Una condivisibilissima  ed etica ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale in tema di divieto di cumulo interessi-rivalutazione per le pensioni del pubblico impiego: Trib. Pisa 18 ottobre 2001

Trib. Pisa (giudice unico di 1° grado) – 17 ottobre 2001 (ud. 12 ottobre 2001) – Giud. Nisticò – Battini (avv. Aglioti) c. INPS (avv. Pinto, Perani)

 

Crediti previdenziali  – Cumulo di interessi e rivalutazione monetaria – Divieto per i (soli) trattamenti pensionistici del pubblico impiego (ex lege n. 412/91 e n. 724/94) – Questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata dell’art. 16, 6 co., L. n. 412/91 e dell’art. 24, 36 co., L. n. 724/94.

 

Comune va considerata la connotazione dei crediti di lavoro e previdenziali –  i primi derivanti in via diretta dall’art. 36 Cost., i secondi ad esso ricollegabili, in via mediata ex art. 38 Cost. – costituita dalla loro destinazione al soddisfacimento dei bisogni primari della vita, di talché le stesse esigenze che ispirano la regola dell’art. 429 c.p.c. per i crediti di lavoro (cioè adeguare, in dipendenza della ratio dell’art.36 Cost.,  la retribuzione al valore reale della moneta e su tale adeguamento corrispondere gli interessi), valgono per il credito previdenziale (o assistenziale). Meglio si può dire che tali esigenze sono più immediate per il trattamento previdenziale che, di regola, è sensibilmente inferiore al trattamento retributivo ed è conseguito da chi è ormai privo di capacità produttiva di reddito e quindi di possibilità di procurarselo aliunde.

Il legislatore della l. n. 533/1973, prima, e la Corte costituzionale, poi (n. 156/91 e n. 196/93), hanno stabilito che non è sufficiente ex art. 36 Cost. quella retribuzione o quel trattamento previdenziale od assistenziale che sia corrisposto in ritardo, senza la rivalutazione delle somme e gli interessi calcolati sulla somma rivalutata.

Da ultimo con la l. n. 724/1994 – e anteriormente con la l. n. 412/1991, cui la prima fa riferimento – il legislatore introduce il divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria (considerato incostituzionale per il solo settore privato: cfr. Corte cost. n. 459/2000) e la Corte costituzionale (n. 361/96 e n. 459/2000), mentre lo legittima evidenzia come le ragioni del divieto in questione risiedano tutte nelle esigenze (contingenti) di tutela della finanza pubblica e che, per la Corte costituzionale, non dovrebbe essere tanto la natura giuridica del credito a contare quanto la qualità soggettiva del debitore.

Ci si deve chiedere – ad avviso di questo giudice – se l’operazione di “franchigia” in favore degli enti pubblici sia costituzionalmente corretta o se il legislatore prima di sacrificare redditi di mera sopravvivenza (pensioni) non sia onerato a dimostrare che si tratti di una vera e propria extrema ratio, poiché la finanza pubblica non è altrimenti tutelabile.

E’ sotto gli occhi di tutti come la linea di tendenza attuale del legislatore (alcune volte con l’avallo del Giudice delle leggi) è quella di  richiedere sacrifici  sempre con maggiore frequenza ed incisività  proprio a quei soggetti per i quali la Costituzione appronta strumenti  finalizzati a garantire la sopravvivenza, in linea con le istanze liberistiche che sempre di più mirano ad emarginare dalla vita pubblica e civile chi non sia in grado di produrre efficienza, ancorché la abbia prodotta, prima di invecchiare, per moltissimi anni. Istanze che trascurano ogni profilo di umanità, confinando l’individuo a mero meccanismo di un incalzante (e mortificante) processo produttivo ed immolandolo sull’altare di queste pressanti esigenze di risanamento della finanza pubblica  che, sembra, non possano trovare soluzioni alternative a quella di  elidere o contenere redditi di sopravvivenza.

Le norme fondamentali della nostra Carta costituzionale – dotate di valenza di “impegno  prioritario” – che affermano il principio di solidarietà sociale, di eguaglianza sostanziale, di tutela della retribuzione sufficiente, di tutela dei soggetti totalmente o parzialmente privi di capacità lavorativa (come altri, quali la tutela della salute, la tutela della manifestazione della personalità in sede associativa, le garanzie dettate a protezione dei diritti personali assoluti) non possono – come oggi costantemente si fa – parametrarsi e subordinarsi ad esigenze di cassa, sia pure si cassa pubblica, quantomeno qualora l’ordinamento possa procurarsi  aliunde (tramite ad es. la lotta all’evasione fiscale) quanto necessiti per il risanamento dei bilanci .

Ne consegue che la regola che esprime il divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti previdenziali od assistenziali (e, qui solo accademicamente, nei crediti del pubblico dipendente) è in contrasto con gli artt. 2,3,24,36 e 38 della Costituzione, sia in ragione della violazione del sistema protezionistico relativo alla retribuzione (e, conseguentemente, alla pensione) sufficiente, sia  in quanto sorretta da esigenze di contenimento della spesa pubblica in un contesto ordinamentale di radicata tolleranza nei confronti di chi sottrae deliberatamente alla collettività ingentissime risorse, da sole sufficienti a consentire la piena realizzazione dei principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale previsti dalla parte prima della nostra Costituzione.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

 

Con ricorso  6.3.1995 Renzo Battini  esponeva di aver ricevuto dall’Inps  nel 1992 somme relative ad arretrati di pensione (VO n. 10037964) per il solo capitale derivante dal coacervo dei ratei, senza interessi e rivalutazione monetaria. Invocava il principio di diritto di cui alla sentenza Corte Cost. n. 156/1991 e chiedeva la condanna dell’Inps al pagamento degli accessori.

L’istituto previdenziale resisteva in giudizio spiegando che sulla interpretazione dell’art. 16 della legge n. 412 del 1991 si era formato ( all’epoca, ndr.) un contrasto di opinioni giurisprudenziali e chiedendo  che la causa fosse  sospesa in attesa di una  (prossima) pronuncia delle Sezioni Unite, spiegando anche  di aver corrisposto gli interessi legali, ma non la rivalutazione che, secondo una “relazione amministrativa” allegata al fascicolo di parte non era “prevista da nessuna norma di legge”. Eccepiva  la prescrizione quinquennale e si riservava di verificare se ci fosse stata anche decadenza dall’azione(sic!, ndr.).

