La produzione in giudizio di documentazione aziendale (o di fotocopie di essa) è una infrazione sanzionabile che non legittima una provvedimento così grave come quello espulsivo, sproporzionato rispetto all’inadempimento commesso per motivi di supportare le proprie rivendicazioni
I
Corte
di Cassazione, sez. lav., 25 ottobre 2001, n. 13188 (ud. 3 luglio 2001) –
Pres. Saggio – Rel. Mammone – Alitalia, linee aeree italiane s.p.a
(avv. Marazza) c. Antonio Barbagallo (avv. Muggia)
Produzione in giudizio, a scopo di supportare le proprie istanze, di documentazione aziendale – Costituisce abuso e infrazione disciplinarmente sanzionabile – Non con il licenziamento ma con sanzione conservativa, non sussistendo “divulgazione” di notizie aziendali né pregiudizio per il datore di lavoro.
L’utilizzo
da parte del lavoratore, per la produzione in giudizio, di documentazione
aziendale a fini, non già di screditare l’azienda, ma solo per supportare le proprie pretese, costituisce violazione
dei doveri di lealtà e correttezza verso l’azienda imposti al lavoratore
dall’art. 2105 c. c., ma non divulgazione di notizie riservate aziendali a
terzi - anche in ragione della
ristretta cerchia (giudice e difensori, tenuti al segreto d’ufficio) dei
destinatari della cognizione della documentazione prodotta – abuso ed
infrazione sanzionabile disciplinarmente ma non con la massima sanzione
espulsiva, per asserita e presunta vulnerazione del vincolo fiduciario.
Infatti
i principi asseriti dalla Cassazione (nelle decisioni nn. 10591/1991, 2560/1993
e 4328/1996), seppur condivisibili, vanno contemperati con il più ampio
criterio della valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore,
atteso che il giudice del merito, adito per la dichiarazione di illegittimità
di un licenziamento per giusta causa, deve necessariamente procedere alla
valutazione della proporzionalità della sanzione, rispetto alla gravità della
mancanza del lavoratore; e tale valutazione - che si risolve in un
apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da
motivazione adeguata e logica - va condotta non già in astratto ma con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto e,
quindi, non solo inquadrando l'addebito nelle specifiche modalità del rapporto,
ma anche tenendo conto della natura del fatto contestato, da esaminare non solo
nel suo contenuto obiettivo ma anche in quello soggettivo e intenzionale,
nonché di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della
disposizione normativa dell’ art. 2119 cod. civ. - richiamato dall'art. 1 della
l. 15.7.66 n. 604 - alla fattispecie concreta (giurisprudenza consolidata della
Corte, per la quale cfr. tra le tante, la sentenza 2.2.00 n. 1144).
Svolgimento
del processo
Con
ricorso notificato il 22.4.91 Barbagallo Antonino impugnava dinanzi al Pretore
di Roma il licenziamento per giusta causa irrogatogli dalla Alitalia s.p.a. in
data 22.5.90 con l'accusa di avere prodotto documenti aziendali in un
precedente giudizio.
Il
datore chiedeva il rigetto della domanda e, in subordine, la restituzione di
quanto percepito dall'attore a titolo di t.f.r.
Con
sentenza del 1.7.92 il Pretore riteneva che la produzione della documentazione
non avesse arrecato danno al datore e che, comunque, poteva ritenersi
proporzionata una sanzione conservativa.
Pertanto dichiarava illegittimo il licenziamento, ordinando la
reintegrazione dei dipendente e condannando l'attore a restituire quanto
percepito a titolo di t.f.r.
Proponeva
appello la società Alitalia, deducendo l'erronea interpretazione della
documentazione prodotta e la configurabilità nella specie di giusta causa di
licenziamento. Costituitosi anche in
secondo grado l'attore, il Tribunale con sentenza dei 2.5.2000 rigettava
l'appello. Riteneva il secondo giudice
che il comportamento del Barbagallo non integrasse gli estremi della “divulgazione di notizie”, vietata
dall'art. 2105 c.c., ravvisandosi nella specie non la comunicazione dei
documenti ad un numero indefinito di soggetti, ma il più limitato utilizzo
nell'ambito di un giudizio civile, caratterizzato dall'obbligo del segreto
professionale dei soggetti destinati ad acquisire conoscenza dei documenti
stessi. In ogni caso, il comportamento
dei dipendente, sotto il profilo oggettivo, non aveva apportato alcun
pregiudizio al datore di lavoro e, sotto il profilo soggettivo, era
caratterizzato dallo scopo non di screditare la società, ma da quello di
supportare validamente le sue istanze giudiziali. L'aver utilizzato per la
propria difesa documenti, non suoi, ma di provenienza del datore integrava
comunque un comportamento censuratile, per la cui gravità, tuttavia, non
appariva proporzionata la sanzione. Il
giudice, pertanto riteneva insussistente gli estremi della giusta causa
e del giustificato motivo soggettivo e, in definitiva, dell'inadempimento grave, tale da giustificare il recesso.
