I diritti sindacali competono a tutti, indistintamente, i lavoratori

 

1. Quello che il titolo dell’articolo intende esprimere, sembra un’ovvietà, un concetto quasi lapalissiano, ma nella concreta vita aziendale non lo è affatto.

L’alto management aziendale, infatti, quando non è scarsamente sensibile dal lato sociale e giuridico (come ci è accaduto di riscontrare nella maggior parte dei casi), è comunque, sempre ed indiscutibilmente, pervaso da un efficientismo totalizzante, oppressivo ed irrispettoso dei valori di “libertà”, “dignità”, “solidarietà” umana, ecc. Pertanto nutre o preferisce coltivare, per opportunità, la convinzione che l’esercizio dei diritti sindacali (diritto di sciopero, permessi per cariche sindacali rivestite, assemblee, ecc.) costituisca in primis una “perdita di tempo” per il personale, e, secondariamente, di essi siano destinatari i lavoratori “proletari”, non certo coloro che rivestono ruoli e responsabilità, giungendo  addirittura a negarli aprioristicamente, concettualmente e fattualmente a coloro che operano nelle Direzioni o Servizi di gestione del Personale.

Al radicarsi di questa convinzione nei vertici aziendali delle aziende del nostro Paese non è estranea la responsabilità degli atteggiamenti “equivoci” della classe dei dirigenti e direttivi che si sono sempre considerati dei (e comportati da) “diversi” dal resto dei lavoratori a loro sottordinati (salvo riscoprire ed invocare la comunanza di tutele dell’ordinamento lavoristico nel caso in cui si ritrovino, superata l’età del rampantismo, demansionati dall’azienda o sottoposti a pratiche vessatorie di mobbing, tese a sollecitare esodi incentivati o prepensionamenti). Chi scrive ricorda come i dirigenti ed i direttivi abbiano sempre considerato il diritto costituzionale di  sciopero come strumento di contrapposizione dialettica di rango “secondario” e come la dirigenza sindacale delle aziende industriali abbia sempre anteposto a questo strumento di coazione l’iniziativa di pubblicare (es. nel marzo/aprile 1997) su spazi a pagamento nei principali quotidiani  lettere d’appello - e “con il cappello in mano”, come si suol dire - agli imprenditori indisponibili, tramite Confindustria, a rinnovare eminentemente la parte economica degli scaduti ccnl. In una lettera su spazio a pagamento sui quotidiani del 15 aprile 1997 (che abbiamo impressa nella memoria) essi ricordavano piagnucolosamente il loro ruolo di “partners” degli imprenditori, la condivisione degli stessi valori e sembrava si scusassero dell’essere  stati indotti - attraverso un’eventuale radicalizzazione delle posizioni conseguente allo “schiaffo” confindustriale - a ”perdere la serenità necessaria per concentrarsi meglio nell’espletamento delle proprie funzioni: collaborare con l’imprenditore per il successo dell’azienda ...”.

Nessun accenno di ricorso al primario strumento di contrapposizione costituzionalmente garantito a tutti i lavoratori subordinati (ex art. 2094 c.c., contrattualmente richiamato) per la difesa dei propri interessi, qual’è il (proletario, evidentemente) diritto di sciopero, al quale invero in un’intervista del giorno dopo (16 aprile 1997) la dirigenza sindacale industriale ammetteva di aver fatto un pensierino,  in quanto “incoraggiata” dalla contingente discesa “in piazza telematica” degli stessi industriali a difesa dei loro interessi suppostamente colpiti dalla manovrina dell’allora governo Prodi. Protesta imprenditoriale verso il Governo che avrebbe allineato le due iniziative di contrapposizione e avrebbe pertanto  privato quella dei dirigenti d’azienda del sospetto di “sgarbo” e della carica di conflittualità “offensiva” verso i loro imprenditori o datori di lavoro.