La decisione della controversia veniva più volte rinviata  anche sulla esplicita richiesta dell’Inps che  dichiarava essere in corso la liquidazione del dovuto, segnalando  che vi ostava la mancanza di un “programma informatico”.

All’udienza del 11.10.2001, verificato che l’Inps non aveva provveduto ad effettuare alcun pagamento, il giudice  si riservava d’ufficio di verificare la correttezza costituzionale della normativa in tema di divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione nel credito previdenziale.

 

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Premesso che l’eventuale prescrizione risulta validamente interrotta dal deposito del ricorso introduttivo notificato all’Inps e che la decadenza non può trovare applicazione in quanto oggetto della controversia non è una prestazione previdenziale, ma la liquidazione degli accessori del credito dovuto per legge, si deve osservare che l’Inps ha provveduto al pagamento degli arretrati di pensione in favore del ricorrente il 26.10.1992, corrispondendo i ratei arretrati a decorrere dall’1.7.1991 e liquidando gli interessi  dal 31.10.1991: secondo la pronuncia n. 156/1991 della Corte Costituzionale  sui ratei dal 31.10.1991  al 31.12.1991 l’Inps avrebbe dovuto liquidare anche la rivalutazione monetaria ( o meglio gli interessi sulle somme rivalutate): sul punto l’affermazione del Giudice delle leggi è in equivoca ( ancorché l’Inps – burocraticamente -  sostenga che non vi erano dettati normativi che imponevano la liquidazione).

Per quanto, invece, concerne i ratei maturati successivamente al 31.12.1991 vale la regola di cui all’art. 16 della legge n. 412 del 1991 e – ove la si ritenesse applicabile anche alla gestione INPS e non solo ai trattamenti pensionistici del pubblico dipendente ( v. infra) -  quella ulteriore di cui all’art. 22, comma 36, della legge 23.12.1994, n. 724.

La prima di queste norma - e la seconda (ove ritenuta applicabile ai crediti previdenziali del lavoratore privato) -  nel disporre il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione monetaria nei crediti di previdenza ed assistenza  presentano, a parere di questo giudice ,  numerose profili di illegittimità costituzionale per le ragioni  di cui infra.

 

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1) Con sentenza  12 aprile 1991, n. 156 (Toscana Lavoro giur., 1991, 206)  la Corte Costituzionale  aveva  ritenuto “costituzionalmente illegittimo l’art. 442 c.p.c. nella parte in cui non prevede che il Giudice, quando pronuncia condanna al pagamento di somme di danaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal titolare per la diminuzione  del valore del suo credito, applicando l’indice dei prezzi calcolato dall’ISTAT per la scala mobile nel settore dell’industria e condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno in cui  si sono verificate  le condizioni legali di responsabilità dell’Istituto o ente debitore per il ritardo dell’adempimento”.

Con sentenza 19/27 aprile 1993, n. 196 (Toscana Lavoro giur. ,1993, 334) il principio  era  stato esteso anche ai crediti  assistenziali.

Si legge nella motivazione della prima sentenza  che il Giudice delle leggi ha ritenuto che la tutela ex art. 38 Cost.  abbia funzione surrogatoria e sostitutiva della retribuzione e che pertanto anche  per i crediti previdenziali debba trovare applicazione l’art. 36 Cost. primo comma “quale parametro delle esigenze di vita del lavoratore”.

La comune connotazione dei crediti di lavoro e previdenziali è costituita, dunque, dalla loro destinazione al soddisfacimento dei bisogni primari della vita, di tal che le stesse esigenze che ispirano la regola di cui all’art. 429 c.p.c.  per i crediti di lavoro  ( cioè adeguare la retribuzione al valore reale della moneta e su tale adeguamento  corrispondere gli interessi) valgono per il credito previdenziale (od assistenziale). Meglio si può  dire che tali esigenze sono più immediate  per il trattamento previdenziale che, di regola, è sensibilmente inferiore al trattamento retributivo ed è conseguito da chi è ormai privo di capacità produttiva di reddito e quindi di possibilità di procurarselo aliunde.

Sulla base di tali principi (e di altre considerazioni) questo giudice già interpretava  in tal senso l’art. 442 c.p.c. (v. Pret. Pisa  10 maggio 1988, ibid.,1988, 732), in tempi in cui, per ovviare alla palese ingiustizia  in danno dei pensionati, la giurisprudenza di merito e legittimità, per aggiungere agli interessi il danno ulteriore, utilizzava la norma codicistica (art. 1224 c.c.) onerando il pensionato o l’assistito della prova (non presuntiva) dell’eventuale concreto pregiudizio.

Chi scrive è dell’opinione che la regola di cui all’art. 429 c.p.c. non rappresenti una sanzione per il ritardo nel pagamento, né tantomeno, come si è sostenuto, una “sanzione processuale”. Non vi è dubbio che l’obbligo di rivalutare il credito scaduto abbia l’effetto di scoraggiare la parte dotata di maggiore resistenza  dal porre in essere  manovre processuali dilatorie od approfittare dei tempi del processo; ma si tratta di un effetto. Al contrario la ragione  del disposto dell’art. 429 c.p.c. ( e quindi dell’art. 442 c.p.c.) è quella  di adeguare il credito al valore attuale tenendo conto di un dato oggettivo, e questo in base alla constatazione che, trattandosi di crediti di sopravvivenza e quindi per intero destinati ai bisogni della vita, il ritardo nel pagamento comporti un pregiudizio ulteriore rispetto a quello derivante dal mancato tempestivo impiego del danaro. Si tratta, infatti, di somme sempre modeste, che diventano modestissime od insufficienti se corrisposte in ritardo. Né, al proposito, può trascurarsi che la regola è stata introdotta in uno schema processuale ( l.n. 533/1973) che prevedeva – ottimisticamente - un processo che si sarebbe dovuto esaurire in 60 giorni od al massimo in settanta: sicchè la rilevanza che il legislatore ha conferito alla necessità di tutela di tali crediti appare veramente  massima, se si pensa alla modesta svalutazione derivante dal trascorrere dei tempi  in astratto previsti dal legislatore processuale.

