I DIRITTI SINDACALI NEL LAVORO PUBBLICO

Con riguardo al quadro istituzionale - sindacale di svolta di fine secolo scorso

 

SOMMARIO

 

1.       Applicabilità del titolo III dello Statuto dei lavoratori al pubblico impiego, con particolare riguardo all’art. 19 dello stesso statuto. Cenni storici.

2.       I diritti di cui agli artt. 20-27 dello statuto dei lavoratori. a) assemblea; b) referendum; c) trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze aziendali; d) diritto di affissione; e) contributi sindacali; f) locali

3.       I permessi, le aspettative e i distacchi sindacali.

4.       I diritti d’informazione e partecipazione.

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1. Applicabilità del titolo III dello Statuto dei lavoratori al pubblico impiego, con particolare riguardo all’art. 19 dello steso statuto. Cenni storici

 

      La legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), nel titolo III, riconosce alle organizzazioni dei lavoratori che sono in possesso di determinati requisiti di rappresentatività, un insieme di prerogative ulteriori a quelle concesse indistintamente a tutti i sindacati nell’esercizio dell’attività e libertà sindacale.

      Dette disposizioni, come peraltro l’intero testo della legge, non hanno avuto applicazione immediata nel pubblico impiego. Questa limitazione della libertà sindacale ai pubblici dipendenti si basava sul disposto dell’art. 37 della legge n. 300 del 1970, con il quale si escludeva l’applicazione delle norme contenute nella stessa legge al settore pubblico.

      L’estensione ai dipendenti pubblici si è avuta per gli effetti dell’art. 23 della legge 29 marzo 1983, n. 93 (legge quadro sul pubblico impiego), il quale ne disponeva l’applicazione immediata di alcune norme [1]. Per le materie inerenti le norme residue si è fatto ricorso alla seguente soluzione: per talune se ne rimandava la disciplina ad atti normativi da emanarsi a seguito di accordi sindacali, tal altre, invece, sono state riscritte nella stessa legge.

            L’estensione integrale dello statuto dei lavoratori, nel settore del pubblico impiego, è avvenuta solo successivamente con l’introduzione dell’art. 55, co. 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che ne ha previsto l’applicazione alle pubbliche amministrazioni indipendentemente dal numero dei dipendenti, con le limitazioni disposte all’art. 2, co. 2: “fatte salve le diverse disposizioni dello stesso decreto”.  (attualmente l’art. 51, co. 2, del d.lgs. 165/2001, dispone che “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti)

       Ciò che alimentò contrasti di orientamenti, stava però, nel fatto che il d.lgs n.29 del 1993, da un lato aveva disposto l’estensione della legge n. 300 del 1970, ma dall’altro non aveva però espressamente abrogato l’art. 25 “della legge quadro” che continuava a rimanere in vigore [2].

      Problema questo che sul piano pratico ha avuto scarsa rilevanza in quanto, la norma in questione, secondo le previsioni dell’art. 72, aveva effetti solo transitori fino alla stipulazione dei contratti collettivi.

      Pertanto, con la stipulazione dei primi contratti collettivi di comparto, nei quali, è stata espressamente disapplicata la predetta norma, lo statuto dei lavoratori, tra cui l’art. 19 dello stesso, trova finalmente la piena applicazione anche nel settore pubblico.

      La norma in esame, com’è noto, sottoposta al referendum abrogativo del 11 giugno 1995 ha subito una modifica nella sua struttura con rilevanti conseguenze che qui non è il luogo per approfondire. Il dato di fatto è che l’art. 19, a seguito della parziale abrogazione, lascia in vita un unico criterio selettivo ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali per l’attribuzione delle prerogative sindacali: la sottoscrizione di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.

       Il problema che prevalentemente si poneva innanzi, in presenza dell’art. 19 con la sua rinnovata veste, era di natura interpretativa, nei momenti in cui veniva utilizzato per selezionare i sindacati rappresentativi, ai fini dell’attribuzione dei diritti sindacali e per la legittimazione alla contrattazione decentrata[3].

       Le incertezze riguardavano in particolare le espressioni di seguito indicate: “associazioni sindacali”, “firmatarie”, “contratto collettivo” e la decorrenza degli effetti. Una sola cosa era pacifica, e cioè, che ai soggetti firmatari di contratti collettivi, da allora in avanti, era attribuito titolo per la costituzione di RSA [4]. Il risultato pratico dell’applicazione dell’art. 19 al pubblico impiego è stato la corsa alla sottoscrizioni dei contatti.

