Legittimità costituzionale della scelta legislativa di non consentire il prepensionamento dei dipendenti beneficiari di fondi di previdenza complementare

 

Sommario:

1. Premessa

2. Cronistoria

3. La scelta legislativa di interferire sulla “previdenza integrativa” con la “finanziaria 1998”

4. Inesistenza di  fondati dubbi di costituzionalità

5. L’odierna decisione n. 393 del 28 luglio 2000 della Corte costituzionale

 

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1.  Premessa

Nel 1998 (su Lavoro e previdenza Oggi n. 5, a pag. 1047) annotammo adesivamente  - nell’articolo “La scelta legislativa di subordinazione dei trattamenti di previdenza complementare ai requisiti per l’effettiva fruizione della previdenza obbligatoria di base” – una decisione del Pretore di Genova del 1 agosto 1997 (ibidem 1998, 1013) che aveva sostenuto che “la prestazione complementare (intrinsecamente quella integrativa e per volontà legislativa quella “sostitutiva”) è sempre subordinata alla maturazione dei requisiti per l’erogazione del trattamento obbligatorio di base, senza che ciò possa, per i motivi di interesse pubblico che sorreggono la scelta del legislatore ordinario, dar luogo a dubbi di legittimità costituzionale”.

Quanto sopra - con nostra piena condivisione -  prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 59, comma 3, L. n. 449/1997 e, pertanto, con espresso riferimento al principio di  subordinazione dei trattamenti previdenziali di fonte aziendale ai requisiti propri dei trattamenti pensionistici dell’Ago, all'epoca sancito dall’art. 18, comma 8-quinquies del D.Lgs. n. 124/1993 (anticipatore di quello identico, poi ribadito dal precitato art. 59 L. n. 449/’97).

Ciononostante il Pretore di di Bologna (con ordinanza del 27.3.1997, in Lav. giur. 1998, 43), con riferimento al principio sopra riferito codificato nella pregressa normativa  ed il Pretore di Milano, con espresso riferimento alla nuova (art. 59, comma 3, L.  27 dicembre 1997, n. 449), sollevavano questione di costituzionalità del cd “divieto di prepensionamento a carico di fondi privati aziendali” dei dipendenti di aziende (di norma bancarie) che si erano potute permettere la possibilità (ed il lusso di istituirli) e che a seguito della nuova normativa non intendevano accollarsi l’integrale onere di sostituirsi in toto ed anticipatamente  alla previdenza obbligatoria di base. I giudici rimettenti eccepivano il supposto conflitto delle normative ordinarie con gli artt. 3, 38, comma 2, 39 e 41 Cost.

 

2. Cronistoria

I rifiuti delle aziende di credito di consentire ai lavoratori, che ne avevano fatto richiesta, di fruire di forme di previdenza complementare/integrativa, anticipatorie o in sostituzione temporanea della previdenza obbligatoria  sono cominciati dal 1994, epoca in cui il legislatore ha iniziato a spostare nel tempo il diritto di accesso alla previdenza pubblica e parallelamente a quella privata, sia per ragioni di riequilibrio finanziario dell’intero sistema dello welfare sia per ragioni di perequazione (cioè a dire di equità) fra le varie categorie dei lavoratori destinati alla quiescenza, cioè a dire, in buona sostanza, per ragionevoli motivi di interesse pubblico.

La prima disposizione affermante il principio di subordinazione dei trattamenti di previdenza complementare ai requisiti per la fruizione della previdenza obbligatoria è costituita dall’art. 18, comma 8 quinquies D. Lgs. n. 124/1993 secondo il quale: “L’accesso alle prestazioni per anzianità e vecchiaia assicurate dalle forme pensionistiche di cui al comma (forme di previdenza complementare, n. d. r.)  che garantiscono prestazioni definite ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, é subordinato alla liquidazione del predetto trattamento”. Il principio di c.d. “subordinazione” è stato successivamente ribadito dalla c.d. “legge finanziaria 1998” (L. 27.12.1997, n. 449) che all’art. 59, comma 3°, ha disposto: “A decorrere dal 1 gennaio 1998, per tutti i soggetti nei cui confronti trovino applicazione le forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo…21.4.1993, n. 124 (afferente alla previdenza complementare, n.d.r.)…, il trattamento si consegue esclusivamente in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti dalla disciplina dell’assicurazione generale obbligatoria d’appartenenza”.