La regola di cui all’art. 429 c.p.c., allora, realizza una qualità intrinseca del credito  di lavoro e previdenziale, ciò rimanendo ampiamente confermato dal corollario processuale che obbliga il giudice a liquidare la rivalutazione   d’ufficio nel caso di sentenza di condanna e da quella giurisprudenza che, vigendo la giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, correttamente  affidava al Giudice amministrativo la controversia sulla rivalutazione monetaria, ritenendola componente intrinseca ed essenziale del credito principale, e quindi escludendo la sua natura ontologicamente risarcitoria.

Più semplicemente si può, allora, dire che, secondo l’impianto del 1973 , il credito di lavoro o di previdenza o di assistenza è un credito di valuta e non di valore. E si capisce anche il perché, se si pone mente all’affermazione (v. Corte Cost. n. 156/91) del suo diretto derivare dal principio di cui all’art. 36 della Costituzione.

Se, dunque, si tratta di retribuzione (o di trattamento sostitutivo) che deve obbedire ai criteri immediatamente precettivi di cui all’art. 36 Cost., è evidente che il ritardo nel pagamento di una somma destinata ai bisogni immediati della vita comporta la necessità di adeguare la capacità di acquisito della somma al valore del danaro al tempo del pagamento e ciò indipendentemente dai “frutti” che tale somma avrebbe potuto generare in favore del lavoratore (o del pensionato). Insomma, siccome  un milione al mese serve necessariamente per mangiare, vestirsi e pagare la pigione, il legislatore  del 1973 ha ben pensato di rimediare al ritardo nella corresponsione prevedendo che quel milione  diventasse la diversa e maggiore somma necessaria al lavoratore per  realizzare la medesima capacità di spesa.

Dunque , una forma di tutela differenziata in favore della parte sostanzialmente e processualmente debole del rapporto.

Tutti sanno, poi, che l’art. 36 della Costituzione è norma immediatamente precettiva, e dunque la sua applicazione, ad opera del giudice, prescinde dalla determinazione delle parti od anche dalla determinazione legislativa, poiché ove il legislatore introduca una disposizione normativa che quantifichi la  retribuzione ex art. 36 in maniera insufficiente, sicuramente tale norma sarebbe incostituzionale.

Ed il legislatore del 1973 prima e  la Corte Costituzionale poi (n. 156/91 e n. 196/93) hanno stabilito che non è sufficiente ex art. 36  Cost. quella retribuzione o quel trattamento previdenziale od assistenziale che sia corrisposto in ritardo senza la rivalutazione delle somme e gli interessi  calcolati sulla somma rivalutata.

Egualmente, in applicazione dello stesso principio,  sarebbe incostituzionale ex art. 36 Cost. quella disposizione che, per avventura, prevedesse una diminuzione retributiva secca, salvo constatare che alla diminuzione di questo tipo corrisponde il pagamento in ritardo senza l’adeguamento alla svalutazione, poiché nell’uno e nell’altro caso si verificherebbe la medesima diminuzione della capacità di acquisito ( e quindi di sopravvivenza) del creditore lavoratore o pensionato.

A pochi mesi dalla pronuncia nel 156/1991 della Corte Costituzionale  è intervenuta – secondo un costume ai limiti della correttezza istituzionale -  la legge 30 dicembre 1991, n. 412 (finanziaria per il 1992) che all’art. 16, comma 6, ha previsto che”  gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi legali sulle prestazioni dovute a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto  per l’adozione del provvedimento sulla domanda. L’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente  spettanti a ristoro del maggior danno subito  dal titolare della prestazione per la diminuzione  del valore del suo credito”.

In pratica, come osservato da Corte Cost. 7/19 ottobre 1992, n. 394 ( Informazione prev. ,1992, 1116) – e relativamente ai ratei di trattamenti maturati dopo l’entrata in vigore della legge n. 412 del 1991 – il legislatore  aveva determinato un nuovo contenuto dei crediti previdenziali “riconducendolo sotto il dominio del principio nominalistico” e ristabilendo “ l’interpretazione  rigorosamente  letterale che ascrive all’art. 429, terzo comma, il significato di norma speciale all’interno del sistema di cui all’art. 1224 c.c.: gli interessi si calcolano sulla somma nominale e la rivalutazione spetta a titolo di maggior danno, eccezionalmente ritenuto in re ipsa per il solo fatto della svalutazione, quando risulti superiore al dieci per cento”.

Ma se il credito previdenziale mutuava la natura del credito di lavoro ed entrambi erano espressione dell’art. 36 Cost., tale disposizione di legge  si configurava come palesemente incostituzionale, in ragione del principio di diritto enunciato, pochi mesi prima, dalla Corte Costituzionale, la quale, aveva detto che era insufficiente ex art. 36 quel credito previdenziale corrisposto in ritardo con i soli interessi, senza la previa sua rivalutazione.

Appare, dunque, poco convincente l’argomento speso dal Giudice delle leggi nella sentenza n. 394 del 1992, quando si afferma che “  la fattispecie  degli effetti del pagamento ritardato resta ferma  nei termini risultanti dal dispositivo della sentenza ( n. 156/91 ndr) differenziandosi, quindi, dal regime comune sia per il carattere automatico della rivalutazione(…omissis) sia per la decorrenza(…omissis)”  e che, invece, “la portata della norma non si esaurisce in una semplice modificazione quantitativa degli effetti del ritardo. L’esclusione del cumulo della rivalutazione con gli interessi e la determinazione del diritto del creditore nella maggiore somma  tra il differenziale  di svalutazione e gli interessi calcolati sulla somma nominale,  producono un mutamento di natura del credito previdenziale rispetto all’interpretazione dell’art. 429, terzo comma, c.p.c. prevalsa nella giurisprudenza”.