      Il legislatore, con il d.lgs 396/1997 ha posto fine alla breve applicazione dell’art. 19 al settore pubblico come indice di selezione dei soggetti cui attribuire i diritti sindacali nei luoghi di lavoro. All’art. 6, co. 2 ha introdotto, come strumento selettivo, la previa rappresentatività ex art. 47-bis per l’ammissione alle trattative negoziali e per l’attribuzione delle specifiche prerogative.

      In termini di paragone con il settore privato, l’elemento di differenziazione stava – ed è rimasto –  nel fatto che, ai fini della possibilità di costituire RSA, nel privato la sottoscrizione al contratto collettivo è necessaria, mentre nel pubblico è solo eventuale, in quanto la rappresentatività è già stata accertata prima, e rimane indifferente se poi il contratto viene firmato o meno.

      Riassumendo, riguardo al tema dell’applicazione dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori nel pubblico impiego, ciò ha avuto luogo nel breve periodo del vuoto legislativo, e cioè, quando si era sprovvisti di ulteriori criteri selettivi, introdotti i quali, ne è venuta meno la sua efficacia.

      Tanto perché, tale strumento di scelta dei sindacati autorizzati a costituire RSA, nel settore pubblico, non è condivisibile fondamentalmente per tre motivi. Il primo, per la possibile “minaccia” nei confronti dei sindacati rappresentativi di far perdere la propria RSA per il semplice motivo di non aver aderito al contratto collettivo. Il secondo, per il fatto che l’applicazione dell’art. 19, in aggiunta agli altri criteri, avrebbe ristretto notevolmente i soggetti legittimati alla costituzione della RSA. Il terzo, il più importante, per la mancanza, nel pubblico impiego, di quella condizione giustificatoria di tale applicazione nel settore privato: “ una contrattazione collettiva meramente affidata ai rapporti di forza tra le parti” [5]. Inoltre, a voler ammettere l’accertamento della rappresentatività, solo e unicamente sulla base della sottoscrizione del contratto collettivo, come nel lavoro privato, sarebbe riparlare di rappresentatività presunta e pertanto eludere la verifica di essa.

      Nel privato, invero, il sindacato che riesce a farsi riconoscere dal datore di lavoro come controparte, specie nei casi di ostilità di quest’ultimo, imponendosi anche con l’utilizzo dei vari strumenti messi a disposizione dall’ordinamento (scioperi, manifestazioni, ecc.) e a sottoscrivere il contratto collettivo, lascia pensare di essere un sindacato rappresentativo, anche se di ciò non si può avere assoluta certezza, ma piuttosto lo si può presumere [6].

      Nel settore pubblico, invece, non potrebbe essere trasposto il meccanismo utilizzato per il settore privato, sopra descritto, per le accennate peculiari caratteristiche, a cui si aggiunga l’obbligo di contrarre della pubblica amministrazione. La rappresentatività dunque deve essere accertata ex ante alla sottoscrizione del contratto collettivo, non come conseguenza di una attività, ma come presupposto per svolgere una attività, quella contrattuale, e deve basarsi su criteri certi.

 

 2. I diritti di cui agli artt. 20-27 dello statuto dei lavoratori.

 

      Anche “nelle pubbliche amministrazioni la libertà e l’attività sindacale, sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

      A questo dettato dell’art. 6, primo comma, del d.lgs. 4 novembre 1997, n.396 (ora art. 42 del d.lgs. n 165/2001), che estende l’applicazione del titolo III dello statuto dei lavoratori, anche al pubblico impiego, vanno però aggiunte alcune precisazioni.

      Con lo stesso d.lgs. n. 396 del 1997 e successivamente dal d.lgs. n. 80 del 1998, la disciplina della materia riguardante le prerogative sindacali, è stata completamente demandata alla contrattazione collettiva.

      Il relativo contratto collettivo quadro, attualmente in vigore, con successive modificazioni ed integrazioni, sulle modalità di utilizzo delle prerogative sindacali è stato sottoscritto in data 7 agosto 1998.

