I
molti dubbi sulla c.d. riforma del mercato del lavoro
Sommario:
1. Presentazione del
fascicolo. -2. Il d.lgs. n.276/2003: una critica formale. -3. Segue.
Una critica sostanziale. -4. Lo
sfasamento. -5. Le
prospettive. Abrogare la
legge n.30/2003?
1.
Presentazione del fascicolo
Questo fascicolo
della rivista (Lavoro e Diritto, dedicato al d. lgs. n. 276/03, n.d.r.)
non vuole essere un commentario in più sulla c.d. riforma del
mercato del lavoro, rispetto ai tanti già editi. Si tratta piuttosto di un
insieme coordinato di analisi critiche, talora
a caratteri fortemente marcati.
Anche per questo
qui si è deciso di non usare per la legge n.30/2003 e il successivo d.lgs.n.276/2003 la definizione di “legge Biagi” (cfr. invece Tiraboschi
2003). In primo luogo per rispetto all’amico assassinato dai terroristi, come
altrove argomentato. In secondo
luogo per un motivo testuale: delle leggi che si varano è bene porti la
responsabilità chi ne ha la paternità politica, ovvero il ministro pro-tempore.
Così è stato per la legge n.196/1997, denominata “pacchetto Treu”. Così
fu a suo tempo per lo Statuto dei lavoratori, per molto tempo chiamato “legge
Brodolini”. A quella legge, per ragioni fondate, è stata poi attribuita la
paternità di Gino Giugni, allora responsabile dell’ufficio legislativo del
ministero del lavoro, ma non si è
mai detto –giustamente- che lo Statuto dei lavoratori fosse la “legge
Giugni”. Bisogna infatti distinguere tra contributi tecnici e responsabilità
politiche.
In terzo luogo
occorre comprendere che i prodotti legislativi, una volta adottati, prescindono
dalla persona del proponente: si oggettivizzano, diventano materiali su cui si
esercita la vocazione analitica della c.d. comunità scientifica, la quale è,
per definizione, appunto critica. Basti ricordare cosa accadde al tempo della
entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, quando
Giugni si dovette difendere da una campagna diffusa contro la “legge
malfatta” (Giugni ), o quando
Giuseppe Pera propose una formulazione
sulla disciplina dei contratti collettivi e raccolse una generalità di dissensi
(cfr. Per una disciplina legislativa del contratto collettivo 1987). La c.d.
comunità scientifica è, per sua natura, a
volte tanto critica da apparire persino dispettosa. Questo va sempre tenuto ben
presente, per evitare il rischio di improprie personalizzazioni del confronto
tra opinioni diverse.
Per i motivi
anzidetti qui di seguito gli
oggetti legislativi in commento verranno richiamati con il loro codice consueto,
anche perché per molte ragioni non è apparso sensato usare altra definizione,
mutuata dal nome del ministro del lavoro in carica.
2.
Il d.lgs. n.276/2003: una critica formale
Già a prendere
in mano il decreto colpisce la dimensione quantitativa: 86 articoli, molti dei
quali composti da dozzine di commi, ventisei pagine di note aggiuntive solo per
i richiami legislativi, cui poi seguirà uno stuolo di decreti e circolari
ministeriali. Il tutto in attuazione di una legge delega composta di dieci
corposi articoli, e contenente un numero incalcolabile di deleghe al governo.
Torna in mente il fatto che il codice civile del 1942, dove si è realizzata la
prima codificazione del diritto del lavoro, dedica alla disciplina organica del
rapporto di lavoro all’incirca 50 articoli, e che lo Statuto dei lavoratori,
che ha rivoluzionato il diritto del lavoro, conta in tutto 41 articoli. Viene da
dire: e questa la chiamano delegificazione ovvero semplificazione?
C’è di che richiamare la celebre frase del vecchio Saint Juste:
“chi dà al popolo troppe leggi è un tiranno”.
Vero è che la
legislazione, non solo giuslavoristica, si è da tempo resa complessa, che tanto
più decresce la capacità normativa sostanziale dello Stato tanto più si
inflazionano le regolamentazioni formali, dalle proposizione normative in senso
stretto fino agli enunciati della c.d. soft law: tutti fenomeni
da tempo arcinoti. Qui tuttavia francamente sembra che la soglia del
limite sia stata superata, nel rapporto quantità/qualità del prodotto
normativo, a partire dalla astruseria del linguaggio. Poiché Romagnoli (v.infra)
tratta da par suo il tema mi limito a un solo richiamo. All’art.13, primo
comma, si recita: “al fine di garantire l’inserimento o il reinserimento nel
mercato del lavoro dei lavoratori svantaggiati, attraverso politiche attive e di
workfare…” Che cosa è
il workfare ? Non è una parola cui si possa assegnare alcun significato
normativo, ma un lessico sociologico derivato dal gergo
comunitario, da una neo-lingua, avrebbe detto D’Antona. Perché usarla
nel testo di una legge italiana? Forse per un tic provincialistico, con effetti
di kitsch inconsapevoli. Senza arrivare agli estremi dei francesi che
ritrascrivono computer in ordinateur, nel paese di
De Sanctis si può tuttavia
pretendere qualcosa di meglio nel linguaggio legislativo, specie considerando la
padanità del ministro del lavoro
in carica.
3.