E’ agli occhi di tutti la palese contraddizione: nell’aprile del 1991 (sentenza n. 156) la Corte Costituzionale afferma che la natura giuridica del credito previdenziale ha una sua definizione costituzionale (art. 36 mediato dall’art. 38, perché la pensione ha funzione sostitutiva della retribuzione) e poi ammette, nell’ottobre dell’anno successivo (sentenza n. 394) , che il legislatore possa ridefinire la natura del credito in assoluto contrasto con la definizione costituzionale. Ma se la rivalutazione dei crediti previdenziali, cumulata con gli interessi, ha protezione costituzionale non si vede come possa ritenersi corretta una disposizione di legge che muta la natura del credito in contrasto con il principio di rango costituzionale.

In realtà la vera ragione della tollerata ridefinizione della natura del credito previdenziale è esplicitata solo da Corte Cost. 24 ottobre 1996, n. 361 (Informazione previdenziale, 1996, 1227), che ha  ritenuto “ infondata in relazione agli artt. 3 e 38 Cost.  la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma sesto, della l. 30 dicembre 1991, n. 412 nella parte in cui non prevede il cumulo degli interessi legali con la rivalutazione monetaria per i ratei dovuti anche successivamente all’entrata in vigore della medesima legge, nel caso di tardivo adempimento di crediti previdenziali risalente al periodo antecedente il 31 dicembre 1991, poiché l’art. 38 Cost., dal quale deriva la tutela dei crediti previdenziali, non esclude che la legge possa ridurre anche in via definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante, se l’interesse collettivo al contenimento della spese pubblica lo richiede”.

Dunque la Corte Costituzionale  enuncia a  chiare lettere il motivo della legittimità del divieto di cumulo, individuandolo nella necessità di contenimento della spesa pubblica che consente la “riduzione” del trattamento previdenziale ( Corte Cost. nn. 220/88, 119/91, 240/94 e 822/88): qui la Corte muove dal presupposto che al trattamento pensionistico l’art. 36 Cost. possa trovare applicazione solo “mediata” dall’art. 38 e che quindi le motivazioni di cui alla sentenza n. 156 del 1991, ispirate alla mancanza di una previsione legislativa che qualificasse il credito previdenziale, possono legittimamente  soccombere di fronte  ad un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica”.

La Corte in questa pronuncia muove,poi, dalla constatazione – contraddittoria rispetto alle motivazioni rese nella sentenza n. 156 – secondo la quale il criterio di cumulo di interessi e rivalutazione realizzerebbe  un “privilegio” per il pensionato. Opinione questa non condivisibile solo che si  ponga mente alla stessa finalità della previdenza che è quella di approntare i mezzi necessari per consentire una decorosa partecipazione alla vita civile da parte di chi non è più produttivo, qui la regola del cumulo rappresentando non certo un “privilegio” quanto l’indispensabile strumento per adeguare il credito alle reali capacità di spesa ( spesso  destinata ai soli bisogni essenziali).

Le stesse motivazioni si rinvengono nell’ultima pronuncia (n. 459/2000) che ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23.12.1994 n. 724, limitatamente al debito di lavoro del datore privato.

Tale norma, come è noto,  dispone che “  l’art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412  si applica anche agli emolumenti  di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettante ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza”.

La norma cade nella vigenza della legge n. 412 del 1991 e quindi del divieto di cumulo per i crediti previdenziali, sicchè subito è poco chiaro quale sia la sua  ratio con riferimento ai crediti previdenziali, posto che per questi la regola esisteva già perché prevista proprio dall’art. 16 cit. e passata indenne al vaglio della Corte Costituzionale (v. supra). Già questo primo elemento milita a favore della tesi di chi ha sostenuto (Pret.  Parma 27 maggio 1996, Riv. Crit. Dir. Lav.,1996.1007), con motivazione che qui si condivide, che l’art. 22  abbia una limitata applicazione al settore del pubblico impiego. Questo a meno di non ritenere che il legislatore del 1994 abbia voluto pleonasticamente dichiarare applicabile alla previdenza un regime che già esisteva perché derivante da una analoga norma di legge.

Ma a favore della tesi qui sostenuta militano anche altri argomenti, non ultimo  una corretta interpretazione sistematica che non può prescindere dalla constatazione che l’art. 22 cit.  è inserito nel capo III della legge del 1994, intitolato “  disposizioni in materia di pubblico impiego” e che lo stesso articolo è intitolato “personale”. Ma vi è di più perché  il legislatore del 1994 opera un preciso riferimento al dipendente “ in attività di servizio” od in “quiescenza”, ricorrendo ad una terminologia  tipica del pubblico impiego; e demanda, infine, ad un d.m. per la determinazione delle modalità di calcolo (con un procedimento evidentemente estraneo alla regolamentazione dei rapporti di lavoro privati). Dunque correttamente tale disposizione deve leggersi come norma che riguarda  l’impiegato pubblico in regime di diritto  pubblico od in regime di diritto privato secondo le previsioni di cui al d.lgs. n. 29/93 e quindi le forme di previdenza ed assistenza di quest’ultimo (anche se non sfugge a questo giudice che la S.C. ed anche la stessa Corte Costituzionale -  sentenza n. 459/2000 - hanno manifestato la contraria opinione, ritenendo che la disposizione della legge del 1994 dovesse ritenersi applicabile anche ai crediti di lavoro privati).

2) Possiamo, allora, senz’altro affermare che le ragioni  ultime che sottendono alla svolta interpretativa della Corte Costituzionale in materia di cumulo di interessi e rivalutazione nei crediti del pensionato o del lavoratore pubblico risiedono tutte nelle esigenze (contingenti) di tutela della finanza pubblica e che, secondo il giudice delle leggi, non dovrebbe essere tanto la natura giuridica del credito a contare quanto la qualità soggettiva del debitore. Ovviamente con tutte le rilevanti perplessità che derivano dalla affermazione originaria ( sentenza n. 156/1991) della stessa Corte Costituzionale che tale distinzione non aveva proposto, limitandosi a prevedere una sorta di immunità dal cumulo in uno spatium deliberanti, fissato in 120 gg. Ed infatti la qualità soggettiva del debitore, secondo la pronuncia n. 156/91, giustificava semplicemente il congelamento degli accessori per il lasso di tempo necessario all’ente pubblico per provvedere sulla domanda del pensionato o sull’oggettiva necessità di ricalcolare il trattamento in conseguenza di perequazioni automatiche, di novità legislative o di interventi del Giudice delle leggi.

