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Comportamento aziendale
lesivo del rapporto fiduciario: costituisce giusta causa di dimissioni
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Cass., sez.
lav., 28 ottobre 2008, n. 25886 - C. spa c. S.M.
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Comportamento aziendale lesivo del carattere fiduciario del rapporto –
Concretizzantesi nell’addebito non provato di aver effettuato chiamate
telefoniche estranee a motivi di servizio e in atto di querela, senza
previa contestazione disciplinare, per recuperare complessivi € 87,80 –
Costituisce giusta causa di dimissioni.
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Costituisce
condotta della società datrice di lavoro gravemente lesiva di principi di
buona fede e correttezza nella esecuzione del contratto tale da giustificare
le dimissioni per giusta causa, il fatto che le accuse esposte nella querela
non sono mai state preventivamente contestate al dipendente, che quindi si è
visto esposto a un procedimento penale per una somma veramente modesta senza
avere avuto la possibilità di difendersi preventivamente e per di più
nell'ambito di un rapporto nel quale la datrice di lavoro, potendo
recuperare con trattenuta sulla retribuzione quanto ritenuto non dovuto,
avrebbe potuto realizzare a pieno il suo interesse in via di autotutela,
(per cui) la lesione immediata e definitiva dell'elemento fiduciario appare
evidente, trattandosi di una condotta chiaramente diretta a recare un danno,
grave, al dipendente.
Svolgimento del processo
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Con ricorso
in appello dinanzi alla Corte di appello di Brescia S.M. - dipendente della
s.p.a. C. dal 4 settembre 2000 al 6 novembre 2001 con la qualifica di
venditore impugnava la sentenza con la quale il Tribunale - Giudice del
lavoro di Brescia aveva respinto le sue domande di condanna della ex datrice
di lavoro al risarcimento del danno per mobbing, al pagamento della
indennità di malattia dal (omissis) al (omissis) trattenutagli per assenza
alla visita di controllo, nonché di annullamento della sanzione disciplinare
di due ore di multa per avere utilizzato il telefono cellulare aziendale per
scopi personali e di condanna al pagamento della indennità sostitutiva del
preavviso a lui dovuta, essendo state rassegnate le dimissioni per giusta
causa.
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Riproponeva
l'appellante solo queste due ultime domande censurando la sentenza di primo
grado per avere, da un lato, del tutto trascurato l'inesistenza della prova
(a carico della datrice di lavoro) dei fatti oggetto di contestazione
disciplinare e per avere, dall'altro, erroneamente valutato la prova
testimoniale assunta e i documenti prodotti, attestanti la malafede e la
scorrettezza della società, che aveva presentato una querela nei suoi
confronti, senza previa contestazione disciplinare, in relazione a un
rimborso per spese ritenute dalla datrice di lavoro insussistenti e
ammontanti a complessivi Euro 87,80.
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Costituitasi in giudizio la società appellata, l'adita Corte di appello -
con sentenza in data 11 dicembre 2004 - "in parziale riforma della sentenza
n. 306/03 del Tribunale di Brescia, condannava la C. s.p.a. al pagamento in
favore dell'appellante della somma di Euro 5.458,20 a titolo di indennità di
preavviso, oltre rivalutazione e interessi, dichiarava illegittima la
sanzione disciplinare della multa di due ore e condannava l'appellata al
pagamento del relativo importo, con interessi e rivalutazione, condannava
l'appellata alla rifusione delle spese di ambo i gradi".
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Per la
cassazione della cennata sentenza la s.p.a. C. propone ricorso affidato a
due motivi e sostenuto da memoria ex art. 378 c.p.c.. L'intimato S.M.
resiste con controricorso.
