CENNI  SULLA DEREGULATION IN ATTO NEL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO(*)

 

1. L’attuale situazione in controtendenza con i principi costituzionali e comunitari

I principi fondanti della nostra Costituzione e quelli comunitari in materia lavoristica sono ispirati al riconoscimento della persona, alla sottrazione degli individui dalle situazioni di bisogno, alla prevenzione della salute e della sicurezza sul lavoro, all’integrazione sociale dei meno abbienti e dei più deboli, al riconoscimento della pari dignità del lavoro femminile, dei giovani, dei fanciulli e adolescenti.

Questi principi  riassumibili in quello  di eguaglianza, formale e sostanziale e  in quello della tutela della dignità umana -  riaffermati in ambito europeo  quale caposaldo del nucleo indefettibile dei diritti e delle posizioni soggettive di ogni essere umano - sono messi ogni giorno in discussione e spesso apertamente violati dalla più recente produzione legislativa.

Al posto della tendenziale riduzione delle differenze socio-economiche che dovrebbe auspicabilmente essere perseguita, si sta invece attualizzando - secondo una tendenza che negli ultimi 15-20 anni ha interessato quasi tutti i paesi avanzati -  una marcata divaricazione ed accentuazione delle diseguaglianze, sia relativamente alle fonti di reddito sia relativamente alla fruizione di servizi di supporto alla collettività civile.

Dal lato economico infatti, si è assistito e si continua ad assistere a consistenti compensi e premi di asserita produttività – in realtà del tutto sganciati dalle performances ed erogati anche in caso di disastrosi  risultati in ragione esclusiva dell’appartenenza ad una “classe” élitaria e di privilegiati - sia individuali (emblematici gli stipendi e bonus dei managers, revocati  e ridimensionati  in altri paesi civili più audaci e sensibili alle manifestazioni di rabbia e di indignazione della gente comune) sia collettivi  a favore dei componenti delle classi più ricche, senza che a questo fenomeno abbia corrisposto un innalzamento degli standards di vita dei cittadini e dei residenti. Ne è conseguita  solo una deprecabile implementazione del tasso di accumulazione privata delle fasce più economicamente privilegiate che ha avuto l’effetto tangibile di accrescere il divario già sussistente con i cittadini  delle fasce meno abbienti e protette della popolazione.

L’ordinamento legislativo, e giuslavoristico in particolare, che dovrebbe tendere – mediante la codificazione di norme e principi garantisti di una parità di diritti volti a marginalizzare se non ad annullare queste diseguaglianze – non si mostra per niente adeguato al compito che gli compete. Anzi di questi tempi si mostra  caratterizzato da inequivoci segnali di allentamento delle tutele per i più deboli e meno abbienti, attraverso una deregulation del tutto evidente, percepibile ed al tempo stesso deplorevole.

In sostanza ci si muove in controtendenza non solo rispetto ai principi costituzionali ma anche  rispetto ai criteri ed obbiettivi fissati nel 2000 nel trattato di Lisbona, volto a traguardare la cd. inclusione attiva  lungo tre direttrici: a) sostegno al reddito per rimuovere il rischio di esclusione sociale; b) collegamento al mercato del lavoro, con particolare attenzione ai soggetti più svantaggiati ed ai processi di formazione permanente e continua; c) accesso a servizi di qualità.

Fanno difetto a livello politico e, quindi, legislativo visioni di ampio respiro, cosicché anche nei recenti e recentissimi interventi della maggioranza governativa ci si limita a soluzioni-tampone, ad operazioni in deroga per un rinnovato finanziamento degli ammortizzatori e della loro fruizione, rinviando la riforma di segno globale “a tempi migliori”. I fondi stanziati per i prossimi due anni hanno esigua consistenza e dalla loro fruizione - come già rilevato da altri – «saranno tagliati certamente fuori i cd.  “senza rappresentanza”, talché la ripartizione dei sussidi si concentrerà tra coloro che stanno “meno peggio”, lasciando gli “ultimi” (i precari e tante “partite IVA”) ancora senza copertura o con la sola prospettiva di entrare nei programmi di “carità miserevole” come quelli della social card  o delle erogazioni di bonus una tantum».

