale del dipendente che prima le svolgeva da solo, con la conseguente lesione - indipendente da una specifica volontà di dequalificazione - del bene giuridico garantito dall'art. 2103 c.c. (3). Di conseguenza, l'equivalenza delle mansioni va verifìcata sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall'interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi; tuttavia, nel rispetto di dette condizioni, non è richiesta l'identità delle mansioni, né costituisce elemento ostativo la necessità di un aggiornamento professionale in relazione ad innovazioni tecnologiche. L'indagine circa l'equivalenza o meno, ai sensi dell’art. 2103 c.c., delle nuove mansioni assegnate ai lavoratori deve essere svolta non in base ad un criterio formalistico ma in base al contenuto e alla natura delle prestazioni effettivamente svolte, in quanto le mansioni hanno carattere di specificità rispetto alla genericità dello inquadramento, per cui il riferimento in astratto al livello o grado del sistema di classificazione adottato dalla contrattazione collettiva non è di per sé sufficiente ai fini dell'accertamento dell'equivalenza; questa presuppone che le nuove mansioni, pur se non identiche, siano aderenti alla specifica competenza tecnico-professionale del dipendente, salvaguardandone il livello professionale, e siano in ogni caso tali da consentire l'utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto (4). L'assegnazione del lavoratore subordinato a mansioni inferiori alla sua qualifica, attuata unilateralmente dal datore di lavoro, costituisce violazione dell'inderogabile disposto dall’art. 2103, 2° comma, c.c, il quale afferma la nullità dei patti contrari (5), sia ad opera delle parti individuali sia ad opera delle parti collettive (6) e comporta la dequalificazione professionale (7) del lavoratore.

La dequalificazione configura un inadempimento del datore di lavoro agli obblighi sanciti dagli artt. 2103 e 2087 c.c. con conseguenza risarcitoria che, sul piano economico fa riferimento all’art. 1218 c.c., mentre su quello della tutela della professionalità e della personalità morale del lavoratore si basa sull'art. 2043 c.c.; quindi, la prova della dequalificazione comporta automaticamente la prova del danno alla professionalità e alla personalità morale del dipendente, la cui determinazione è rimessa all'equità del giudice (8). Va, inoltre, ritenuto sussistente un danno patrimoniale connesso alla dequalificazione professionale e suscettibile di valutazione da parte del giudice in via equitativa; a tal fine il parametro della retribuzione può essere utilizzato come termine di riferimento ma non integralmente accolto, attesa la funzione della retribuzione come corrispettivo di diversi elementi della prestazione e non solo della capacità professionale del lavoratore (9).

 

Le ipotesi di dequalificazione professionale lecita

Le limitazioni dello jus variandi del datore di lavoro, poste dall'art. 2103, 2° comma, c.c. mirano ad impedire il declassamene del lavoratore contro la volontà di costui ed in suo danno. Tale regola subisce un'eccezione solo quando lo spostamento a mansioni inferiori costituisce per il lavoratore il «male minore» rispetto all'alternativa del licenziamento. Di conseguenza, la modifica in pejus delle mansioni interviene per soddisfa­re un interesse del lavoratore, che ravvisa nel mutamento delle mansioni l'unico mezzo per poter proseguire nel rapporto di lavoro. In detta ipotesi, il patto riguardante la dequalificazione del lavoratore non è in contrasto con le esigenze di dignità e libertà della persona e configura, a mio avviso, per il lavoratore, una soluzione più favorevole di quella, ispirata ad una esigenza di mero rispetto formale della norma, rappresentata dal licenziamento con successiva assunzione.

La giurisprudenza ormai consolidata, a tal proposito, ha individuato una serie di ipotesi, in cui ritiene legittima la modifica in pejus delle mansioni.

In primo luogo, tale indirizzo è di facile applicazione - questo è il caso più semplice - nell'ipotesi in cui il dipendente è divenuto fìsicamente inidoneo alle mansioni alle quali è addetto e che accetta di retrocedere a mansioni inferiori nella ricorrenza di un posto resosi libero in azienda senza cambiare l'intero assetto organizzativo della stessa (10). Tutto ciò non si pone in contrasto con le esigenze di dignità e libertà della persona-lavoratore; anzi «serve» per bilanciare la tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti e, precisamente:

-  l'interesse a che i rapporti giuridici trovino attuazione nel rispetto del principio di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.);

- l'interesse al lavoro ed alla promozione, da parte dell'ordinamento, delle condizioni che rendono effettivo il relativo diritto (art. 4 Cost.);

- l'interesse alla salute, tutelato come diritto soggettivo fondamentale e proprio altresì della collettività (art. 32 Cost.);

- l'interesse del lavoratore e della sua famiglia ad un'esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.);

- l'interesse    dell'imprenditore alla esplicazione della libera iniziativa economica (11), tuttavia non in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana (art. 41 Cost.).