Questi atteggiamenti hanno  concorso a legittimare, in qualche modo, la convinzione nei vertici aziendali (e via via scendendo per li rami nei loro più ottusi ascari ed esecutori) che i diritti sindacali siano “ritagliabili” a misura e convenienza, cioè a dire “circoscrivibili”, che riguardino più che altro le basse qualifiche dell’organico aziendale, che costituisca atto “disdicevole” il loro esercizio da parte del personale direttivo o dei funzionari e che il loro uso sia inibito in assoluto ad aree di dipendenti (es. per quelli con incarichi di gestione di sottordinati ed ancor più per coloro che operano con responsabilità nelle c.d. Direzioni o Servizi di risorse umane) che si ipotizza o si suppone “politicamente” allineati e orientati in senso antagonista alle istanze rivendicative dei sindacati (delle cui acquisizioni comunque beneficeranno senza batter ciglio!), considerati come acriticamente schierati ed appiattiti su posizioni adesive alle determinazioni (giuste o meno che siano) non tanto adottate ma solo “pensate” dal vertice aziendale.

Insomma si è nutrita la convinzione, divenuta poi pretesa oggettiva da parte dell’alto management, che  talune aree di personale (rectius: manipoli di dipendenti) debbano atteggiarsi ed essere considerate  come “gruppi di tendenza”, microrganismi endoaziendali paragonabili alle “organizzazioni di tendenza” (quali i partiti politici, i sindacati stessi, le testate giornalistiche di partito, gli enti di confessione religiosa e/o ideologica, tenuti all’adesione fideistica alla linea dell’organizzazione), con l’effetto della preclusione per i lavoratori operanti in tali settori di poter esercitare i “diritti sindacali” costituzionali, in quanto (erroneamente) ritenuti dialetticamente ed ideologicamente confliggenti con gli interessi aziendali o con le politiche dell’alta Direzione, suppostamene ispirate alla negazione o contrapposizione aprioristica  verso qualunque istanza o rivendicazione sindacale. Ed anche se dovessero essere (del tutto impropriamente, si ripete)  questi “nuclei aziendali di personale fiduciario” assimilati alle “organizzazioni o imprese di tendenza”, va subito precisato che i dipendenti delle imprese di tendenza sono pacificamente titolari (superata la consistenza dei 15 dipendenti) delle norme del Titolo III dello Statuto dei lavoratori, afferenti i diritti e le prerogative sindacali, esclusa soltanto – ex art. 4 l. n. 108/1990,  e solo per quelle che non abbiano fine di lucro – la c.d. “tutela reale”, costituita dall’obbligo di reintegra in caso di licenziamento ingiustificato (il che significa che in queste imprese di tendenza, purchè senza fini di lucro, altrimenti anch’esse perdono il privilegio di esenzione dall’obbligo della tutela reintegratoria,  il licenziamento è monetizzabile).

Sull’onda di questi (infondati) convincimenti – infondati anche in ragione della sussistenza dell’ immanente obbligo codicistico di  non violare il segreto d’ufficio, ribadito spesso nella maggior parte dei ccnl, anche per coloro che disimpegnino attività sindacale congiuntamente ad incarichi e compiti delicati o riservati - si è assistito (e si assiste) alla privazione di informazioni gestionali o al non conferimento di incombenze e compiti di specifica e propria pertinenza mansionistica, nei confronti di sindacalizzati dell’area gestione del personale, giustificando (come abbiamo avuto modo di sentir dire da un Direttore del personale, in veste di teste in una vertenza per demansionamento o inattività) la  “privazione di incombenze e di  assegnazione di compiti al funzionario sindacalizzato del Servizio gestione del personale in ragione della inconciliabilità del loro carattere riservato con la carica sindacale da questi  rivestita”, che lo rendeva -  a suo dire - automaticamente inaffidabile (nonostante i  premenzionati divieti di violazione degli obblighi di riservatezza incombenti su tutti i lavoratori subordinati, sanzionabili in caso di dismissione, a prescindere dal ruolo sindacale o meno).

Tanto singolarmente quanto contraddittoriamente, questa supposta incompatibilità le aziende non l’hanno, invero, mai opposta nei confronti di altri direttivi (o semplici dipendenti) sindacalizzati, impegnati nella redazione dei bilanci aziendali, nei settori fiscali interni, negli uffici di consulenza legale e di contenzioso, nei settori di finanziamento all’industria o ad altri settori produttivi, parimenti (se non ancor più) delicati e riservati del settore o area della gestione del personale.

