CONSENSUALITA’ (o meno)  DEL  DISTACCO  AD  ALTRA AZIENDA

 

1. E’ sempre più frequente, di questi tempi, sentir parlare di distacco del lavoratore da una società ad un’altra, eminentemente quando fra queste sussiste un collegamento di carattere economico - cui tuttavia notoriamente l’ordinamento giuridico non accorda riconoscimento alcuno - quale quello intercorrente tra aziende di uno stesso Gruppo o tra Capogruppo (Holding) e singole società consociate o partecipate.

In un’epoca caratterizzata dalla spasmodica ricerca di soluzioni di riduzione del costo del lavoro - accompagnate da indisponibilità verso nuove assunzioni, con l’effetto di innalzare il già insopportabile tasso di inoccupazione e disoccupazione giovanile - il distacco di personale suppostamente esuberante da un’azienda all’altra o indipendentemente dagli esuberi, per esigenze connesse alla costituzione di gruppi polifunzionali, con scorpori di attività in società satelliti, potrebbe essere suscettibile di una diffusione operativa.

Non va, peraltro, dimenticato che l’art. 8, 3° comma, del D.Lgs. 21 aprile 1993 n. 236 (rubricato “Interventi urgenti per l’occupazione”) - nell’ottica delle misure volte ad evitare riduzioni di personale e quindi il conseguente ricorso alle procedure della L. n. 223/1991 - ha enfatizzato lo strumento del distacco, disponendo che “gli accordi sindacali possono regolare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall’impresa ad altra per una durata temporanea”.

La suddetta norma (attivabile, si noti bene, su basi pattizie) oltre ad essere espressamente richiamata da taluni contratti nazionali come ad es. l’accordo 14 maggio 1994 per il rinnovo del ccnl per l’industria chimica e chimico farmaceutica, ha trovato concreta applicazione in taluni accordi aziendali, quali l’accordo Fiat del 20 febbraio 1994 e l’accordo Iveco del 27 gennaio 1994,  ove si è configurata sempre la misura del distacco quale alternativa ai provvedimenti di riduzione del personale.

Altre volte, fattualmente e patologicamente, lo strumento del distacco viene utilizzato - invero da aziende gestite secondo concezioni oscurantiste - per conseguire l’allontanamento del dipendente sgradito (per motivi sindacali o ideologico/politici) spostandolo in aziende collegate di scarsa significatività e rilevanza e rinverdendo così, nella nostra epoca, la trista esperienza dei c.d. “reparti confino” rivelata dall’indagine parlamentare sulle condizioni dei lavoratori, propedeutica alla promulgazione dello Statuto dei lavoratori.

Da qui l’esigenza di una doverosa, sintetica disamina e prospettazione al lettore.

 

2. Va preliminarmente  avvertito come il c.d. “comando” o “distacco” di personale sia un fenomeno che nasce - piuttosto oscuramente (1) - nel diritto pubblico e che, con altrettante zone grigie, e’ poi tracimato nel diritto del lavoro privato.

Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego (artt. 56 e 57 d.p.r. n. 3/1957, quale integrato dall’art. 34, d.p.r. n. 1077/1970, dagli artt. 31,43, e 50 del D. Lgs. n. 29/1993) si usa designare con il termine “comando” il provvedimento con il quale un impiegato - in via eccezionale, per riconosciute esigenze di servizio e quando sia provvisto di una specifica competenza - può essere comandato dall’Amministrazione di appartenenza,

a) ad un’altra Amministrazione dello Stato, o,

b) ad un Ente pubblico,

continuando in entrambi i casi ad appartenere sempre al ruolo di origine.

Nella prima ipotesi (sub a) di “comando” - corrispondente, nel settore privato, ad uno spostamento interno tra unità produttive autonome di una stessa impresa - il costo e’ sopportato dall’Amministrazione di appartenenza. Nella seconda ipotesi (sub b) - mutando il beneficiario della prestazione del dipendente  statale, nella specie l’Ente pubblico - quest’ultimo viene gravato  dell’onere del rimborso del costo del distaccato, a favore della di lui Amministrazione statale di appartenenza.

Il termine “distacco” non viene, invece, usato dalla legge per indicare un preciso fenomeno giuridico, per cui - al riguardo - ci si imbatte in una varietà di opinioni che merita, comunque, riferire. Secondo taluno (es. Virga) il “distacco” identificherebbe la fattispecie del comando da un’Amministrazione ad un Ente pubblico, onerato del rimborso; secondo altri (Cons. di Stato, sez VI, 7 marzo 1970, n. 198) sarebbe, invece, il passaggio di un impiegato da un Ente pubblico ad un’Amministrazione dello Stato; secondo altri ancora sarebbe la situazione di fatto (realizzata senza alcun idoneo provvedimento) tramite cui taluni dipendenti vengono assegnati a prestare servizio presso o nell’interesse di un’altro Ente o Amministrazione a carico della quale sono posti gli oneri della relativa prestazione, “situazione che si  palesa, invero, come possibile strumento di favoritismi ed e’ contraria ai principi del buon andamento e dell’imparzialita’ della Pubblica Amministrazione “(2).