Occorrerebbe invece intraprendere con convinzione,  decisione e con le necessarie risorse, la strada segnata e sostenuta dalle istituzioni europee, quella della flexicurity,  volta a coniugare inscindibilmente le esigenze di flessibilità del sistema produttivo e di mobilità nel mercato - nella misura in cui siano riconosciute oggettivamente necessarie e non funzionali solo ad ideologie liberiste - con quelle di sicurezza “esistenziale” dei lavoratori, subordinati e non, non disgiunte da quelle della protezione del reddito.

Nel nostro Paese si è assistito invece da anni all’immissione nell’ordinamento lavoristico di consistenti misure di flessibilizzazione e di tendenziale precarizzazione dei rapporti di lavoro, all’insegna dell’enfatizzazione del lavoro flessibile sganciato dalle garanzie di sicurezza per il prestatore. Come ha acutamente notato il sociologo Gallino il lavoro flessibile è l’antitesi del lavoro “decente” o dignitoso, dizione coniata dall’Oil  a Ginevra nel 1999, ove questa tipologia di lavoro fu considerata l’obbiettivo  del rapporto del direttore generale  (giustappunto intitolato “Pour un travail décent”), in quanto garante delle seguenti sicurezze:

«1)Sicurezza dell’occupazione, che significa non solo protezione contro i licenziamenti abusivi, ovvero senza causa, ma anche stabilità dell’occupazione compatibile con un’economia dinamica.

2) Sicurezza professionale: implica la possibilità di valorizzare la propria professione accrescendo gradualmente le competenze tramite il lavoro, e formandosi una riconoscibile e stabile identità professionale.

3) Sicurezza sui luoghi di lavoro: comprende la protezione contro gli incidenti e le malattie professionali grazie ad un’adeguata regolazione in tema di salute e sicurezza, che preveda anche limiti agli orari e agli straordinari, nonché la riduzione dello stress sul lavoro.

4) Sicurezza del reddito: significa creazione e mantenimento di un reddito adeguato, in grado di assicurare al lavoratore e ai suoi familiari la copertura dei “costi dell’uomo” a fronte di un dato livello di sviluppo sociale.

5) Sicurezza di rappresentanza. Essa rinvia alla garanzia offerta dalla possibilità di espressione collettiva sul mercato del lavoro grazie a organizzazioni sindacali libere e indipendenti, nonché di altri organismi capaci di rappresentare gli interessi dei lavoratori.

6) Sicurezza previdenziale: possibilità di assicurarsi attraverso il lavoro un reddito che permetta di mantenere, dopo l’uscita dal lavoro, un livello di vita comparabile a quello precedente.

La moltiplicazione dei lavori flessibili o atipici tende – all’opposto - a diminuire la maggior parte di codeste forme di sicurezza; di conseguenza compromette in varia misura lo statuto del lavoro “decente”. Riduce, per definizione, quella relativa alla stabilità dell’occupazione. Mentre la formazione e valorizzazione della professionalità e identità lavorativa, come si è già notato, è resa difficile dalla varietà di ambienti lavorativi, esperienze tecniche, modelli di organizzazione del lavoro cui è esposto il lavoratore flessibile.

La sicurezza nei luoghi di lavoro – che in questo caso si riferisce alla sicurezza fisica, alla salute – è compromessa dai lavori flessibili, in specie da quelli implicanti contratti di breve durata, perché le imprese non hanno alcun incentivo a investire nella formazione alla sicurezza di lavoratori che nel volgere di poche settimane o mesi non saranno più alle loro dipendenze. Quanto ai lavoratori, essi non hanno né il tempo per apprendere i codici della sicurezza nell’impresa dove saranno occupati per breve tempo, né la motivazione a farlo. Chi lavora poi con un contratto atipico inclina a ridurre le attenzioni per la propria salute. Pospone, ad esempio, l’opportunità di sottoporsi ad una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere. Sottovalutare il proprio stato di stress, o trascurare una visita per recarsi al lavoro, o recarsi al lavoro sebbene indisposti, incide alla lunga sullo stato di salute.