Allora delle due l’una: o in quest’ultima area la delicatezza e riservatezza deve essere intesa o tradotta più esplicitamente in pretesa di “complicità” od “omertà” nei confronti di assunzioni, promozioni, trasferimenti, assegnazione di incarichi, creazione di sentieri di carriera su impulso clientelare e non già meritocratico per riconosciuta professionalità,trattamenti sperequati nelle incentivazioni all’esodo (munifici con i segnalati, stringati con gli invisi), tolleranze clientelari a fronte di rimborsi di missione tanto fasulle quanto lucrative (caso Rai, ecc.), accrescimenti indebiti di stipendio tramite input al settore  interno di elaborazione paghe (recentissimo caso del Comune di Napoli) e verso quant’altro di non imparziale  o illecito viene effettuato su iniziativa del responsabile pro-tempore o, più spesso su sollecitazioni del vertice aziendale; ovvero non sussistendo questo coacervo di “illecite” esigenze, non esiste ragione e giustificazione alcuna nei confronti della privazione di lavoro, di compiti e di informazioni gestionali, per quanto delicate, a danno di dipendenti o funzionari/dirigenti sindacalmente impegnati, in organico nelle aree o settori di gestione del personale. E quando lo si compie, si incorre – limitandosi al versante civilistico e trascurando quello penalistico -  nella violazione dell’art. 1218 c.c. (inadempimento alle obbligazioni), dell’art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), dell’art. 15 lett. b dello Statuto dei lavoratori (discriminazione per motivi riprovevoli, nel caso sindacali, finalizzati a ledere, in via ritorsiva, la libertà sindacale ed attualizzando quindi condotta antisindacale ex art. 28 s.d.l.), oltrechè dei generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

 

2. La diffusa concezione soprariferita è stata incautamente formalizzata – e ciò dà il senso di quanto la si ritenga (per quanto erroneamente) pacifica e fondata  dall’alto management aziendale – in una circolare del 17.3.2000 indirizzata Dalla Direzione risorse umane ai dipendenti delle Poste italiane, a quanto si apprende dall’ordinanza del Tribunale di Pisa (emessa in sede di procedimento antisindacale ex art. 28 s.d.l). In essa, a quanto riferisce  tale ordinanza del 13 luglio 2000 (del Tribunale di Pisa), si affermava che :«[(…) anche l’espletamento di incarichi nell’ambito (…) di OO.SS., ancorché consentito dalle vigenti previsioni di legge e di contratto, non può non correlarsi alle esigenze dell’azienda di ricevere prestazioni adeguate al livello di responsabilità richiesto. (…). Infatti i doveri e le responsabilità che competono ai lavoratori con (…) funzioni di carattere direttivo richiedono, (…), il presidio costante e continuativo della posizione di lavoro (…)", premurandosi poi da parte dell’estensore di precisare che “incarichi nell’ambito di OO.SS. risultano, per esempio, inconciliabili con le funzioni di responsabilità di gestione di risorse umane, a tutti i livelli della struttura organizzativa della Società" e che, comunque, nei confronti di quei funzionari direttivi che pervicacemente  non volessero attenersi a queste disposizioni “la Società si farà carico (…) di ricercare per i predetti lavoratori, nel rispetto delle formalità e condizioni eventualmente richieste dalla legge, altra posizione di lavoro, compatibile con le esigenze aziendali e coerente sia con l’inquadramento rivestito dal dipendente che con l’espletamento del mandato ricevuto”]». Il magistrato che riscontrava, pacificamente, in essa un  carattere antisindacale, sottolineava, in relazione a quest’ultima previsione :«Ecco, dunque, appalesato il contenuto della sanzione prevista dalla società per il lavoratore ostinatamente sindacalizzato, cioè una collocazione in posizione relegata, lontana da qualsiasi responsabilità organizzativa del personale, a tutti i livelli, e per ciò solo coerente con i fini aziendali. Ora, a parte il fatto che la circolare tradisce una concezione aziendalistica ampiamente superata dai tempi e piuttosto da anni cinquanta, a parte, però, il rilievo che ciascuno può gestire la propria azienda come più gli aggrada, salva la responsabilità verso la proprietà che, nella specie, è in mano pubblica, a parte ciò va detto che difficilmente si assiste ad un concentrato di violazioni ai diritti sindacali anche lontanamente paragonabile a quello posto in essere con la circolare in argomento e lo stupore è maggiore se si pensa che ad introdurre il presente ricorso sia stata una sola sigla sindacale e non tutte quelle aziendali. Ma tant’è. Che innanzitutto sia attentato il diritto di sciopero è stato sopra dimostrato ma quel che non è assolutamente dubitabile è che prima ancora quel che viene minacciata è la libertà sindacale di proselitismo e esternazione del proprio programma che è l’essenza stessa dell’agire sindacale, una sorta di prius rispetto ad ogni altra. Con buon margine di certezza può affermarsi che, dopo la detta circolare, mai più alcun lavoratore delle POSTE penserà, se non con spirito sacrificale, di accostarsi ad un sindacato e nessun sindacalista mai più tenterà di allargare la propria base adesiva, essendo sottoposte tutte queste azioni alle ora viste conseguenze. ».