 

3. Nell’ambito del rapporto di lavoro privato i due termini vengono usati indifferentemente, quali sinonimi. Sono stati introdotti ed accreditati dalla giurisprudenza della Suprema corte, che, nel tempo, ne ha affinato i tratti caratterizzanti.

Nel campo privatistico ci si e’ subito imbattuti in due sostanziosi ostacoli di legittimazione all’utilizzo dello strumento del “distacco” o “comando”. Entrambi riassumibili unitariamente nel concetto per cui qualunque impresa che abbia intrinseche esigenze di determinato personale o di soggetti qualificati deve instaurare con essi un regolare, diretto, rapporto di lavoro (con inserimento a libro paga) e transitare, per l’instaurazione, attraverso il servizio pubblico del collocamento (almeno fin quando non saranno legittimate le agenzie private per il reperimento di precario lavoro interinale, che invece vengono prospettate dalle associazioni imprenditoriali come la manna per alleviare il problema della disoccupazione).

Il concetto esposto - con cui abbiamo sintetizzato due distinti principi giuridici di diritto positivo - si fonda su due capisaldi:

a) il divieto di “somministrazione” e/o “prestito” di personale ad opera di soggetto interposto (sia a titolo gratuito sia a fini di lucro), rinvenibile nell’art. 1 della L. n. 1369/1960;

b) l’ulteriore divieto di “mediazione” nel collocamento del personale, affidato a tutt’oggi per legge (nelle more della disciplina del lavoro interinale) al pubblico servizio statale,  divieto codificato nell’art. 11 della L. n. 264/1949 e sanzionato dal relativo art. 27.

Pertanto dottrina e giurisprudenza sono giunte a legittimare il ricorso al “distacco”, una volta che la fattispecie abbia positivamente superato (i) e sia risultata estranea ai divieti sopracitati.

E per risultarne estranea, la fattispecie del “distacco” di personale da un’azienda ad altra distinta - ovvero fra società dello stesso Gruppo (Capogruppo inclusa) - risulta requisito imprescindibile il fatto che l’assegnazione, conseguente al distacco, tenda a realizzare un interesse istituzionale proprio dell’ente o azienda distaccante (3), non già a soddisfare un’esigenza specifica  dell’azienda  in cui il dipendente viene destinato (c.d. cessionaria o distaccataria).

A tale stregua si rivela legittima la dissociazione tra titolare del rapporto di lavoro e degli obblighi retributivi (società cedente) e beneficiario della prestazione del dipendente (da parte della società cessionaria), quando, ad esempio,  il distaccato dispiega nella diversa sede un’attività di controllo gestionale o contabile per conto e nell’interesse dell’azienda (o Capogruppo) cui appartiene ovvero realizza un’esperienza formativa utile per il miglior disimpegno della sua attività, una volta reinserito nella propria società, ovvero svolge nell’azienda cessionaria un’attività finalizzata all’uniformità delle procedure di Gruppo, secondo esigenze della Holding cui e’ in organico e simili.

E’ invece fraudolento il “distacco” tramite cui la prestazione a favore dell’azienda cessionaria assolve ad una carenza d’organico o di una specifica professionalità, utile esclusivamente o prevalentemente per l’azienda fruitrice che, in luogo di ricorrere ad assunzioni sul mercato, “pesca nel serbatoio” dell’altra azienda o in quello (ben più capiente) della Capogruppo. Talché il ricorso al distacco dello specifico dipendente ed all’utilizzazione concreta delle di lui prestazioni, a proprio vantaggio e per proprio interesse, finisce per risolversi in un comodo espediente di pre-selezione e pre-sperimentazione ad opera di società intermediaria (la cedente).

Requisito di legittimità del distacco e’ quindi “la sussistenza, all’inizio e la persistenza per tutta la durata del comando della necessità di soddisfare particolari esigenze dell’ente o azienda distaccante e quindi la persistenza dell’interesse a tale distacco, elementi  questi che, per loro natura, sono necessariamente temporanei”(4).