Avverso
questa sentenza propone ricorso la società Alitalia, cui risponde con
controricorso il Barbagallo.
Entrambe
le parti hanno depositato memoria.
Motivi
della decisione
Con
l'unico articolato motivo è dedotta violazione degli artt. 2119 c.c. e 112
c.p.c., in relazione all'art. 360, nn. 2-3-5, c.p.c. Al dipendente era
contestata la violazione dell'art. 2105 c.c. non nella parte in cui vieta la
divulgazione di notizie attinenti l'organizzazione ed i metodi di produzione
aziendale, ma in quella in cui impone al lavoratore il dovere di fedeltà. Parte
ricorrente, richiamando giurisprudenza di questa Corte, ritiene che il
comportamento nella specie posto in atto integra un grave inadempimento del
lavoratore per violazione del dovere di lealtà e correttezza ed integra gli
estremi della giusta causa di licenziamento.
A nulla rileva l'intento dell'uso esclusivamente processuale, atteso che
il conflitto tra l'interesse alla tutela giurisdizionale (del dipendente) e
quello alla riservatezza (del datore) deve essere risolto non unilateralmente
da una delle parti, ma con il ricorso agli strumenti previsti dalla legge, la cui
eventuale inottemperanza comporta per la parte inadempiente le conseguenze
negative previste in sede processuale.
Deduce,
infine, la ricorrente: a) carenza di motivazione in punto di considerazione
della reale natura dei documenti sottratti agli archivi aziendali ed utilizzati in giudizio (in
relazione al diritto alla riservatezza dei passeggeri, alle segnalazioni
riguardanti gli aspetti tecnici dei voli) e del giudizio formulato a proposito
della reale riservatezza del manuale organizzativo; b) ulteriore errore di
diritto a proposito della distinzione tra udienza istruttoria e udienza di
discussione, non configurabile nel rito del lavoro.
Il
ricorso non è fondato.
Il
giudice di merito ha valutato il comportamento del Barbagallo sotto il profilo
della violazione dell'art. 2105, seconda parte, ove è fatto divieto al
lavoratore di"divulgare notizie attinenti all'organizzazione, ai metodi di
produzione dell’impresa, o farne uso da poter recare ad essa pregiudizio".
Sul
piano sostanziale tale impostazione appare conforme al tenore della fattispecie
concreta, nascente dalla contestazione del datore di lavoro e dalla giusta
causa dallo stesso ravvisata (indebita produzione in giustizia di documenti
aziendali), che è sicuramente inquadrabile nella norma in questione, la quale
sotto la rubrica “Obbligo di fedeltà” ricomprende un’articolata serie di
comportamenti vietati (divieto di trattare affari in concorrenza con il datore,
di divulgare notizie attinenti l’organizzazione aziendale, utilizzare le stesse
in modo da arrecare pregiudizio al datore stesso). La disamina del concetto di
“divulgazione” compiuta dalla sentenza costituisce, inoltre, un passaggio
necessario per la valutazione dell’incolpazione disciplinare la quale, pur
essendo incentrata sull’uso indebito di documentazione, assegna largo spazio al
pregiudizio che al datore sarebbe derivato dalla conoscenza data a terzi (in
cui appunto consiste la di”divulgazione”) di atti e documenti interni
all’azienda.
Impostata
correttamente in questi termini la fattispecie, era onere del giudice di merito
accertare se l’uso nella specie fatto dal Barbagallo dei documenti costituisse violazione
dell’obbligo dell’art. 2105 c.c. e inadempimento tale da consentire al datore,
ai sensi degli artt. 2119, 1455 e 2106 del codice civile e dell'art. 7 dello
statuto dei lavoratori, l'irrogazione del licenziamento.
