Dequalificazione
quantitativo/qualitativa, per sottrazione di mansioni, secondo la Cassazione
Si
ritiene utile per i lavoratori, i gestori delle risorse umane ed i magistrati,
riportare una recente, efficace, sintesi – operata dall’estensore Dr. Vidiri
nella decisione n. 10284 del 4 agosto
2000 (in Not. giurisp. lav. 2001, 47) -
finalizzata a focalizzare la fattispecie della dequalificazione o
demansionamento professionale, fattispecie che attiene (a prescindere
dall’inquadramento categoriale e dall’invarianza retributiva) alla privazione
di una parte o di tutte le mansioni o compiti
(o di quelli strutturalmente caratterizzanti) tramite cui si estrinseca
in azienda il “ruolo” o “posizione professionale” del lavoratore.
La
sintesi che sotto riportiamo dovrebbe essere indubbiamente apprezzata ed utile: a)
per i lavoratori che ritengono (o nutrono il sospetto) di essere stati oggetto di
tale pratica aziendale (da riscontrare con una necessaria probabilità di
certezza prima che essi si determinino
ad adire la magistratura per azionare una rivendicazione per
demansionamento); b) per i gestori delle risorse umane che spesso e volentieri
(più che essere attori volontari) sono sollecitati dal management di
vertice a porre in essere vere e proprie lesioni del ruolo o posizione
professionale del lavoratore (raramente per ignoranza, più spesso – secondo
ultratrentennale esperienza sul campo, non già come esecutore ma come soggetto
leso – per soddisfare esigenze di favoritismo con l’aderire supinamente e
senza rimorsi di coscienza a richieste clientelari volte a far progredire in
carriera taluni segnalati o favoriti per c.d. “comunanza di cordata”, creando
loro una posizione ed aprendogli un sentiero di carriera a danno di altri più
meritevoli ma non “coperti” dalla segnalazione, ai quali vengono inopinatamente
carpite e sottratte le mansioni ed i compiti più qualificanti e gratificanti);
c) per i magistrati che, all’oscuro della concreta realtà aziendale e delle
lotte che in essa si dispiegano ed attualizzano con le armi più svariate, non
escluse le subdole pratiche di mobbing
di recente scoperto nel nostro Paese, debbono istituzionalmente riscontrare la
fattispecie del demansionamento, stigmatizzarne la illegittimità e disporre,
anche per dissuadere la futura
reiterazione della pratica vessatoria,
le misure riparatorie – che proprio per finalità disincentivanti si
auspicano incisive e non, come sinora rileviamo, quasi in forma meramente simbolica per il danneggiato,
talora irreparabilmente - consistenti
nell’imposizione ai gestori aziendali di riassegnazione del demansionato alle stesse mansioni o ad
altre equivalenti ex art. 2103 c.c. ed al connesso risarcimento di danno alla
professionalità, all’immagine, alle chanches di carriera ecc.
La
S. corte – nella precitata decisione – pur cassando con rinvio al altro
Tribunale la decisione del Tribunale di Alessandria (in quanto nel condividere,
ed anche ridimensionare sotto il profilo risarcitorio, le rimostranze di un
quadro amministrativo non avrebbe adeguatamente motivato il suo pensiero, vizio
che a nostro modesto avviso non ci è parso di poter riscontare in quanto sia
il primo giudice sia il giudice d’appello ci è sembrato avessero ben colto gli aspetti
della dequalificazione qualitativa, valorizzato anche inequivoche testimonianze
in ordine alla emarginazione subita dal suddetto responsabile amministrativo in
occasione del “cambio della guardia” al vertice dell’azienda), ha colto
l’occasione per affermare comunque principi nettamente condivisibili cui si
dovrà, nella fattispecie attenere, il Tribunale del rinvio (con l’effetto,
sempre a nostro avviso di pervenire alle stesse conclusioni del tribunale
precedente, salva una maggiore articolazione
ed accortezza nella motivazione).
