Perdurano gli equivoci sul regime di risoluzione del rapporto dei dirigenti

 

Quanto espresso nel sottostante articolo è stato recepito e condiviso - a 7 anni di distanza - da Cass. Su. n. 7880/2007, per cui vedasi anche  il nostro, "Ricondotta a unitarietà la disciplina del licenziamento dei dirigenti" (in conseguenza di Cass. Su n. 7880/07).

 

Sommario:

1. I precedenti giurisprudenziali: Cass. sez. un. n.6041/1995 e Cass. sez. lav. n. 1434/1998

2. L’orientamento che riserva ai soli dirigenti apicali il licenziamento ad nutum (inaugurato da Cass. n. 12571/99,  poi proseguito da Cass. n.5526/2003, Cass.n. 8486/2003 e Cass. n. 15351/2004)

3.  Il dissenso in ordine alla riserva del regime di libera recedibilità solo per il dirigente apicale

4.  La legittimità del rifiuto della promozione a dirigente

5.  La figura dello pseudo dirigente o dirigente convenzionale

 

*********

 

1.           I precedenti giurisprudenziali: Cass. sez. un. n.6041/1995 e Cass. sez. lav. n. 1434/1998

Ben quattro decisioni della  sezione lavoro della Cassazione (n. 12571/99, n. 5526/2003, n. 8486/2003 e n.15351/2004 (1),  in successione temporale tra il 1999 ed il 2004, vanno consolidando un orientamento - verso il quale anticipiamo il nostro dissenso e di cui forniamo  al lettore per immediatezza di comprensione  la massima stereotipo – si sono così espresse: “Il licenziamento ‘ad nutum’ è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, che, nell’ambito dell’azienda, sia caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio ‘alter ego’ dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o a un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi. Sussistono invece le garanzie di stabilità reale del rapporto – di cui alla l. n. 604/66 e alla l. n.300/70, artt.7 e 18 – per la risoluzione del rapporto dei c.d. pseudo dirigenti o dirigenti meramente convenzionali, cui sono riconducibili  (anche) gli appartenenti alla media e bassa dirigenza”. La massima in questione è la figlia naturale delle infelici affermazioni operate prima dalle sezioni unite della Cassazione nella  discussa decisione n. 6041 del 29 maggio 1995 (2) e poi dalla decisione n. 1434 della Cassazione sez. lav. dell’11 febbraio 1998 (3). La maggiore responsabilità dello strutturarsi di tale orientamento va ascritta alla decisione n. 6041/1995 delle Sezioni unite della Suprema corte, che ebbe a non accogliere  la prospettata applicabilità della procedura di cui all’art. 7, comma 2° e 3°, Statuto dei lavoratori  -  contemplante l’obbligo di contestazione degli addebiti, l’audizione a difesa del lavoratore con l’eventuale assistenza sindacale – disposizione asserita di generale cogenza, anche per i rapporti di lavoro rientranti nell’area della libera recedibilità, da parte di Corte cost. n. 427 del 25 luglio 1989 (4) per l’essere stato riconosciuto – sia da detta sentenza sia più incisivamente dall’anteriore Corte cost. n. 204/’82 (5) - il  principio del “contraddittorio” quale principio indefettibile di civiltà giuridica e  valore essenziale dell’ordinamento positivo, degno di rispetto tanto più quando competente ad irrogare una sanzione sia non già un organo dello Stato a ciò funzionalmente preposto, ma una parte privata che agisce in condizioni di supremazia. Considerato pertanto il sistema delle garanzie procedurali di cui all’art.7, 2° e 3° comma, Stat. lav., come espressione di un principio fondamentale di civiltà giuridica, le già  citate sentenze della Corte costituzionale vennero accreditate come dotate di forza espansiva, orientando la successiva giurisprudenza sia di legittimità (6) che di merito (7)– a prescindere dal fatto che la  decisione n. 427/’89 della Consulta inerisse ad una fattispecie di libera recedibilità per dimensionamento aziendale sotto il limite dei 16 dipendenti – a ritenere applicabili le garanzie procedimentali di cui all’art. 7, 2° e 3° comma, Stat. lav. al licenziamento dei dirigenti, parimenti rientranti nell’area della libera recedibilità per l’esclusione dal riscontro della giusta causa e del giustificato motivo operata dall’art. 10 della L. n. 604/1966 (8). Sennonché, anche sull’onda di talune sollecitazioni dottrinali, le sezioni unite della Cassazione, nella sentenza n. 6041/1995, affermarono - sul presupposto (inconsistente) dell’incompatibilità tra rapporto dirigenziale e rapporto di subordinazione e conseguentemente disciplinare (in ragione della prevalenza dell’elemento collaborativo e quindi fiduciario su quello di subordinazione funzionale all’imprenditore affermato in diritto positivo all’art. 2094  e 2095 c.c.) – l’inesistenza della “natura sanzionatoria o disciplinare” della risoluzione del rapporto del dirigente e quindi, a cascata, l’inapplicabilità delle procedure garantiste (di cui all’art. 7 Stat. lav.) per l’evenienza della risoluzione di un rapporto (quello del dirigente) rescindibile ad nutum e non già per mancanze o inadempienze sanzionabili. Ad evidenziare le  presumibili contraddizioni  - anzi le “conseguenze paradossali”, secondo la dizione usata dalle sezioni unite, cui avrebbe portato la tesi dell’applicabilità delle garanzie ex art. 7 - venne sottolineato che “mentre per un licenziamento irrogato (nel settore industria caratterizzato dall’obbligo contrattuale di ‘giustificazione’ dei motivi, n.d.r.) senza l’esternazione dei medesimi e pertanto risultante ‘ingiustificato’ in sede arbitrale, spetterebbe al dirigente il preavviso e l’indennità speciale, nel caso di licenziamento del tutto fondato, con gravi ragioni di inadempimento e annullamento della fiducia datoriale, il solo fatto di aver indicato tali motivi contestualmente al recesso (così come richiesto dalla norma contrattuale) senza aver fatto precedere una contestazione preventiva ed un termine a difesa, comporterebbe la nullità del recesso e la reintegrazione”. Situazione questa rivelatrice dell’infondatezza della pretesa applicabilità al licenziamento del dirigente delle c.d. “garanzie di civiltà giuridica” codificate nell’art. 7 Stat. lav.

Naturalmente per dotare di una certa solidità questa tesi di sottrazione del dirigente al licenziamento disciplinare (rectius, alle garanzie per le sanzioni disciplinari ex art. 7 Stat. lav.), fu giocoforza delineare una figura del dirigente identificatesi  nel dirigente di vertice o apicale, – nella pratica aziendale risultante in  estremamente esigua percentuale sul totale dei dirigenti – cioè a dire in colui che riveste una posizione di “alter ego” dell’imprenditore, diverso e distinto da quella fascia (di ben più massiccia consistenza nel concreto)  che le stesse sezioni unite qualificarono costituita dallo ”pseudo-dirigente o dirigente per convenzione”, cui non corrispondono sostanzialmente, per ampiezza, autonomia e rappresentatività esterna, i poteri del dirigente ipotizzato dalla Cassazione (in maniera avulsa dalla realtà aziendale).

Tuttavia le sezioni unite – ben consapevoli che una cosa è lo “pseudo dirigente o dirigente per convenzione” ed un’altra è la “media e mini dirigenza” che popola e struttura le aziende del Paese – non si avventurarono nell’effettuazione di un’operazione (esplicita) di identificazione  delle tipologie comprese tra la prima e la seconda fattispecie, l’una del dirigente “apparente”, l’altra del vero e proprio dirigente,  seppure con ambiti di sovraintendenza e poteri più circoscritti ma contrattualmente codificato sia nell’art. 2095 c.c. (dirigente tecnico o c.d. specialista o professional o di staff) sia, ad esempio, nelle esemplificazioni del ccnl dei dirigenti d’industria e del terziario. Questa operazione di identificazione venne invece operata dalla decisione n. 1434 dell’11 febbraio 1998, con la conseguenza di dar vita ad un doppio regime di applicabilità delle garanzie ex art. 7 (escluse per il top manager o dirigente “alter ego”, applicabili per i middle e low managers, oltrechè per lo pseudodirigente o dirigente convenzionale).