Questa puntualizzazione porta in emersione un altro requisito sussidiario, a guisa di corollario, del “distacco”: la temporaneità. E’ un requisito  sprovvisto di autonomia, in quanto esclusivamente conseguenziale alla dissociazione tra titolarità del rapporto ed esecuzione della prestazione in azienda diversa ed a favore di soggetto distinto da colui che ha assunto il prestatore di lavoro. Dissociazione che non può che essere temporanea, seppure non necessariamente predeterminata ma direttamente determinabile dalla durata dell’interesse della società cedente. La temporaneità viene tuttavia intesa in senso lato da talune sentenze, tant’e’ che e’ stato osservato che “la fattispecie del comando o distacco del lavoratore...non e’ necessariamente caratterizzata dalla brevità, o comunque dalla temporaneità dell’applicazione del dipendente presso il terzo, potendo questa durare, indipendentemente dalla sua minore o maggiore lunghezza, finchè permanga l’interesse del datore di lavoro distaccante a mantenere la situazione di distacco, e conseguentemente anche fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ove l’interesse predetto si sia realmente protratto sino a tale data” (5). Da altre  decisioni invece si insiste sulla “temporaneità” intesa come relativa brevità altrimenti non risulterebbe spiegabile la ragione che ha spinto il datore di lavoro originario  all’assunzione ed alla detenzione della titolarità del rapporto (6). Cosicché, correttamente, e’ stato considerato distacco fraudolento - in veste di fattispecie di intermediazione vietata di manodopera -  sia il caso in cui il distacco sia fin dall’inizio definitivo (7) sia il caso del perdurare dello stesso nonostante sia venuto meno, nel frattempo, l’interesse dell’originario datore di lavoro (8).

Sebbene l’azienda distaccante detenga la titolarità del rapporto, il distaccato - inserendosi temporaneamente nella struttura della società cessionaria - e’ tenuto a seguire la disciplina di lavoro e le modalità di conferimento della prestazione (es. orario, pause, procedure e simili) vigenti presso l’azienda nella quale la sua attività deve essere svolta (9) e non già necessariamente quelle dell’azienda di provenienza. In buona sostanza soggiace al potere direttivo dell’azienda distaccataria, presso la quale viene altresì a trasferirsi  - in ragione del possesso del potere gestorio ed organizzatorio delle modalità di conferimento della prestazione delle risorse distaccate - il potere promotivo e disciplinare (quantomeno nella veste dell’attivazione o proposta conseguente  a positiva o negativa valutazione, anche  se, dal lato formale e per prassi, gli effetti della proposta vengono notificati al distaccato dalla società cedente, in ragione della riconosciuta titolarità del rapporto).

Poiché peraltro tali modalità si riverberano e, spesso, incidono sui “diritti normativi” del distaccato (es. durata giornaliera e settimanale della prestazione e simili) e poiché tale conformazione o adeguamento viene indiziariamente utilizzato per inferirne il pieno inserimento nell’organizzazione del terzo, onde desumerne la conseguente titolarità del rapporto in capo ad esso, appare buona regola cautelativa per la società cessionaria quella di fruire delle prestazioni del distaccato secondo le disposizioni regolamentari e contrattuali proprie dell’azienda di provenienza.

 

4. Un aspetto che merita qualche considerazione è quello dei diritti sindacali del distaccato e delle sue prerogative nel caso in cui la scelta del distacco dovesse ricadere su soggetto dirigente di RSA  di un’unità produttiva dell’azienda cessionaria.

Considerato che la  prevalente normativa dello Statuto dei lavoratori - a partire dall’art. 1 per il quale“ i lavoratori senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi ove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, ecc.”, fino all’art. 20 in tema di assemblea secondo cui “i lavoratori hanno diritto di riunirsi, nell’unità produttiva in cui prestano la loro opera, ecc.”, senza trascurare l’art. 14 che garantisce il diritto di costituire associazioni sindacali a tutti i lavoratori “all’interno dei luoghi di lavoro”- sembra coerentemente ricollegare la titolarità e la fruibilità dei diritti sindacali (es. partecipazione alle assemblee ex art. 20) in stretta correlazione alla “sede di effettiva prestazione” dell’attività lavorativa, esprimiamo, in linea di principio,  l’avviso che il distaccato sia legittimato a fruire dei diritti sindacali in seno e nell’ambito della società in cui è stato destinato a fornire la sua prestazione, nonostante sia formalmente “dipendente” in organico alla società cedente.  Per la verità egli ha una posizione ambivalente e mentre è soggetto a risentire della disciplina regolamentare della prestazione secondo la normativa aziendale o contrattuale della società in cui è distaccato, al tempo stesso non può risultare indifferente a quella normativa  e a quelle vertenze sindacali volte a modificare le condizioni contrattuali che regolano il suo status di “dipendente” della società distaccante. Questa posizione ambivalente ci spinge alla considerazione che, in via di fatto ed anche di diritto, lo stesso sia legittimato - come  normalmente avviene - a partecipare sia alle assemblee della società in cui presta la propria attività sia a quelle indette dalle Rsa della società distaccante (naturalmente, per quelle in orario di lavoro, entro il limite globale di 10 ore annue) come pure potrà partecipare  agli scioperi indetti dai sindacati dell’una o dell’altra società, senza dover soggiacere a limitazioni. L’immanente ambivalenza della posizione che si rifrange in un’ambivalenza di interessi e diritti tutelabili,  fa si che egli possa altresì essere tutelato e rappresentato dalle Rsa della società sede del distacco come dalle Rsa della società cui è in organico.