Motivi della decisione
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1
- Con
il primo motivo di ricorso la società ricorrente - denunciando "violazione
dell'art. 2697 cod. civ. e artt. 416 e 437 cod. proc. civ., nonché vizi di
motivazione" - censura la sentenza impugnata "nella parte in cui dichiara
illegittima la sanzione disciplinare della multa di due ore inflitta dalla
C. al S. in data (omissis)" rilevando criticamente che "l'iter logico in
base al quale il giudice dell'appello ha formato il proprio convincimento
sul punto, è: a) in parte viziato (insufficiente e/o contraddittorio), non
essendosi tenuto alcun conto di precise risultanze documentali e/o
istruttorie in atti; b) in altra parte, inficiato da errori in diritto,
quali la violazione della norma relativa all'incidenza dell'onere probatorio
e la violazione del principio dell'onere di contestazione".
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Con il
secondo motivo di ricorso la ricorrente - denunciando "violazione degli
artt. 2119 e 2697 cod. civ., nonché vizi di motivazione" - censura la
sentenza impugnata "nella parte in cui ritiene la sussistenza della giusta
causa delle dimissioni rassegnate in data (omissis) dal S. e,
conseguentemente, condanna la C. al pagamento del preavviso", rilevando che
la statuizione si appalesa errata "per l'evidente e consueto errore
sull'incombenza dell'onere della prova e per la contraddittorietà della
motivazione, che considera gravemente lesiva dei principi di buona fede e
corretta una condotta descritta con caratteristiche tali da farla ritenere
invece assolutamente lecita ed anzi costituente esercizio di un diritto".
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2/a
- Il primo motivo di ricorso non merita accoglimento. Sono, infatti, da
respingere le doglianze della società ricorrente in ordine all'accertamento
delle risultanze istruttorie in quanto la valutazione degli elementi
probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non
sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della
motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003). Pervero, il
giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle
prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di
disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione
adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione,
che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una
valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel
loro complesso, pur senza un'esplicita confutazione degli altri elementi non
menzionati e non accolti, anche se allegati, purché risulti logico e
coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati così, nella
specie, ove nella sentenza impugnata viene rimarcato che non sussisteva
prova idonea sulla individuazione della chiamate telefoniche contestate, "né
tanto meno che queste chiamate erano estranee e che abbiano avuto una
risposta o abbiano causato un danno alla datrice di lavoro". Comunque, ove
con il ricorso per cassazione venga dedotta l'incongruità o illogicità della
motivazione della sentenza impugnata per l'asserita mancata valutazione di
risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di
legittimità il controllo della decisività delle risultanze non valutate o
insufficientemente valutate, che il ricorrente precisi la risultanza che
asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che
solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è
precluso l'esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività
della risultanza stessa (Cass. n. 9954/2005).
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2/b
- Con riferimento, inoltre, ai pretesi vizi di motivazione - che, secondo la
ricorrente, connoterebbero la sentenza impugnata - vale rilevare che: a) il
difetto di motivazione, nel senso d'insufficienza di essa, può riscontrarsi
soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale
risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che
potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza,
nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice,
sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già,
invece, - come per le doglianze mosse nella specie dalla ricorrente - quando
vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul
valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi
delibati; b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le
motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico da
questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero
quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di
punti decisivi della controversia - irregolarità queste che la sentenza
impugnata di certo non presenta -; c) per poter considerare la motivazione
adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che
nella stessa vengano prese in esame al fine di confutarle o condividerle
tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice
indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso
ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente
incompatibili con esse. Benvero, le censure con cui una sentenza venga
impugnata per vizio della motivazione non possono essere intese a far valere
la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del
merito al diverso convincimento soggettivo della parte - pure in relazione
al valore da conferirsi alle "presunzioni" la cui valutazione è anch'essa
incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in
merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003) -
e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante
coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del
giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero
convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di
tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 380
cod. proc. civ., n. 5: in caso contrario il motivo di ricorso si
risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e
dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul
fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di
cassazione.