Nell’ordinanza del 13 luglio 2000 che accoglieva la richiesta di una sigla sindacale, il magistrato pisano raggiungeva infine la conclusione che:«La violazione degli art. 14 (diritto di associazione e di attività sindacale), art. 15 (atti discriminatori), art. 22 (trasferimenti dei dirigenti delle RSA) dello Statuto dei lavoratori è di palmare evidenza ma prima di tutto quel che balza immediatamente alla vista è il totale disconoscimento dell’imperativo di cui all’art. 39 Cost., dettato a tutela della libertà sindacale tout court. La condotta datoriale si è posta automaticamente "in contrasto con le regole destinate a tutelare in via immediata e diretta lo svolgimento dell’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero, di talché l’antisindacalità della condotta è implicita né, al fine di integrarla, occorre uno specifico intento lesivo del datore di lavoro" (Cass. n. 6193/1998)».

 

3. La società non accettava la soccombenza ed in sede di opposizione le sue determinazioni – esplicitate nella circ. n. 14 del 17.3.2000 a cura della Direzione centrale risorse umane/Relazioni industriali – venivano ulteriormente stigmatizzate e qualificate antisindacali, da altro magistrato del Tribunale pisano (investito della decisione di merito), con argomentazioni e prosa talmente condivisibili da assurgere – a nostro avviso – a “lezione di diritto sindacale” per i gestori di vertice di qualsiasi azienda del Paese.

Con la recentissima sentenza del 2 ottobre 2002 il Tribunale di Pisa statuiva in tal senso: «A parere della “Direzione centrale risorse umane” di Poste Italiane s.p.a.[…] non si può svolgere attività sindacale quando si tratti di dipendenti che prestino servizio nell’area della gestione delle risorse umane (rectius: del personale, perché gli uomini non dovrebbero mai, neppure lessicalmente, essere definiti “risorse”, come un qualsiasi elemento materiale o finanziario dell’impresa) – in quanto, n.d.r. -  la partecipazione ad attività sindacale di quanti lavorino negli uffici del personale sarebbe una attività “extralavorativa” confliggente con gli interessi dell’azienda.

La conclusione cui perviene il datore di lavoro e della quale appena si è detto non meriterebbe diffuse considerazioni, perché la storia del nostro sistema lavoristico è tutta nel senso contrario a questa affermazione, quantomeno per il dovuto rispetto a quella previsione della nostra Costituzione (art. 39) che assicura a tutti i lavoratori l’esercizio dei diritti sindacali e dell’attività sindacale, che, per la sua funzione di equilibrio, tutela e bilanciamento di forze, non può certo definirsi una attività extralavorativa, come quella di un qualsiasi furbo dopolavorista. Lo Statuto dei lavoratori – il cui contenuto sembra sconosciuto all’Autore del documento – rappresenta, infatti, la Carta del sindacalismo sul posto di lavoro ed assicura con diversi strumenti l’esercizio dell’attività in azienda, ovviamente secondo le modulazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Certo è che ove il datore di lavoro – come sembra nel caso di specie – sia pervaso da avversità culturale nei confronti dell’attività sindacale di chi sia incaricato di compiti di gestione del personale potrà, di fatto, e nei limiti in cui non si violino i criteri di correttezza e buona fede e gli altri più rigidi di cui allo Statuto, selezionare i dipendenti meno sensibili a certe istanze per formare il suo ufficio personale o di relazione industriale od affidare tali compiti a chi condivida senza riserve l’operato datoriale. Quello che, però, non può fare è paventare l’allontanamento od il trasferimento ad altro incarico di chi già rivesta il ruolo di incaricato a quel servizio ed intenda, come gli assicura la Costituzione, occuparsi anche di questioni sindacali.