Tale complessivo assetto di contrapposti interessi è subordinato ad un preciso accordo tra le parti, con il quale, da un lato, il datore di lavoro dà atto, quanto meno implicitamente, che non vi sono ostacoli inerenti alla organizzazione aziendale per la permanenza in servizio del lavoratore così dequalificato e, dall'altro, il lavoratore accetta in modo espresso la cd. dequalificazione. In secondo luogo, è ipotizzabile - ipotesi che si realizza spesso - che il datore di lavoro desista dall'intento di licenziare per modificare in pejus le mansioni del lavoratore, vale a dire dequalificandolo (12), nel caso di ristrutturazione aziendale. In questo modo, si applica la deroga all'art. 2103, 2° comma, c.c.; però, ciò è possibile solo se questo intento (il mutamento in pejus) sia serio, giustificato e non un espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione a tale norma imperativa. In quest'ottica, tale ipotesi di dequalificazione professionale lecita potrebbe apparire contraddittoria (13), in quanto, da un lato, l'imprenditore prospetta il licenziamento dei dipendenti per nuove esigenze aziendali e, dall'altro, accetta mansioni inferiori, purché a retribuzione inferiore. Ma non è così! Soltanto quando l'alternativa al licenziamento è il mutamento in pejus delle mansioni, quest'ultima si presenta come «unica» soluzione per «tutelare il posto di lavoro» dei dipendenti (e non come procedimento formale per attuare nella sostanza una precisa scelta imprenditoriale, in violazione dell'art. 2103 c.c.), da adottare con il consenso dei medesimi. Tale orientamento può trovare la sua giustificazione nel fatto che nel nostro ordinamento sono presenti le leggi cd. di emergenza, le quali altro non sono che espresse deroghe a garanzie fondamentali stabilite a favore dei lavoratori subordinati, in presenza di crisi aziendali e difficoltà dell'occupazione (14). Così, l'art. 1, L. 30 marzo 1978, n. 215 prevede, a determinate condizioni (consistenti in una dichiarazione di «crisi aziendale» ai sensi della L. 12 agosto 1977 n. 675 e in un «accordo tra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative circa il trasferimento della azienda»), e a difesa dell'occupazione, l'inapplicabilità dell'art. 2112, 1° comma, c.c.. sulla prosecuzione immutata dei rapporti di lavoro in caso di alienazione dell'azienda, con ammissibilità anche di perdita totale dei diritti acquisiti dei lavoratori (ad esempio, annullamento totale o parziale dell'anzianità pregressa, in genere peggioramento dei trattamenti). Ancora, gli artt. 1 e 2, L. 19 dicembre 1984, n. 863, sempre per la difesa dell'occupazione o la promozione di nuova occupazione, hanno riconosciuto la legittimità dei contratti collettivi aziendali (stipulati dai sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale) che pattuiscano con gli imprenditori la riduzione degli orari di lavoro, con riduzione della retribuzione. Non va dimenticata la L. 28 febbraio 1987, n. 56, che nell'art. 23 consente, egualmente per creare nuove pur se temporanee opportunità di lavoro, ma in deroga alla tassatività di legge dei casi di contratto a termine e con favor legis per la stabilità del rapporto di lavoro, la previsione di nuove ipotesi di contratti a termine da parte di contratti collettivi stipulati dai sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Recentemente, l'art. 4, 11° comma, L. 23 luglio 1991, n. 223 permette la deroga all'art. 2103, 2° comma, c.c. con assegnazione dei dipendenti a mansioni diverse da quelle svolte ad opera di accordi collettivi (anche se non stipulati da parte di sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale) intervenuti nelle procedure sulla «messa in mobilità» dei lavoratori, e quindi a difesa ulteriormente dell'occupazione. Vi è, dunque, nelle leggi citate, l'indicazione ripetuta di esigenze dell'impresa che possono rendere inconciliabili trattamenti inderogabili e occupazione e superabile l'inconciliabilità a scapito dell'inderogabilità.

Va, peraltro, rilevato che la prova dell'impossibilità di utilizzare il dipendente licenziato in altre mansioni equivalenti è a carico del datore di lavoro (15). Tale prova deve essere fornita sulla base di inequivoci elementi volti a dimostrare che, nell'ambito dell'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento, non vi erano altre possibilità di evitare la risoluzione del rapporto se non quella, vietata dall'art. 2103 c.c.., di adibire il lavoratore ad una mansione dequalificante rispetto a quella dallo stesso esercitata prima della ristrutturazione aziendale.

