L’annullabilità  delle  dimissioni  estorte

 

1. Downsizing, mobbing e bossing

Dopochè in un articolo pubblicato sul quotidiano Milano Finanza del 13.10.1996 ( p. 26) ci siamo occupati della tecnica di riduzione del personale, d’importazione angloamericana, che va sotto il nome di “downsizing” (taglio degli organici in connessione con fusioni e ristrutturazioni), la lettura di un interessante articolo apparso sul n. 8-9/1996 di “Confronti e Intese” (dal titolo:“Mobbing e bossing: attenti a quei due”) ci ha evidenziato come siano utilizzati  dalle aziende addizionali strumenti per traguardare e realizzare “politiche di riduzione programmata del personale”, attraverso un ricambio forzato dello stesso, aldifuori dei normali ritmi biologici ed anagrafici.

Lo strumento - da noi conosciuto come delle “dimissioni estorte” - è stato ridefinito in termini anglosassoni come “mobbing” (dal verbo “to mob”, letteralmente traducibile in “assalire/aggredire” e che, nell’ambito della psicologia del lavoro, sta ad indicare forme di “terrorismo psicologico” attuate sul posto di lavoro). Il risultato dell’attivazione del “mobbing”- cioè delle pratiche di persecuzione individuale, incluse le molestie sessuali - è quello di distruggere la vittima nel suo equilibrio psicologico, con frequenti, anche pesanti, conseguenze sul piano somatico e su quello della propria immagine nei confronti dell’azienda. Dalle prime indagini sistematiche, gli autori dell’articolo evidenziano come sembri che - a causa del “mobbing” - soffrano in Italia almeno un milione di lavoratori, mentre in Svezia una ricerca ha messo in luce che il 20% dei suicidi ha avuto nel “mobbing” la sua causa scatenante.

Ma c’è di peggio del “mobbing” - che di regola è un fenomeno semispontaneo e di relazioni interpersonali o individualistiche -, ed il peggio si attualizza quando il “mobbing” assume le caratteristiche di una “deliberata pianificazione da parte dell’azienda”. Allora il “mobbing” si trasforma nella sottospecie del “bossing”, utilizzata  dai datori di lavoro come strumento alternativo alle più problematiche procedure di licenziamento (regolate dalla legge, implicanti l’intervento sindacale e vincoli similari). Il “bossing”, all’opposto, ha il vantaggio di aggirare le garanzie legal/contrattuali, in quanto metodologia subdola e silenziosa di intimidazione, dequalificazione ed umiliazione operata dalle direzioni aziendali tramite la rete dei responsabili di struttura, finalizzata ad indurre sui vessati un crollo psicologico che li porta a rassegnare le dimissioni, cioè ad “autolicenziarsi”.

La fenomenologia anche nel nostro Paese ha raggiunto una sua rilevanza, tanto che l’on. Salvatore Cicu ha, recentissimamente, presentato alla Camera un disegno di legge volto a configurare il sopracitato comportamento (diretto o indiretto) datoriale quale azione delittuosa  suscettibile di portare ad una pena detentiva compresa tra gli 1 e i 3 anni e  l’interdizione dai pubblici uffici per anni 3.

 

2. Dimissioni estorte e proposte di rafforzamento della posizione del lavoratore dimissionario

Anche a livello dottrinale non era mancata l’attenzione sulle tecniche persecutorie che spingono i lavoratori più giovani, tutt’altro che spontaneamente, alle dimissioni o gli anziani al pensionamento anticipato rispetto ai limiti legali di cessazione dal prestare la propria attività in azienda.