      L’ambito di applicazione di tale contratto quadro comprende i dipendenti e i dirigenti, il cui rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni sia disciplinato dalla contrattazione collettiva ai sensi del d.lgs. 29/1993, come modificato ed integrato dal d.lgs. 396/1997 e dal d.lgs. 80/1998 (trasfuso ora nel d.lgs 165/2001).

      Alla luce della suddetta norma, l’applicazione delle prerogative sindacali previste dal titolo III della legge n. 300 del 1970, sono da considerarsi residuali, in base al art. 1, co. 3, CCNL-Quadro del 7 agosto 1998 (come modificato ed integrato dal CCNQ integrativo e correttivo del CCNQ del 27.1.1999, dal CCNQ del 28.8.2000, dal CCNQ del 3.8.2004, CCNQ del 3.10.2005) nel quale si prescrive che ove i contratti collettivi “non dispongono una specifica disciplina nelle materie relative alla libertà e dignità del lavoratore alle libertà ed attività sindacale”.

      Sono da esaminare ora i singoli diritti previsti negli artt. 20-27 della legge n. 300 del 1970, e tra essi, constatare quanti sono applicati sic et simpliciter anche al settore pubblico e quant’alteri sono, invece, “ritoccati” dai contratti collettivi.

  

a)    Assemblea

 

      La norma dà la facoltà ai lavoratori di riunirsi e affrontare un dialogo sulle varie questioni inerenti la loro attività lavorativa, permettendo così di partecipare alle scelte sindacali.

      In pratica, con il diritto di riunione si favorisce la trattazione collegiale di problematiche di interesse collettivo. Il fatto che l’esercizio di tale diritto è garantito nei posti di lavoro, senza alcuna riduzione economica,  in caso di partecipazione – per un minimo di 10 ore eventualmente aumentabili dalla contrattazione collettiva – agevola notevolmente la partecipazione dei singoli dipendenti che altrimenti sarebbero disincentivati dal presenziare l’assemblea.

      La materia è stata riveduta con l’art. 2 del contratto collettivo quadro del 7 agosto 1998, nel quale si prevede la possibilità di ulteriori deroghe migliorative a seguito di eventuali norme più favorevoli previste nei contratti collettivi di comparto o di area.

      Il testo dell’art. 2 contiene maggiori puntualizzazioni rispetto l’art. 20 della legge 300/1970.

      E’ espressamente previsto un termine temporale di comunicazione dell’assemblea all’ufficio gestione, che consiste in almeno tre giorni prima dello svolgimento, nella forma scritta, con l’indicazione circa la convocazione, la sede, l’orario e l’ordine del giorno e l’eventuale partecipazione di dirigenti sindacali esterni. La norma supera, dunque, il principio della libertà di forma sancito nell’art. 20 dello Statuto dei lavoratori, nel quale non viene prescritto nulla in ordine alle modalità di comunicazione.

       L’amministrazione, dal suo canto, ricevuta la comunicazione, può spostare la riunione dei lavoratori, comunicandolo alle rappresentanze sindacali nella stessa forma, cioè per iscritto, nel termine di 48 ore prima dallo svolgimento, ma limitatamente per “condizioni eccezionali e motivate” (3° comma).

      La titolarità del diritto di assemblea spetta a tutti i lavoratori, pertanto tutti possono partecipare ad essa.

Con ciò tuttavia non vuol dire che, in pratica, tutti i dipendenti abbandonano la loro attività lavorativa per riunirsi in assemblea, in quanto è previsto che, nel rispetto dei contratti collettivi di comparto “deve essere garantita la continuità delle prestazioni indispensabili nelle unità operative interessate”(6° comma).

      L’espresso requisito della “indispensabilità” delle prestazioni lavorative, come elemento compressivo del diritto di riunirsi in assemblea, esclude che l’ambito di applicazione di tale limite possa essere esteso anche ad altre situazioni, tra cui anche a quelle che pur risultino turbative del normale svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione [7]. In altre parole, l’Amministrazione non può impedire lo svolgimento dell’assemblea sul presupposto dell’esigenza di buon andamento dell’attività amministrativa.

      Riassumendo, dunque, vi possono essere delle limitazioni o delle esclusioni al diritto di assemblea.

      Le limitazioni, introdotte nel sesto comma dell’art. 2, sono dovute alla sussistenza di prestazioni lavorative indispensabili.

      L’esclusione, invece, prevista nel terzo comma, è ammessa solo per condizioni eccezionali da identificare con situazioni di straordinarietà.