 

2.             L’orientamento che riserva ai soli dirigenti apicali il licenziamento ad nutum (inaugurato da Cass. n. 1271/99,  poi proseguito da Cass. n. 5526/2003, Cass. n. 8486/2003 e Cass. 15351/2004)

Queste elaborazioni concettuali e del tutto astratte, hanno espressamente influenzato e condizionato la motivazione di tutte le successive decisioni menzionate nel titolo del presente paragrafo.

Queste sentenze:

a) preso atto che le sezioni unite nella sentenza n. 6041/95 fecero discendere l’inapplicabilità delle garanzie per il licenziamento disciplinare (ex art. 7 Stat. lav.) dalla asserita inapplicabilità del medesimo al dirigente di vertice, “alter ego” dell’imprenditore, destinatario della disciplina codicistica di cui all’art. 2118 c.c., prevedente la facoltà di licenziamento discrezionale ad nutum (salve le limitazioni convenzionali introdotte dagli agenti contrattuali a livello di ccnl);

b) preso atto che la sentenza n. 1434 dell’11 febbraio 1998 riaffermò l’inapplicabilità dell’art. 7 l. n.300/70 ai soli dirigenti di vertice (distinguendo quest’ultimi dagli pseudo-dirigenti o dirigenti convenzionali) considerando dirigenti di vertice quelli appartenenti all’ “alta dirigenza”, caratterizzata dall’ampiezza del potere gestorio e corrispondente alla nozione originaria dell’alter ego dell’imprenditore, da distinguersi dalla dirigenza media e bassa che dovrebbe considerarsi assoggettata, insieme alla generalità degli altri lavoratori, al regime di tutela reale del posto di lavoro;

hanno asserito – traendo conclusioni coerenti da premesse sbagliate o quanto meno opinapili (e non condivisibili) – che i soli dirigenti destinatari del regime di recesso ad nutum sono quelli apicali (c.d. top managers) corrispondenti alla fattispecie dell’alter ego dell’imprenditore o datore di lavoro. Ne è sortita addirittura la sorprendente negazione della possibilità che ai medi e mini dirigenti (c.d. middle e low managers) possa essere esteso o previsto per via contrattuale il regime di libera recedibilità (tipico dei top managers) sul singolare quanto infondato assunto che “la distinzione fra le due categorie di dirigenti (quello apicale e quello convenzionale, comprensivo delle media e mini dirigenza, n.d.r. ) ha carattere inderogabile, perché tratta dall’interpretazione di norme imperative” (di cui non si fa alcuna menzione, presumibilmente per la loro assoluta inesistenza), distinzione  cui viene conferito  carattere cogente e non derogabile “non potendo una disposizione contrattuale contrastare una norma imperativa” (della quale non si fa nuovamente menzione).

 

3.           Il dissenso in ordine alla riserva del regime di libera recedibilità solo per il dirigente apicale

Conviene a questo punto far chiarezza e motivare le ragioni del nostro dissenso da tutta quanta l’elaborazione che abbiamo soprariferito.

Riproponiamo innanzitutto, al fine di evidenziarne le deficienze ed incongruenze, le considerazioni di Cass. sez. un. n. 6041/1995 – cui, per dissociazione formalistica dalle pregnanti  e sostanziose affermazioni di Corte cost. n. 427/1989, va la responsabilità dell’incondivisibile sottrazione del dirigente (invero solo di quello apicale, in posizione di “alter ego” dell’imprenditore, costituente una ridottissima  fascia della ben più ampia e consistente categoria dirigenziale) dalle garanzie dell’art. 7 Stat. lav. – secondo la quale non ogni licenziamento per giusta causa  del dirigente è di per se disciplinare, poiché tale qualificazione deriverebbe solo dall’esistenza tra le parti di un rapporto di supremazia gerarchica, espressa da un codice che preveda e regolamenti l’esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300/1970. Poiché tale regolamentazione è assente nella contrattazione collettiva dei dirigenti – per i quali non sarebbe, secondo la Corte, neppure configurabile, atteso il carattere fiduciario della funzione – il dirigente (sempre quello apicale) si collocherebbe al di fuori di un rapporto gerarchico, accanto all’imprenditore, in posizione di collaborazione (ex art. 2104, 2° comma, c.c.),  e non potrebbe divenire soggetto passivo di un procedimento disciplinare (9). Mancando dunque il “rapporto disciplinare” – che costituisce il presupposto del potere sanzionatorio per il datore di lavoro – il recesso per giusta causa nei confronti del dirigente (sempre apicale) non assumerebbe, secondo Cass. sez. un. n. 6041/’95, mai carattere sanzionatorio, ma conseguirebbe esclusivamente dal venir meno della fiducia, restando quindi escluso qualsiasi onere procedimentale ex art. 7 Stat. lav. (10).

A quanto sopra si deve obiettare che l’asserita inesistenza di un rapporto gerarchico fra datore di lavoro e dirigente (apicale) non appare sostenibile né sul piano della normativa di diritto positivo né sul piano dell’ esperienza concreta.

Sotto il primo profilo va sottolineato come il dirigente sia posto dalla normativa codicistica (art. 2095 c.c.) tra i “prestatori di lavoro subordinato”, assieme agli operai, impiegati e quadri (categoria introdotta dalla l. n. 190/’85), con la conseguenza che non essendo stata per esso disposta una disciplina tipica deve ritenersi soggetto a quella generale applicabile al rapporto di lavoro subordinato, salve le esclusioni di volta in volta introdotte a livello contrattuale dai contrapposti agenti negoziali (c.d. disciplina convenzionale). Al dirigente si applica, poi, pacificamente la disposizione dell’art. 2094 c.c. – sovente richiamata nella declaratoria del dirigente d’industria, del terziario, del credito, ecc. – secondo cui  prestatore di lavoro subordinato è colui che si obbliga a collaborare nell’impresa, dietro retribuzione,  prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale ”alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”, restando cioè soggetto al potere direttivo di quest’ultimo, all’obbligo di diligenza (ex art. 2104 c.c.), all’obbligo di fedeltà ed al divieto di concorrenza (ex art. 2105 c.c), le cui trasgressioni legittimano – per espressa previsione dell’art. 2106 c.c. – l’irrogazione di sanzioni disciplinari (11).

Inoltre poiché il potere direttivo dell’imprenditore si estrinseca nella  corretta pretesa di conformazione dei prestatori di lavoro  alle direttive dell’imprenditore, ciò implica ex se che il dirigente è destinatario di un potere di supremazia dell’imprenditore (più o meno affievolito nei fatti), atteso che senza potere di conformazione – alle cui devianze l’imprenditore reagisce con l’uso del potere disciplinare – non sussiste rapporto di lavoro subordinato. Affermare pertanto - come hanno fatto le sez. un. nella decisione n. 6041/95 - l’incompatibilità del potere di supremazia datoriale, del dovere di conformazione del dirigente alle direttive dell’imprenditore e del ricorso di quest’ultimo al potere disciplinare per reagire alle inosservanze o inadempimenti, significa considerare – in plateale contrasto con l’art. 2094 c.c., oltrechè della disciplina convenzionale dei ccnl che di tale disposto fanno espresso richiamo – inapplicabile al dirigente il predetto articolo 2094, in congiunzione con l’art. 2095 c.c. Articolo, quest’ultimo, notoriamente afferente all’individuazione  delle categorie dei prestatori di lavoro, i cui requisiti di appartenenza alla essenzialissima tipologia legale sono dal legislatore espressamente demandati, in epoca postcorporativa quale la nostra,  dal 2° comma dello stesso articolo, alla contrattazione collettiva, che, con piena sovranità ha, così, la legittimazione per la loro specificazione in concreto “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa”.