In un nostro articolo (dal titolo “La tutela del lavoratore dimissionario”(1) affrontammo la problematica delle dimissioni indotte o estorte per effetto di violenza morale compiuta dai datori di lavoro a danno dei lavoratori. Riproponemmo altresì l’incisivo pensiero di Fezzi (espresso nello studio “Una modifica legislativa urgente:la riforma delle dimissioni”(2) che, acutamente e realisticamente, osservava come: “troppo spesso, in questi anni, si è assistito a dimissioni estorte, con o senza significativi incentivi; quando le imprese intendono procedere a surrettizie riduzioni di personale, nel caso di banali mancanze del dip endente esageratamente enfatizzate dal datore di lavoro, nel caso di mancanze pur disciplinarmente rilevanti ma tuttavia non sanzionabili con il licenziamento: in tali, e in molte altre circostanze, il dipendente viene spesso indotto ad accettare di sottoscrivere una lettera di dimissioni, in cambio dell’affermata rinuncia del datore di lavoro a esercitare il potere di risoluzione del rapporto di lavoro e di un modesto incentivo economico. In queste circostanze il dipendente è quasi sempre costretto ad assumere una decisione in tempi brevissimi (soprattutto se si ritiene colpevole di una mancanza, che, in assenza di soggetti qualificati cui richiedere un consiglio, quali un sindacalista o un legale, può impropriamente ritenere tale da giustificare il licenziamento). In queste circostanze il dipendente è indotto ad accettare quello che ritiene il male minore, e cioè la sottoscrizione della lettera di dimissioni. Solo a posteriori, in molti casi, il dimissionario si rende conto di aver agito contro la propria volontà e in condizioni “non libere”, ovvero viene successivamente a sapere che la colpa commessa poteva essere punita solo con una sanzione conservativa e non certo con il licenziamento” . E che la situazione descritta non sia teorica ma ricorrente nella pratica, lo documenta un ricorso ancora pendente presso la Pretura di Bari (Granili c. Spei Leasing SpA (società del Gruppo IMI SpA) (3) finalizzato all’annullamento, ex art. 1345 e ss., delle dimissioni  carpite dall’azienda - dietro minaccia di licenziamento personale e della consorte - ad un funzionario della Società. “ Ma - prosegue Fezzi nel citato studio - a questo punto la situazione è irreversibile: solo dimostrando in modo rigoroso (il che è quasi sempre praticamente impossibile) un vizio del consenso indotto da errore,  dolo o violenza, il dimissionario può ottenere la revoca giudiziale delle dimissioni”.

Da questa constatazione, l’Autore sostiene la necessità di un intervento legislativo sul testo dell’attuale art. 2118 c.c., che - per rafforzare la posizione del lavoratore dimissionario - disponga che le dimissioni saranno pienamente valide ed efficaci solo nel caso in cui entro un termine da definire, comunque necessariamente breve (7 o 15 gg.) non vengano revocate, accordando a questo atto di volontà, non sempre spontaneo, quel diritto di recesso che il legislatore ha introdotto nel settore della vendita a domicilio e nella vendita effettuata aldifuori degli esercizi commerciali con il D.Lgs. n. 50/1992.

Argomentava convincentemente Fezzi, a sostegno della propria proposta: “dunque se una scelta ben più importante dell’acquisto di un’enciclopedia o di un corso di lingue - quale la decisione di rinunciare al posto di lavoro - deve corrispondere ad una ponderata e libera manifestazione di volontà, appare allora necessario che anche per le dimissioni si introduca una sorta di possibilità di recesso, da esercitare in un termine ragionevole”.

 

3. Casistica delle cause di annullabilità delle dimissioni

Poichè  la ragionevole proposta innanzi riferita non è stata ancora raccolta - peraltro comprensibilmente in un contesto socio/normativo caratterizzato da problematiche di più incisiva priorità, quali la dilagante disoccupazione giovanile - non ci resta, al momento,  che intrattenere il lettore sulle ipotesi di dimissioni al ricorrere delle quali il nostro attuale diritto positivo ne consente l’annullabilità e la revoca.