Riteniamo pure che, qualora dovesse essere designato dai lavoratori dell’unità produttiva in cui opera presso la Società distaccataria  a rivestire carica di dirigente di Rsa, non vi siano ostacoli all’assunzione di una simile responsabilità ed alla detenzione delle relative prerogative ed agibilità (ex art. 22, 23, 24, ecc.). Ciò in quanto l’art. 19 dello Statuto conferisce all’iniziativa dei lavoratori delle singole unità produttive la legittimazione alla costituzione in esse di Rsa, nell’ambito delle associazioni firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva medesima. E non si può negare che il distaccato, in ragione dell’inserimento fattuale nel gruppo omogeneo dei lavoratori dell’unità produttiva dell’Azienda presso cui è stato destinato, non faccia parte della stessa unità produttiva atteso che è fattualmente partecipe della comunanza di interessi di quel gruppo omogeneo di prestatori di lavoro con i quali convive ed opera fianco a fianco quotidianamente. In buona sostanza, la modificazione del luogo della prestazione opera uno sradicamento ed un’avulsione dello stesso dall’azienda di provenienza che si riflette, anche sotto il profilo della rilevanza giuridica, in una modificazione dell’assetto, tipologia, natura e qualità dei propri interessi originari.

Proprio per i motivi sopra esposti i dirigenti delle Rsa dell’azienda cedente - scaturenti dall’iniziativa designativa o elettiva dei lavoratori dell’unità produttiva di cui il candidato dirigente è componente organico oltreché  ritenuto soggetto idoneo e capace a tutelare meglio degli altri gli interessi del gruppo omogeneo che egli non può che condividere in una comunanza ideologica ed operativa (10) - non possono essere destinatari, senza l’osservanza dell’onere del “nulla osta” sindacale ex art. 22 L. n. 300/’70, di una richiesta di distacco. Ciò in quanto il distacco realizza quel fenomento di “scollamento” del dirigente della Rsa dal nucleo professionale dei lavoratori, dei cui interessi e della cui tutela si è assunto la responsabilità, scollamento che, in linea di principio, l’art. 22 L. n. 300 ha voluto inibire, salvo “nulla osta” delle OO.ss.

Qualora  sia il dirigente di Rsa sia l’associazione sindacale aderissero - o rispettivamente non frapponessero ostacoli -  alla richiesta di distacco, il dirigente sindacale dell’azienda cedente “distaccato”, a nostro avviso, decadrebbe automaticamente (o tale dovrebbe essere la coerente misura adottabile dal sindacato su sollecitazione dei lavoratori della pregressa unità produttiva della società cedente), in quanto sono venuti meno i presupposti del collegamento organico con il gruppo omogeneo dei designanti o degli elettori nonché con i loro specifici interessi oltre ad essere insorte - per effetto del distacco - intuibili difficoltà (anche se non vere e proprie impossibilità) di tutela delle loro aspettative ed interessi, nei cui confronti il provvedimento di “sradicamento” dall’unità produttiva lo ha reso, oggettivamente, soggetto estraneo.

 

5. Restano ora da esaminare due punti:

a) quali sono gli effetti dello pseudo distacco;

b) se il distacco sia provvedimento azionabile unilateralmente ovvero necessiti del consenso del dipendente (quando non sia stato previamente acquisito in sede di contratto individuale di assunzione, come solitamente si usa sfruttando la minor forza contrattuale del prestatore di lavoro nella fase iniziale del rapporto).

In merito al punto a), si rileva che quando viene riconosciuto carente l’interesse in capo alla società cedente si attualizza la fattispecie interpositoria della somministrazione di personale (vietata dall’art. 1 della L. n. 1369/1960), implicante l’immediata costituzione del rapporto in capo al reale fruitore della prestazione del dipendente pseudo distaccato, sia la fattispecie “mediatoria” inosservante del ricorso al servizio pubblico del collocamento a fini di assunzione, sanzionata (ex art. 27, 1° e 2° co., L. n. 264/1949) con ammenda d’importo massimo raddoppiato in capo all’azienda interposta e dimezzato in capo al datore di lavoro fruitore del distacco nel proprio esclusivo interesse.

Circa il quesito di cui al punto b), preferiamo prima evidenziare al lettore una rassegna delle  opinioni di coloro che si sono occupati funditus della problematica del “distacco” -  da cui emerge la prevalenza inequivoca della consensualità del medesimo - per poi, infine, prospettare la nostra opinione conforme a tale orientamento che abbiamo contribuito a strutturare con passate prese di posizione.