Niente di più, secondo la sentenza n. 156/91, e secondo un condivisibile criterio di ragionevolezza.

3) Ma la ricognizione e le argomentazioni  fin qui svolte dimostrano senza dubbio che sulla materia non vi è chiarezza concettuale e la stessa Corte Costituzionale non offre una tranquillante definizione ontologica dell’Istituto, poiché – al di là delle enunciazioni formali –  nella sostanza, una volta valorizza la natura del credito (Corte Cost. n. 156/1991) ed un’ altra  la qualità soggettiva del debitore (Corte Cost. n. 361/96 e n. 459/2000).

Al contrario la valenza economica generalizzata della questione – e la sua  contraddittoria definizione legislativa tempo per tempo adottata ( in una con le incertezze giurisprudenziali del calcolo materiale del cumulo) - sollecitano una operazione di definitiva  chiarezza che muova dell’approfondimento della  ratio alla quale obbedisce la regola che certi crediti si debbano rivalutare, indipendentemente dalla liquidazione degli interessi.

Il legislatore del 1973, nel riformare il rito del lavoro (e della previdenza) ha introdotto nell’ordinamento una regola nuova rispetto a quella vigente per il ritardo nel pagamento (1124 c.c.), sicuramente individuando nella rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT un elemento talmente connaturato del credito di lavoro da affidarla alla liquidazione d’ufficio da parte del giudice. La rivalutazione monetaria – nella mente del legislatore del processo del lavoro – non apparteneva alla struttura del “risarcimento”, tanto che essa è stata prevista come componente automatica della pronuncia giudiziale,  essendo del tutto irrilevante che il creditore la avesse chiesta in giudizio. Il che significa – senza tanti barocchismi – che il  credito di lavoro doveva essere trattato come un vero e proprio credito di  valore e non di valuta.

Il perché è chiaro: si tratta di un credito debole,  dal punto di vista sostanziale perché relativo a somme destinate al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia e da proteggere pure nel processo, al fine di evitare manovre dilatorie da parte di chi era ed è dotato di maggiore capacità di resistenza. Siccome con la paga il lavoratore si procura da mangiare e da vestire ,lo scopo della  liquidazione cumulata con gli interessi altro non è che il meccanismo che consente di mantenere ferma la ( modesta) capacità di  spendita ed acquisto del soggetto tutelato.

Lo strumento individuato dal legislatore è stato uno strumento processuale: la liquidazione consegue d’ufficio nella presunzione assoluta che “il maggior danno” coincida con il tasso (ufficiale) di inflazione. La rivalutazione, dunque, non va né chiesta né va provato il danno ulteriore rispetto agli interessi, perché questo si presume; e non solo, perché il legislatore  va al di là del principio della domanda autorizzando il giudice a liquidare la rivalutazione dalla maturazione del diritto al “saldo effettivo”.

Se si vuole, dunque, si tratta di una regola processuale e come tale direttamente applicabile anche ai crediti previdenziali ed assistenziali in forza del rinvio operato dall’art. 442 c.p.c. alle norme del “capo primo”(fra le quali vi è l’art. 429 c.p.c.).

Tuttavia non può confondersi lo strumento (processuale) con la regola (sostanziale) e soprattutto con la valenza costituzionale riconosciuta a quest’ultima, quando si è detto – correttamente – che l’art. 429 c.p.c. trae la sua giustificazione dall’art. 36 della Costituzione  e così  il credito previdenziale, seppure attraverso la mediazione dell’art. 38 Cost. (Corte Cost. n. 156/91). Ed anche nella recente sentenza n. 459/2000 il giudice delle leggi ha “rispolverato” la valenza costituzionale della regola processualistica  sul cumulo, seppure facendo salvi i crediti vantati contro le pubbliche amministrazioni.

Fatto è che se il principio della rivalutabilità anche del credito previdenziale non avesse avuto valenza costituzionale non avrebbe avuto alcun senso la pronuncia n. 156 del 1991 che, come è noto, si era del tutto disinteressata dalla qualità soggettiva del debitore ( o meglio la aveva tenuta in considerazione al solo fine di legittimare uno  spatium deliberandi immune in ragione della complessità del procedimento). In questa pronuncia, come già si è sottolineato, la natura giuridica dell’ente debitore e le esigenze di contenimento della spesa non avevano trovato ingresso argomentativi se non al limitato fine di consentire un breve periodo durante il quale la rivalutazione non poteva “correre” in ragione delle esigenze organizzative della Pubblica Amministrazione. Niente di più, dunque, che una moratoria cronologicamente ben delimitata e  probabilmente  giustificata  dall’art. 97 della Costituzione.

Ma non vi è dubbio che la regola  del cumulo  abbia un valore costituzionale, rilevando non solo  gli artt.  36 ed il 38, ma anche l’art. 24 (per gli aspetti processuali) e gli artt. 2 e 3 nella parte in cui enunciano il principio di solidarietà e di eguaglianza sostanziale.

4) Possiamo, allora, dedurre che quanto abbia sollecitato i ripensamenti del legislatore (art. 16 l. n. 412 del 1991, art. 24, comma 36, l.n. 724/94, ammettendo che tale disposizione di legge si riferisca anche alla previdenza del lavoratore privato) e della Corte Costituzionale (sentenze nn. 394/92 , 361/97 e 459/2000) non  sia stata una ridefinizione costituzionale dell’istituto – che rimane sempre protetto dalle disposizioni enunciate – ma il sopravvenire di “esigenze di contenimento della spesa pubblica”.

Nelle sentenze n. 361/97 e  459/2000 la Corte Costituzionale, infatti, se si va alla sostanza , ha semplicemente enunciato il principio secondo il quale esigenze di cassa consentivano di attenuare (sensibilmente) la protezione costituzionale di alcuni crediti (quello previdenziale, quello assistenziale, e quello del lavoratore pubblico), così risolvendo il conflitto fra due regole di vertice in favore di quella a protezione della finanza pubblica.

Questo – e non altro – è il significato delle più recenti pronunce della Corte in tema di rivalutazione ed interessi, tanto è che il giudice delle leggi  rispolvera la protezione costituzionale in relazione al credito fra privati e la sacrifica per i crediti “pubblici”.