 

3. La scelta legislativa di interferire sulla “previdenza integrativa” con la “finanziaria 1998”

Il sopra riferito principio di subordinazione (utilizzabile, nella nuova e meno equivoca formulazione, anche a fini di interpretazione della precedente disposizione dell’art. 18, comma 8 quinquies D.Lgs. n. 124/’93, ispirata dagli stessi intenti e tesa agli stessi obiettivi) quale atto di interferenza del legislatore ordinario nella materia della previdenza complementare, è stato accompagnato nella c.d. “legge finanziaria 1998” – in omaggio ad esigenze di equità tra i pensionandi e di perequazione tra categorie di lavoratori destinati alla quiescenza, anche sull’onda della  insistente richiesta di soppressione di presunti “privilegi” proveniente dall’opinione pubblica in fase di (non solo ventilati ma richiesti) sacrifici generali – da:

a)   una soppressione di meccanismi di rivalutazione annuale delle pensioni integrative o sostitutive, in precedenza garantito tramite la c.d. “clausola oro” (di cui emblematicamente fruivano i lavoratori della Banca d’Italia, e non solo essi) caratterizzata dall’aggancio alle variazioni delle retribuzioni dei lavoratori in servizio (conseguenti ai rinnovi contrattuali) di cui si è occupato il comma 4, dell’art. 59 della legge finanziaria sancendo che:“ a decorrere dal 1° gennaio 1998, per  l’adeguamento delle prestazioni pensionistiche a carico delle forme pensionistiche di cui ai commi 1, 2 e 3 (forme di previdenza complementare, n.d.r.) trova applicazione  esclusivamente l’articolo 11 del D. Lgs. 30 dicembre 1992, n 503, con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all’evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio”;

b)   nonché dalla previsione che “per i trattamenti da liquidarsi a decorrere dal 1 gennaio 1998, a carico delle forme obbligatorie, sostitutive, esclusive o esonerative nonché di quelle integrative…e di quelle previste dal D. Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (afferente alla previdenza complementare, n.d.r.) non trovano applicazione le disposizioni che prevedono la trasformazione di quote di pensione in forma di capitale…”, consentendole tuttavia per gli iscritti ai fondi previdenziali degli enti pubblici creditizi o delle società per azioni bancarie ex enti pubblici (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Istituto S. Paolo di Torino, Monte dei Paschi di Siena, Cariplo) quantunque limitatamente al 50% della pensione maturata, in applicazione del limite di cui all’art. 7 , comma 6, del D. Lgs. n. 124/1993.