Afferma
la Cassazione: “L'art. 2103 c.c. nella stia originaria stesura subordinava
l'interesse dei lavoratore a quello dell'impresa in quanto, come è stato
precisato in dottrina, in caso di conflitto tra le esigenze dell'impresa e le
esigenze di difesa del patrimonio professionale dei lavoratori le prime
prevalevano sulle seconde sia pure “nei limiti fissati dalle regole (non
scritte) della normalità tecnico-organizzativa”.
A seguito
dell'entrata in vigore dello statuto dei lavoratori, con l'art. 13 di detta
legge si è radicalmente modificata tale situazione perché la ratio dell'art.
2103 c.c. va ora identificata - in linea con la legge 20 maggio 1970, n. 300
diretta a garantire la libertà e dignità dei lavoratori, nei luoghi di lavoro -
nell'esigenza di apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio
professionale del lavoratore. Coerente
con lo spirito informatore del vigente art. 2103 c.c. è, pertanto,
l'affermazione che detta norma sia tesa a far salvo il diritto del lavoratore
alla utilizzazione, al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo
di nozioni di esperienza e di perizia acquisita nella fase pregressa del
rapporto (cfr. in tali sensi, tra le altre: Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, in
Foro it. 1995, I, 3133; Cass.13 novembre 1991, n. 12088, in Not. giurisp. lav. 1991, 830; Cass., 10 febbraio 1988, n. 1437,
inedita a quanto consta; Cass., 6 giugno 1985, n. 3372, in Not. giurisp. lav.
1985,648; Cass., 15 giugno 1983, n. 4106, ibidem 1983, 451), ed ad impedire
conseguentemente che le nuove mansioni determinino una perdita delle
potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per
altro verso comportino una sotto utilizzazione del patrimonio professionale del
lavoratore, avendosi riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività
esplicate dal lavoratore, ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel
loro esercizio, nonché alla posizione del dipendente nel contesto
dell'organizzazione aziendale del lavoro (cfr.
Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405, cit.; Cass., 14 luglio 1993, n. 7789,
in Not. giurisp. lav. 1993, 808).
In siffatta
ottica, una violazione della lettera e della ratio dell'art. 2103 c.c. può
quindi ipotizzarsi, in considerazione degli interessi sostanziali tutelati dal
legislatore, anche allorquando si sia in presenza di una modifica solo
quantitativa delle mansioni assegnate al lavoratore, che si traduca in una
riduzione dei compiti lavorativi del dipendente.
Detta modifica,
oltre ad una diminuzione retributiva, può infatti determinare in concreto - in
ragione dell'inattività o della ridotta attività oltre che dell'entità del
ridimensionamento dell'area operativa del lavoratore, della specifica natura
delle residuali prestazioni e delle sue concrete modalità di svolgimento - un
progressivo deperimento del bagaglio culturale del dipendente e una perdita di
quelle conoscenze e esperienze richieste dal tipo di lavoro svolto, che
finiscono per tradursi, in ultima analisi, in un graduale appannamento della
propria professionalità ed in una sua più difficile futura utilizzazione.
In tale ottica è
stato, appunto, affermato da questa Corte che lo svolgimento dapprima in via
esclusiva e successivamente con altra persona delle medesime mansioni dà luogo
ad una dequalificazione, in violazione dell'art. 2103 c.c., ove si tratti di
mansioni di alto livello, quali quelle di direzione tecnica della produzione
con responsabilità diretta, perché in un simile caso la “cogestione” dei
compiti non comporta una riduzione solo quantitativa delle mansioni ma anche
qualitativa, che abbassa il livello professionale dell'attività svolta (cfr. in
tali sensi Cass., 11 gennaio 1995, n. 276, in Not. giurisp. lav. 1995,
732). E sempre nella stessa direzione è
stato ribadito da questa Corte che nell'ambito dell'esercizio dello ius
variandi, consentito dall'art. 2103 c.c., rientra il potere del datore di
lavoro di ridurre quantitativamente le mansioni affidate al lavoratore, con la
conseguenza che è consentita una diminuzione della retribuzione giustificata
dal minore impegno lavorativo, così come le indennità remunerative di una
particolare modalità della prestazione lavorativa possono venir meno con il
venir meno di tale modalità (cfr. tra le altre: Cass., 23 febbraio 1988, n.