 

5.1. Asserisce L. Pelaggi - responsabile del Servizio legale e legislativo di Assicredito - nell'articolo "Società collegate e problemi riguardanti la disciplina dei rapporti di lavoro" (11) , che: " Per quanto concerne la necessità di un'adesione del dipendente al 'comando' e/o 'distacco', si è precisato che deve ammettersi, in linea generale, che il datore di lavoro possa destinare il lavoratore a prestare la propria attività presso altro soggetto anche senza bisogno di espressa pattuizione, salvo che le modalità di esecuzione della prestazione, o un interesse giuridicamente apprezzabile del lavoratore collegato al profilo personale e fiduciario giustifichi, in casi particolari, il rifiuto della prestazione a favore di terzi (cfr. ad es., Cass. 4.9.1970, n. 1189, in Not. giurisp. lav. 1971,34,1; per la giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano 9.10.1972, ibidem 1973, 172; Pret. Milano 16.6.1980, ibidem 1981, 93). Conviene,  tuttavia, precisare che, sia pure incidentalmente, le Sezioni unite della Cassazione, hanno affermato che il 'comando e/o 'distacco' postula '...il consenso dei soggetti interessati '  (cfr. in motivazione, Cass. sez. un. 15.2.1979, n. 982 in Foro it.1979, I, 616 con nota di Barone; Cass. 6 .6.1990, n. 5406, inedita a quanto consta; Cass. 20.7.1990, n. 7431, inedita ; Cass. 12.11.1984, n. 5708, in Not. giurisp. lav. 1985, 109,1; Cass. 23.5. 1984, n. 3159, ibidem 1984, 428, n. 49; Cass. 16.4.1984, n. 2471, ibidem 1984, 560; Cass. 16.7.1983, n. 4918, inedita; Cass. 4.4.1981, n. 1921, ibidem 1981,347; Cass. 21.11.1978, n. 5427, inedita)".

Afferma M. Genghini, nell'articolo " Il distacco o comando del lavoratore"(12), che: "Si è posto il problema se il distacco sia consentito senza l'accordo del lavoratore; secondo una prima decisione (Cass. 4.4.1981, n. 1921, in Dir.lav. 1982, II,41, con nota di Fontana, Fusione di società, trasferimento d'azienda e rapporti di lavoro), il rifiuto del lavoratore è legittimo se nella prestazione di lavoro vi è una qualificazione intuitu personae; sono in questo senso, ma solo incidentalmente, anche le Sezioni unite ( sent. 15.2.1979, n. 982, in Foro it. 1979, I, 616, con nota di Barone e in Giust. civ. 1979, I, 1477, con nota di Ventrella)... La dottrina nega che il 'distacco' possa inquadrarsi nella fattispecie del trasferimento ex art. 2103 c.c., soprattutto perchè nel comando non si tratta di una diversa unità produttiva dello stesso datore di lavoro, ma di una diversa azienda od ente, cioè di un soggetto giuridico distinto rispetto al distaccante;...sia la giurisprudenza (Cass. 6.6.1990, n. 5406; Cass. 22.1.1987, n. 614; Cass.12.11.1984, n. 5708, in Dir. lav. 1985, II, 173; Cass. 23.5.1984, n. 3159, in Orient. giur. lav. 1985,240; Cass.5.1.1984, n.45; Cass. 16.7.1983, n. 4918; Cass.4.4.1981, n. 1921, in Dir. lav. 1982,II,41; Cass. sez. un. n. 982 del 1979, cit.; Cass. 4.9.1970, n. 1189, in Not. giurisp. lav. 1971, 34, n.1; Cass. 21.11. 1978, n. 5427, in Foro it. Mass. 1978,1967) che parte della dottrina...sono orientate nel senso che sia indispensabile il consenso del lavoratore e non sia configurabile un potere unilaterale di distacco presso altra azienda da parte del datore di lavoro. Si tratta evidentemente di una diretta conseguenza della natura del rapporto e dell'oggetto della prestazione, che tanto più appare qualificata, tanto meno sembra suscettibile di una così profonda modificazione (quale la sostituzione, ancorché temporanea, del soggetto destinatario della prestazione, e l'attribuzione a questi dei connessi poteri direttivi e disciplinari), in assenza di un previo consenso del prestatore di opera, senza che ciò evidentemente finisca per incidere sulla stessa professionalità del prestatore d'opera.