Il lavoro flessibile intacca fortemente la sicurezza e il livello di reddito. Per quanto riguarda le due categorie più ampie di lavoratori atipici - i dipendenti a tempo determinato e i collaboratori coordinati o a progetto,  che sono formalmente degli autonomi - le ricerche confermano che essi hanno un reddito netto annuo notevolmente inferiore sia a quello dei dipendenti con un contratto standard, sia a quello dei veri autonomi.

Con riferimento a sua volta alla sicurezza della rappresentanza sindacale, a diminuirla drasticamente provvedono, in mutevoli combinazioni, vari fattori connessi alla flessibilità del lavoro: la mobilità dei lavoratori flessibili da un posto all’altro; la separazione del lavoratore dall’impresa in cui presta la sua attività, che è insita nel lavoro in affitto o in somministrazione; la individualizzazione dei rapporti di lavoro promossa dalle riforme del mercato del lavoro; i trasferimenti di rami d’azienda da una regione all’altra oppure all’estero[1]».

Vittime principali di questa strutturale precarietà sono:

a) le donne lavoratrici, che vedono drasticamente ridursi gli spazi per accedere ad un lavoro meno instabile ed insufficiente dal punto di vista qualitativo e retributivo (part time; collaborazioni a vario titolo);

b) i giovani, che hanno accesso solo a forme di lavoro non standard;

c) i lavoratori “in nero” o “in grigio”, per lo più migranti clandestini, con prospettive di “inclusione” sempre più remote e soggetti ad ogni sorta di ricatti e a nuove forme di “caporalato”, se non di “schiavitù”, privati finanche (talvolta per legge) degli elementari diritti fondamentali della persona.

Evidenzia e conferma questa situazione la Commissione di indagine sul lavoro -  presieduta dall’ex sindacalista Pierre Carniti - che ha studiato le trasformazioni del mondo del lavoro in Italia e in Europa, sollecitando riforme strutturali con  l’avvertenza di non cadere nella consueta logica per cui ad ogni proposta di allargamento ed universalizzazione delle tutele deve corrispondere, nell’ottica perversa dello “scambio”, l’indebolimento di quelle presenti, a cominciare dall’abbandono o ridimensionamento delle garanzie offerte dall’ 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale si è ricominciato, purtroppo, a porre un’attenzione alterativa.

Tra le riforme urgenti disegnate dalla Commissione Carniti spiccano l'unificazione dei diversi sistemi d'indennizzo della disoccupazione in una indennità universale d'importo adeguato per tutti coloro che hanno perso il lavoro, superandosi così l’attuale frammentazione e l'uso improprio della cassa integrazione straordinaria, istituto intrinsecamente temporaneo e limitato, nonché l'introduzione di un reddito minimo per coloro che versano in condizione di povertà, necessario a combattere sul serio l’esclusione sociale cui sono condannati di fatto anche i cd. working poors, di numero sempre maggiore, a dispetto delle ripetute indicazioni delle organizzazioni internazionali e delle istituzioni europee nell’ottica di  realizzare occasioni per un “lavoro decente” ed elevare qualitativamente il mercato del lavoro, dal lato della domanda e da quello dell’offerta, verso better jobs.