La
giurisprudenza di questa Corte ritiene che il lavoratore che si impossessa di
documenti del latore di lavoro e li riproduce a fini personali, pone in essere
un fatto oggettivamente illecito, sanzionabile in via disciplinare,
indipendentemente sia da una sua specifica previsione nel codice disciplinare,
derivando detta illiceità da una norma di carattere penale radicata nella
coscienza sociale, sia dal carattere riservato o meno dei documenti stessi,
salva la rilevanza - ai fini dell'esclusione della detta sanzionabilità - di fatti-
eccepiti dal lavoratore, della cui prova il medesimo è onerato secondo il
principio distributivo dell'onere della prova ex art. 2697 c.c. (Cass. 9.10.91
n. 10591). In particolare, detto
impossessamento costituisce violazione dei doveri di lealtà e correttezza
imposti al lavoratore dall'art. 2105 cod. civ., senza che rilevi in contrario
l'intento del lavoratore di fare della documentazione un uso meramente
processuale, atteso che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela
giurisdizionale (con la produzione di quei documenti) di proprie pretese e il
diritto del datore di lavoro alla riservatezza non può essere risolto
unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria,
nella quale il datore di lavoro, a fronte dell'eventuale ordine d'ispezione o
di esibizione impartito dal giudice, può resistere a tale comando, rimanendo
esposto alle conseguenze che il giudice
può trarre da tale suo comportamento (Cass. 2.3.93 n. 2560, nonché, in
termini sostanzialmente analoghi, Cass.
9.5.96 n. 4328).
Questi principi vanno, tuttavia, contemperati con
il più ampio criterio della valutazione della gravità dell'inadempimento del
lavoratore, atteso che il giudice del merito, adito per la dichiarazione di
illegittimità di un licenziamento per giusta causa, deve necessariamente
procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla
gravità della mancanza del lavoratore; e tale valutazione - che si risolve in
un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da
motivazione adeguata e logica - va condotta non già in astratto ma con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto e,
quindi, non solo inquadrando l'addebito nelle specifiche modalità del rapporto,
ma anche tenendo conto della natura del fatto contestato, da esaminare non solo
nel suo contenuto obiettivo ma anche in quello soggettivo e intenzionale,
nonché di tutti gli altri- elementi idonei a consentire l'adeguamento della
disposizione normativa dell’ art. 2119 cod. civ. - richiamato dall'art. 1 della
l. 15.7.66 n. 604 - alla fattispecie concreta (giurisprudenza consolidata della
Corte, per la quale cfr tra le tante, la sentenza 2.2.00 n. 1144).
Il
Tribunale di Roma con la sentenza impugnata ha proceduto, innanzitutto,
all'accertamento degli esatti termini del fatto ascritto, escludendo che nella
specie si sia verificata “divulgazione” della documentazione in oggetto;
successivamente ha valutato il comportamento sul piano oggettivo e soggettivo
ed è pervenuto alla conclusione della mancanza di proporzionalità della
sanzione espulsiva in ragione del comportamento posto in atto. Sotto il primo
punto di vista, la motivazione non è alterata dall'erroneo richiamo all'art. 84 disp. att. c.p.c.. circa
la non pubblicità della udienze istruttorie, riferibile al giudizio tenuto con rito ordinario e non
a quello tenuto con rito speciale, ove, nel caso di frazionamento del processo
in più udienze ognuna delle stesse ha natura di udienza di discussione, nella
quale il giudice può emettere la decisione (cfr. Cass, 18.3.96 n . 2258). A prescindere da questo rilevo, infatti,
per le concrete modalità con cui si svolge il processo del lavoro (salvo
diverse circostanze di fatto in questa sede non dedotte) è sicuramente esatto
il rilievo che, per il limitato numero dei soggetti, nell’ambito strettamente
processuale è impossibile che la produzione
di uno o più documenti possa comportare una loro “divulgazione” in senso
proprio.
Per
quanto riguarda l'aspetto oggettivo e soggettivo del comportamento dell'attore,
il Tribunale ritiene, con motivazione congrua e immune da vizi logici, che
anche se la limitata conoscenza offerta a terzi della detta documentazione non
poteva arrecare pregiudizio al datore di lavoro, parimenti l’uso fatto della
stessa dà luogo ad un abuso, costituente una infrazione nell'ambito del
rapporto di lavoro ma non tale da giustificare l’applicazione della sanzione espulsiva.
Nella
sostanza, dunque, il Tribunale accerta l’illegittimità del comportamento del
lavoratore, ma in considerazione dell'assenza di conseguenze nocive del
comportamento per il datore, ritiene non proporzionata la sanzione adottata,
con conseguente insussistenza di giusta causa o giustificato motivo
soggettivo. Trattandosi di giudizio di
merito incensurabile in questa sede in quanto - come già rilevato -
congruamente motivato, il Collegio ritiene la pronunzia immune dai vizi
denunziati.