D'altra parte, è appena il caso di avvertire come per mansioni particolarmente qualificate (ad es. dirigenziali) non è neppure ipotizzabile un distacco che avvenga contro la volontà dell'interessato, essendo evidente l'interesse datoriale ad utilizzare le energie secondo la massima produttività che certo non si avrebbe in caso di distacco non gradito. Il problema si pone esclusivamente per prestazioni di mera esecuzione, nelle quali, in assenza di motivazioni illecite ( sindacali, razziali, politiche, ecc.) o di apprezzabili modificazioni di modalità di esecuzione, ma beninteso anche di regime regolamentare, deve davvero ritenersi irrilevante per il prestatore di lavoro la modificazione del destinatario della sua attività".

Sostiene P. Ghinoy, nella nota titolata "Provvedimento di distacco e modificazioni della prestazione lavorativa"(13), che :" Se la tesi di coloro che applicano al comando il limite delle 'comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive' si propone di predisporre anche nel caso del distacco una forma di tutela di fronte ai poteri unilaterali del datore di lavoro, è proprio l'ultima parte della teoria inadatta al caso, in quanto ritengo che di potere unilaterale (per il distacco, n.d.r.) non possa parlarsi. Non potendo, per le ragioni sopraesposte, configurarsi il comando come mero trasferimento, ne risulta che il comando 'in sé' non è regolato dall'art. 13, e non può pertanto ritenersi compreso nello ius variandi unilaterale eccezionalmente dalla norma attribuito al datore di lavoro, in deroga alla disciplina generale delle obbligazioni: a mio avviso il comando non può pertanto essere che consensuale. ... Il consenso è necessario per impedire che il lavoratore sia assoggettato ad una modificazione non prevista all'atto della stipulazione del contratto: esso può quindi, comunque, essere dato preventivamente, per pattuizione individuale o collettiva".

Afferma G. Ferraù (14), " ...il distacco è disposto normalmente presso un altro luogo di lavoro, di pertinenza di un diverso datore di lavoro, ipotesi questa che esula dalla previsione dell'art. 2103 c.c. sul trasferimento che postula, invece, un mutamento del luogo della prestazione lavorativa nello stesso ambito aziendale. Ne consegue che se per la legittimità del trasferimento devono sussistere le obiettive ragioni tecniche, organizzative e produttive dalla stessa norma richieste, per il comando o distacco del lavoratore presso una impresa diversa da quella di appartenenza, occorre che sussista, come requisito di legittimità, il consenso del lavoratore (conf. Angiello, Il trasferimento dei lavoratori, Padova 1986, 73). Se è vero, dunque, che il consenso del lavoratore assurge a "presupposto di legittimità" del comando o distacco in senso proprio, quale elemento costitutivo della fattispecie (conf. Magrini, La sostituzione soggettiva nel rapporto di lavoro, Milano 1980, 66), ne risulta che nel caso esaminato e deciso dall'ordinanza del Pretore di Milano, diventava rilevante considerare non tanto la sussistenza o meno delle ragioni organizzative e produttive dell'impresa, quanto il fatto che nella specie il dipendente aveva manifestato il proprio dissenso al distacco, contrario ai propri interessi personali, familiari e di lavoro, di guisa che perciò stesso il provvedimento di distacco - come ritenuto dal Pretore - non poteva considerarsi legittimo, con conseguente illegittimità anche del successivo provvedimento di licenziamento".

 

6. Sciogliendo la riserva, in precedenza formulata, prospettiamo ora il nostro pensiero (15),  secondo cui: "... va detto che da parte delle sez. un. della Cassazione si asserì nel 1979 (Cass. n. 982 del 15.2.1979) che il comando e/o distacco  postulava " il consenso degli interessati", sfumando poi nel tempo il requisito...Si può, ad ogni buon conto, asserire che dal consenso non si può, né in fatto né in diritto, prescindere poiché - come ha recentemente affermato la Cassazione (Cass. n. 7161 del 3.12.1986, in Mass. giur. lav. 1987, 344) - la legittimità del distacco riposa non solo sull'interesse aziendale acchè la prestazione di un proprio dipendente sia resa presso terzi, ma anche (e congiuntamente) sulla sussistenza di un 'rilevante interesse' del prestatore di lavoro al riguardo, interesse ' tale da rendergli disponibile' - dietro valutazione dei vantaggi - ' il proprio diritto' ad operare, ex art. 2094 c.c., come "collaboratore dell'impresa" titolare del suo rapporto di lavoro, atteso che " la disposizione dell'art. 2094, quando dispone l'obbligo di collaborazione nell'impresa, intende non qualsiasi impresa ma soltanto e proprio quella dell'imprenditore che esercita il potere direttivo e corrisponde la retribuzione" (ancora Cass. n. 7161/1986, cit.).

D'altra parte va posto in evidenza come anche l'orientamento che non ritiene pregiudizialmente necessario (ma solo alternativo) il consenso del prestatore, sottolinei come allo stesso non si sfugga quando "secondo le modalità di esecuzione della prestazione, o un interesse giuridicamente apprezzabile  del lavoratore collegato al profilo personale o fiduciario, giustifichi - in casi particolari - il rifiuto della prestazione a favore di terzi" (v. Cass. 4.9.1980, n. 1189).