Neppure è vero che  i ccnl dei dirigenti erano privi di “codice disciplinare”, giacchè ad esempio il ccnl dei dirigenti delle Casse di risparmio del 16 giugno 1995 (e precedenti) lo contemplava espressamente, conferendo al Consiglio di amministrazione di adottare nei confronti del dirigente “provvedimenti disciplinari” che spaziano dal richiamo scritto, alla sospensione, alla dispensa dall’impiego, alla destituzione e contemplando altresì che “l’azione disciplinare si estingue con le dimissioni del dirigente, se accettate dall’Istituto di credito”. Analogamente il codice disciplinare si applicava ai dirigenti delle aziende di credito ordinario del 22 giugno 1995 (aderenti all’Assicredito, ora Abi) – antecedente a quello del 1 dicembre 2000 ed a quello di cui all’accordo di rinnovo del 19 aprile 2005 -  per effetto della clausola di rinvio che richiamava, “in quanto giuridicamente applicabili e in quanto compatibili con la figura del dirigente”(12),  espressamente le norme e gli istituti contrattuali della normativa prevista per la qualifica degli estinti funzionari, norma di rinvio (o di chiusura) reperibile altresì nei ccnl dei dirigenti d’azienda industriale e del commercio (o terziario).

Ciò detto, vale conclusivamente osservare che poiché l’art. 7 dello Stat. lav. non ha posto espressamente alcun limite di operatività alla relativa procedura, tale norma deve ritenersi di generale applicazione ad ogni rapporto di lavoro subordinato, compreso quello dirigenziale, cui non può essere sottratto tramite procedimenti di interpretazione giurisprudenziale manipolativi e/o  creativi nei cui confronti la  maggioranza della stessa dottrina ha manifestato larga opinabilità se non una  vera e propria non condivisibilità (13). In ciò confortati anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale non sussistono “sufficienti ragioni per disapplicare principi di civiltà giuridica al licenziamento disciplinare di una categoria di lavoratori e ciò esclusivamente in ragione della peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale e dell'intensità del vincolo fiduciario tra le parti” (14).

Venendo poi all’asserzione rinvenibile esplicitamente nell’orientamento (inaugurato da Cassazione n. 12571/1999 e proseguito nelle successive già citate), per cui i soli dirigenti di vertice sarebbero destinatari della risoluzione ad nutum (ex art. 2118 c.c.) mentre i medi e mini dirigenti (ricondotti illegittimamente nella fattispecie patologica dello pseudo-dirigente o dirigente convenzionale) fruirebbero delle garanzie di stabilità reale del rapporto, alla pari degli altri lavoratori, va osservato che il nostro diritto positivo conosce una sola categoria : quella del dirigente amministrativo o tecnico (ex art. 2095 c.c.). Pertanto  la ricognizione di una pluralità di dirigenti nella realtà delle nostre imprese – di cui si è fatta condivisibilmente assertrice Cass. n. 12860 del 28 dicembre 1998 (15) - è riconducibile ad una osservazione sociologica come ha fondatamente rilevato una (seppur datata) decisione della Cassazione (16), secondo la quale la proposta distinzione tra i modelli di dirigente in relazione alla pluralità dei componenti la “categoria unitaria” costituisce “null’altro che una interessante esercitazione sociologica sul fenomeno notorio…della espansione della categoria dei dirigenti: esercitazione che potrà offrire magari suggerimenti alla politica legislativa e a quella sindacale, ma che non ha il minimo aggancio di diritto positivo”, ed è pertanto insuscettibile di originare o giustificare differenziazioni di regime procedurale e legale del relativo, unitario, rapporto, in relazione alla tipologia dell’alta, media e mini dirigenza. Come è stato condivisibilmente notato (17): “in effetti, da nessuna disposizione normativa è ricavabile un qualsiasi elemento che possa coonestare questa ipotetica divaricazione interna ad una categoria professionale che conosce esclusivamente una differenziazione, meramente di carattere descrittivo e non qualificatorio, tra la figura del dirigente tecnico e quella del dirigente amministrativo (art. 2095.c.c)”.

Peraltro va osservato come “alta, media e mini dirigenza” – strutturanti la “unitaria categoria” giuridica del dirigente – non sono che articolazioni interne alla medesima categoria, desunte in relazione alla maggiore o minore ampiezza del potere gestorio, organizzativo e di collaborazione alla realizzazione dei fini dell’intera impresa o di un ramo o servizio autonomo di essa. Le tre tipologie fanno parte della figura del “dirigente reale” e non possono essere – sulla base di una costruzione  giurisprudenziale a tavolino – destinatarie di differenti regimi di trattamento normativo (come erroneamente asseriscono Cass. n. 12571/1999 e successive conformi).

Del resto in materia di definizione dei requisiti di appartenenza all’unitaria categoria dei dirigenti è sovrana (per espresso rinvio da parte dell’art. 2095 c.c.) la contrattazione collettiva:  pertanto, quando le declaratorie e le esemplificazioni (18)  dei ccnl abbiano riconosciuto i requisiti del “dirigente reale” a posizioni di lavoro di mini e medi dirigenti (funzionali o di staff che siano) unitamente all’alto dirigente (o top manager), la disciplina di risoluzione del rapporto – salvo differenziazioni espressamente previste dagli stessi ccnl, in via convenzionale o pattizia – è identica ed uniforme per le varie tipologie sociologiche. A titolo di cronaca e per venire al concreto, nel settore del credito è stata  a suo tempo pattuita  -  prima con l’ accordo quadro del 4 giugno 1997 e poi con l’accordo quadro del 28 febbraio 1998 – la dilatazione della categoria dei “dirigenti” (c.d. “dirigenza allargata” che fu indicativamente ricompresa fra l’1,5% e il 2,5% del totale del personale  dell’azienda singola) con l’inserimento in essa  dei funzionari di grado più elevato (quelli con maggiorazione di grado pari o superiore alla 10°). Venne  altresì espressamente previsto che – ferma per essi l’attuale declaratoria dei dirigenti – “la cessazione del rapporto ad iniziativa dell’azienda, in analogia a quanto praticato al riguardo per la dirigenza di altri settori, sarà regolata esclusivamente dalle norme del codice civile (leggasi, artt. 2118 e 2119 c.c., n.d.r.) prevedendo l’introduzione di un collegio arbitrale per le controversie in materia”, codificato nel successivo ccnl 1 dicembre 2000 e riconfermato nel rinnovo del 19 aprile 2005.

Sarebbe stato da considerare davvero arbitrario – oltreché inconcepibile – che l’autonomia contrattuale nella individuazione dei nuovi componenti la c.d. “dirigenza allargata” del credito (strutturata da ex funzionari in posizione di neo mini dirigenti, da dirigenti medi e da alti dirigenti) potesse venire vulnerata da una artificiosa costruzione giurisprudenziale  - che riserva ai soli top manager la risoluzione ad nutum -  con l’effetto di precludere alle aziende del settore la pattuita, uniforme disciplina di libera recedibilità, per l’estinzione del rapporto dei mini e medi dirigenti del credito. Ciò risulterebbe tanto più inaccettabile in quanto le parti sociali hanno riconosciuto (ed  attribuito in concreto) a tutte e tre le tipologie sociologiche di dirigenti i requisiti e le caratteristiche proprie della categoria. Si incorrerebbe in un evento ancor più inaccettabile quando si pensi che - mentre destinatari del trattamento economico contrattuale uniforme sono state tutte e tre le categorie sociologiche della c.d. “dirigenza allargata” (naturalmente con le necessarie graduazioni parametrali interne) -  seguendo l’orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass. n. 12571/’99 (e proseguito nelle successive conformi) dovrebbe invece risultare diverso il trattamento normativo attinente al regime di risoluzione del rapporto di lavoro (libera recedibilità per l’alto dirigente, stabilità reale per il medio e mini dirigente), con evidenti effetti di disarmonia interna. Alle nostre stesse conclusioni perviene un autore (19) che osserva come: “non sembra ammissibile sostenere un’applicabilità a corrente alternata, totalizzante sul versante economico, ed invece differenziata (addirittura ex parte) su quello attinente alla tutela del posto di lavoro, concorrendo ambedue gli aspetti a qualificare complessivamente l’unitario assetto normativo. La categoria dei dirigenti è strutturata in termini indifferenziati dal legislatore, che anche dalla scomposizione tra amministrativi e tecnici non ha tratto alcuna implicazione o suggestione diversificatrice”.