Al riguardo va premesso che le dimissioni sono valide solo quando sono espressione di libertà e, atteso che il recesso si traduce nella perdita del posto di lavoro - che è spesso l’unico mezzo di sostentamento del lavoratore e della propria famiglia -, le stesse possono essere annullate ogni qualvolta il processo formativo della volontà non sia stato libero, consapevole e frutto di autodeterminazione ovvero risenta di una coazione esercitata dal datore di lavoro, ad esempio assimilabile alla violenza morale, ovvero ancora se l’atto di dimissioni sia il frutto di errore, dolo o le stesse siano state rassegnate in stato di incapacità legale o naturale di agire (artt. 1427 e ss., 1434, 1435, 1438, 428 c.c.)

 

3.1.  Annullabilità per incapacità naturale ex art. 428 c.c.

Questa ipotesi concerne le dimissioni rese in stato di “incapacità  di intendere e di volere”, le quali sono annullabili ex art. 428 c.c., il quale dispone, al 1° co., che “gli atti compiuti da persona che ...provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere  al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore”. Ai fini della sussistenza  dell’incapacità di intendere o di volere, è consolidato in giurisprudenza (4) l’orientamento secondo cui: “per la ricorrenza di detta incapacità - costituente causa di annullamento delle dimissioni - non è necessaria la sussistenza di una malattia che annulli, in modo totale e assoluto, le capacità psichiche del soggetto, ma è sufficiente un perturbamento psichico anche se transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica, purchè tale...da impedirgli o da ostacolargli  una seria valutazione dei propri atti e la formazione di una cosciente volontà”.

La fattispecie è riscontrabile (ed è stata riscontrata) nel caso di dimissioni rese da soggetto tossicodipendente o ex tossicodipendente, invalido psichico oppure semplicemente “drop out” ovvero da affetto da crisi depressiva temporanea (5) o da episodio schizofrenico acuto (6), desunto dal CTU dall’assidua frequentazione da parte del prestatore di lavoro di un cartomante e di un mago che l’avevano raggirato.

Com’è noto l’art. 428 c.c. si riferisce agli “atti” ed ai “contratti”, rispettivamente nel 1° e 2° comma, richiedendo per l’annullamento dei primi la sussistenza di un “grave pregiudizio”, e, per l’annullabilità dei secondi, la sussistenza dello “stato di malafede dell’altro contraente” (il datore di lavoro, in fattispecie). E’ consolidata in giurisprudenza (specie di merito) ed in dottrina la riconducibilità delle dimissioni alla categoria degli atti unilaterali ricettizi (7), con la conseguente attinenza al 1° comma dell’art. 428 c.c. (in luogo del  2° co. dello stesso articolo) e correlativamente l’irrilevanza, per il ripristino del rapporto, della malafede del datore di lavoro. E’, invece, necessaria la ricorrenza del “grave pregiudizio” in capo al lavoratore dimissionario che gran parte della giurisprudenza di merito e della dottrina riscontrano “nell’intrinseca natura dell’atto (privativo dell’occupazione), nell’incidere dello stesso negativamente sulla consistenza patrimoniale dell’incapace, o, infine, nelle conseguenze anche non patrimoniali dello stesso”. Da parte della Cassazione, invece, l’esistenza di un concreto pregiudizio per il lavoratore non può correttamente dedursi dal solo fatto delle dimissioni (8), mentre rilevano - e devono quindi accertarsi in concreto, con onere probatorio a carico del lavoratore - i disagi derivanti dallo stato di disoccupazione, la situazione di insicurezza per la perdita del posto di lavoro, le reazioni negative a livello personale, familiare e sociale.

Secondo i principi generali, dall’azione  che - a mente del 3° co. dell’art. 428 c.c. - si prescrive in 5 anni, consegue il ripristino del rapporto, secondo il principio per cui “quod nullum est nullum effectum producit” (non già la reintegrazione ex art. 18 L. n. 300/’70, riservata ex lege esclusivamente alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento).