L’introduzione di forme di tutela universalistica dei “minimi vitali” (chiaramente indicata dall’art. 34, comma 3, della Carta di Nizza e dalle due Carte sociali europee) nel nostro ordinamento lavoristico, rappresenta una urgente  quanto indilazionabile necessità, al fine di fronteggiare una deriva giuridico-socio-economica che rischia di condurre il panorama sociale del Paese verso situazioni di disuguaglianza intollerabili. Intollerabili per una collettività la cui Costituzione pone dignità umana ed eguaglianza dei suoi componenti quali principi-cardine dell’ordine giuridico e sociale. Deriva che – come ancora è stato ben detto  da altri – «rischia di far scivolare i cittadini  verso forme di “esclusione” dei “diversi”, tra i quali troveranno collocazione anche coloro che – precari a vita e/o privi di un adeguato sostegno collettivo – formeranno le fila di una sempre più numerosa schiera di individui e individue socialmente sradicati e privati di diritti soggettivi e tutele, vittime di una marginalità sociale che impedisce inoltre il formarsi di soggetti collettivi capaci di qualche forma di resistenza o progettualità politica».

 

2. Le modifiche legislative recessive recentemente introdotte o in corso di approvazione

Focalizzando la nostra attenzione al panorama della recente produzione legislativa, non può passare inosservato né essere sottaciuto come il decreto legge 112/2008 (convertito in agosto 2008 nella l. n. 133/08: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”) abbia ampliato e amplificato lo spazio di discrezionalità del datore di lavoro, ad esempio, reintroducendo nel nostro sistema lavoristico il lavoro intermittente, restringendo la nozione di lavoro notturno, alterando il diritto dei lavoratori al riposo settimanale, ora “calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni”. Numerosi articoli sollevano i datori di lavoro da una serie di adempimenti, allentano i controlli, ripristinano figure contrattuali recentemente abrogate per l’aperta frizione che esse manifestavano con i principi costituzionali a tutela del lavoro e dei lavoratori. Il decreto legge è riuscito a privare il contratto di apprendistato delle potenzialità connesse alla formazione professionale, veicolo di crescita dei giovani lavoratori, eliminandone la durata minima ed aprendo così il varco all’utilizzo distorto del medesimo quale contratto a termine poco costoso e sottratto ai requisiti di cui al d.lgs. 368/2001, disciplinante giustappunto il contratto a termine.

Va ancora fatto presente come tramite l’art. 21, comma 1 bis, d.l. 112 - oggetto di ben 16 ordinanze di illegittimità costituzionale per il cui esame la Consulta ha fissato l’udienza del 23 giugno 2009 - il legislatore del 2008 abbia anche cercato di incidere sui giudizi in corso relativi a contratti di lavoro a tempo determinato, per la maggior parte riguardanti Poste Italiane s.p.a., con contenuti contrari ai principi costituzionali di cui agli artt. 3, 4, 35, all’art. 2, § 3, Direttiva 1999/70/CE sul divieto di arretramento di tutela, all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Sul tema delle dimissioni dei lavoratori si è registrata la fulminea cancellazione da parte della nuova compagine governativa delle garanzie introdotte con la l. n. 188/2007 (cd. leggina Damiano) - anche se aggirabili con l’espediente immediatamente rinvenuto da parte datoriale delle risoluzioni consensuali– garanzie tramite le quali si era cercato di  neutralizzare quella prassi incivile nota come dimissioni in bianco, fatte sottoscrivere a lavoratici e lavoratori al momento dell’assunzione.

Si è poi intervenuti sul sistema dei controlli per le imprese, sopprimendo: a) l’obbligo per le aziende di informare i servizi ispettivi della Direzione Provinciale del Lavoro sul numero dei dipendenti che superano le 48 ore settimanali di lavoro mediante straordinario; b) nonché il potere degli ispettori del lavoro di adottare provvedimenti sospensivi dell’attività imprenditoriale “in caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui agli artt. 4, 7 e 9 del decreto legislativo 8 aprile 2003 n. 66, e successive modificazioni, considerando le specifiche gravità di esposizione al rischio di infortunio”; c) eliminando una serie di adempimenti che renderanno più complicata l’attività ispettiva.