Riepilogate in tal modo le principali limitazioni introdotte dal legislatore per la previdenza complementare, asserimmo nel precitato articolo che, a nostro avviso, “ …le condizioni apposte sono coerenti con la necessità di un intervento (che potremmo definire dirigista) dello Stato in materia di welfare pubblico e privato, nell’ottica di evitare che il nuovo strumento pensionistico assuma caratteristiche eversive, introduttive di diversificazioni socialmente insopportabili tra i lavoratori in quiescenza,  in quanto contrastanti con il principio di equità e di sostanziale equiparazione dei mezzi di sostentamento, una volta infranto in linea di principio qualsiasi criterio finalizzato al livellamento egualitario, in linea di rispetto della libertà dell’iniziativa economica e dell’assistenza privata (ex artt. 41 e 38, ultimo comma, Cost.). In tale ottica si collocano la soppressione delle “pensioni baby”pubbliche e private, tramite la graduale, accelerata e conseguita parificazione dei requisiti contributivi ed anagrafici per i futuri pensionati. Nella stessa ottica di  realizzazione di un pubblico  interesse – quello del mantenimento di un necessario equilibrio finanziario nel sistema pensionistico pubblico e privato, pregiudicato sia dal calo demografico sia dalla disoccupazione impeditiva di  un adeguato flusso contributivo  sia dal maggior esborso conseguente all’incremento della vita media della popolazione - si collocano gli interventi disincentivanti il pensionamento anticipato e quelli assunti dal legislatore, non solo per motivi di equità sociale ma anche per evitare squilibri finanziari nei fondi di previdenza privata o del settore pubblico allargato, conseguenti all’eventuale maggiore ampliamento dei tempi di erogazione di prestazioni anticipatorie o sostitutive della previdenza pubblica,  squilibri sicuramente discendenti  in presenza di una elevazione dei tempi (età) di corresponsione della prestazione pensionistica da parte della previdenza obbligatoria non corrisposti da un pari adeguamento (o riallineamento) da parte della previdenza privata”.

Con espresso riferimento poi al caso specifico esaminato dal Pretore di Genova, manifestammo l’opinione che “effettuata questa premessa , risulta evidente la condivisibilità del principio di diritto  e delle conclusioni in concreto raggiunte dalla Pretura di Genova, nella già menzionata decisione. Dovendo decidere se l’art. 18, comma 8 quinquies del D.Lgs. n. 124/’93, prevedesse  un divieto generalizzato di erogazione anticipata rispetto alla fruizione della previdenza obbligatoria per tutte le prestazioni previdenziali integrative (in senso stretto o sostitutive o anticipatorie della previdenza pubblica) ovvero per le sole prestazioni “integrative”, come adombrato dall’infelice lettera della norma in questione, il Pretore di Genova ha raggiunto la corretta conclusione che il divieto atteneva, per identità di ratio, sia alle prestazioni di previdenza complementare “in sostituzione” (o ad anticipazione) del trattamento obbligatorio dell’Ago sia a quelle “ad integrazione” del medesimo. Anzi, ha acutamente notato, che la tesi che circoscrive il divieto per le sole prestazioni complementari “ad integrazione”(in senso stretto) della previdenza obbligatoria  va incontro ad un assurdo  logico, poiché sussistendo per definizione tra pensione di base e pensione integrativa (in senso stretto) un nesso inscindibile costituito dalla misura effettiva e reale del trattamento obbligatorio di base  da defalcare  dal superiore  importo assicurato dal  trattamento integrativo (onde non dar vita ad una duplicazione per sommatoria ma solo ad una integrazione per differenza), non vi è motivo per cui la subordinazione alla effettiva percezione del trattamento obbligatorio, voluta dal legislatore, attenga a tale fattispecie in quanto tale prestazione integrativa “viene ontologicamente liquidata dal fondo, per la mera parte integrativa, solo una volta che siano stati raggiunti i requisiti per la pensione Inps e quindi contemporaneamente a quest’ultima”. Da questa  condivisibile osservazione discende che – nonostante l’infelice dizione della norma (“ad integrazione”) – la subordinazione  voluta dal legislatore per le prestazioni della previdenza complementare è quella che si indirizza sulle pensioni  erogabili “in aggiunta” al (o “in sostituzione” del) trattamento obbligatorio, cioè a dire su quelle che gli statuti dei fondi contemplano come erogabili in “sostituzione” temporanea e, pertanto, “anticipatamente” rispetto all’epoca di percezione del trattamento obbligatorio, in quanto ad esso non intrinsecamente contestuali come le prestazioni integrative in senso stretto che necessitano del trattamento di base quale indispensabile elemento  per la loro determinazione e contabilizzazione”.