      Non dovrebbero rientrare nella norma gli eventi di assoluta necessità, per es. minaccia dell’ordine pubblico o calamità naturali, i quali estinguerebbero il diritto all’assemblea al di là della stessa comunicazione.

        Altro aspetto, puntualmente definito nel CCNL-Quadro, riguarda la previsione della competenza dell’unità operativa circa la rilevazione dei partecipanti e delle ore consumate dei dipendenti, che, come già accennato, l’art. 20 dello statuto dei lavoratori fissa in un minimo di 10 ore. L’eventuale superamento di questo limite comporta l’obbligo del recupero delle ore utilizzate per partecipare all’assemblea ovvero, in caso di impossibilità ad effettuare il recupero o comunque se esso non viene effettuato, la conseguenza sarà la proporzionale decurtazione dallo stipendio.

      La norma non fa riferimento alla possibilità di potersi riunire in assemblea fuori dell’orario di lavoro, utilizzando i locali dell’unità operativa, ma, non essendoci disposizione contraria, è da ammettere questa facoltà, come previsto esplicitamente dall’art. 20 della legge 300/1970.

      Il potere di convocare l’assemblea spetta ai soggetti indicati nell’art. 10 dello stesso accordo, e sono:

1)    i componenti delle RSU;

2)     i dirigenti delle RSA;

3)    i dirigenti dei terminali di tipo associativo che, dopo la elezione delle RSU, siano rimaste operativi nei luoghi di lavoro nonché quelle delle medesime associazioni, aventi titolo a partecipare alla contrattazione collettiva integrativa;

4)    i dirigenti componenti di organismi direttivi di sindacati rappresentativi non collocati in distacco o in aspettativa.

       Tale limitazione, ai soggetti suindicati, è tuttavia giustificabile per impedire che vi sia un abuso di tale facoltà, da risultare poco produttiva, e per gli interessi del datore di lavoro che per le esigenze degli stessi lavoratori [8].

      E’ illegittima e antisindacale, invece, la convocazione di assemblee da parte del datore di lavoro, in quanto con tale comportamento l’esclusione dei soggetti sindacali, quali validi interlocutori, e l’impostazione unilaterale della problematica, mette in luce un potenziale scopo di frattura tra i lavoratori [9]. Al datore di lavoro non è ammessa neppure la possibilità di partecipare all’assemblea, a meno che non sia stato espressamente invitato dagli stessi lavoratori.

 

b) Referendum

 

      L’art. 21 dispone che il datore di lavoro ha l’obbligo di consentire, all’interno dell’azienda ma fuori dell’orario di lavoro, lo svolgimento di referendum tra i lavoratori.

      L’iniziativa deve essere congiunta di tutte le organizzazioni sindacali, [10]  su materie inerenti l’attività sindacale. Il presupposto della indizione necessariamente unitaria del referendum trova il fondamento, oltre che nell’ambizione del legislatore dell’unità sindacale, anche, nell’evitare che il ricorso a tale strumento, da parte di una singola rappresentanza sindacale aziendale, sia effettuato per motivi di sfida o di rivincita [11].

      L’estensione della norma in esame al pubblico impiego, rimessa dalla “legge quadro” (art. 23, co. 2) alla contrattazione collettiva, ha trovato la sua prima attuazione nell’art. 38 del D.P.R. 266/1987 e successivamente nell’art. 17 del D.P.R. 333/1990, i quali ammettevano la possibilità di indire referendum su materie di natura sindacale [12].

      Attualmente detti accordi non sono più in vigore e trova applicazione direttamente l’art. 21 dello statuto dei lavoratori. 

 

c)Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali.

 

      L’art. 18 dell’accordo quadro, prevede una disposizione analoga all’art. 22, e cioè che il trasferimento in una sede diversa, dei dirigenti sindacali, quali RSA o RSU, non può essere disposto in mancanza del previsto nulla osta dell’organismo unitario.

      La materia è stata precedentemente disciplinata, relativamente al pubblico impiego, dal D.P.R. 266/1987, il quale prevedeva all’art. 40, la garanzia del previo nulla osta al trasferimento applicabile solo ai componenti degli organi statutari. L’allargamento degli effetti della norma anche ai dirigenti RSA e delle organizzazioni e confederazioni sindacali è avvenuta con l’art. 19 del DPR 333/1990.