E tutto ciò suggerisce alcune riflessioni ulteriori sulla rilevanza della natura del credito rispetto alla qualità soggettiva del debitore, poiché, come è noto, quando si tratta di soggetti privati la legge non distingue a seconda la qualità soggettiva del datore di lavoro, bensì definisce oggettivamente il credito come un credito  da rivalutarsi (id est: di valuta). Se così non fosse, e se quindi dovesse valere la qualità soggettiva del debitore, la legge avrebbe dovuto distinguere fra i diversi debitori di somme derivanti dal rapporto di lavoro, per esonerare, per esempio, il modesto imprenditore od il datore di lavoro non imprenditore e gravare, al contrario, solo il datore di lavoro di una certa dimensione o di una certa consistenza economica: regola, questa, che appartiene alla tradizione del nostro diritto del lavoro che a vari fini distingue fra imprenditori piccoli e grandi, per esempio ai fini del licenziamento, delle assunzioni obbligatorie, ecc.

Né l’argomento è trascurabile, poiché, come è ovvio, anche il patrimonio dell’imprenditore privato  e la sua attività economica finisce per rilevare ai fini del benessere patrimoniale collettivo, sol che si badi al fatto che la ricchezza prodotta dal privato concorre alla determinazione della ricchezza pubblica: gravare un imprenditore della rivalutazione potrebbe significare sottrarre  alla sua impresa una quota di rivestimenti e quindi sottrarre alla collettività una quota di benessere derivante dalla maggiore produttività aziendale, dalla possibilità  di incremento dell’occupazione, ecc.

In definitiva distinguere fra soggetto pubblico e soggetto privato non ha un gran senso, se non  suggestivo  ed emozionale.

Né deve sfuggire la chiara “prospettiva” nella quale si era posto il legislatore del 1973 che è quella di tutelare il lavoratore (od il pensionato) proteggendo il suo modesto reddito e dunque disinteressandosi del creditore, pubblico o privato che fosse.

5) Così stando le cose, ci si deve, allora,  chiedere se l’operazione di franchigia in favore degli enti pubblici  sia  costituzionalmente corretta o se il legislatore prima di sacrificare redditi di sopravvivenza non sia onerato a dimostrare che si tratti di una vera e propria  extrema ratio, poiché la finanza pubblica non è altrimenti tutelabile.

Alcune riflessioni sui principi generali del nostro ordinamento consentono, a parere di questo giudice , di ritenere in contrasto con la nostra costituzione quella norma che escluda  la regola del cumulo sia per i crediti previdenziali (ed assistenziali) sia per quelli del lavoratore alle dipendenze di una pubblica amministrazione (sui quali v., però, da ultimo Corte Cost. n. 136/2001), sul presupposto che confinare la regola del cumulo ad una “faccenda fra privati” significhi ignorare la funzione propria della previdenza, che, come è noto, obbedisce alla  ratio di assicurare la tutela del bisogno in favore di chi, in ragione di eventi protetti (invalidità vecchiaia,ecc.), non sia più in grado di assicurarsi un reddito che consenta la sua decorosa partecipazione alla vita sociale o di chi redditi non ha mai potuto conseguire in conseguenza di una situazione di handicap.

Il nostro costituente si è preoccupato di questi soggetti, assicurando loro quanto sufficiente alla dignitosa sopravvivenza. Le norme che prevedono strumenti di intervento a favore di soggetti deboli e non più produttivi sono tutte norme di altissimo contenuto etico e qualificano il nostro ordinamento come stato sociale, come uno Stato, cioè, che non valorizza solo la produttività dell’individuo, la sua efficienza nel mondo del lavoro, la sua dimensione “aziendalistica”, ma si cura dell’individuo in tutte le sue manifestazioni, tutelandolo  ex se e non solo in ragione della sua capacità a concorrere alla formazione del benessere economico della Nazione. Le scelte della nostra costituzione – che riposano tutte sulle istanze di equilibrio fra  ragioni  produttive e ragioni  individuali (v. anche art. 41 Cost) – appaiono univoche in special modo dove si enuncia da un lato che la  Repubblica è “fondata sul lavoro” e dall’altro che occorre riconoscere e garantire “ i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e dove si dice che “ è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2).

Si tratta, come è noto, di norme contenute nella parte prima della nostra Costituzione (Principi Generali) e che, come tali, rappresentano le linee guida e soprattutto  individuano le priorità, qui non essendoci dubbi che nell’eventuale concorso fra uno di questi principi ed altri – pure enunciati dalla stessa Fonte – debbano prevalere i primi;  né dubbi esistono  sulla  natura di vere e proprie “chiavi di lettura” che deve essere affidata alle disposizioni della Parte Prima, rispetto a tutte le altre.

Ed allora riflettiamo  su questo esempio: un dirigente industriale con altissima professionalità che guadagna qualche milione al mese e che ha una fortissima capacità di resistenza ed una elevata tutela approntata dalla contrattazione collettiva ha diritto alla rivalutazione monetaria anche per un mese di ritardo.  Un pensionato sociale od un titolare di una pensione integrata al minimo ( salvo errori inferiore sempre alle 800.000 lire al mese) che utilizzano le somme dovute dagli enti di previdenza per sbarcare il lunario o per tentare di farlo, non hanno diritto alla rivalutazione monetaria: l’ente di previdenza può ritardare di un anno, due anni, cinque anni, quanto vuole e se per avventura il tasso di inflazione si consolidasse – come  oggi sembra – intorno al 3%, un ritardo di tre anni ( non infrequente dato l’elevatissimo numero di controversie previdenziali che insorgono a valanga  praticamente dopo ogni novità legislativa) finirebbe per decurtare il dovuto di un 10%: grossolanamente in tre anni il nostro pensionato da 800.000 lire al mese finirebbe per ricevere una perdita secca di quasi tre milioni, pari a 4 mensilità. E’ evidente che così facendo , semplicemente procrastinando il pagamento dei trattamenti previdenziali od assistenziali, si assesterebbe la finanza pubblica ed anche in tempi brevi, ma clamorosamente calpestando una serie di regole costituzionali che approntano una tutela prioritaria in favore dei soggetti più deboli ( o più sfortunati). Negare la valenza costituzionale della regola del cumulo (per effetto del combinato disposto degli artt.  36 e 38 Cost.) significa, dunque, indebolire un credito già debole o, se si vuole, di mera sopravvivenza.