Conclusivamente si è dell'opinione  che - pur senza arrivare alla tesi (non del tutto peregrina di Pret. Milano 2.5.1972, in Giur. it. 1973, 1,2,276), secondo cui il distacco, realizzando comunque una temporanea cessione del contratto di lavoro, necessita, sempre, ex art. 1406 c.c., del consenso del lavoratore - non sia, invero, condivisibile quella teorica che fonda il potere "unilaterale" di distacco sull'esercizio "legittimo" dei poteri direttivo ed organizzativo dell'imprenditore. Questi poteri - nei loro riflessi sulla forza lavoro - non possono eccedere i confini della propria azienda; d'altra parte la libertà di iniziativa economica che porti ad oltrepassarli (anche nell'ambito del c.d. Gruppo che, si ripete, non è ancora accolto dal nostro diritto positivo) si legittima esclusivamente (ex art. 41 Cost.) nella misura in cui non lede la "dignità umana" ed il "diritto al lavoro" in un'attività reperita " secondo ...la propria scelta" (art. 4 Cost.), in una determinata azienda. Lesione che si attualizzerebbe, all'opposto ed indiscutibilmente, se si dovesse concedere alla parte datoriale di disporre, ad libitum e senza onere di concertazione con il lavoratore, dei di lui interessi personali, familiari, professionali e delle di lui scelte, topograficamente ed aziendalmente concretizzate." Ed ancora va detto che, nonostante una delle più recenti sentenze di Cassazione (n. 5406 del 6.6.1990) abbia  ribadito la necessità del consenso del lavoratore al distacco, c'e ancora chi, con scarso senso giuridico, con propensioni conservatrici e da posizioni indiscutibilmente minoritarie (16) si sforza di tentare di accreditare il "comando" o "distacco" come  potere dispositivo unilaterale dell'imprenditore di ‘precettare’ un proprio dipendente ad operare a favore ed in seno ad entità giuridiche terze ed estranee alle proprie scelte individuali o addirittura, a pattuizioni contrattuali circa l'operatività in una ben specifica azienda, concludentemente realizzate con  il contratto di assunzione nell'impresa".

 

(pubblicato in Lav. prev. Oggi, n. 1/1997, p. 13)

Mario Meucci

 

P.S. -  Va detto che dopo il nostro scritto la Cassazione ha iniziato a propendere per l’indifferenza verso il consenso del lavoratore al distacco –  pertanto legittimamente dispiegabile dal datore di lavoro nei confronti del suo diretto dipendente – sottovalutando il bene (ed il senso di appartenenza) societario della scelta del prestatore di lavoro di svolgere la propria attività a favore e nell’ambito di una determinata azienda. Da ultimo, a favore dell’irrilevanza del consenso del lavoratore, ridotto a mera “forza lavoro”, si menziona Cass. 21 maggio 1998, n. 5102 (est. Roselli) pubblicata in Guida al lavoro, 28, 1998, 20, secondo cui: “Nel distacco disposto  dal datore di lavoro presso altro soggetto destinatario della prestazione lavorativa…rimane del tutto estranea la volontà del lavoratore che esegue la prestazione in osservanza al dovere di obbedienza disposto dall’art. 2104 c.c.”, decisione evidentemente ispirata ad un concetto “espanso” del dovere di obbedienza. Non è da sottovalutare nell’avanzata delle affermazioni liberiste del “nuovo corso” giurisprudenziale, l’influsso della stessa legge n. 196/1997 (introduttiva del lavoro interinale) che ha istituzionalizzato, attraverso la fornitura di manodopera da parte delle Agenzie alle aziende, oramai la figura del “distacco” (o della somministrazione di personale) quale soluzione nei fatti  e regola del mercato per il reperimento di un’occupazione (quantunque precaria e istituzionalmente mutevole dal lato del beneficiario della prestazione). Su questa  sciagurata scia, nello specifico settore del credito – quello più caratterizzato da fusioni e concentrazioni e quindi da dislocazioni discrezionali di personale tra le società appartenenti allo stesso Gruppo – il ccnl 11 luglio 1999 per i quadri direttivi ed il personale delle aree professionali (rectius, la formalizzazione dell’articolato in data 23 marzo 2001) registra un significativo “cedimento” dei Sindacati sul punto, i quali all’art. 15   sottraggono le aziende da un contenzioso consentendo loro pattiziamente, ”laddove lo richiedano specifiche situazioni” di “disporre il distacco di propri dipendenti il cui rapporto di lavoro continuerà ad essere disciplinato dalla normativa nazionale ed aziendale (compresa quella previdenziale) tempo per tempo vigente presso l’azienda distaccante”. Viene così superato, nello specifico settore, il problema del consenso del lavoratore, in cambio di una mera informativa sulle motivazioni del distacco (nel caso peraltro in cui riguardi non tanto singole persone ma “gruppi di lavoratori”) nei confronti degli organismi sindacali aziendali (Organi di coordinamento delle Rsa e, in mancanza, Rsa). Non è questo peraltro – in seno al precitato ccnl 11 luglio 1999 -  il solo punto di “cedimento” delle OO.ss. nei confronti dell’ABI; va esemplificativamente addizionata (oltre alla notoria  scomparsa e ricondizionamento al ribasso della categoria dei “funzionari”): a) l’introduzione all’art. 49 del comporto per sommatoria  esteso a tutte le malattie verificatesi nei 48 mesi di vigenza contrattuale (al posto della precedente disciplina contrattuale più favorevole anche se caratterizzata da contenzioso in ordine alla natura di “comporto secco” o “per “sommatoria” della disciplina pattizia previgente) nonché, b) l’abbandono della “procedimentalizzazione delle promozioni”, ancorate in precedenza a fattori tassativi, ora  completamente  annacquata e sostituita con fattori esemplificativi, non vincolanti ed in sostanza insindacabili (anche giudizialmente),  con l’effetto di riconferire una piena discrezionalità alle aziende del settore bancario nella delicata tematica degli avanzamenti di carriera (ed il notorio spazio al mai dismesso clientelismo e nepotismo).