Il
ricorso deve essere, quindi, rigettato.
Le
spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono
la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese in lire 42.000 ed agli onorari di lire 4.000.000
II
Tribunale di Lecce, sez. lav. (giudice unico di 1° grado) 4
dicembre 2001 (ordinanza) – Giud. Buffa – Arena (avv. Frisullo) c. Soc. Nuova Adelchi (avv. Crisostomo)
Abusiva fotoriproduzione di documenti aziendali – Uso in una controversia con il datore di lavoro convenuto, avente ad oggetto, tra l’altro, le mansioni svolte di fatto dal ricorrente – Non costituisce “divulgazione” di dati aziendali - Sproporzione della sanzione espulsiva – Sussiste - Licenziamento volto fiaccare ogni possibile forma di resistenza del lavoratore al potere aziendale – Natura ingiuriosa del recesso – Sussiste – Conseguente invalidità del recesso e ordine di reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro.
Il
licenziamento, motivato dalla produzione in giudizio di documentazione aziendale,
posto in essere per reazione alla domanda giudiziale (riconosciuta pienamente
fondata) proposta dal lavoratore ed alla produzione documentale decisiva in
quel giudizio, ed accompagnato dallo scopo di eludere la pronuncia giudiziale
(avverso la quale non veniva proposta impugnazione, preferendosi risolvere ogni
questione a monte ed in via di autotutela con uso – pur distorto - di poteri
unilaterale datoriali), non può che considerarsi ritorsivo e, quindi,
inefficace.
Sebbene
sia fondato l’orientamento per cui i dati conosciuti dal lavoratore a causa e
nello svolgimento delle mansioni sono comunque riservati nel senso precisato ed
il lavoratore ne può fare uso solo per ragioni di lavoro (Cass. 4328/96), avuto
presente che, ove si tratti di documenti aziendali originali, il lavoratore non possa comunque acquisire tali
documenti di per sé neppure ai soli fini della produzione in giudizio,
dovendosi egli sempre avvalere degli ordinari rimedi processuali (e dunque
dovendo richiedere l’esibizione al giudice adito: Cass. 4229/81, 3156/85,
10834/94, 590/92 che ritengono giusta causa di licenziamento la sottrazione di
documentazione aziendale riservata da produrre in giudizio, per violazione del
dovere di fedeltà), tuttavia considerato: a) che il diritto del lavoratore a
difendersi in giudizio per la tutela della propria posizione lavorativa deve
avere un contenuto effettivo e pratico e che non si può contestare allo stesso,
quindi, di fotocopiare documentazione che riguarda l’attività da lui espletata
cui abbia legittimamente accesso, tanto più se essa costituisca in qualche
modo, anche indirettamente ed in misura marginale, oggetto materiale
dell’attività medesima (Cass. 4328/96, 1144/00); b) che alla convenuta Società non è derivato alcun danno
dalla detta acquisizione di dati e dall’uso fattone (produzione in giudizio
contro la convenuta medesima), e che tale non può ritenersi ovviamente la
soccombenza giudiziale nel procedimento cautelare conclusosi con ordinanza a
favore del lavoratore il 4 settembre 2001, ne consegue il convincimento del
Giudice che il licenziamento, per i tempi e le motivazioni poste a base dello
stesso, sia non solo ritorsivo ma altresì ingiurioso nei confronti del
lavoratore, in quanto volto fiaccare
ogni possibile forma di resistenza al potere aziendale, quand’anche
illegittimamente esercitato, e come tale totalmente viziato da radicale eccesso
di potere ed altresì illecito.
Il giudice del lavoro
- premesso
che dall’esame della documentazione in atti e dalle informazioni raccolte (inf.
Piceci, Brigante, De Girolamo) è risultato univocamente che non si tratta di
documenti aziendali originali sottratti dal lavoratore, ma solo di copie fatte
dal lavoratore di documenti aziendali (gli originali – fossero essi veri
originali o copie per uso aziendale - infatti rimanevano in azienda) ovvero di
stampe di dati contenuti nel computer aziendale (per i quali dati gli originali
restano costituiti dai files relativi);
- ritenuto
correlativamente che al ricorrente non è addebitabile la sottrazione di
documenti aziendali ma – al più - solo l’abusiva fotoriproduzione di documenti
aziendali o la stampa non autorizzata di dati contenuti in un computer
aziendale, e dunque in sintesi l’abusiva utilizzazione di dati aziendali;
- ritenuto
quindi inapplicabile l’art. 71 c.c.n.l. e non pertinente parte della
giurisprudenza richiamata dal resistente in tema di trafugamento di beni
aziendali;
- considerato
inoltre che il ricorrente non ha divulgato in alcun modo dati aziendali (cfr.