Oltre, alle ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e della ristrutturazione aziendale, poc'anzi esaminate, deve ritenersi legittima la modifica in pejus delle mansioni, quando, per il dipendente, tale modifica costituisca l'unica alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che avviene per ragioni di crisi aziendale (16), di soppressione del posto di lavoro (17) e di eliminazione della figura professionale (18). Anche in queste ipotesi, come in quella della ristrutturazione aziendale, il datore il lavoro deve provare di non poter diversamente utilizzare il dipendente in analoghe mansioni. Infine, va ricordato che la legittimità della deroga in pejus alla regola dell'equivalenza trova applicabilità ove è prevista dalla legge, a tutela di interessi prevalenti di categorie più deboli, ad esempio: alle lavoratrici madri, alla tutela dei disabili, al riassorbimento di personale ritenuto precedentemente eccedente, ai lavoratori esposti a rischi sanitari. In tal caso, si parla della cd. «dequalificazione professiona­le lecita legislativa», in quanto essa è disposta direttamente dalla legge.

 

Rocchina Staiano

 Avvocato e Dottore di ricerca-Università di Salerno

(fonte: Consulenza n. 38/2005, Buffetti ed., 60 e ss.)

 

NOTE

(1 ) Sull’art. 13 Statuto dei lavoratori, v.: S. GRASSELLI, La nuova disciplina legale dello jus variandi in Dir. Lav. 1971,I, p. 86; M. PERSIANI, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Dir. Lav., 1971,I, p. 11; C. ASSANTI, L'art. 13 St.,  in Commento allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Comm. Assanti-Pera, op. cit., p. 140 ss.; R. SCOGNAMIGLIO, Osservazioni sull’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, in Orient. Giur. Lav. 1972, p. 495; G. GIUGNI, voce Mansioni e qualifica, in Enc. Dir., op. cit., p. 549 ss.; G. SUPPIEJ, Art. 13, in Commentario dello Statuto dei lavoratori, Comm. Prosperetti, op. cit., 334 ss.; G. SUPP1EJ, Il rapporto di lavoro, Padova, 1982, p. 36 ss.; R. Scognamiglio, Mansioni e qualifiche dei lavoratori, in Nss. D. I.,Appendice,Torino, 1983, vol. IX, p. 1101 ss.; G. GIUGNI, voce Mansioni e qualifica, in Enc. Dir., op. cit., p. 549 ss.; U. ROMAGNOLI, Commento all’art. 13, in Statuto dei diritti dei lavoratori, in  Comm. Scialoja-Branca, op. cit., p. 221; F. Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, op. cit., p. 67 ss.; E. Ghera, Mobilità introaziendale e limiti all’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, in Mass. Giur. Lav., 1984, p. 59; M. MEUCCI, Mansioni, studio, tempo libero dei lavoratori, Milano, 1984; C. PISANI, voce Mansioni del lavoratore, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, vol. XIX, p. 1 ss.; G. ZANGARI, Del lavoro. Sub. Art. 13, in Comm. Cod. Civ., Torino, 1993, vol. V, Tomo 1, p. 178 ss.; M. Brollo, La mobilità interna del lavoratore, Comm. Cod. civ. di Schlesinger, Milano, 1997; Id., Le modifiche oggettive: il mutamento di mansioni, in C. CESTER (a cura di), II rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, Torino, 1999, vol. II e, più recenti, A. MaRESCA e S. CIUCCiOVINO, Mansioni, qualifiche e jus variandi, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2000; C. CARDARELLO, Mansioni e rapporto di lavoro subordinato, Milano, 2001 ; L. NANNIPIERI, L'accordo sulle mansioni inferiori, in Riv. ìt. Dir. Lav., 2001, n. 4, p. 355; A. OCCHIPINTI e G. Mimmo, Mansioni superiori ed equivalenti, Milano, 2002.

(2) Cass. Civ., sez. lav., 11 gennaio 1995, n. 276, in Dir. Lav., 1996,II, p. 351.

(3) Il termine di riferimento dell'equivalenza, contemplata dall'art. 2103 c.c. (nel testo risultante dall’ art. 13 della legge n. 300 del 1970), delle mansioni assegnate al lavoratore rispetto alle ultime effettivamente svolte, è costituito dal contenuto professionale delle mansioni stesse; sicché devono considerarsi inferiori mansioni che, rispetto alle precedenti, comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore, avendosi riguardo non solo alla qualità intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, nonché alla posizione del dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro. V.: Cass. Civ., sez. lav., 14 luglio 1993, n. 7789, in Rep. Foro It., voce Lavoro (rapporto), 1994; Cass. Civ., sez. lav., 9 marzo 2003, n, 4773, in Giust. Civ., Mass., 2003. Sulla nozione di «equivalenza», in dottrina, v.: F. Bianchi D'Urso, La mobilità orizzontale e l’equivalenza delle mansioni, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind. 1987,l, p. 119 ss.

(4) Cass. Civ., sez. lav., 19 marzo 1991, n. 2896, in Not. Giur. Lav., 1991, p. 454.