      Qualche problema interpretativo si è avuto per il significato del termine “trasferimento”, e in pratica, se possa essere considerato tale anche lo spostamento del dipendente nell’ambito della stessa sede di servizio.

      Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, è da intendersi per trasferimento lo spostamento del dirigente sindacale da una ad un’altra unità produttiva e pertanto la norma non è applicabile ai semplici spostamenti interni [13] .

      A tale interpretazione va aggiunta una specificazione in base ad un principio previsto da un altro orientamento giurisprudenziale [14] secondo il quale, lo spostamento dal reparto cui è addetto ad un altro reparto della stessa unità operativa, benché non configurabile come vero e proprio trasferimento, è da far rientrare nella portata della norma nei casi in cui concretamente comporta pregiudizio.

      Importante esplicitazione è dettata nel comma 6 del CCN-Quadro, secondo il quale i dirigenti sindacali nell’esercizio delle loro funzioni, non sono soggetti alla prevista subordinazione gerarchica che invece si impone loro come dipendenti.

      La guarentigia prevista dall’art. 22 non sarebbe invocabile, per parte della giurisprudenza, in caso di trasferimenti collettivi, presso una sede diversa [15.

 

d)Diritto di affissione.

 

      E’ la più antica delle prerogative prevista per i sindacati nelle pubbliche amministrazioni, anteriore anche alla l. 300/1970. Prevista per la prima volta, infatti, dalla l. 18 marzo 1968, n. 249, la quale all’art. 49 introduceva, nelle amministrazioni pubbliche, la riserva a favore di tutte le organizzazioni sindacali dell’utilizzo gratuito di spazi per la comunicazione di argomenti di carattere sindacale.

       Il diritto di affissione era tra quelli demandati dalla legge 93/1983 alla contrattazione collettiva, e venne successivamente previsto dall’art. 35 del DPR 266/1987 e dall’art. 13 del DPR 333/1990.

      L’art. 3 dell’accordo quadro del 7 agosto 1998, ha riprodotto quasi alla lettera il disposto dell’art. 25 dello statuto dei lavoratori, con l’aggiunta della possibilità di utilizzare sistemi informatici per le comunicazioni.

      Il diritto di affissione comporta l’obbligo dell’Amministrazione di mettere a disposizione degli appositi spazi, in genere delle bacheche, per permettere l’affissione di documenti.

      La scelta in concreto di tali spazi, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, impone che essi siano individuati,  all’interno del luogo di lavoro, in vista vista della massima accessibilità a tutti i dipendenti.

      L’oggetto delle comunicazioni deve riguardare materie di interesse sindacale e del lavoro. Tale espressione è stata ritenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel senso più ampio, tanto da poter comprendere qualsiasi argomento di interesse sindacale “se il sindacato lo assume come tale e che, di conseguenza, il datore di lavoro non può esercitare alcun controllo in merito”[16].

 

 e) Contributi sindacali

 

      In merito, l’iscrizione al sindacato importa l’obbligo di versare ad esso una quota attraverso quella che viene definita “delega” che giuridicamente rappresenta un atto di disposizione del reddito del lavoratore.

      L’art. 26 dello Statuto dei lavoratori è stato oggetto di consultazione referendaria nel giugno del 1995, congiuntamente all’art. 19 della stessa legge e all’art. 47 del d.lgs. n. 29 del 1993, di cui si è detto in precedenza.

      La conseguenza di tale consultazione, che formalmente ha comportato una sua parziale abrogazione, è stata pressoché inesistente. Infatti, nella predetta norma, si prevedeva l’obbligo del datore di lavoro di effettuare il versamento relativo all’iscrizione sindacale, tale obbligo, è stato reintrodotto attraverso la fonte contrattuale lasciando sostanzialmente invariato il risultato.

     L’art. 26, della legge n. 300 del 1970, riformato dall’esito referendario, è applicabile al pubblico impiego. I principi ivi contenuti, erano stati inizialmente estesi al settore pubblico con l’art. 23 della legge 23 marzo 1983, n. 93, successivamente abrogato dall’art. 74 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.

      Nell’attuale periodo, l’art. 26 dello statuto dei lavoratori trova applicazione anche al settore pubblico in forza della previsione del d.lgs. n. 29 del 1993 (trasfuso ora nel d.lgs. 165/2001) e del CCNL-Quadro.