 

4.    La legittimità del motivato rifiuto di promozione a dirigente

D’altra parte - ricollegandoci sempre all’ipotesi  dell’allora pattuita dilatazione della categoria dei dirigenti del credito - restava sempre per gli ex funzionari di grado elevato (dal 10° in poi) aziendalmente individuati (per esercizio di funzioni) quali destinatari della “trasmigrazione promotiva” alla categoria dirigenziale (in veste di minidirigenti), la possibilità di rifiutare  la promozione alla superiore categoria, onde non soggiacere al rischio del recesso ad nutum ex art. 2118 c.c.

Chi scrive aderisce alla tesi panconsensualistica della “promozione” – nel senso che tale provvedimento necessita del consenso del lavoratore – tesi che, sebbene contrastata, sembra potersi considerare prevalente in dottrina e nella scarsissima giurisprudenza che, intuitivamente, si è dovuta occupare di una soluzione che, di solito, soddisfa le umane aspettative del lavoratore e non determina contenzioso (20).

Trattando della situazione dell’acquisizione della categoria superiore – ex art. 2103 c.c. -  per esercizio di mansioni superiori o come tali inquadrate nei ccnl, Giugni (21) afferma: “Si noti che la stessa promozione, anche nei casi in cui è prevista come automatica per il decorso del tempo di assegnazione a mansioni superiori, non può non intendersi come consensuale; il lavoratore non sempre può avere interesse ad accettare nuove mansioni, vuoi perché non se ne sente capace, vuoi perché possono comportare orari o condizioni di lavoro più gravose”. Similmente Pera (22), secondo il quale  la necessità del consenso del lavoratore alla promozione – ex art. 2103 c.c. –  è imprescindibile, poiché “egli può non avere interesse al posto superiore, ad es. perché rifugge dalle maggiori responsabilità, perché non gradisce la mancanza di un orario preciso (tipico, n.d.r.) del personale direttivo, o teme i trasferimenti conseguenziali. Ritengo che queste private valutazioni del lavoratore siano del tutto libere e che questi non possa essere costretto alla promozione. L’art. 13 (Stat. lav., n.d.r.) non dice che il lavoratore può essere spostato ad libitum dal datore. …E si può ritenere che per  la promozione, cioè per l’acquisizione definitiva (delle nuove mansioni, n.d.r.) occorra il consenso del lavoratore. Di recente la Cassazione ha ammesso che il datore di lavoro possa unilateralmente disporre solo per mutamenti temporanei dettati da esigenze aziendali imperiose, così distinguendo dalla destinazione definitiva, cioè la promozione”. E lo stesso Scognamiglio (23) ammette la legittimità di un rifiuto del lavoratore alla promozione, purché sostenuto da una “ragionevole giustificazione”: tale non può non essere riscontrata nell’esigenza di mantenimento del regime di stabilità reale del posto di lavoro, accompagnato dalla rinuncia a benefici di trattamento economico. Osserva, al riguardo, quest’ultimo autore: “Si solleva a questo punto il problema, che la legge e la contrattazione collettiva non risolvono espressamente, se lo spostamento del lavoratore a mansioni superiori possa avvenire senza il suo consenso. L’interrogativo può apparire a prima vista un po’ ozioso, e a dire il vero per lo più non si pone, in quanto il lavoratore dovrebbe avere tutto l’interesse ad avvalersi di un provvedimento che gli consenta di acquisire immediatamente un trattamento economico superiore ed in prospettiva a venire la possibilità di un avanzamento in carriera. Ma può anche accadere che egli abbia un interesse contrastante, perché preferisce sottrarsi al peso di mansioni di maggior impegno e responsabilità, per l’espletamento delle quali non si sente sufficientemente preparato ed esperto, o perché nutre la preoccupazione di essere trasferito ad altra sede, non confacente o gradita, e addirittura di perdere la stabilità del posto di lavoro, in conseguenza della successiva promozione, in ipotesi alla qualifica di dirigente…Si deve escludere tuttavia che il dipendente possa negare il suo consenso alla richiesta di espletare mansioni superiori, come del resto alla sua promozione, ove non possa addurre una ragionevole giustificazione, che valga ad esonerarlo dall’obbligo di osservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro, nonché da quello di collaborazione”.

In giurisprudenza si registra – a favore della tesi della consensualità della promozione -  la posizione di Cass. n. 3372/1985 (24) secondo la quale “l’art. 13, l. n. 300 del 1970 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni migliori senza il suo consenso (che è invece in ogni caso necessario ai fini della promozione)”. Altre e successive decisioni  - come Cass. 29 agosto 1987, n. 7142 (25) e Cass.  11 luglio 1989, n. 3266 (26) – non apportano  un decisivo contributo alla soluzione della problematica, pur apparendo (l’ultima in particolare) di segno contrario alla tesi panconsensuale, attraverso l’affermazione, operata da Cass. n.3266/’89,  del pieno ed incondizionato diritto  del datore di lavoro (in ragione dei suoi poteri direttivi ed organizzativi e, quindi, senza il consenso del dipendente) di attribuire al lavoratore una qualifica (convenzionale) – cioè a dire una promozione – migliore di quella che comporterebbero le sue stesse mansioni.

La tesi della consensualità (o accettazione inequivoca o per fatti concludenti) della promozione da parte del destinatario appare, peraltro, quella più soddisfacente perché sottrae al datore di lavoro la possibilità che tramite  una mera modifica nominalistica  - quale si rivela la qualificazione unilaterale di “dirigente” in luogo di quella di “funzionario” o quadro direttivo” di un determinato dipendente – egli riesca a privare il prestatore d’opera delle garanzie legalmente correlate alla sua  inferiore ed originaria qualifica.

 

5.    La figura dello pseudo dirigente o dirigente convenzionale

Ritornando alla problematica innescata dall’ orientamento fatto proprio da Cass. n. 12571/1999, Cass. n. 5526/2003, Cass. n. 8486/2004 e Cass. n. 15351/2004 in tema di licenziamento del dirigente, si ha, invero, la sensazione che  primariamente Cass. n. 1434/1998 e poi le successive sopramenzionate, abbiano irragionevolmente dilatato la fattispecie patologica del c.d. pseudo-dirigente (o dirigente per convenzione) fino ad includervi arbitrariamente la tipologia del “dirigente reale” strutturato dalla fascia dei mini e medi dirigenti.

La categoria dello "pseudo dirigente o dirigente convenzionale" – da altri qualificato emblematicamente come dirigente "apparente"(27) – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali (ed eminentemente nelle aziende del credito) – da un lato per effetto di demansionamento verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito  all'inadempienza contrattuale e legale, per violazione dell'art. 2103 c.c., mediante azione giudiziaria) ovvero, dall'altro,  per effetto di attribuzione della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.  Spesso l’iniziativa dell'azienda risulta in ciò  favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile ancora ad es. nel settore del credito, di designare il dirigente con atto di investitura formale (28) per effetto di quelle  singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui "sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati" (così emblematicamente tutti gli articoli afferenti alla qualifica del dirigente del credito contemplati nei ccnl precedenti quello del 22.11.1990 e sostanzialmente invariati, salvo modifiche formali, nei successivi fino al rinnovo del 19 aprile 2005 ).