Fare gli “interessi” dell’azienda non significa sposare acriticamente ogni determinazione del datore di lavoro o doversi spogliare della propria dimensione collettiva . L’equivoco culturale che ha informato la determinazione datoriale di cui oggi si discute riposa, infatti, sul convincimento che occuparsi del personale debba necessariamente consistere nell’occuparsene “in un certo modo” e dunque in condizioni di conflittualità istituzionale con ogni tipo di istanza che provenga dai lavoratori; la qual cosa corrisponde ad una impostazione che non tiene conto del ruolo che il nostro ordinamento assegna alla dimensione collettiva in azienda, e cioè alla funzione istituzionale e fisiologica di indispensabile dialettica fra le parti al fine del raggiungimento proprio di quegli equilibri che meglio di ogni altra cosa concorrono a realizzare “ l’interesse” aziendale. Singolare è poi la considerazione sulla necessità che i lavoratori addetti al personale ed alle relazioni sindacali assicurino il “presidio costante e continuativo della posizione di lavoro per la realizzazione degli obiettivi di carattere tecnico-organizzativo e produttivo nonché di gestione delle risorse umane”. Sembra di capire (ma è proprio così) che – secondo gli intendimenti aziendali - questi lavoratori non abbiano diritto, come tutti gli altri, alle guarentigie previste dallo Statuto dei lavoratori (permessi, assemblea, altre attività ), perché non possono mai lasciare la “posizione di lavoro”; dunque una sorta di fedeltà anche fisica, il cui significato appare di un inequivoco contenuto di assoluta dedizione, che confligge, fra l’altro, con la regola costituzionale che subordina l’esercizio dell’impresa al rispetto della “libertà” e della “dignità umana” (art. 41 Cost.).

Per l'indubbia ed inequivocabile efficacia dissuasiva di cui è dotata la predetta circolare aziendale, sussiste comportamento antisindacale (e obbligo di rimozione degli effetti primariamente mediante revoca della medesima, n.d.r.), atteso che il comportamento antisindacale tipizzato dall'art. 28 s.l. non si realizza, com'è noto, solo quando la parte datoriale ponga in essere atti concreti e materiali, ma anche quando - come certamente nel caso di specie - enuncia le sue determinazioni che abbiano quel carattere di potenzialità offensiva tale da determinare il convincimento nel destinatario della "convenienza" di evitare l'esercizio dei diritti sindacali.»

Naturalmente questa esecrabile concezione  secondo la quale i Servizi del personale debbono assolvere alla funzione dei “cani da guardia” del Direttore Generale o dei “commessi della sua bottega” (l’azienda, vissuta come esercizio “commerciale” proprio e personalistico), non è  fortunatamente generalizzata anche se oramai del tutto prevalente. In aziende dell’ex IRI e delle finanziarie di settore (delle c.d. dimesse partecipazioni statali ove abbiamo operato con soddisfazione e gratificazione professionale) i Servizi del personale erano illuminatamente concepiti come organi di “magistratura imparziale interna”, ai cui responsabili si richiedeva professionalità giuridica ed integrità morale, con obblighi di diffusione di tale cultura al resto delle strutture gerarchiche dell’azienda e con il compito di assicurare ai dipendenti tutti imparzialità, uniformità di regole e interventismo a tutela nei confronti delle devianze dei Capi o capetti di turno. Ma, ora che siamo maturi, quello che ci è sembrato e resta un modello convincente, non sappiamo quanto fosse  condiviso dall’ex IRI per intrinseca eticità e quanto invece dipendesse dal fatto che le Direzioni del Personale delle singole aziende  erano  di fatto la longa manus dell’ente di gestione o delle finanziarie dei vari settori merceologici, le quali temevano lo strapotere locale dei capi delle singole aziende (amministratori delegati e direttori generali) e quindi avevano interesse e convenienza acchè i Direttori del personale riscuotessero, a tutela dell’immagine dell’ente di gestione, il consenso dei dipendenti e si rendessero garanti del contenimento delle eventuali iniziative di prevaricazione ed ingiustizia sovente poste in essere dai capi struttura locali. Ma così era, e così dovrebbero essere concepiti  e funzionare i Servizi del Personale.

 

Roma, 30 ottobre 02

Marco Ruini

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