art. 2105 cod. civ.), ma si è limitato a farne uso con produzione di documenti
relativi in una controversia con il datore di lavoro convenuto, avente ad
oggetto, tra l’altro, le mansioni svolte di fatto dal ricorrente (che risultano
dalle dette copie documentali, la cui produzione risulta dunque conforme al
principio di pertinenza);
- considerato
che i dati in questione erano conosciuti dal ricorrente per ragioni di ufficio,
in quanto erano nel computer assegnato in uso allo stesso, o in documenti che
al ricorrente pervenivano per lavoro e che lo stesso doveva fotocopiare e
trasmettere secondo i propri compiti (inf. Prato, Piceci);
atteso che i
dati in discorso non recavano alcun segreto industriale, erano conosciuti oltre
che dai vari dipendenti addetti alle lavorazioni di volta in volta interessate
anche da soggetti esterni all’impresa (inf. Prato), erano riportati
sull’esterno delle confezioni dei pacchi spediti fuori della ditta (inf.
Prato);
- considerato
da un lato che non risultano pervenute direttamente al ricorrente disposizioni circa
la distruzione dei relativi documenti (la comunicazione 30.5.01 in atti risulta
inviata ai soli dipendenti in possesso di e-mail e tale non era il ricorrente
secondo gli informatori Brigante e De Girolamo, mentre le dichiarazioni di
quest’ultima circa riunioni con Arena sono rimaste vaghe, in quanto prive di
riscontri e di riferimenti temporali e di contenuti precisi), e dall’altro lato
che non risulta l’imposizione ai dipendenti di cautele particolari nella
custodia di questi dati (i relativi documenti erano su tavoli o per terra,
senza particolari misure di sicurezza: inf. Prato; non vi erano controlli circa
la copia o il possesso di tali documenti all’uscita) né controlli dell’uso
della fotocopiatrice né specifici divieti di uso (inf. Prato e Piceci);
- ritenuto
pertanto che i dati in questione non erano specificamente riservati, salvo solo
quella generale riservatezza che circonda i dati aziendali nei confronti
dell’esterno (clientela, ditte concorrenti, ecc.) derivante dall’art. 2105 cod.
civ. (obbligo di fedeltà) e dal generale obbligo di correttezza dei soggetti
del rapporto obbligatorio (artt. 1375 cod. civ. e 1175 cod. civ.);
- rilevato
che la legge 675/96 non preclude (né subordina al consenso dell’interessato) il
trattamento di dati altrui (neppure se si tratti di dati sensibili –cosa nel
caso in esame da escludersi -) ove necessario per far valere in giudizio un
diritto (che deve essere di rango almeno pari – nel caso sub sudice appare
superiore - a quello della privacy solo ove si tratti di dati sensibili: cfr.
art. 12, co. 1, lett. h) e art. 22 co. 4, l. 675/96);
- atteso che,
se i dati conosciuti dal lavoratore a causa e nello svolgimento delle mansioni
sono comunque riservati nel senso precisato ed il lavoratore ne può fare uso
solo per ragioni di lavoro, tali devono ritenersi anche le contestazioni
giudiziali inerenti il rapporto di lavoro (Cass. 4328/96);
- avuto
presente che, ove si tratti di documenti aziendali originali, il lavoratore non possa comunque acquisire tali
documenti di per sé neppure ai soli fini della produzione in giudizio,
dovendosi egli sempre avvalere degli ordinari rimedi processuali (e dunque
dovendo richiedere l’esibizione al giudice adito: Cass. 4229/81, 3156/85,
10834/94, 590/92; Pret. Milano 8.8.89, in L80, 1990, 537, che ritengono
giusta causa di licenziamento la sottrazione di documentazione aziendale
riservata da produrre in giudizio, per violazione del dovere di fedeltà);
- ritenuto
peraltro che nel caso in questione, come detto, non si versa nell’ipotesi di acquisizione
di documenti aziendali, ma solo di abusiva riproduzione degli stessi (che
peraltro si trovavano nella disponibilità del dipendente per ragioni di ufficio
ed erano dallo stesso regolarmente fotocopiati per servizio), e dunque si
tratta - più che di acquisizione, o della conoscenza dei dati ad essi relativi
(che erano comunque conosciuti dal lavoratore) - della fotocopia e stampa
nonché utilizzazione non autorizzata degli stessi dati, e che pertanto la
giurisprudenza richiamata dal resistente o sopra riportata non si attaglia al