Sul tema si innesterà a breve  il cd. “decreto sicurezza” volto a modificare, in senso favorevole ai datori di lavoro e con consistenti riduzioni delle sanzioni, numerose disposizioni del testo unico sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro.

Lo stesso ministero del lavoro ha depotenziato l’attività ispettiva, ammettendo  nel  documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009  di aver assunto la determinazione  – in ragione della contingente situazione di crisi industriale – di “investire su un’azione di vigilanza selettiva e qualitativa, con forti connotazioni sostanziali, diretta a limitare ostacoli al sistema produttivo e a generare il massimo rendimento in termini di tutela del lavoro”. Determinazione che va tradotta – come è stato acutamente notato - in  «tanta tutela del lavoro quanto basta per essere compatibile con l’esigenza di non aggravare ulteriormente le condizioni di crisi in cui versano le imprese; però, eccezion fatta per le aziende etniche, definite dalla circolare Inps n. 27 del 25.2.09 come realtà economiche gestite da minoranze etniche o organizzate con l’impiego di lavoratori appartenenti alle citate minoranze, nei cui confronti dovrà invece essere privilegiata la vigilanza, con evidente violazione del principio di non discriminazione».

Altre modificazioni di segno recessivo – in corso di esame, a fini di introduzione – sono ravvisabili nel d.d.l. n. 1167/08 (di stralcio di alcuni articoli dei d.d.l. n. 1441 e 1441 quater) tramite cui ci si ripropone l’introduzione: a) della previsione (art. 25) del termine di decadenza di 120 giorni per la esperibilità dell’azione giudiziaria riguardo ai licenziamenti e ai trasferimenti e nelle risoluzioni, presuntivamente illegittime, dei contratti a termine, decadenza che precluderà per i lavoratori a termine qualsiasi spazio di ricorso giacché non si azzarderanno di adire la magistratura nei 120 giorni, eminentemente nella speranza che i loro contratti potrebbero essere rinnovati, speranza che risulterebbe vanificata ritorsivamente dall’azienda in presenza di un’eventuale azione giudiziaria del lavoratore; b) dell’eliminazione (art. 26) con formula criptica,  della gratuità del processo del lavoro, studiata per disincentivare il contenzioso ma assolutamente pregiudizievole per la tutela della parte debole del rapporto di lavoro.

Preoccupanti segnali vengono anche dal recente disegno di legge delega in tema di sciopero (Riforma degli scioperi nel settore trasporti“), approvato dal governo il 27.2.2009 ed all’esame delle Camere.

Seppure limitatamente, per ora, al settore dei trasporti, la Proposta di legge  immette nell’ordinamento  criteri e principi  del tutto confliggenti con la nozione tradizionale del diritto di sciopero quale diritto individuale. Tra questi:

a)la soglia di sbarramento al 50% della rappresentanza per proclamare uno sciopero (ove non si arrivi a questa soglia, il 20% della rappresentanza potrà dar vita ad un referendum preventivo che porterà allo sciopero solo se raggiungerà il 30% dei consensi);

b) la necessità di una dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero da parte del singolo lavoratore, addetto a servizi o attività di particolare rilevanza;

c)la previsione per via contrattuale dell’istituto dello “sciopero virtuale”, cioè di una mera manifestazione di protesta con la garanzia dello svolgimento della prestazione lavorativa, che può essere reso obbligatorio per determinate categorie professionali;

d)il divieto assoluto di forme di astensione che possano ledere il diritto alla mobilità e alla libertà di circolazione.

Queste previsioni sono idonee ad incidere pesantemente sul pluralismo sindacale, in quanto pongono notevoli ostacoli alla proclamazione dello sciopero da parte di organizzazioni dotate di minor seguito ed introducono una inedita distinzione tesa a ridimensionare il più importante strumento di autotutela attribuito ai lavoratori dalla nostra Costituzione.