 

4. Inesistenza di  fondati dubbi di costituzionalità

Con riferimento a presunti dubbi di costituzionalità della scelta legislativa esprimemmo poi il convincimento secondo cui: “…invero a nostro avviso non sussistono, poi, i paventati o sollevati dubbi di costituzionalità. E’ naturale che il legislatore, nella fase di introduzione e di “avvio promozionale” (anche tramite un trattamento fiscale di favore) di una nuova forma di previdenza per i lavoratori, si  sia dovuto porre il problema (ed assumere l’incarico) di “indirizzare” o “pilotare” uno strumento tanto socialmente importante, facendo sì che esso – oltre ad essere esente da rischi di squilibri finanziari interni – non risultasse di carattere scardinante i capisaldi dell’ordinamento e confliggente con i principi di equità e di sostanziale equiparazione (non  di assoluta  e totalitaria eguaglianza) dei mezzi di sostentamento per i lavoratori in quiescenza. Ed è per il rispetto di questi principi di interesse pubblico che il legislatore ha “interferito” – con le norme delineate al punto 1) del presente scritto – nella materia della previdenza complementare. Anche incidendo sulle pattuizioni collettive, senza che ciò implichi – a nostro avviso -  problematiche di costituzionalità della ragionevole scelta legislativa.

Ricordiamo, per inciso, che vennero risolti in positivo (da Corte cost. nn. 141 e 142 del 30.7.1980) i dubbi di costituzionalità quando il legislatore ordinario – con la L. 31 marzo 1977 n. 91, in tema di indennità di contingenza – dispose, per ragioni di alleggerimento del costo del lavoro, la nullità delle clausole di legge, regolamentari e collettive che prevedevano il computo della contingenza nelle mensilità eccedenti quelle (normalmente 13) del settore industria. Il provvedimento di “sterilizzazione” della contingenza incise, per espressa volontà o scelta legislativa, sorretta da un superiore interesse pubblico, sulle libere determinazioni collettive delle stesse Organizzazioni sindacali e concluse il suo ciclo preclusivo a seguito della sentenza  n. 124 del 26.3.1991 che ebbe a sancire l’illegittimità (a decorrere dal 28.2.1986, epoca di individuata cessazione del periodo dell’emergenza) delle disposizioni che vietavano il computo della contingenza sulle mensilità eccedenti la 13 esima.

Pertanto non ogni atto legislativo suscettibile di interferire con l’autonomia privata o con la libertà di autodeterminazione delle OO.SS. è, infatti, idoneo a suscitare problematiche di costituzionalità per violazione, rispettivamente dell’art. 41 e 39 Cost., ma solo quelli che non siano ispirati e sorretti dall’esigenza di realizzare interessi pubblici di pari o sovraordinata rilevanza.

Tali interessi sussistevano e sussistono nella materia della previdenza complementare, come ha ritenuto il Pretore di Genova e come, conformemente, ha ritenuto il Tribunale di Roma (sent. 26.8.1996, in Not. giurisp. lav. 1996, 602) secondo il quale: “Ai sensi dell’art. 15, 8° comma, quinquies, L. 8 agosto 1995, n.335, il diritto del lavoratore a fruire di trattamenti pensionistici integrativi (di qualunque natura, n. d. r.) disciplinati da accordi collettivi è subordinato alla circostanza che lo stesso abbia maturato il diritto al trattamento pensionistico obbligatori.

Nello stesso senso, infine, sebbene relativamente alla supposta incostituzionalità del “blocco” delle pensioni di anzianità (e relativamente a quelle di origine privata) di cui alla L. 14.12 1992, n. 438, si è espressa l’unica decisione della Cassazione in merito (Cass. 15 giugno 1995, n. 6771, in Not. giurisp. lav. 1996, 602), la quale  ha evidenziato come la scelta legislativa di sospendere la possibilità di godere, per un certo periodo, della pensione di anzianità pubblica o privata non può ritenersi incostituzionale “ben potendo il legislatore per superiori esigenze di politica sociale, evitare macroscopiche disparità  tra varie categorie di lavoratori… o più in generale introdurre una disciplina che si sovrapponga, impedendone l’operatività al di sopra di certi limiti, ad una regolamentazione di origine contrattuale”.