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale "la dizione di dirigente convenzionale concerne il soggetto investito di un 'nomen' (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro" (29), dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove sin dagli anni '80 ci si è dovuti occupare (30) della problematica del mantenimento, in capo allo "pseudo dirigente o dirigente convenzionale", delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (c.d licenziamento ad nutum ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente (31) alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello “pseudo-dirigente” delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia.  Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/'66 sui licenziamenti individuali (sostanziantisi nella ricorrenza della "giusta causa e giustificato motivo") e, successivamente, dall'art. 18 dello Stat. lav., introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la  sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto  del lavoratore ingiustificatamente licenziato).

Entrambe le fattispecie (dello pseudo-dirigente e del dirigente convenzionale) – patologicamente connotate, ma molto dissimili fra loro – fruiranno, a nostro avviso, dell'identica tutela e sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale, costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c. Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevale – ai fini  dell'individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l'effettività delle mansioni disimpegnate al momento dell'adozione aziendale dell'atto rescissorio. Se così non fosse, il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il  licenziamento discrezionale costituite dal  riscontro della "giusta causa" o del "giustificato motivo" ex lege n. 604/'66: quella del conferimento della qualifica di dirigente onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto.

Va subito precisato tuttavia che questa conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia (o dei quadri direttivi, nel settore del credito) di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati –  in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale (32) – è del tutto  priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito al dirigente convenzionale titolare dell'avanzamento alla qualifica per motivi tutt'altro che riposanti sul merito quanto, invece,  sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul  vero e proprio clientelismo. Peraltro va detto che, a parte la difficoltà, in linea di principio, di operare diversamente - una volta scelto come criterio guida per il mantenimento delle garanzie contro il licenziamento quello delle effettive mansioni disimpegnate ex art. 2103 c.c. e ripudiato il criterio meramente nominalistico – se la garanzia può apparire un "doppio premio" per il clientelarmente elevato alla dirigenza, l'impossibilità per l'azienda di privarsi di quel " dirigente convenzionale”, ricorrendo al recesso discrezionale, costituisce una indubbia sanzione per la stessa, in quanto costretta ad accollarsene perpetuamente la presenza in ragione ed a causa  di un atto di scorrettezza, in assoluto e comparativamente. La costrizione al mantenimento in organico e con gli oneri di costo del lavoro da "dirigente", potrebbe – quindi – risolversi per l'azienda in una remora per la reiterazione, in futuro, del comportamento moralmente riprovevole. In un certo senso la maggiore gravità e persistenza delle conseguenze di un atto promotivo clientelare non è detto che non possa indurre a maggiori riflessioni di un atto di cui ci si poteva ripromettere la possibilità di revoca (con la risoluzione ad nutum) quando più ci avrebbe fatto comodo o lo si sarebbe ritenuto più opportuno. E' chiaro che in caso di avvicendamento nella gestione delle risorse umane ed aziendali di amministratori più corretti, si sottrae agli stessi la possibilità di fare pulizia delle malefatte dei predecessori, ma  - stante la gerontocrazia che impronta  negativamente il corpo manageriale di vertice (perlomeno nel settore creditizio) e la  colleganza fra i  gestori  aziendali  pro-tempore delle imprese e degli istituti bancari –  la nostra esperienza ci dice che l'ipotesi prospettata è più di scuola che effettivamente ricorrente e, quindi, ci esime  da scrupoli di coscienza.

Non sono mancate – relativamente ai "dirigenti convenzionali" – opinioni (suscitanti condivisione dal lato emotivo più che razionale) secondo le quali il regime di risoluzione del loro rapporto avrebbe dovuto seguire l'inquadramento formale nella qualifica di dirigente (a prescindere dall'effettiva corrispondenza alla dirigenza delle mansioni disimpegnate), con la conseguenza che il "dirigente convenzionale" per favor sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum, eminentemente in ragione del principio per cui "ubi commoda, ibi eius et incommoda": principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall'altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale).

Relativamente alla fattispecie dello "pseudo-dirigente", relegato in tale posizione per atto unilaterale di dequalificazione, per completezza va menzionato che si registra una decisione della Cassazione del 28.10.1997, n. 10627 (33) – concernente un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario – la quale ha asserito che il comportamento illegittimo datoriale (anche se sussistente realmente, risultando in fatto indimostrato dal ricorrente), in quanto nullo per violazione dell'art. 2103 c.c., non attribuirebbe al dirigente apicale dequalificato una situazione di vantaggio in ordine al regime di risoluzione del rapporto, che rimarrebbe quello contrattuale del recesso ad nutum corrispondente alla qualifica di assunzione conferitagli pattiziamente senza convertirsi in quello più vincolato e garantistico previsto (anche convenzionalmente oltrechè legalmente) per i lavoratori assunti ed inquadrati in ruoli dirigenziali sottordinati o in qualifiche inferiori. In tempi recenti il precedente sopracitato è stato confermato da  Cass.

8.11.2005 n. 21673 (34) che ha negato al dirigente apicale demansionato l'applicabilità del regime più favorevole per la risoluzione del rapporto tipico dello pseudo-dirigente, affermando l'invarianza del regime solutorio ricollegabile alla qualifica di dirigente apicale - costituito dal recesso ad nutum - considerando del tutto irrilevante a mutarlo il fatto (nullo ex art. 2103 c.c. e semmai con sole conseguenze risarcitorie di danno alla professionalità) costituite dalla dequalificazione subita.

Del tutto diversa  dalla fattispecie dello “pseudo-dirigente” (o del dirigente convenzionale) è la figura del  (“medio” e) "mini dirigente" (o low manager), che è un “dirigente reale”, seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si "intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo"… " Se questa premessa è vera, si deve rilevare come (invece, n.d.r) la figura del dirigente convenzionale non abbia mai incontrato soverchie difficoltà interpretative, essendosi usualmente ritenuta operante la tutela ordinaria (e, cioè, quella propria della categoria impiegatizia), in ragione delle caratteristiche oggettive della prestazione; tale soluzione trovando intrinseco supporto nel rilievo di fondo secondo il quale sarebbe altrimenti risultato possibile aggirare la garanzia della stabilità semplicemente ricorrendo a qualificazioni convenzionali" (35).

Concludiamo auspicando una approfondita ed autorevole rimeditazione dell’intera problematica  - in ordine al regime giuridico procedurale e legale per la risoluzione del rapporto del dirigente -che tenga conto dei numerosi rilievi dottrinali già indirizzati all’orientamento della Cassazione e che augurabilmente si intensificheranno verso un in condivisibile orientamento in corso di consolidamento più per pigrizia giudiziaria che per motivata riflessione.

 

(pubblicato in Lav. prev. Oggi 2000, 2, 365 e con aggiornamenti in Confronti e Intese, nn.207-208/2005)

 

Mario Meucci

 

NOTE

 

(1) Rispettivamente in Not. giurisp. lav. 2000, p. 88; ibidem 2003, p. 470; ibidem 2003, p. 594; ibidem 2005, p. 223.

(2) Pubblicata in Giust. civ. 1995, I, 1749 con nota di Pera dal titolo, Non esiste il licenziamento c.d. disciplinare del dirigente?; in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 898, con nota di dissenso di Bartalotta, Il licenziamento disciplinare del dirigente, ibidem, 1995, 913. In senso parimenti critico D’Avossa, Licenziamento disciplinare del dirigente: la soluzione accolta dalle sezioni unite, in Lav. giur. 1996, 5.

(3) Pubblicata in Lav. giur. 1998, 673 con  commento dissenziente di Sarro; in Mass. giur. lav. 1998, 256, con annotazione – anch’essa critica – di Papaleoni,  La frontiera mobile del licenziamento disciplinare e la persistente incertezza del versante sanzionatorio.