caso di specie (ove non vi è questione di acquisizione di documenti o
conoscenze);
- considerato
che il diritto del lavoratore a difendersi in giudizio per la tutela della
propria posizione lavorativa deve avere un contenuto effettivo e pratico e che
non si può contestare allo stesso, quindi, di fotocopiare documentazione che
riguarda l’attività da lui espletata cui abbia legittimamente accesso, tanto
più se essa costituisca in qualche modo, anche indirettamente ed in misura marginale,
oggetto materiale dell’attività medesima (Cass. 4328/96, 1144/00);
- rilevato
che al convenuto non è derivato alcun danno (cfr. Pret. Milano 23.1.79, in OGL
1979, 715; Pret. Lecce sez. Casarano, 1.2.99, inedita) dalla detta
acquisizione di dati e dall’uso fattone (produzione in giudizio contro la
convenuta medesima), e che tale non può ritenersi ovviamente la soccombenza
giudiziale nel procedimento cautelare conclusosi con ordinanza di questo
giudice del 4.9.01;
- considerati
dunque l’assenza di appropriazione documentale, l’assenza di diffusione di dati
aziendali, la non configurabilità di vincoli specifici di segretezza o
riservatezza dei dati, la disponibilità di tali dati da parte del lavoratore
per ragioni di lavoro e del potere dello stesso di farne copia per usi
aziendali, le modalità e finalità dell’acquisizione di tali dati (Cass.
4328/96), l’assenza di danno giuridicamente tutelato subito dalla ditta;
- ritenuto
per le ragioni ora dette, ciascuna delle quali già basterebbe ad escludere la
proporzionalità della sanzione espulsiva, che il licenziamento del ricorrente
–motivato solo in relazione alla asserita apprensione documentale - sia del
tutto sproporzionato (Cass. 1144/00; Cass. 4328/96);
- considerato
peraltro le circostanze di tempo del licenziamento e l’immediatezza della
reazione datoriale rispetto all’ordinanza trib. Lecce 4.9.01 che annullava il
trasferimento illegittimo del ricorrente ed il suo correlato demansionamento
(la contestazione dei fatti poi posti a base del licenziamento è avvenuta
addirittura nel corso dell’altro giudizio, mentre il licenziamento è seguito
immediatamente al deposito del provvedimento giudiziale che la controversia tra
le parti definitiva con la soccombenza del datore di lavoro);
- ritenuto
che il licenziamento sia stato ritorsivo, ossia posto in essere per reazione
alla domanda giudiziale (riconosciuta pienamente fondata, come si è detto)
proposta dal lavoratore ed alla produzione documentale decisiva in quel
giudizio, e accompagnato dallo scopo di eludere la pronuncia giudiziale
(avverso la quale non veniva proposta impugnazione, preferendosi risolvere ogni
questione a monte ed in via di autotutela con uso – pur distorto - di poteri
unilaterale datoriali);
- considerato
altresì il decorso del termine contrattuale per irrogare la sanzione una volta
ottenute le giustificazioni del lavoratore, aspetto che da un lato importa la
consumazione del potere disciplinare e dall’altro lato conferma la connessione
tra licenziamento e conoscenza dell’esito del giudizio precedente, atteso per
quei giorni;
- ritenuto
che il licenziamento, per i tempi e le motivazioni poste a base dello stesso,
sia altresì ingiurioso nei confronti del lavoratore, in quanto volto fiaccare ogni possibile forma di resistenza
al potere aziendale, quand’anche illegittimamente esercitato, e come tale
totalmente viziato da radicale eccesso di potere ed altresì illecito;
- ritenuto
pacifico il regime di tutela reale dei lavoratori dipendenti della convenuta;
- considerata
la pacifica situazione economica del ricorrente – analiticamente descritta
dallo stesso nell’atto introduttivo della controversia e ritenuto sussistere il
periculum in mora in relazione a tale situazione economica, nonché alla
gravità del provvedimento datoriale;
P.Q.M.
dichiara inefficace il
licenziamento impugnato e ordina alla convenuta, in persona del legale
rappresentante pro tempore, l’immediata reintegrazione del ricorrente nel posto
di lavoro con le mansioni indicate nel provvedimento 4.9.01 di questo giudice.
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