In assenza di inadempimento del datore di lavoro ovvero di comportamento doloso o colposo dello stesso, cui consegua un danno ingiusto per il prestatore, parte della giurisprudenza esclude una responsabilità  risarcitoria datoriale, anche sub specie del diritto alle retribuzioni perdute nel periodo compreso tra l’emissione della sentenza di annullamento e quello retroattivo di ripristino del rapporto (9). Secondo taluno il diritto alle retribuzioni  sussisterebbe, invece, in caso di malafede del datore di lavoro o di approfittamento di una preconosciuta incapacità naturale del lavoratore o di sola conosciuta  incapacità naturale (sebbene questi requisiti siano desunti dai principi generali ma non dal testo della disposizione codicistica, il cui mancato richiamo ha legittimato decisioni pretorili improntate al  favor  verso il prestatore di lavoro).

Secondo noi, il diritto alle retribuzioni per ripristino del rapporto di lavoro - esclusion fatta per il periodo compreso tra le dimissioni e la richiesta di revoca (ove non vi è stata prestazione a favore del datore di lavoro) - sussiste per tutto l’arco temporale compreso tra la sentenza dichiarativa dell’annullamento e  la data  retroattiva di richiesta di revoca delle dimissioni e di contemporanea messa a disposizione del datore di lavoro delle energie lavorative, da questi rifiutate e postosi in stato di mora accipiendi, costringendo il prestatore ad adire l’autorità giudiziaria (in senso difforme, tuttavia, Cass. 5.7.1996, n. 6166, cit.).

 

3.2. Annullabilità per errore e dolo, ex artt.1429 e 1439 c.c.

Ulteriori vizi determinanti l’annullabilità delle dimissioni sono l’errore e il dolo datoriale.

Per quanto concerne l’errore, l’art. 1429 c.c. richiede che esso sia “essenziale” - cioè determinante, in concreto della volontà rescissoria del prestatore di lavoro - e “riconoscibile” dall’altro contraente (il datore di lavoro). Si versa in ipotesi di errore (di fatto, non già di diritto) nel caso in cui, ad esempio, sulla base di circostanze in apparenza oggettive, il lavoratore si sia ragionevolmente indotto alle dimissioni credendo che l’azienda versi in una situazione di profonda crisi e/o nel conseguente rischio di un prossimo fallimento. Ovvero quando di fronte alla prospettazione datoriale di un licenziamento per mancanze, il lavoratore rassegni le dimissioni avendo maturato il convincimento (in tal caso, per errore di diritto) che sussistano le condizioni richieste dalla legge per l’irrogazione di un valido licenziamento a suo carico.

Un’altra fattispecie di annullamento delle dimissioni per errore (di fatto) è quella evidenziata dalla recentissima (ed ancora inedita) Cass. n. 7629/1996. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un dipendente di un’azienda ammessa al trattamento di integrazione salariale aveva dato le dimissioni nella convinzione di aver diritto al pensionamento anticipato, convinzione alla quale aveva fatto espresso riferimento come motivo del recesso. Vistosi rifiutare il trattamento dall’Inps, per la mancanza dei requisiti previsti dalla legge, il lavoratore aveva revocato le dimissioni e chiesto il ripristino del rapporto.

Dopo la decisone del Pretore e del Tribunale, la questione è approdata in Cassazione, la quale ha osservato che la tutela dell’affidamento datoriale (nella  fattispecie) non ricorre in caso di “errore riconoscibile” con l’uso dell’ordinaria diligenza - com’era nel caso in questione, nonostante che l’azienda avesse eccepito il contrario in ragione della complessità della normativa sui prepensionamenti - e quindi ha condannato l’azienda a subire l’annullamento delle dimissioni ed al pagamento delle retribuzioni dal momento in cui il lavoratore aveva chiesto il ripristino del rapporto, mettendosi a disposizione dell’azienda.

Ricorre, invece, la possibilità di annullamento delle dimissioni per dolo quando il lavoratore si sia indotto alle dimissioni a causa di una serie di raggiri posti in essere dal datore di lavoro o da un terzo, raggiri che pongono il lavoratore in una situazione di errore in ordine a talune circostanze rilevanti.