In senso contrario alle nostre conclusioni (e a quelle della Cassazione), la ricca ma non convincente nota di commento di Zampini (a Pret.Treviso 21.2.1997, Pret. Bologna 27.3.1997 e Pret. Genova 1. 8.1997, in Lav.giur. 1998, 47).

A conclusione va detto che è altresì da condividere l’affermazione del Pretore di Genova, secondo cui non sussiste – a seguito della normativa legale di “agganciamento” ai requisiti per la fruizione della previdenza obbligatoria – neppure lesione dei “diritti acquisiti” degli iscritti (futuri pensionati) ai fondi complementari sui quali la normativa si indirizza, in quanto coloro che all’epoca della modifica legislativa non hanno ancora maturato anzianità anagrafiche o contributive dagli stessi statuti dei fondi previste per l’accesso alla pensione “anticipata”, versano in una situazione di mera aspettativa di un diritto, come tale sfornita di ogni tutela giuridica”.

 

5. L’odierna decisione n. 393 del 28 luglio 2000 della Corte costituzionale

Sulla tematica  del divieto di prepensionamento a carico dei fondi di previdenza complementare, cioè a dire di fruizione in anticipo rispetto ai requisiti (anagrafici e contributivi) definiti per la previdenza pubblica – riconfermato dall’art. 59, comma 3, L. 27 dicembre 1997, n. 449 –  è intervenuta ora la Corte costituzionale (espressamente sollecitata dalle ordinanze di rimessione), disattendendo motivatamente tutti gli addebiti di incostituzionalità sollevati con riferimento agli artt. 3, 38, comma 2, 39 e 41 Cost., sulla base di argomentazioni per la gran parte confermative di quelle prospettate  sia da taluna magistratura di merito (quali la riferita Pret. Genova 1 agosto 1997) sia da parte di quei pochi in dottrina che, come noi, si sono a suo tempo occupati del problema.

La massima di Corte cost. n. 393/2000 recita: “E’ infondata la questione di costituzionalità dell’art. 59, comma 3, della L. 27 dicembre 1997, n. 449 – per asserito contrasto con gli artt. 3, 38, comma 2,  39 e 41 Cost – la quale ha reiterato il divieto di conseguimento del diritto di prestazioni di previdenza complementare (a carico di fondi aziendali) in via anticipata e/o sostitutiva rispetto ai requisiti definiti dalla riforma pensionistica per il conseguimento delle prestazioni della  previdenza obbligatoria di base, stabilendo un agganciamento o (più correttamente) una identificazione dei requisiti degli uni con quelli legislativamente ridefiniti per l’Ago, essendo motivate le modifiche normative sospettate di incostituzionalità da  preminenti ragioni di interesse pubblico riposanti sia sulla necessità di non squilibrare finanziariamente i predetti fondi privati, sia di consentire la continuità dei flussi contributivi alla previdenza pubblica. Non sussiste poi alcuna lesione del principio dell’affidamento attenendo le modifiche normative introdotte non già a diritti consolidati ma a mere aspettative di diritti non ancora maturati nell’ambito di rapporti di durata, né sussiste lesione dell’autonomia collettiva  atteso che essa non esclude la configurabilità di limiti legali potendo, anzi, la stessa venire compressa o, addirittura, annullata nei suoi esiti concreti, quando sussista l’esigenza di salvaguardia di superiori interessi generali”.