 

f) Locali

 

      Anche questa materia, è stata rivista dal CCNL-Quadro sulla falsariga dell’art. 27 dello statuto dei lavoratori. Si aggiunge qui che il locale che viene posto a disposizione permanentemente, per le attività dei soggetti sindacali, nei casi di amministrazioni superiori a duecento dipendenti, deve essere a titolo gratuito. Tale tenore letterale sgombra il campo da possibili richieste di canoni locativi, o quant’altro, nell’assegnazione di un determinato locale, in particolar modo se è situato esternamente alla sede dell’amministrazione.

      La titolarità del diritto ai locali spetta alle rappresentanze sindacali aziendali e, ora, alle rappresentanze sindacali unitarie, e, tale diritto è strumentalmente connesso allo svolgimento delle funzioni sindacali.

      Il legislatore pone una distinzione tra l’unità produttiva in cui siano presenti almeno 200 dipendenti e quella con un numero inferiore di dipendenti. Nella prima ipotesi, nasce l’obbligo in capo al datore di lavoro di porre a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali di un idoneo locale, in modo permanente. Nella seconda ipotesi l’obbligo di mettere a loro disposizioni un locale, per l’esercizio delle loro funzioni, nasce solo previa richiesta. In pratica, vi è una differenza nel momento genetico dell’obbligo del datore: nel primo caso l’obbligo nasce già al momento della costituzione della RSA - o RSU - nel secondo caso nasce in un momento successivo, se ne viene fatta richiesta.

      E’ chiaro che l’utilizzo di tali locali può essere esercitato durante l’orario di lavoro con l’utilizzo di permessi sindacali, non necessari, invece, se i locali sono utilizzati fuori dell’orario di lavoro. Anche se, in quest’ultima ipotesi, non è pacifica la questione circa l’accessibilità in tale ambito temporale nel luogo di lavoro.

 

3.  I permessi, le aspettative e i distacchi sindacali

 

      Il sindacato è costituito da lavoratori, i quali si associano per il raggiungimento di uno scopo comune, che consiste, di regola, nell’assistenza e nella tutela degli appartenenti alla categoria. Per assolvere a pieno titolo le sue funzioni, quelle del sindacato, è necessario che i detti lavoratori - in gergo, “sindacalisti”, ma nel linguaggio del legislatore o contrattuale vengono designati con il temine di “dirigenti sindacali” -  possano assentarsi dal servizio cui sono stati assunti per esercitare appieno il loro mandato. Per questo l’ordinamento ha introdotto degli istituti, quali i distacchi, le aspettative ed i permessi , che permettono di interrompere la prestazione lavorativa per motivi sindacali.

      Tali istituti rilevano sotto il profilo dei diritti sindacali proprio per il fatto di essere a vantaggio del sindacato, il quale beneficia dell’attività posta in essere del lavoratore.

      L’utilizzo di tali diritti è ammesso non a tutte le associazioni di lavoratori, ma solo a quelli che soddisfano specifici criteri, in base alla loro rappresentatività.

       La rappresentatività in questo contesto, oltre ad essere applicata come strumento selettivo dei sindacati aventi diritto, svolge inoltre un ruolo di comparazione tra i diversi soggetti aventi titolo, per la distribuzione in modo proporzionale di tali diritti in base al quantum.

       Nel pubblico impiego, con l’art. 54 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, nell’attuale versione, riformulata nel d.lgs. 165/2001, la regolamentazione della materia è demandata alla contrattazione collettiva, con l’obbligo di garantire dal 1° agosto 1996 “in ogni caso l’applicazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni”(comma 2).

      Il contratto collettivo quadro sulle modalità di utilizzo dei distacchi, permessi e aspettative sindacali è stato sottoscritto il 7 agosto 1998, in pratica, nello stesso giorno che è stato sottoscritto l’accordo quadro per la costituzione delle RSU, è stato oggetto in questi anni di modifiche e variazione che non hanno inciso nella sostanza.

      Strutturalmente si divide in tre parti. La prima, oltre a definirne il campo di applicazione, è dedicata all’attività sindacale; la terza comprende le norme finali e transitorie, mentre la seconda parte è quella che regolamenta l’utilizzo dei distacchi, permessi e aspettative.