Conviene infine tenere nella dovuta considerazione il fatto che le modifiche normative soprariferite – sia quelle approvate sia quelle all’esame del Parlamento – hanno trovato gestazione nell’arco di pochi mesi, tanto da ingenerare il legittimo dubbio o sospetto che la strada che si intende percorrere sia quella di uno stravolgimento a 360 gradi dello Stato sociale di diritto.

 

3.L’insoddisfacente trend giurisprudenziale

Il panorama si ingrigisce ulteriormente per effetto di sentenze della magistratura di segno recessivo e formalistico.

Basti por mente:

a) alla remora di consistente magistraura a riconoscere nel mancato pagamento delle retribuzioni, quantunque documentate da buste paga, il presupposto sufficiente per riconoscere l’immediata esecutività del decreto ingiuntivo che assicuri il rapido conseguimento di ciò che  l’art. 36 Cost.  considera strumento principale per assicurare un’esistenza libera e dignitosa oltreché assolvere all’indiscussa funzione di sussistenza personale e familiare;

b)all’analoga remora a legittimare il ricorso all’art. 700 c.p.c. (tutela d’urgenza, in via cautelare) per il licenziamento privativo dei mezzi di sussistenza reddituale;

c)alla legittimazione  - da parte di nutrita giurisprudenza - di idoneità di qualsiasi esigenza tecnico-produttiva prospettata dal datore di lavoro a risolvere il rapporto di lavoro, sottraendosi ad ogni verifica o controllo di merito sulla loro reale idoneità a costituire giustificato motivo oggettivo, finendo per restituire così al datore di lavoro, dalla finestra, quella libertà di recesso ad nutum che la legge sulla giusta causa e lo statuto dei lavoratori gli avevano revocato dalla porta.

Molta giurisprudenza giuslavoristica  non si arresta neppure di fronte all’evento drammatico delle morti sul lavoro, sollevando ostacoli speciosi per la tutela delle vittime: ad esempio negando la propria competenza sulle domande degli eredi iure proprio ed il riconoscimento del danno differenziale (rispetto all’assicurazione Inail) e da ultimo negando sostanzialmente (tramite la privazione di autonomia)anche il danno non patrimoniale, morale o esistenziale che sia, con il risultato – a fronte della sempre più strumentalmente enfatizzata esigenza, in un’ottica riduttiva, di evitare la cd. overcompensation, duplicazione risarcitoria delle voci o temuta locupletazione del lavoratore ed eredi – di farci assistere a indennizzi sottovalutati, al limite dell’indecenza non solo monetaria ma ancor più in senso assoluto se comparata all’evento i cui dolorosi effetti il giudice si dovrebbe proporre il dovere morale di ristorare congruamente, piuttosto che con elemosine.

Appare ancor meno tollerabile il fatto che il lavoro precario, da tutti a parole disapprovato, diventi ancor più precario, che il lavoro “povero” venga reso ancor più povero con il contributo di una giurisprudenza troppo spesso disattenta, che riduce tutele e sopprime ammortizzatori: come, ad esempio, nel caso dei lavoratori migranti che, persa l’occupazione, facciano ritorno nel loro paese di origine e che sono paragonati a turisti italiani sottrattisi volontariamente alla ricerca di un lavoro, oppure nel caso dei lavoratori part time su base annuale, quasi sempre donne, cui la giurisprudenza – prima del legislatore - ha negato la tutela previdenziale per i periodi di “non lavoro”, sostenendo la surreale tesi di essere essi stessi gli artefici della loro temporanea disoccupazione, con palese nascondimento della realtà della prevalenza accordata alle esigenze del mercato del lavoro nella articolazione temporale dei periodi di occupazione.