1933; Cass., 23 giugno 1985, n. 3921; Cass., 16 novembre 1982, n. 6133), anche
se è stato precisato, ancora una volta, che tale riduzione quantitativa delle
mansioni affidate al lavoratore in tanto è consentita in quanto ciò non
comporti una riduzione qualitativa delle stesse tali da determinare una
dequalificazione professionale (cfr. al riguardo: Cass., 17 gennaio 1987, n.
392, in Giust. civ. 1988, I, 2368, cui adde Cass. 23 marzo 199, n. 2744, in
Not. giurisp. lav. 1999, 307; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276, ibidem 1995, 732);
Cass. 4 marzo 1983, n. 1619, ibidem 1983, 236).
Il disposto
dell'art. 2103 c.c. finisce, così, per essere violato non solo allorquando il
dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma anche quando il medesimo
(ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di
forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro non
solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della
personalità dei soggetto (cfr. sul punto: Cass., 4 ottobre 1995, n. 10405,
cit., cui adde Cass., 13 agosto 1991, n. 8835, in Not. giurisp. lav. 1991, 740,
che ha osservato come l'accertamento relativo alla sussistenza o meno di
circostanze giustificativi della condotta del datore di lavoro - che rileva
indipendentemente da una specifica volontà di declassare o svilire il
lavoratore e che, comunque, non è giustificabile neppure per le comprovate
esigenze organizzative e tecniche - si risolve in una valutazione di fatto che,
se correttamente motivata, è incensurabile in Cassazione),
Per concludere
può, alla luce di quanto sinora detto, fissarsi il principio di diritto secondo
cui, allorquando venga dal lavoratore denunziata una violazione del disposto
dell'art. 2103 c.c. con conseguente dequalificazione professionale, il Giudice
di merito deve ricostruire l'anamnesi lavorativa del denunziante al fine di
stabilire se le modifiche delle mansioni dallo stesso svolte finiscano per
impedire la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento delle
professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto. In un tale contesto non ogni modifica
quantitativa delle mansioni, con una riduzione delle stesse - sovente
giustificata dall'esigenza di pervenire ad una più efficiente organizzazione
imprenditoriale - si traduce automaticamente in una “dequalificazione
professionale”, incombendo al Giudice accertare, di volta in volta, se l'effettuata
“sottrazione” di mansioni sia tale - per la sua natura e portata, per la sua
incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito
aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni
del lavoratore, una sotto utilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite
ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità. Un siffatto accertamento si traduce in una
valutazione di fatto che, se sorretta da motivazione adeguata e logica, si
sottrae ad ogni censura in sede di legittimità”.
P.s. - Nello stesso senso si è espressa successivamente Cass. 19 maggio 2001, n. 6856 - Pres. Santojanni - Rel. Spanò - Xerox Spa c. Picardi, secondo cui: "Quando venga dal lavoratore denunziata la violazione dell'art. 2103 cod. civ., allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni dallo stesso svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale - per natura, portata ed incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguenziale impoverimento della sua professionalità. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva considerato dequalificante per una addetta alle vendite che si occupava anche della stipulazione dei contratti l'affidamento di compiti limitati a prendere contatti telefonici con la clientela, sul principale rilievo che le comunicazioni telefoniche "de quibus" non costituivano, nel caso di specie, un diverso sistema di conclusione dei contratti ma esclusivamente un'attività preliminare rispetto all'attività negoziale vera e propria che era stata affidata ad altri venditori i quali si occupavano dei contatti personali diretti con i clienti onde raccoglierne le sottoscrizioni)".
Mario Meucci
Roma, 20 dicembre 2001
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