(4) In Riv. it. dir. lav. 1989, II, 641, con annotazione di Mariani e 646, con nota di Pera, Le garanzie procedurali del licenziamento nelle piccole imprese; in Foro it. 1989, I, 2658, con nota di De Luca, Licenziamenti disciplinari nelle piccole imprese: la Corte costituzionale estende le garanzie del contraddittorio, ma restano alcuni problemi; in Dir. lav. 1989, II, 360, con nota di Amoroso, Il licenziamento disciplinare nelle imprese minori dopo la sentenza n. 427/1989 della Corte costituzionale; in Mass. giur. lav. 1989, 319 con nota di Scognamiglio, Licenziamento per giusta causa e garanzie procedimentali ai sensi dell'art. 7 L. n. 300/1970 (a proposito della sentenza della Corte cost. del 25 luglio 1989 n. 427); in Giur. it. 1989, I,1, 426, con nota di Chiaccheroni, Il nuovo intervento della Corte costituzionale in materia di licenziamento disciplinare: verso il superamento del recesso ad nutum.

Sull'attribuzione alla sentenza citata di un carattere anticipatore della L. n. 108/1990, vedi, in particolare, gli interventi di Alleva e Ballestrero Gentili, in Alleva, Ballestrero, Vallebona, La Corte costituzionale e i licenziamenti disciplinari, in Dir. lav. rel. ind. 1990, spec. 140 e 147.

(5) Corte cost. 30 novembre 1982 n. 204, in Foro it. 1982, I, 2981, con nota di Silvestri; in Riv. it. dir. lav. 1983, II, 214 con nota di Suppiej, La Corte costituzionale legifera sui licenziamenti individuali?; in Giust. civ. 1983, I, 19, con nota di Pera, Il licenziamento come sanzione disciplinare; in Lav. prev. oggi 1983, 108, con nota di Meucci, Principi sostanziali a proposito del licenziamento disciplinare giunto in Corte costituzionale; in Dir. lav. 1982, II, 401, con nota di Foglia; in Giur. it. 1983, I,1, 1345, con nota di Lambertucci.

(6) Richiedono l’applicabilità dell’art. 7, 2° e 3° co., Stat. lav per il licenziamento disciplinare (o per mancanze) del dirigente -  dopo le affermazioni di Corte cost. n. 427/89 -  Cass.28 novembre 1991, n. 12758, in Foro it. 1992, I,381 con nota di Amoroso; Cass. 13 novembre 1992, n. 12223, in Mass. giur. lav. 1993, 102; Cass.6 luglio 1992, n. 8205, ibidem 1992, 374; Cass.17 marzo 1993, n. 3146, in Foro it. 1993, I, 1845, con nota; Cass. 15 febbraio 1995, n. 141, in Mass. giur. lav. 1995, Mass. Cass. n. 54, 18. Un autorevole riconoscimento – quantunque effettuato di sfuggita – dell’applicabilità delle garanzie procedimentali ex art. 7, proviene anche da Corte cost. 1 luglio 1992, n. 309 (in Mass. giur. lav. 1992,327), laddove nel confermare la legittimità  costituzionale dell’esclusione del dirigente dalle garanzie di stabilità del posto di lavoro per rientrare il suo rapporto di lavoro nell’area della libera recedibilità, asserisce che tuttavia anche ad esso si applica “la tutela che si deve riconoscere ex lege contro fatti che ledono la sua dignità di uomo e di lavoratore (per esempio, licenziamento intimato senza l’atto scritto; licenziamenti discriminatori; licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedano il riconoscimento di garanzie procedimentali) ”, ove quest’ultima dizione è pacificamente riferibile a quelle codificate nel citato art. 7 Stat. lav. In questo senso interpreta anche Trifirò – Collia, Il licenziamento del dirigente, in Mass. giur. lav. 1999, 1158 ed ivi 1168.

(7) Richiedono l’applicabilità delle procedure dell’art. 7 Stat. lav. – dopo Corte cost. n. 427/’89 - al licenziamento disciplinare del dirigente, nella giurisprudenza di merito: Pret. Torino 27 ottobre 1992, in Giur. piem. 1993, 75; Trib. Foggia 16 maggio 1990 in Giust. civ. 1990, I, 2660, con nota di Poso, Brevi osservazioni sul licenziamento disciplinare nullo alla luce della recente legge n. 108 del 1990; Trib.Milano 14 luglio 1990, in Lav. 80, 1990, 739; Trib. Milano 10 marzo 1990, in Lav. prev. oggi 1990, 2405;Pret. Milano 29 gennaio 1990, in Lav. 80, 1990, 532. Contra: Pret. Milano 4 giugno 1990, in Orient. giur. lav. 1990, 129; Pret. Roma 3 aprile 1990, ibidem 1990, 196; Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Lav. 80 1990, 171.

(8) Argomenti  confermativi a favore della sottrazione dei dirigenti dalle garanzie della disciplina della L. n. 604/66 e della riconducibilità del regime risolutorio esclusivamente all’art. 2118  e 2119 c.c., si possono trarre dall’ord. n. 935 dell’8 luglio 1988 della Corte costituzionale (in Not. giurisp. lav. 1988,729), che ha rigettato,  tuttavia prima di Corte cost. n. 427/’89 -  l’addebito di incostituzionalità della inapplicabilità delle procedure dell’art. 7 Stat. lav. al licenziamento del dirigente.

(9) Si sono fatti sostenitori di tale posizione in dottrina, Papaleoni, Dirigenti e licenziamento disciplinare, in Mass. giur. lav. 1987, 640, e Mancuso, Licenziamento disciplinare del dirigente, in Giust. civ. 1985, I, 1794. In senso contrario – ed a nostro avviso condivisibilmente e fondatamente – Tosi, Il dirigente d’azienda, Milano (Angeli ed.) 1974, 195 e Boaretto, Il licenziamento disciplinare del dirigente, in Lav. prev. oggi 1988, 1466.

(10) Così riepiloga, condivisibilmente, le argomentazioni delle sezioni unite, Bartalotta nella nota critica titolata Il licenziamento disciplinare del dirigente, in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 915.

(11) Conformemente a noi Sarro, in Lav. giur. 1998, 678, secondo cui: “Gli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c.…sono riferiti senza distinzione a tutti i prestatori di lavoro, per cui parlare di lavoratori subordinati per i quali non sia ipotizzabile una ‘dipendenza gerarchica’ ed una ‘sottoposizione al potere disciplinare’ costituisce una contraddizione insanabile, atteso che il dirigente, per quanto alter ego dell’imprenditore, resta comunque un lavoratore subordinato. Del resto è sufficiente ricordare l’orientamento consolidato che ritiene compatibile la funzione di amministratore  con la qualità di lavoratore subordinato (purché sia ravvisabile un organo al quale l’amministratore risponde) per rendersi conto di come la subordinazione  possa essere fortemente attenuata, ma giammai eliminata, dalla posizione verticistica del lavoratore”.

(12) Ammette in dottrina che tale rinvio possa riguardare la materia disciplinare, Tosi, Il dirigente d’azienda, cit. 195.

(13) Ancora, al riguardo, Bartalotta, Il licenziamento disciplinare del dirigente, cit., 916 e ss.; Sarro, in Lav. giur. 1998, 679, secondo cui: “il dirigente come da previsione normativa, è soggetto alla libera risoluzione del rapporto, ma detta risoluzione, ove attenga a ragioni disciplinari, deve essere operata nel rispetto delle garanzie stabilite dall’art. 7 Stat. lav., derivandone, in caso contrario, la “ingiustificatezza” del recesso”.