Non sfugge a questo giudice che le esigenze di risanamento della finanze pubblica premano e già da qualche anno, in special modo avuto riguardo ai parametri c.d. europei, né sfugge che da più parti si va predicando che quanto occorre subito fare è ulteriormente riformare (evidentemente  in peius) il sistema pensionistico (nonostante la “stretta” di cui alla normativa sulle pensioni di anzianità, e sulle altre, di cui alla legge n. 335/95) e contenere la spesa sulla sanità. Nel giugno dell’anno in corso il Governatore della Banca d’Italia nella sua relazione ha fissato in questi due punti ( oltre che sulla  necessità di conferire ulteriore efficienza alla p.a.) le priorità assolute; ed è già di qualche anno fa l’affermazione perentoria del Ragioniere  Generale dello Stato che ha indicato nella soppressione secca dei trattamenti di anzianità lo strumento idoneo ad una operazione di efficace risanamento della finanza pubblica.

Niente, ovviamente, da eccepire dal punto di vista ragionieristico e contabile, perché queste sono le priorità   per chi  è preposto istituzionalmente a fare i conti ed  a farli quadrare.

E’ pure noto come  a partire dalla metà degli anni novanta l’attenzione per la finanza pubblica abbia individuato la possibilità di operare ulteriori strumenti ablativi (e quindi di possibile risparmio), ancora una volta  rivolgendosi a soggetti debolissimi: tutti abbiamo assistito ad una sorta di campagna di bonifica nei confronti di chi fosse titolare di un trattamento di assistenza per invalidità, sbrigativamente definiti, nel loro complesso fenomenico, come “falsi invalidi”; tutti ritenuti dall’opinione pubblica ( e dal legislatore che ha previsto normativamente “revisioni straordinarie”) come  i responsabili di enormi buchi finanziari o profittatori improduttivi.

Ma vi è di più , perché gli operatori del diritto sanno di tutti gli altri interventi ablativi dell’ultimo decennio, fra i quali  vale la pena ricordare i più clamorosi: l’estinzione per legge dei giudizi promossi da migliaia di pensionati per vedersi riconoscere  i diritti patrimoniali affermati dalle note sentenze della Corte Costituzionale con le sentenza 240/94 e 394/93 sulla c.d. cristallizzazione della integrazione al minimo ed il ricalcolo della reversibilità, addirittura negando il diritto agli eredi; il divieto di cumulo fra pensione di reversibilità corrisposta dall’Inps e la rendita al supersite corrisposta dall’Inail anche nel caso in cui la prima derivava dalla maturazione in vita della pensione di vecchiaia (e sulla quale ha fatto giustizia la Corte di Cassazione con la sentenza n  16135/2000); il divieto di cumulo fra trattamento Inps e trattamento Inail derivanti dal medesimo evento invalidante (in ordine al quale pende questione di legittimità costituzionale sollevata da questo giudice con l’ordinanza 27.3.2001), nonostante  i due trattamenti tutelino eventi diversi ed originino dalla contribuzione e dal premio.

Sicchè la linea di tendenza  attuale del legislatore (alcune volte con l’avallo del Giudice delle leggi) è quella di  richiedere sacrifici  sempre con maggiore frequenza ed incisività  proprio a quei soggetti per i quali la Costituzione appronta strumenti  finalizzati a garantire la sopravvivenza, in linea con le istanze liberistiche che sempre di più mirano ad emarginare dalla vita pubblica e civile chi non sia in grado di produrre efficienza, ancorché la abbia prodotta, prima di invecchiare, per moltissimi anni. Istanze che trascurano ogni profilo di umanità, confinando l’individuo a mero meccanismo di un incalzante (e mortificante) processo produttivo ed immolandolo sull’altare di queste pressanti esigenze di risanamento della finanza pubblica  che, sembra, non possano trovare soluzioni alternative a quella di  elidere o contenere redditi di sopravvivenza.

6) Le norme fondamentali della nostra Carta Costituzionale, fra le quali quelle che reggono il sistema di tutela del lavoro, quelle contenute nella Parte Prima, quelle  che approntano mezzi di sussistenza in occasioni di determinati eventi (invalidità, vecchiaia, disoccupazione), rappresentano tutte, oltre che, come si è detto, la chiave di lettura del nostro ordinamento, una sorta di “impegno prioritario”, come tale  immodificabile nel fine e nel contenuto anche di fronte all’incalzare di “eventi esterni”:  certe regole, infatti, si enunciano per essere osservate  costantemente  qualunque sia il contesto contingente, poiché diversamente, se cioè l’operatività dei principi fosse subordinata alle possibilità di cassa, gli stessi scadrebbero a mere enunciazioni condizionate all’esistenza di floridità.

E’ un po’ come se diversi principi enunciati in settori diversi dal nostro , come, per esempio quello di cui all’art. 25 della Costituzione (sulla tassatività, irretroattività e tipicità della norma penale) potessero essere sacrificati in occasione di particolari manifestazioni di criminalità o di ordine pubblico e quindi si ammettesse, per contrastare detti fenomeni, la possibilità di norme penali indeterminate, retroattive od “in bianco”.

Vero è, invece, il contrario:  e cioè che detti principi (fra i quali quello di cui agli artt. 2,3,4,36 e 38 Cost.) manifestano la loro portata ed il loro precetto proprio in contesti di crisi, imponendo al legislatore di salvaguardare i loro contenuti  con priorità assoluta. Il loro rispetto,allora, rappresenta l’adempimento di obblighi che l’ordinamento  si è assunto in sede costituzionale come prevalenti  rispetto ad ogni altra esigenza.