      Nel suo complesso, il contratto collettivo quadro racchiude una disciplina migliorativa rispetto allo statuto dei lavoratori, facendo uscire definitivamente il settore pubblico dalla spirale di specialità in cui era fino ad ora mantenuto nella suddetta materia.       

      Riguardo i distacchi, il diritto di usufruirne spetta ai lavoratori che fanno parte degli organismi direttivi statutari delle proprie confederazioni ed organizzazioni sindacali, ai quali compete il trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva di comparto o di area.

      Resta inteso che sono i sindacati rappresentativi gli esclusivi intestatari dei distacchi.

      Il numero complessivo dei distacchi previsto dall’accordo viene diviso, in prima applicazione, a regime, nell’ambito del comparto e area, riservando il 90% alle organizzazioni rappresentative, e il 10% alle confederazioni alle quali le organizzazioni rappresentative sono affiliate. (art. 6, co. 2, CCNL-Quadro) In quest’ultima percentuale, l’accordo prevede, comunque, la garanzia di un distacco per ognuna di esse e un distacco per i sindacati delle minoranze linguistiche della Provincie di Trento e Bolzano e delle regioni Valle D’Aosta e Friuli Venezia – Giulia, da utilizzare con forme di rappresentanza comune.

      Dunque, la rappresentatività, oltre a fungere da muro divisorio - ponendo da un lato, gli organismi rappresentativi aventi diritto, e dall’altro, i sindacati non rappresentativi, che non hanno titolo alcuno in materia di distacchi sindacali -, costituisce inoltre, in base al proprio peso, un criterio di attribuzione proporzionale di tali diritti. Questa è una differenza fondamentale con la legge n. 300 del 1970, la quale invece non dà incidenza al diverso grado di rappresentatività ai fini di una differente attribuzione di tali diritti.

      Relativamente ai permessi, essi spettano non solamente ai sindacati rappresentativi ma anche agli organismi rappresentativi unitari del personale.

      Il contingente complessivo, convenzionalmente previsto, è di 81 minuti per dipendente o dirigente sindacale.

      Anche i permessi sono ripartiti passando attraverso le maglie della rappresentatività, con il meccanismo proporzionale. 

      L’accordo sancisce che dal 1 gennaio 1999 la rappresentatività, per effetto delle elezioni delle RSU, sia calcolata, oltre al numero delle deleghe, anche sulla base dei risultati elettorali, e ne prevede una ripartizione dei permessi tra le RSU e i sindacati rappresentativi. (30 minuti per le prime, aumentabili dai contratti collettivi di comparto e area, fino a 60, e 51 per i secondi, diminuibili in senso inverso all’aumento per le RSU).

      Detti permessi sono uno strumento che dà facoltà ai dirigenti sindacali di svolgere la propria attività esonerando gli stessi dell’obbligo della prestazione lavorativa. I motivi, per i quali debbono essere fruiti, espressamente previsti dall’art. 12, dell’accordo quadro, sono: la partecipazione alle trattative, la partecipazione a convegni o congressi di natura sindacale.

      Ci si domanda se tale elencazione dell’accordo sia o meno da considerare tassativa.

      Invero, il primo comma dell’art. 10, nell’indicare i soggetti legittimati a fruire dei permessi, statuisce il fine del loro utilizzo: “per l’espletamento del loro mandato”. Con questa generica espressione si possono far rientrare molteplici attività di natura sindacale, pertanto, e la partecipazione a trattative, convegni o congressi, ex art. 12, è accomunata dallo stessa finalità – l’espletamento del mandato sindacale – pertanto, l’elencazione è da ritenere assolutamente esemplificativa.

      I soggetti titolari dei permessi secondo l’art. 10, sono:

1)    i singoli componenti delle RSU;

2)    i dirigenti sindacali delle RSA;

3)    i dirigenti dei terminali di tipo associativo (rimasti post–elezioni delle RSU);

4)    i dirigenti componenti degli organismi direttivi, che non godono di distacchi o aspettative. 

      Per i dirigenti che ricoprono cariche negli organismi direttivi statutari è utilizzabile un ulteriore istituto: l’aspettativa. Tale diritto comporta, come i distacchi e i permessi retribuiti, l’esonero dall’obbligo di prestare servizio nell’Amministrazione, ma, a differenza di essi, è concessa senza diritto allo stipendio, per tutta la durata del mandato.

      Per il godimento dell’aspettativa è necessaria la previa richiesta delle organizzazioni sindacali rappresentative alle amministrazioni di appartenenza del dipendente interessato.