E’ naturalmente necessario, ai fini della successiva annullabilità, che il dolo sia “determinante” nel processo di formazione della volontà del prestatore di lavoro e cioè che questi abbia rassegnato le dimissioni solo per effetto dei raggiri posti in essere a suo danno (10).

 

3.3. Annullabilità per violenza morale, ex art. 1434,1435 e  1438 c.c.

Un’altra e più frequente ipotesi di annullabilità delle dimissioni indotte o estorte è la violenza morale, in particolare ricorrente quando le dimissioni sono prospettate dal datore di lavoro come unica alternativa al licenziamento  per mancanze o al deferimento del lavoratore all’autorità giudiziaria, tramite minacciata denuncia penale per i fatti posti a motivo del licenziamento.

Naturalmente non ogni prospettazione “serena” ed “obiettiva”  di un’alternativa fra licenziamento - implicante effetti disonorevoli e pregiudizi per il reperimento di una successiva occupazione - e le dimissioni, è tale da privare quest’ultime del carattere di spontaneità e di scelta responsabile di convenienza.

Affinchè risulti compressa la libertà del lavoratore occorre che sia riscontrabile nel comportamento del datore di lavoro un’azione compulsiva, insistita, assimilabile alla violenza morale, che abbia influito con effetto diretto e determinante sulla scelta di rassegnare le dimissioni.

Nella pratica aziendale l’ipotesi della violenza morale - in linea generale delineata dall’art. 1435 c.c. e strutturata da un comportamento del datore di lavoro “di tal natura da far impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre se e i suoi beni ad un male ingiusto e notevole” -  si presenta sotto l’aspetto della “minaccia di  far valere un diritto”, delineata e definita dal legislatore nell’art. 1438 c.c.

In quest’ipotesi il male minacciato - di norma il licenziamento, ma anche un trasferimento a fronte di inadempienze compiute dal prestatore - non sarebbe mai intrinsecamente ingiusto; tuttavia la minaccia può essere comunque causa di annullamento delle dimissioni quando è diretta a conseguire “vantaggi ingiusti”.  L’ingiustizia del vantaggio viene individuata solitamente nella “strumentalizzazione dell’esercizio del diritto” (11). L’ingiusto vantaggio viene quindi riscontrato nell’ottenimento da parte datoriale di utilità diverse dal ( o eccedenti il) risultato che la legge mira ad assicurare all’esercizio del diritto (di licenziamento, nel caso).

E’ stato correttamente affermato che la “minaccia di licenziamento (o anche di denuncia penale), usata per ottenere le dimissioni del lavoratore, è di per se antigiuridica in quanto intesa ad attribuire al datore di lavoro un titolo di risoluzione del rapporto di lavoro non ottenibile mediante il mero esercizio della facoltà di recesso e sottratto a priori a tutti i limiti formali e sostanziali da cui tale facoltà è vincolata” (12). In effetti la minaccia del licenziamento è di norma finalizzata a sottrarre il risultato risolutorio alle procedure della contestazione degli addebiti, al diritto di difesa del lavoratore ed al sindacato giudiziario sulla legittimità o meno del provvedimento datoriale di licenziamento. Cosicchè, in questa “utilità” risiede il “vantaggio ingiusto” (o il risultato abnorme) che il datore di lavoro consegue con la minaccia del licenziamento o della denuncia penale.

Condivisibilmente sottolinea Trib. Milano 30.4.1983 (13) che “l’apparente antinomia tra attuazione di un diritto e vantaggio ingiusto conseguente a tale attuazione si risolve riflettendo... su quale sarebbe stato lo schema ordinario dell’esercizio del diritto e quale è lo schema prescelto e ponendo a confronto le conseguenze reali e ipotetiche. La serie di normale attuazione del diritto o dei diritti avrebbe comportato, una volta effettuata denuncia e licenziamento, la possibilità dell’ordinario mezzo di impugnazione di quest’ultimo, con le garanzie sostanziali (onere della prova, valutazione sull’esistenza e rilevanza del fatto) e formali (contestazione, termine a difesa, etc.) relativi a tale normativa” (14). Ed in tal senso si è espressa la più recente giurisprudenza sia di merito che di legittimità (15).