(14) Così Pret. Monza 11 marzo 1996, in Dir. lav. 1996, II, 792. Conf. Pret. Milano 23 febbraio 1999 (est. Curcio, Migliore c. Milano ass.ni Spa, inedita) secondo cui: ”i primi tre commi dell’art. 7, l. n. 300 del 1970 sono applicabili ai dirigenti posto che, per quanto peculiare possa essere la subordinazione nel rapporto dirigenziale, essa è pur sempre ravvisabile, per cui il riferimento al dirigente non soggetto a dipendenza gerarchica è, nel concreto, privo di precisi criteri di determinazione della categoria”.

Circoscrivono l’esclusione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 Stat. lav. al  licenziamento disciplinare del solo dirigente apicale – aderendo così alla tesi di Cass. sez. un. n. 6041/’95 – nella giurisprudenza di merito: Pret. Torino 14 maggio 1999 (est. Fierro, Baravalle c. Agip Petroli SpA ed altri, inedita), Pret. Milano 14 luglio 1999 (est. Muntoni, Cioncolini c. Milano Ass.ni SpA, inedita) e Trib. Roma 26 gennaio 1999 (est. Tatarelli, Intecs finanziaria SpA c. Corpino, inedita) secondo cui: “L’inapplicabilità dei primi tre commi dell’art. 7 l. n. 300 del 1970 ai dirigenti, riguarda il dirigente in senso proprio, cioè l’alter ego dell’imprenditore, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, ma non concerne quei dirigenti le cui mansioni non abbiano le caratteristiche proprie del rapporto dirigenziale in quanto si trovino in posizione di stretta subordinazione ad altro dirigente”.

(15) Pubblicata in Lav. prev. oggi, 1999, 558 ed ivi con nostra nota, L’alto, il medio, il mini dirigente nelle moderne organizzazioni complesse, a pag. 581.

(16) Cfr. Cass. 21 marzo 1980, n. 1922, in Mass. giur. lav. 1980, 423 e in Dir. lav. 1981, II, 172, con nota di Guido; Trib. Roma, 20 settembre 1977, in Riv. giur. lav. 1977, II, 1097.

(17) Da Papaleoni, La frontiera mobile, ecc., in Mass. giur. lav. 1998, 264-265.

(18) Che allo stato, quasi invariatamente nella maggior parte dei settori merceologici, stabiliscono che “sono  dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistono le condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 c.c. e che ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa. Rientrano sotto tale definizione, ad esempio, i diriettori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici, gli institori ed i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e di decisione per tutta o una notevole parte dell’azienda” (così dal ccnl dirigenti di aziende industriali).

(19) Papaleoni, La frontiera mobile, ecc, cit. 267.

(20) Osserva, giustamente, Brollo, La mobilità introaziendale (mutamento di mansioni e trasferimento), in Commentario del Cod. civ. (diretto da Schlesinger), Milano 1997, 296 che  “il problema del consenso del lavoratore per la modifica in melius delle mansioni per lo più non si pone, in quanto generalmente lo svolgimento di mansioni superiori, accompagnato da una maggiore retribuzione, corrisponde ad un interesse del lavoratore. Non a caso, la giurisprudenza ha avuto poche occasioni di occuparsi della fonte della mobilità ascendente, anche perché la domanda di giustizia in netta prevalenza ‘pretende l’applicabilità del disposto normativo’ “.

(21) In  Freni – Giugni, Lo statuto dei lavoratori, Milano 1971, 53:

(22) In Diritto del lavoro, Padova 1994, 404. A favore della tesi della consensualità della promozione (e dell’assegnazione di mansioni superiori) si citano, ancora : Suppiej,  Mansioni del lavoratore, in Commentario dello statuto dei lavoratori (diretto da Prosperetti),  Milano 1975, 355; Dell’Olio, L’oggetto e la sede della prestazione di lavoro. Le mansioni, la qualifica, il trasferimento, in Tratt.dir. priv. (diretto da Rescigno) Torino 1986, vol. 15, t.1, p.506; Loy, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, Milano 1993, 223; Maresca, La promozione automatica del prestatore di lavoro secondo l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. giur. lav. 1978, I, 426-427; Grandi, La mobilità interna, in AA.VV., Strumenti e limiti della flessibilità, Milano 1986, 269.

Prescindono dal requisito della consensualità delle nuove mansioni e della conseguente promozione, Liso, La mobilità del lavoratore: il quadro legale, Milano 1982, 194 e ss; Persiani, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Dir. lav. 1971, I, 15; Romagnoli, La disciplina del mutamento di mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1971, 335;  Miscione, Appunti critici sulla assegnazione delle mansioni nel sistema dello ‘Statuto dei lavoratori’, in Boll. lav. Un. Trieste, 1971, 47; Ghera, Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 dello statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav. 1984, 399; Zoli, La mobilità ‘verticale’: la carriera, in Quad.dir. lav. 1987,n.1, 198 secondo cui: “ l’art.13 lascia sussistere un sistema di progressione di carriera affidato al potere discrezionale del datore di lavoro”; Carinci, de Luca Tamajo, Tosi, Treu, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino 1992, 3 ed., 213; Ghezzi - Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Bologna 1995, 3 ed., 195; Brollo, La mobilità interna del lavoratore (mutamento di mansioni e trasferimento), cit. , 291 e ss.

(23) In Diritto del lavoro, Napoli 1990, 209.

(24) Cass. 6 giugno 1985, n. 3372, in Giust. civ. 1985, I, 3081, con nota di Ghinoy.

(25) Vedila in Rep. Giur. it. 1987, v. Lavoro (rapporto), n. 499, la quale afferma che “l’art. 13 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni superiori senza il suo consenso”; conf. recentissimamente Cass. 4 ottobre 1999, n. 10998, in Mass. giur. lav. 1999, 1369, n. 144 (sola massima).

(26) Vedila in Mass. giur. lav. 1989, 356.

(27) Così  Liso, in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Giur. lav. 1981, II, 773.

(28) Per una analisi critica (anche)  dell'attuale  formulazione dell'art. 83 del ccnl 22 giugno 1995 per il personale direttivo del credito – che mantiene ibridamente i caratteri dell'investitura formale  conferendogli valenza prevalente sui requisiti obiettivi della categoria dirigenziale – vedi Mario Meucci, Rimane ancorato al "riconoscimento formale" aziendale il conferimento della qualifica di direttivo del credito, in Lav. prev. oggi, 1997,1102.

(29) Papaleoni, nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell'attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni inferiori, vedi Cass. 5.2.1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p.23. Conf. Pera, Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: “Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.”.

(30) Vedi Vallebona, La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l'applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum  per lo pseudo-dirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso, Il licenziamento del dirigente "apparente", cit.; Mannacio, Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977.

(31) In giurisprudenza si discosta e fa eccezione a questo orientamento, recentemente, Cass. n. 10627 del 18 ottobre 1997 (in Not. giurisp. lav. 1997, 783), concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, di cui diremo più ampiamente nel testo del presente articolo.

(32) Le pratiche di mobbing sono oramai emerse pubblicamente sulle pagine della stampa quotidiana e nelle decisioni della magistratura. Per documentazione giurisprudenziale aggiornata si rinvia al sito http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html. Per il cartaceo vedasi il libro di M. Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma, Ediesse 2002 ed ivi ampia bibliografia.

(33) In Not. giurisp. lav. 1997, 783.

(34) Cass. 8 novembre 2005 n. 21673 (est. De Matteis) trovasi in Mass. giur. lav. 3/2006, 135 con nota di Gramiccia.

(35) Così, del tutto condivisibilmente, Papaleoni, op. cit., 266.

 

Qualifica dirigenziale, licenziamento e giustificatezza del recesso

 

Due recenti sentenze delle Sezione Lavoro della Suprema Corte, offrono spunti di riflessione intorno ad una materia tutt’altro che semplice.