Il nocciolo delle argomentazioni della Corte costituzionale risiede  nelle seguenti affermazioni sottoriferite a confutazione degli addebiti dei  giudici rimettenti, secondo cui:

a)   non sussiste la lamentata violazione dell’art. 3 Cost – dovuta secondo l’ordinanza di rimessione ad una  disciplina che non contemplerebbe, a differenza del precedente regime, “alcun esonero dal divieto di anticipata prestazione” e che, violando il “principio dell’affidamento” comprometterebbe situazioni oramai consolidate, senza che il sacrificio comporti benefici per la finanza pubblica. Infatti, sostiene la Corte, “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica non impedisce al legislatore di emanare norme modificatrici della disciplina dei rapporti di durata in senso sfavorevole per i beneficiari, quando tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irragionevole di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti”. “Nel caso in oggetto, la censurata disposizione – nel fissare al 1 gennaio 1998 il momento in cui viene a trovare applicazione…la regola che non consente il conseguimento di prestazioni dei fondi se non in concomitanza con quelle proprie del trattamento obbligatorio -  non può non riguardare, com’è ovvio che quelle fattispecie pensionistiche, afferenti alla previdenza complementare, che , all’epoca, non erano giunte ancora a compimento …né per quanto innanzi detto la norma può reputarsi irragionevole, attese le finalità di raccordo delle varie forme di previdenza complementare con il trattamento pensionistico di base”;

b)   inesatta si rivela l’asserzione di sostanziale indifferenza  sulla finanza pubblica correlata al consentire, eventualmente, la fruizione dei trattamenti previdenziali aziendali in via anticipata rispetto alla  (ed in sostituzione della) previdenza obbligatoria, giacchè “il censurato comma 3 dell’art. 59 della L. n. 449/1997 opera in funzione riequilibratrice del sensibile scostamento che, altrimenti si sarebbe determinato tra la disciplina dei fondi integrativi e disciplina del regime obbligatorio, dopo quelle scelte legislative di riforma che hanno reso più restrittivo (attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile e del requisito contributivo) l’accesso al pensionamento di vecchiaia e di anzianità previsto nel regime generale. Uno scostamento, quello appena ricordato, che – se consentito - in proiezione futura, avrebbe, da un lato sensibilmente inciso sul gettito della contribuzione al sistema obbligatorio di base e, dall’altro, determinato un onere insostenibile a carico dei fondi integrativi erogatori di prestazioni definite, in quanto tenuti a sopportare, per un più lungo periodo, l’obbligo di erogazione del trattamento di integrazione rispetto a quello dell’assicurazione generale. E ciò a tacere della ben più gravosa eventualità dell’assunzione, da parte dei medesimi, di detto onere in via definitiva, nelle ipotesi in cui a fronte di prestazioni integrative destinate ad assolvere anche una funzione sostitutiva…si fosse determinata l’impossibilità per l’iscritto di accedere, per difetto del requisito di contribuzione, al trattamento del regime obbligatorio”. “Giova poi considerare che la disciplina censurata, benchè non incida in via diretta ed immediata sulla spesa pubblica, non risulta, contrariamente a quanto sembra assumere l’ordinanza, del tutto indifferente per quest’ultima, se non altro perché concorre ad escludere quelle distonie tra previdenza pubblica e previdenza complementare…che potrebbero indurre ripercussioni negative, anche d’ordine finanziario, sui rispettivi ambiti (come ad esempio, la minore contribuzione all’Inps, da un lato, e i maggiori oneri a carico dei fondi integrativi, dall’altro) e, in definitiva, sulla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali”;