(5) Riflessioni critiche sui patti nulli in tema di mansioni, v.: R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Milano, 1976, p. 223 ss.; M. MEUCCI, Il rapporto di lavoro nell'impresa, Napoli, 1991, p. 32 e ss.; M. Brollo, La mobilità interna del lavoratore, Comm. Cod. civ. di Schlesinger, op. cit., p. 193 ss; ID. Le modifiche oggettive: il mutamento di mansioni, in C. CESTER (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, op. cit., p. 1100 ss.

(6) M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, Comm. Cod civ. di Schlesinger, op. cit., p. 189. Contra C. Assanti, L’ art. 13 St., in Com­mento allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Comm. Assanti-Pera, Padova, 1972, p. 154 è favorevole alla tesi «dell'inderogabilità» solo in senso individuale.

(7) Sulla nozione di dequalifìcazione professionale, in dottrina, tra i più esaustivi: M. BORZAGA, II concetto di equivalenza delle mansioni, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, p. 276; C CARDARELLO, Mansioni e rapporto di lavoro subordinato, op. cit., p. 117 ss.; A. Cazzella, Art.. 2103 c.c. r.c, in G. Favalli (a cura di), Codice di diritto del lavoro, Roma, 2004, p. 202 ss. e R. STAIANO, Dequalificazione professionale: gli strumen­ti di tutela, Halley Editrice, 2005. In giurisprudenza, a titolo indicativo, si rinvia a: Trib. Milano 25 marzo 2002, in Orient. Giur. Lav., 2002,I,p. 214.

(8) Pret. Firenze, 8 aprile 1994, in Rep. Foro It., voce Lavoro (rapporto), 1994.

(9) Pret. Milano, 29 gennaio 1994, in Rep. Foro It., voce Lavoro (rapporto), 1994.

(10) Sulla dequalifìcazione lecita per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, in giurisprudenza, v.: Cass. Civ., sez. lav., 12 gennaio 1984, n. 266, in Mass. Giur. Lav., 1984, p. 175, con nota di A. RiCCARDI; Cass. Civ., sez. lav., 7 marzo 1986, n. 1536, in Mass. Giur. Lav., 1986, p. 392, con nota di A. RiCCARDI; successivamente, tale orientamento è stato seguito da numerose altre pronunce, di recente, Pret. Rovigo, 1 giugno 1999, in Studium juris, 1999, p. 1023; Cass. Civ., sez. lav., 2 agosto 2001, n. 10574, in Giust. Civ. Mass., 2001; Cass. Civ., sez. lav., 15 novembre 2002, n. 16141, in Giust. Civ. Mass.,2002; Cass. Civ., sez. lav., 19 agosto 2004, n. 16305, in Giust. Civ .Mass.,2005; Cass. Civ., sez. lav., 7 marzo 2005, n. 4827, in Giust. Civ. Mass., 2005.

(11) La Corte costituzionale ha più volte osservato come il nucleo essenziale di questo diritto di libertà, pur limitato dalla necessità di salvaguardia della sicurezza, libertà e dignità degli individui, stia nell'autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell'azienda ed il conseguente profilo dell'organizzazione interna della medesima (Corte Cost., 28 luglio 1993, n. 356, in Giur. It., 1994,1, p. 281) soprattutto in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari (Corte Cost., 5 luglio 1990, n. 316, in Giur. Cost., 1990, p. 2025).

(12) Sul mutamento in pejus delle mansioni, in caso di ristrutturazione aziendale, per evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la giurisprudenza di merito, v.: Pret. Frosinone, 28 maggio 1991, in Dir. Lav., 1993, II, p. 794, con nota di S. CECCONI. Per la giurisprudenza di legittimità, si rinvia a: Cass. Civ., sez. lav., 29 novembre 1988, n. 6441, in Giust. Civ. Mass. 1988.

(13) Tale contraddizione è stata sostenuta da M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore. Comm. Cod. civ. di Schlesinger, op.cit.,p. 212.

(14) Così Cass. Civ. sez. lav., 7 settembre 1993, n. 9386, in Riv. Giur. Lav., 1993, p. 801.

(15) Cass. Civ., sez. lav., 20 dicembre 1995, n. 12999, in Giust. Civ. Mass., 1995 e, di recente, Cass. Civ., sez. lav., 20 agosto 2003, n. 12270, in Giust. Civ. Mass., 2003.

(16) Cass. Civ., sez. lav., 8 settembre 1988, n. 5092, in Giust. Civ. Mass., 1988.

(17) Pret. Milano, 8 aprile 1994, in Lav. Giur., 1994, p. 883 e Cass. Civ., sez. lav., 23 ottobre 1996, n. 9204, in Dir. Prat. Lav., 1997,p. 942 ss.

(18) Pret. Bergamo, 13 febbraio 1990, in Dir. Lav., 1991, II, p. 6 ss.

 

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