La prima pronuncia è la n. 21673/05 dell’8 novembre 2005 è si occupata, in particolare, delle garanzie procedimentali applicabili al licenziamento per giusta causa irrogato al dirigente. La seconda, la n. 21010/05 del 28 ottobre 2005, nell’affrontare anch‘essa la tematica del licenziamento disciplinare del dirigente, ribadisce il principio della libera recedibilità dal rapporto di lavoro dirigenziale e poi stabilisce alcuni altri principi che cercheremo brevemente di esaminare.

In entrambi i casi ci si trova di fronte ad un comportamento manchevole del dirigente: in un caso per avere il lavoratore concesso aumenti di retribuzione senza informare la casa madre, corrisposto premi di produttività in base ad un accordo – intervenuto anche con la rappresentanza sindacale – non sottoposto all’approvazione del Consiglio d’amministrazione, corrisposto bonus senza fare applicazione della ritenuta d’acconto, ecc. Tali fatti, sottoposti al vaglio dei giudici di merito, erano stati dagli stessi ritenuti veritieri e quindi era stata dichiarata la piena sussistenza della giusta causa di recesso.

Nel secondo caso, invece, i giudici del merito avevano ritenuto la totale insussistenza degli addebiti contestati al dirigente ed avevano liquidato al medesimo sia l’indennità sostitutiva del preavviso, sia la penale prevista dal contratto collettivo di appartenenza.

Le sentenze rivestono, come si diceva, notevole interesse, in quanto affrontano una serie di tematiche, oggetto di vivo interesse.

Il primo tema è quello inerente la sussistenza o meno di un sistema di procedimentalizzazione, applicabile al licenziamento per giusta causa del dirigente. Occorre preliminarmente osservare che la dottrina più accreditata considera disciplinare quel licenziamento volto a sanzionare un comportamento colposo o comunque manchevole del lavoratore e non collegato con obiettive esigenze organizzative e produttive dell’azienda. In sostanza la condotta colposa o manchevole del prestatore di lavoro, che appunto vale a definire il licenziamento in questione, potrà portare all’irrogazione di un licenziamento disciplinare o per giusta causa, oppure per giustificato motivo soggettivo; quindi il licenziamento disciplinare può considerarsi una sorta di tertium genus, che, appunto, vive accanto ai tipi di risoluzione del rapporto appena menzionati. La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, per quel che qui interessa, che “il licenziamento intimato a motivo di una colpevole condotta del prestatore di lavoro, sia pur essa idonea a configurare la giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., ha natura ontologicamente disciplinare” (Cass S.U. 26 aprile 1994 n. 3965).

Ciò detto, ricordiamo che per intimare validamente un licenziamento che abbia natura disciplinare, è necessario osservare quello specifico procedimento previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori che consiste nella previa affissione del codice disciplinare in luogo accessibile ai lavoratori, nella contestazione scritta degli addebiti mossi al lavoratore, nella concessione di un termine a favore del lavoratore, affinché questi possa adeguatamente giustificarsi e, infine, nella previsione di un termine di riflessione (5 giorni) che deve intercorrere tra la contestazione dell’addebito e l’irrogazione della sanzione.

E’ utile ricordare come Corte Cost. 30 novembre 1982, n. 204 abbia statuito che il procedimento testè cennato debba applicarsi a tutti i licenziamenti disciplinari, qualunque sia il numero dei lavoratori occupati nell’azienda stessa ed a qualunque categoria il lavoratore appartenga.
A modificare tale principio, intervenne una famosa sentenza delle Sezioni Unite della S.C., la n. 6041 del 1995 la quale stabilì che gli obblighi di preventiva contestazione e dell’attribuzione di un termine a difesa non riguardano il licenziamento dei soli dirigenti, purché gli stessi non siano da considerarsi pseudo dirigenti, o dirigenti meramente convenzionali.

Questa sentenza destò severe perplessità in dottrina in quanto, non solo si operava una discriminazione fra dirigente apicale e non, ma si introduceva una nuova categoria di lavoratori – i dirigenti apicali appunto – sconosciuta all’ordinamento. E da dire che, nel tempo, vi è stata qualche pronuncia di segno contrario all’orientamento appena cennato: ad esempio Cass. 28 aprile 2003, n. 6606 e Cass. 3 aprile 2003, n. 5213.

Ora, con la sentenza 21010/05, la Corte Suprema si affianca all’orientamento creato dalla sentenza 6041/95 e, dopo aver chiarito la nozione di giustificatezza del recesso e la sua differenza da quella di giusta causa, affronta la tematica della relativa alla nozione di dirigente di vertice, precisando che l’appartenenza del dipendente alla categoria dei dirigenti apicali od a quella degli pseudo dirigenti è questione che deve essere risolta dal giudice di merito, trattandosi di questione di fatto e non di diritto. Aggiunge poi che la funzione nomofilattica della Corte stessa si sostanzia nella sola facoltà di controllo delle argomentazioni svolte dal giudice di merito sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, non potendo la Corte di legittimità procedere ad un nuovo giudizio di merito, valutando le risultanze degli atti di causa.

L’altra sentenza – la n. 21673/05 – si accosta all’orientamento di cui sopra e conferma la necessità di operare una dicotomia fra dirigente apicale e non attraverso un giudizio riservato solo al giudice di merito. Nella specie, tuttavia, il dirigente aveva lamentato un grave demansionamento ed aveva quindi dedotto la necessità dell’applicabilità delle garanzie procedimentali cui abbiamo fatto cenno, per essere stato di fatto relegato alla categoria dei c.d. pseudo dirigenti o dirigenti meramente convenzionali. Sul punto la S.C. afferma che la eventuale dequalificazione non può far degradare il dirigente a figura minore; si tratta semmai di un inadempimento del datore di lavoro che, al più, può portare solo a conseguenze legate, appunto, all’inadempimento e non certo ad una nuova disciplina valutata con riferimento alle mansioni di fatto espletate.

L’esame congiunto delle due pronunzie può permette qualche ulteriore riflessione.

La dicotomia fra dirigente apicale e non può senz’altro indurre ad un appesantimento dei giudizi di merito, soprattutto perché costringe le parti ad attribuire al dirigente una qualifica che – in molti casi – il datore di lavoro può non aver dato o non aver voluto dare.

Certo è possibile che la Corte abbia avuto presente le aziende di grandi dimensioni o gli enti pubblici, dove la frammentazione delle qualifiche è possibile: in quei casi, tuttavia, sia la contrattazione collettiva, sia i sistemi organizzativi del personale difficilmente creano problematiche interpretative.

Un poco più complessa è la questione intorno all’applicabilità delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 St. Lav. Francamente non siamo molto convinti della scelta operata dalla Suprema Corte con la ormai famosa sentenza n. 6041/95, ripresa anche in successione di tempo, sia pure con qualche tentennamento, da parte della Sezione Lavoro. Per vero il principio audiatur et altera pars ci pare risponda a principi di civiltà giuridica e di buona fede contrattuale; di più l’applicabilità delle dette garanzie ad una sola delle categorie dirigenziali create fa sorgere qualche dubbio di costituzionalità.

E’ tanto ciò vero che, spesso, si assiste alla predisposizione di lettere di contestazione nel pieno rispetto dei principi di cui al ridetto art. 7, anche quando si è in presenza di sicuri dirigenti apicali (direttori generali, capi di importanti sezioni dell’azienda, ecc.).

Vero è che il dirigente è l’alter ego dell’imprenditore, ma è altresì vero che lo stesso è anche un lavoratore subordinato. Sembra che la lettura di molte sentenze, anche dei giudici di merito, faccia emergere una sorta di sfavore verso questa categoria; ma se così è, bisogna pensare ad una rilettura della natura giuridica della categoria del dirigente e ad una sua diversa collocazione.

Giorgio Treglia, Avvocato in Milano

 

Cassazione civile Sentenza, Sez. lav., 28/10/2005, n. 21010

Cassazione civile Sentenza, Sez. lav., 08/11/2005, n. 21673

 

(fonte:http://www.ilquotidianogiuridico.it )

(Ritorna all'elenco Articoli presenti nel sito)