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2/c
- Non sussistono, poi, nella sentenza impugnata gli errori di diritto
asseritamene indicati dalla società ricorrente in quanto - rimarcato, in
punto di diritto, che l'onere probatorio in merito alla sussistenza
dell'infrazione disciplinare ricade a carico del datore di lavoro e che
l'onere della contestazione disciplinare deve essere adempiuto (sempre dal
datore di lavoro) tempestivamente ed esaustivamente - nella specie la Corte
territoriale ha correttamente applicato i cennati principi argomentando che:
a) "le mansioni assegnate a S.M., di venditore con attività esterna di
procacciamento di clienti, sono del tutto compatibili con l'effettuazione di
telefonate oltre l'orario normale di lavoro, che prevedeva la cessazione
dell'attività alle ore 18,00, sia perchè i clienti contattati potevano ben
essere disponibili per contrattare dopo quell'ora, sia perchè l'orario di
lavoro per un dipendente che si muove all'esterno della azienda e viaggia
per procacciare affari è del tutto relativo"; b) "la contestazione riguarda
telefonate relative ai mesi da gennaio a marzo (e dunque risalenti rispetto
alla contestazione di fine giugno) e, quindi, il S. si è trovato sicuramente
in seria difficoltà a ricordare i destinatari di ben cinquantuno telefonate
fatte da sei a tre mesi prima (nell'ambito di un lavoro che probabilmente
comportava contatti telefonici frequenti), nonché nell'impossibilità di
risalire a quei destinatari e di dimostrare la natura lavorativa delle
telefonate, a fronte della condotta della datrice di lavoro che ha innanzi
tutto mantenuto la contestazione in termini di semplice numero di chiamate
senza fornire quelle ulteriori specificazioni (numero chiamato e durata
della telefonata), agevolmente acquisibili dalla titolare della utenza". Il
percorso motivazionale alla base della decisione impugnata appare, pertanto,
del tutto coerente nell'applicazione dei principi di diritto summenzionati,
per cui le censure formulate dalla ricorrente si appalesano inammissibili
atteso che, in tema di ricorso per cassazione il vizio di violazione di
legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della
stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta
interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del
giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto
l'aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l'una e l'altra
ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea
ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea
applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria
ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo
quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa. Valutazione delle risultanze di causa
che, nella specie come si è dianzi rimarcato, è stata correttamente compiuta
dalla Corte di appello di Brescia sicché la relativa decisione non può
restare invalidata in sede di legittimità dalle censure sostanzialmente
fattuali di cui all'esaminato motivo di ricorso.
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3/a
- Anche il secondo motivo di ricorso - con cui la società ricorrente impugna
la sentenza del giudice di appello nella parte nella quale ritiene la
sussistenza della "giusta causa" nelle dimissioni rassegnate dal S. - non
può essere accolto. Al riguardo, anche se la nozione di "giusta causa" può
farsi rientrare nell'ambito delle "norme elastiche" (e di quelle ad esse
connesse, ma con le stesse non confondibili, entro il concetto di "clausola
generale", cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede
giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle
espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa
genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un'opera di
specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione),
purtuttavia siffatto inquadramento non comporta l'accoglimento della
conclusione indicata dalla ricorrente, atteso che l'applicazione delle
disposizioni formulate in virtù dell'utilizzo di concetti giuridici
indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei
caratteri del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale
astratta e richiede, invece, da parte del giudice l'esercizio di un notevole
grado di discrezionalità al fine di individuare nella specifica fattispecie
concreta le ragioni che ne consentano la riconduzione alle nozioni usate
dalla norma. Pertanto, nell'ambito di detta valutazione il giudice, oltre a
risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo alla formazione
del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al
valore semantico del termine), con la precisazione che il significato
adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti
all'interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto
concorrerente profilo, dai principi generali (specie di rango
costituzionale) propri dell'ordinamento positivo.