L’elenco delle negligenze, dell’indifferenza  o della mancanza di una sana  “audacia” giudiziaria – che senza meritarsi l’addebito di favor lavoratoris ingiustificato sia tuttavia sostanzialisticamente orientata alla tutela del contraente debole - si può ulteriormente dipanare. A tal fine ricordando i rigidi e formalistici oneri probatori accollati sulla parte debole del rapporto o sulle vittime di demansionamenti e mobbing; oneri che sebbene “scoperti” o elaborati dalle Sezioni unite nel 2006 (tramite Cass. SS.UU. n. 6572/06) vengono azionati senza alcuna attenuazione su ricorsi depositati sin dagli anni ’90 che giungono – stante la cronica  lentezza della nostra giustizia - solo ora all’attenzione dei gradi superiori della giurisdizione, per i quali i legali dell’epoca, nell’assenza di questo revirement ispirato all’interpretazione restrittiva, avevano privilegiato l’attenzione al lato sostanziale della prova dell’evento pregiudizievole piuttosto che intrattenersi sulla prova dei danni conseguenti, ritenuti ragionevolmente intuitivi in quanto desumibili da nozioni di senso comune ex art. 115 c.p.c. o con il ricorso a presunzioni ex art. 2727-2729 c.c. Si  può proseguire additando la diffusa disapplicazione delle tutele in materia di malattie professionali realizzata attraverso interpretazioni molto discutibili in tema di prova del nesso causale; richiamando la scandalosa gestione giurisprudenziale della normativa in materia di benefici previdenziali per l’amianto, attraverso la “scoperta” o invenzione,  quale baluardo di negazione, della prova in capo al lavoratore della cd. “esposizione qualificata” ad una certa quantità  di fibre inalate, desunta da normativa ad altro scopo legislativamente tipizzata (la normativa prevenzionale del d. lgs. n. 277/91); e ciò ancorché  la stessa Cassazione (IV sezione penale n. 42128/08) abbia fatto proprio il dato scientifico secondo cui la quantità di fibre inalate è irrilevante in quanto anche poche fibre sono idonee a rivestire (con una latenza oscillante dai 20 ai 40 anni) funzione eziologica  determinante o di accelerazione della patologia tumorale del mesotelioma pleurico. Tale indirizzo giurisprudenziale restrittivo – cui si deve l’aggiunta  del requisito della “quantità” di fibre inalate a quello probabilistico della sola, ma legislativamente sufficiente, esposizione ultradecennale - inaugurato dalla sezione lavoro della  Cassazione nel 2001, poi proseguito senza soluzione di continuità e da ultimo recepito dalla l. n. 326/2003 per le richieste successive al 2 ottobre 2003,  rischia di penalizzare proprio i lavoratori maggiormente esposti alla sostanza nociva (i già pensionati e gli stessi lavoratori colpiti dalla malattia correlata all’asbesto). Infine va segnalato il tentativo di disincentivare l’accesso alla giurisdizione attraverso la regola della soccombenza in tema di spese processuali, utilizzata in modo spesso indiscriminato con l’imposizione ai lavoratori di oneri talvolta spropositati.

Il quadro che esce da questo esame piuttosto impietoso è, purtroppo, quello di giudici dimentichi del fatto che l’accesso alla giustizia rimane molto spesso la sola via utile percorribile dal lavoratore per ottenere una verifica di legalità sull’esercizio di poteri contrassegnati sempre da unilateralità e dispiegati nell’ambito di un contratto connotato da disparità che non hanno eguali all’interno di nessun altro rapporto giuridico.

 

Mario Meucci

Roma, 5 aprile 2009

 

(*) Il presente articolo è stato ispirato – e ad esso ha attinto nell’ottica della diffusione delle opinioni progressiste in un panorama di vasta regressione dei valori socio-culturali - dall’ottimo scritto «Domanda di giustizia in tema di diritti del lavoro e diritti sociali e qualità della giurisdizione», contributo al dibattito del gruppo-lavoro  per il XVII Congresso di Magistratura democratica, ai cui estensori va il nostro ringraziamento.


[1] Così L. Gallino, nell’articolo “La flessibilità è nemica del lavoro decente”, agevolmente reperibile in internet.

 

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