 

NOTE

 

(1)Per un’indagine sulla genesi  e sulle fonti normative dell’istituto, si rinvia a Bruchi, La figura del comando nel rapporto di lavoro, in  “In iure praesentia”, 1996, n. 1.

(2) Così Corte dei conti, 5 novembre 1968, n. 894.

(3) Cosi’ Cass. 12 agosto 1992 n. 9517, in Not. giurisp. lav. 1993, 42; Cass. 15 giugno 1992 n. 7328, in Dir. lav. 1993, II, 443; Cass. 19 marzo 1991 n. 2893, in Not. giurisp. lav. 1991, 640; Cass. 20 giugno 1990 n. 6181, in Foro it. 1990, I, 3157; Cass. sez. un. 13 aprile 1989, in Dir. lav. 1989,II,467 (e in Not. giurisp. lav. 1989, 528); Cass. 3 dicembre 1986 n. 7161 in Mass. giur. lav. 1987, 344; Cass. 19 aprile 1983 n. 1655, in Riv. it. dir. lav. 1984, II, 667.

(4) Cosi’ Cass. sez. un. n. 1751/ 1989, cit. in nt. 2.

(5)  Vedasi,  Cass. 8 febbraio 1985 n. 1013, in Mass. giur. lav. 1985, 153. Si veda inoltre Cass. 13 giugno 1995 n. 6657, in Not. giurisp. lav. 1995, 675; Cass. 26 maggio 1993 n. 5907, in Dir. prat.lav. 1993, 2216, ecc.

(6) Così Cass. 6 gennaio 1984, n. 63; Cass. 13 maggio 1981 n. 3150, ecc.

(7) Vedi al riguardo Cass. 20 febbraio 1985 n. 1499.

(8) Vedasi Cass. 12 novembre 1984  n. 5708 e Cass. 5 novembre 1983 n. 6544.

(9) Così Cass. sez. un. n. 1751/1989, ecc.

(10) Insiste sul fatto che l’art. 22 intende tutelare più l’interesse del “gruppo  professionale”, strutturante l’unità produttiva in senso soggettivo,  al non allontanamento  o sradicamento del dirigente che di tale gruppo è espressione e nei cui confronti, per una comunanza e condivisione di interessi, svolge la sua funzione di leadership - piuttosto che inibire il mero mutamento topografico della sede di lavoro, in quanto lo sradicamento dal “gruppo” può realizzarsi indipendentemente dal mutamento topografico -,  Garofalo, in Commentario allo statuto dei lavoratori (sub art. 22), diretto da Giugni, Milano 1979, 382 e 386.

(11)  Tovasi in Mass. giur. lav. 1992,264 ed ivi a pag. 271.

(12) In Mass giur. lav. 1992, 420 ed ivi a pag. 421.

(13) In Giust. civ. 1985,I, 144 ed ivi a pag. 145.

(14) Nel commento a Pret. Milano 30.5.1994, in  Lav. giur., 1995, n. 1/1995, 42.

(15) Espresso nel volume "Il rapporto di lavoro nell'impresa", ESI, Napoli 1991, pag. 217.

(16) Cfr. l’opuscolo titolato “Il comando o il distacco del personale bancario” in Le guide di Banca e Lavoro, n. 2, p.34 - Assicredito 1996.

 

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