 

 4. I diritti di informazione e partecipazione.

 

      L’attività sindacale, nelle problematiche inerenti l’organizzazione del lavoro e la gestione del personale, non si esaurisce alla sola attività contrattuale, ma attraverso modalità ulteriori, quali gli strumenti dell’informazione e della partecipazione.     

      L’art. 47, co. 7, del d.lgs. n. 29 del 1993, (ora art. 42 d.lsg 165/2001) prevede le rappresentanze unitarie del personale titolari in via esclusiva del diritto d’informazione e partecipazione, le cui modalità di esercizio, sono rimandate agli accordi che ne regolano le elezioni, il funzionamento e le modalità di trasferimento ai loro componenti delle garanzie spettanti alle RSA. Mentre l’art. 48 intitolato “Nuove forme di partecipazione alla organizzazione del lavoro”, rinvia alla contrattazione collettiva la definizione di nuove forme di partecipazione.

      A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n.80, con cui è stato abrogato l’art. 10 del d.lgs. n. 29 del 1993, il quale prevedeva un limite ratione materiae circa il diritto d’informazione esercitabile solo relativamente alla qualità dell’ambiente di lavoro e alle misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro, la materia è stata demandata alla contrattazione collettiva. Pertanto, nell’attuale assetto normativo, con il contratto si può, almeno in teoria, prevedere l’informazione per qualsiasi materia, così come illimitate forme di partecipazione.

      Con questa soluzione, il legislatore si è esposto al rischio che la contrattazione collettiva possa “abusare” di tale strumento. Approfittando della genericità del termine “partecipazione”, per esempio, si potrebbero instaurare forme di cogestione, che in passato sono state ampiamente criticate per aver ingenerato comportamenti di favore o clientelari.

 

      L’esercizio dei diritti d’informazione e partecipazione spetta in via esclusiva alle RSU, mentre le relative modalità con le quali tali organismi possono esercitarli sono stabiliti dai contrattai collettivi.

Gesuele Bellini

 


 

[1] In particolare venivano resi applicabili al pubblico impiego gli articoli: 1, 3, 8, 10, 11, 14, 15, 16 co. 1 e 17.

[2] L.ZOPPOLI, La rappresentanza sindacale nel pubblico impiego tra vuoto legislativo e modello privatistico, pag. 60. L’Autore sostiene che l’art. 25 debba ritenersi implicitamente abrogato.

[3] L. ZOPPOLI, Il lavoro pubblico negli anni ’90, pagg. 85–86.

[4] L ZOPPOLI, Interventi normativi in tema di rappresentatività sindacale e principi costituzionali di riferimento, in Atti della tavola rotonda, Roma, 14 novembre 1995, pagg. 33-34-35.

[5] P. CAMPANELLA e M.T. CARINCI, L’attuazione della legge delega Bassanini: il d.lgs. 396/1997 in tema di contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale, op. cit. pag. 99.

[6] V. sentenza della Corte costituzionale 4 dicembre 1995, n. 492.

[7] Di parere opposto P. VIRGA, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Giuffrè, 1993, pag. 147.

[8] CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU, Diritto sindacale, Diritto sindacale, 1994,  pag. 166.

[9] V. Sentenza Corte di cassazione 16 aprile 1976, n. 1366.

[10] Tale potere è esercitabile inoltre, dalla Commissione di Garanzia, prevista dalla l. 12 giugno 1990, n. 146, in seguito ad accordi sulle prestazioni minime inerenti i servizi essenziali, su richiesta di un sindacato dissenziente o di un numero rilevante di lavoratori interessati.

[11] V. G. GIUGNI, Diritto sindacale, Cacucci, 1996, pag. 110.

[12] G.PELLICANI, L’applicabilità dello Statuto dei lavoratori ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Cedam, 1994, pag. 142.

[13] Corte Cass. 3 settembre 1991, n.9341, Corte Cass. 4 luglio 1991, n. 7386, T.a.r. Abruzzo 26 novembre 1992, n. 465.

[14] Sentenza della Corte di Cassazione del 19 dicembre 1987, n. 9475.

[15] Sent. Pretura di Livorno 29 ottobre 1988, n. 436.

[16] G. GIUGNI, Diritto sindacale, op. cit. pag. 116.

 

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