Relativamente alle conseguenze dell’annullamento delle dimissioni ex art. 1438 c.c., va sottolineato che - stante la responsabilità datoriale - al ripristino ex tunc del rapporto (così caratterizzato da una continuità giuridica e non dagli effetti dell’inapplicabile reintegrazione ex art. 18 L. n. 300/’70) consegue in capo al lavoratore il diritto alle retribuzioni maturate e non percepite per il periodo intercorrente fra la posteriore sentenza di annullamento e l’anteriore data di ridecorrenza del rapporto medesimo.

 

Mario Meucci

 

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi 1996, 12, 2081)

 

NOTE

 

(1) In Dir. prat. lav. 1994, 40,2710.

(2) In Riv. crit. dir. lav. 1994, 238.

(3) Illustrato da Ruini nell’articolo “Dimissioni estorte”, in “Confronti e Intese” n. 12/1994, p.25. Il ricorso è stato successivamente accolto – con riscontro di dimissioni estorte e conseguente annullabilità – da Pret. Bari  9 luglio 1999 (Pret. Notarnicola) ed è stato da noi pubblicato in Lav. prev. Oggi 2000, 1, 137.

(4)  Vedi Cass. 15.6.1995, n. 6756; Cass. 5.4.1991, n. 3569, in Mass. giur. lav. 1991, 263; Cass. 4.3.1986, n. 1375, ibidem 1986, 40; Cass. 4.11.1983, n. 6506.

(5) Vedi Pret. Napoli, 9.6.1994, in Riv. crit. dir. lav. 1994, 977.

(6) Vedi Pret. Ravenna, 29.2.1996, in Lav. giur. 1996, 557 con commento di Lassandari.

(7) Cfr. Cass. 20.11.1990, n. 11179, in Not. giurisp. lav. 1991, 194; Cass. 5.11.1990, n. 10577, in Mass. giur. lav. 1990, 1824; Trib. Cosenza 28.5.1993, in Giur. it. 1994, 1, II, 458 con nota di Mainardi, Minaccia di far valere un diritto e limiti all’annullabilità delle dimissioni.

(8) Cfr. Cass. 17.4. 1984, n. 2499, in Dir. lav. 1984,II,446; Cass. 4.3.1986, n. 1375, cit.

(9) Conf. Pret. Ravenna, 29.2.1996, cit.; Cass. 5.7.1996 n. 6166, in Mass. giur. lav. 1996, 606; in senso contrario, tuttavia, per la spettanza del diritto alle retribuzioni perdute, in ragione della ricostituita continuità giuridica del rapporto, Pret. Milano, 30.3.1993, in Lav. giur. 1994, 26; Pret. Milano 24.1.1992, in Riv. crit. dir. lav. 1992,691.

(10) Cfr. Trib. Milano 18.1.1995, in Lav. giur. 1995,  581.

(11)  Così, Pret. Nola - Pomigliano d’Arco 18.2.1995, in Riv. crit. dir. lav. 1995, 679.

(12)  Così, Pret. Pescara, 19.4.1984, in Giust. civ. 1984, I, 2264.

(13) In Lav. 80, 1983, 803.

(14) Conf. Cass. 16.1.1984, n. 368, in Giur. it. 1984, I, 1, 1587.

(15) Vedi al riguardo, Pret. Milano 21.6.1994, in Lav. giur. 1994, 1180; Cass. 1.6.1994, n. 5298, in Riv. crit. dir. lav. 1995, 207 con nota di Muggia; Pret. Milano 27.7.1995, in Lav. giur. 1996, 68; contra: Pret. Milano 16.5. 1994, ibidem 1994,1070

 

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