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In
particolare, pure se l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito
- il quale, nell'applicare clausole generali come quella della definizione
dalla "giusta causa", detta una tipica "norma elastica" - non sfugge ad una
verifica in sede di giudizio di legittimità sotto il profilo della
correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, è
subito da precisare (onde evitare approssimativi fraintendimenti) che la
verifica generale sulla correttezza del profilo considerato dal giudice del
merito siccome applicativo di "norma elastica" resta sempre soggetto ad un
controllo di legittimità al pari di (= simile a) ogni altro giudizio
riguardante la valutazione di "qualsiasi" norma di legge (non, quindi, ad
una aprioristica valutazione di fondatezza della relativa censura sollevata
sul punto inteso a far riformare la decisione impugnata), intendendosi così
esattamente l'adesione all'orientamento giurisprudenziale di cui alle
sentenze di questa Corte nn. 10514/1998, 434/1999, 7838/2005, 8305/2005 e
21313/2005 (in difformità al non condivisibile indirizzo espresso nelle
sentenze nn. 2616/1990 e 154/1997), in quanto, nell'esprimere il giudizio di
valore necessario per integrare una "norma elastica" (che, per la sua stessa
struttura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di
merito compie un'attività di interpretazione giuridica della norma stessa,
per cui dà concretezza a quella parte mobile ("elastica") della stessa che
il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto
storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento
venga giudicato conforme o meno ad una "qualsiasi" (cioè "non elastica")
norma di legge.
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Ora, per
quanto concerne la valutazione della sussistenza della "giusta causa di
dimissioni", questa Corte ha ritenuto - nella concreta applicazione di
quanto dianzi rilevato in linea generale - che il giudizio sull'idoneità
della condotta del datore di lavoro a costituire "giusta causa" delle
dimissioni del lavoratore si risolve in un accertamento nel senso
surriferito e deve essere sorretto da congrua motivazione (Cass. n.
8580/2004, Cass. n. 14829/2002, Cass. 12768/1997). Nella specie, la Corte di
appello di Brescia ha correttamente applicato la normativa sulla "giusta
causa" secondo l'appropriato significato semantico - giuridico adottato in
relazione ai principi generali dell'ordinamento rilevando testualmente che
"emergeva dagli atti processuali una condotta della società datrice di
lavoro gravemente lesiva di principi di buona fede e correttezza nella
esecuzione del contratto: le accuse esposte nella querela non sono mai state
preventivamente contestate al dipendente, che quindi si è visto esposto a un
procedimento penale per una somma veramente modesta senza avere avuto la
possibilità di difendersi preventivamente e per di più nell'ambito di un
rapporto nel quale la datrice di lavoro, potendo recuperare con trattenuta
sulla retribuzione quanto ritenuto non dovuto, avrebbe potuto realizzare a
pieno il suo interesse in via di autotutela, (per cui) la lesione immediata
e definitiva dell'elemento fiduciario appare evidente, trattandosi di una
condotta chiaramente diretta a recare un danno, grave, al dipendente". Di
conseguenza, anche per respingere il secondo motivo di ricorso, valgono le
argomentazioni sviluppate nel precedente "capo 2/c" a conferma della
completezza e della logicità della motivazione a sostegno della sentenza
impugnata.
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4
- In
ogni caso, a convalida della pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in
esame, vale riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n.
5149/2001 (e, di recente, di Cass. Sez. Unite n. 14297/2007) in virtù del
quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura,
il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poiché diventano
inammissibili, per difetto di interesse le ulteriori ragioni di censura.
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5
- In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso
proposto dalla C. s.p.a. deve essere respinto e la ricorrente, data la sua
soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del giudizio di
Cassazione liquidate come in dispositivo.
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P.Q.M.
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La Corte
rigetta il ricorso; condanna la s.p.a. C. al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione che liquida in Euro 15,00, oltre a Euro 200,00 per
onorario e alle spese generali ed agli oneri di legge.
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Depositato
in Cancelleria il 28 ottobre 2008.
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