c)    non sussiste neppure il lamentato contrasto della normativa de qua con l’art. 39 Cost (sostenuto a causa della presunta lesione che essa arrecherebbe alla iniziativa e libertà sindacale, cui spesso devesi la genesi dei predetti fondi di previdenza complementare), “giacchè l’autonomia collettiva non esclude la configurabilità di limiti legali, potendo essa venire compromessa o, addirittura, annullata nei suoi esiti concreti, non solo quando introduca un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto dalla legge, ma anche quando sussista l’esigenza di salvaguardia di superiori interessi generali (sentenze n. 143 del 1998, n. 124 del 1991 e n. 34 del 1985). E ciò tanto più se la cura e la regolamentazione di tali interessi costituiscano attuazione di precetti costituzionali (sentenze n. 697 del 1988 e n. 120 del 1963). Una volta riconosciuto…che la norma denunciata si pone come espressione della tendenza…ad assegnare alla previdenza integrativa il compito di concorrere, in collegamento con quella obbligatoria, alla realizzazione degli scopi enunciati nell’art. 38, comma 2, della Costituzione, non possono non trovare giustificazione i limiti e i vincoli addotti all’autonomia collettiva, per quanto attiene, segnatamente, alla disciplina dell’accesso ai relativi trattamenti. Va, del resto, aggiunto che la peculiare  conformazione data dal legislatore agli assetti pensionistici integrativi non è priva di contropartite, rinvenibili segnatamente nella normativa di favore di cui i fondi godono dal punto di vista tributario, in virtù di ampie agevolazioni.. che risolvendosi, tra l’altro, in un onere per la fiscalità generale, in tanto si giustificano in quanto si tenga conto anche dei limiti apportati all’esercizio dell’autonomia collettiva”. Autonomia cui la norma censurata assicura, poi,  il recupero della piena competenza  laddove  ammette che “i vincoli introdotti dalla censurata disposizione…sono suscettibili di deroga, ad opera della contrattazione collettiva, nei casi in cui emerga la necessità di interventi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, dai quali derivi un esubero di personale (art. 59, comma 3)”;

d)   non sussiste neppure la dedotta violazione dell’art. 41 Cost ( per asserita  violazione della libera iniziativa economica a causa dei condizionamenti recati all’autonomia organizzativa e gestionale dei fondi di previdenza dai vincoli di allineamento alle prestazioni del regime di base), “perché – pur ammettendo che un fondo pensionistico di previsione legale (quale quello della Cariplo, nella fattispecie) …possa rientrare nell’ambito del menzionato art. 41 della Costituzione, resterebbe pur sempre da considerare che la lamentata compressione dell’autonomia organizzativa e gestionale dei fondi null’altro sarebbe che un effetto riflesso della sostituzione della fonte eteronoma a  quella di matrice collettiva,… cosicchè in questi termini la doglianza non assume autonomo rilievo rispetto all’altra di violazione dell’art. 39 Cost., nella quale resta, pertanto assorbita. In ogni caso pur a prescindere da quanto testè osservato, non potrebbe qui non valere l’orientamento già altre volte da questa Corte espresso, nel senso che anche l’autonomia negoziale e la libertà di iniziativa privata devono comunque cedere di fronte a interessi di ordine superiore, economici e sociali, che assumono rilievo a livello costituzionale”.

Già in precedenza (come testimonia il nostro articolo del 1998, citato al n. 1 del presente scritto) militanti nello stesso orientamento ora manifestato - con la sua intrinseca autorevolezza -  dai giudici della Consulta, non possiamo che condividere in toto le sue argomentazioni in sintesi soprariferite, con buona pace per la vanificazione di istanze ed aspettative di mera matrice corporativa, estranee alla logica della perequazione, dell’interesse pubblico e dell’egualitarismo sostanziale (che non va peraltro frainteso con la teorica o ideologia del livellamento e dell’appiattimento delle condizioni economico-normative, in corso di rapporto ed in quiescenza, che non fa parte del nostro modo di pensare, all’opposto favorevole a diversificazioni  premianti, ad esempio, differenziazioni di merito e professionalità  sempreché siano trasparenti, ed evidenti, riconosciute e/o oggettivamente  documentate e verificabili e non mero alibi per una discrezionale e/o clientelare gratificazione da parte aziendale dei soggetti preferiti, segnalati o raccomandati come è stata ed è  inestinguibile prassi, imperante a tutt’oggi).

Mario Meucci

Roma, 13 novembre 2000

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