Se così è, si avrà che il principio di solidarietà sociale, di eguaglianza sostanziale, di tutela della retribuzione sufficiente, di tutela dei soggetti totalmente o parzialmente privi di capacità lavorativa (come altri, quali la tutela della salute, la tutela della manifestazione della personalità in sede associativa, le garanzie dettate a protezione dei diritti personali assoluti) non possono – come oggi costantemente si fa – parametrarsi e subordinarsi ad esigenze di cassa, sia pure si cassa pubblica, quantomeno qualora l’ordinamento possa procurarsi  aliunde quanto necessiti per il risanamento dei bilanci . E questo a maggior ragione se si tiene conto della natura di diritti soggettivi pieni, quali si hanno nel rapporto previdenziale od assistenziale (o , se si vuole, di pubblico impiego), rispetto ai quali non vi è discrezionalità dell’Ente pubblico preposto all’erogazione, né tantomeno affievolimento delle posizioni soggettive in ragione dell’esistenza di mere norme di azione.  Dunque, a parere di questo giudice, la ricorrente affermazione secondo la quale la tutela previdenziale può  subire  legittimamente interventi totalmente o parzialmente ablativi in ragione delle esigenze di finanza pubblica  non è affermazione di carattere assoluto, poiché tale tutela ha funzione prioritaria di salvaguardia di diritti costituzionalmente garantiti ed attinenti al sostentamento di soggetti meritevoli di protezione differenziata (lo stesso fatto “storico” della ritenuta necessità di predisporre anche un rito speciale per i rapporti di lavoro e previdenziali conferma, se ce ne fosse bisogno, che la protezione dei soggetti interessati è ritenuta preminente rispetto alle tutele previste  per chi si trovi a gestire il processo – e quindi il suo diritto- in posizione paritaria rispetto al suo contraddittore).

La realizzata autonomia ontologica  del diritto del lavoro e previdenziale depone, allora , inequivocabilmente  per la volontà di approntare strumenti di tutela differenziata e questo , come si è visto, è recepito nella nostra Costituzione, ancorché l’evoluzione (o l’involuzione) dei contesti sociali ed economici sembri oggi  suggerire una sorta di ritorno alle regole liberistiche tipiche del contratto quale previsto dal nostro codice civile: ma si tratta di istanze che collidono irrimediabilmente con l’impostazione della Carta Fondamentale (v. , per esempio, quanto affermato  in Corte Cost. n. 134/1994 a proposito del regime delle spese di lite nel processo previdenziale), il cui rispetto non può essere messo in discussione.

7) Non è, allora, senza ragione presumere che l’attuale pressione rivolta ai redditi posseduti da soggetti deboli, per realizzare esigenze di bilancio, obbedisca   semplicemente  alla constatazione di una relativa facilità di acquisizione di risorse, perché, come è all’evidenza di tutti, non è difficile dar meno di quanto si dà a chi non altro possiede se non  redditi a carico di enti pubblici o non possa diversamente, come tanti altri fanno, procurarsi  guadagni  più o meno occulti.

Questo giudice conosce  i dati dell’ammontare dell’evasione fiscale che ha consentito e consente a molti  non solo di accumulare ricchezza senza collaborare alle esigenze della collettività, ma pure, secondo un effetto a cascata, di godere delle prerogative di chi consegue redditi ufficiali di modesta entità; e conosce, come chiunque se ne voglia far carico, i risultati pressoché inesistenti  delle attività rivolte alla repressione del fenomeno (che, pure, potrebbe apportare alla finanza pubblica risorse ingenti).

Il fenomeno, nella sua sconcertante quotidianità,  è agli occhi di tutti, ma qualche dato ufficiale non guasta: secondo le dichiarazioni del Direttore del Secit (ufficio ispettivo del Ministero delle Finanze) le società di capitali “nascondono” circa 70.000 miliardi l’anno di imponibile fiscale, il che corrisponde ad una  evasione annua di circa 26.000 miliardi; le c.d. piccole imprese con fatturato fino ad un miliardo evadono intorno al 30%, mentre quelle con un fatturato fino a dieci miliardi evadono una percentuale pari all’1,6%. Il fenomeno delle società c.d. di comodo (fiscale) si concretizza nella nascita e nella morte annua di circa 100.000 società a responsabilità limitata ( v. PM Impresa 2.6.2000, www.artigiani.napoli.it/economia//archivio ).

Da più parti si sostiene, dunque, che l’evasione fiscale annua ammonti a circa 300.000 miliardi  annui ( v. fra le altre la nota 24.5.2001 dell’Ufficio Studi Cgil Lombardia, www.lomb.cgil.it/segnali/evasione.htm).

Non vi sono dubbi che la scelta  se operare una pressione sull’evasione o sugli accessori dei crediti previdenziali sia una scelta politica, ma neppure  vi sono dubbi, a parere di questo giudice, sul fatto che la nostra Costituzione realizzi una scelta obbligata, imponendo la tutela prioritaria di soggetti deboli, rispetto alla tolleranza nei confronti di chi elude l’obbligo, pure costituzionale, di concorrere con il proprio reddito alle esigenze della collettività, di tal che l’operazione legislativa di chirurgia nei confronti dei primi appare palesemente illegittima se esperita con priorità rispetto a quella   nei confronti di chi occulta i propri redditi nonostante fruisca del bene collettivo come o di più di chi adempie al proprio obbligo fiscale, magari detraendo il dovuto dal suo modestissimo reddito  di pensione.

Ne consegue che la regola che esprime il divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti previdenziali od assistenziali ( e, qui solo accademicamente, nei crediti del pubblico dipendente) è in contrasto con gli artt. 2,3,24,36 e 38 della Costituzione, sia in ragione della violazione del sistema protezionistico relativo alla retribuzione (e, conseguentemente, alla pensione) sufficiente , sia  in quanto sorretta da esigenze di contenimento della spesa pubblica in un contesto ordinamentale di radicata tolleranza nei confronti di chi sottrae deliberatamente alla collettività ingentissime risorse, da sole sufficienti a consentire la piena realizzazione dei principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale previsti dalla parte prima della nostra Costituzione.

8) La  rilevanza della questione è  in re ipsa.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Pisa,  giudice del lavoro in composizione monocratica, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 e dell’art. 24, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (ove  ritenuto applicabile anche ai crediti previdenziali od assistenziali), con riferimento agli articoli 2, 3, 24, 36 e 38 Cost.

Dispone la trasmissione del fascicolo alla Corte Costituzionale e sospende il presente giudizio.

Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Dispone che la medesima sia comunicata ai Presidenti delle Due Camere.

 

Pisa li 12.10.2001 (depositata il 18.10.2001)

 

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