Segue. Una critica sostanziale
La critica sostanziale riguarda, oltre che
la struttura, molte
specifiche disposizioni della legislazione in commento, che si possono
riassumere nei seguenti termini.
a) la liberalizzazione del collocamento
Nel
1997 con il d.lgs. n. 469 si era messo mano finalmente a una riforma strutturale
del sistema di collocamento. Senza qui rifare la storia, tuttavia interessante
sul piano anzitutto concettuale (per la quale rinvio a Mariucci 2003, p.137
ss.), in
quel momento si era deciso che il collocamento in Italia doveva
funzionare così: decentramento delle strutture pubbliche per un verso, e
liberalizzazione per l’altro, con l’apertura alle agenzie private. Si era
scelto quindi un modello di
competizione ovvero di concorrenza tra privato
e pubblico, sulla scia delle esperienze prevalenti in Europa oltre che dei più
recenti orientamenti della Oil (Torelli 2003). Invece che seguire questa direzione maestra, attraverso il rafforzamento delle agenzie
pubbliche e la destinazione di risorse adeguate alla difficile riorganizzazione
dei centri per l’impiego costituiti nelle province, e una selezione attenta
delle agenzie private anche mediante il superamento del vincolo dell’oggetto
esclusivo tra agenzie di intermediazione e di fornitura di lavoro temporaneo
stabilito dalla precedente legislazione, il d.lgs. n.276, sulla scia della
legge-delega n.30, imbocca una
strada esattamente opposta: quella della liberalizzazione indiscriminata e della
frantumazione dei soggetti legittimati alla intermediazione. Infatti già
l’art. 1, comma 2°, lett. L) della
l.n. 30 stabilisce che l’intermediazione
può essere svolta da soggetti pubblici, compresi gli enti locali, nonché da
associazioni non riconosciute, enti bilaterali, università e istituti di scuola
secondaria di secondo grado, fino ai consulenti del lavoro. Il d.lgs n.276
completa l’opera, introducendo meccanismi differenziati di
autorizzazione/accreditamento dei diversi soggetti. In più viene rafforzato il
sostegno a forme corporative di intermediazione, legittimando l’esercizio di
tale attività in capo alle associazioni
non riconosciute, id est, in specie,
le associazioni sindacali, con i conseguenti dubbi sul piano della possibile
violazione del principio di libertà sindacale, in senso positivo e negativo di
cui al I comma dell’art.39 cost., e a soggetti potenzialmente monopolisti,
come gli enti bilaterali. A tali
enti l’art. 2, lett.h) del d.lgs.
n.276 attribuisce la seguente serie di compiti: “la promozione di una
occupazione regolare e di qualità; l’intermediazione nell’incontro tra
domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la
determinazione di modalità di
attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone
pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più
svantaggiati; la gestione mutualistica dei fondi per la formazione e
l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di
regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute
e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata dalla legge
o dai contratti collettivi di riferimento”. Se si realizzasse il suddetto
profilo funzionale gli enti in parola, non a caso definiti dalla disposizione
citata “sedi privilegiate per la
regolazione del mercato del lavoro”, diventerebbero una sorta di asso
pigliatutto.
A
tacere qui dei molti problemi sollevati sul piano della legittimità anche
costituzionale di tale scelta (basti pensare alla ipotesi che tali enti
bilaterali siano costituiti tramite contratti collettivi non unitari ovvero
“separati”) ( si veda Gli enti bilaterali: mercato del lavoro e
rappresentanza sindacale 2003), resta il fatto che si adotta una scelta così
descrivibile: per un verso tutti fan tutto (dai centri per l’impiego ai
comuni, dalle Università alle scuole medie, dalle associazioni non riconosciute
alle agenzie private fino ai consulenti del lavoro, pur tramite fondazione
ecc.), dall’altro può esservi qualcuno (gli enti bilaterali) che nella
indifferenziata platea dei soggetti formalmente legittimati
assume una funzione di fatto monopolistica.
Prima
ancora di interrogarsi sui profili di legittimità, sorge spontanea una
domanda preliminare: è razionale, funzionale o semplicemente sensato
tutto questo?
b) l’eccesso di forme flessibili in entrata al mercato del lavoro
Si
moltiplicano all’eccesso le forme flessibili di accesso al mercato. Avendo già
acquisito la liberalizzazione del contratto a termine, con il d.lgs. n. 368 del
2001 che aveva legittimato il
contratto a tempo determinato sulla base di generiche ragioni di “carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, superando quindi il
principio di tassatività e rovesciando la classica regola del carattere
privilegiato ovvero “normale” del contratto a tempo indeterminato affermata
fin dall’art. 2097 c.c., ed avendo già disponibili una molteplicità di
figure flessibili di accesso al mercato, dal lavoro interinale al part time fino
alle varie forme di contratti a finalità formative, la legislazione in oggetto
non trova di meglio che moltiplicare all’infinito tali figure c.d. flessibili,
id est precarie. Dal part time
totalmente elasticizzato, anche sulla base di accordi individuali alternativi
alle discipline collettive (Scarponi infra),
al lavoro a chiamata o intermittente fino alla somministrazione di manodopera e
alla liberalizzazione degli appalti di servizio che, combinate con le normative
permissive in materia di trasferimento di ramo di azienda, costituiscono una
vera e propria legislazione promozionale dello scorporo aziendale (Alleva 2003;
Scarpelli 2004; Zilio Grandi 2004; Rebaudengo infra.). Alcune norme lasciano poi particolarmente sconcertati. Si
prenda l’art.37 del d.lgs. n.276 in materia di lavoro intermittente. La norma
recita così: “nel caso di lavoro intermittente per prestazioni da rendersi il
fine settimana, nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie
e pasquali l’indennità di disponibilità…è corrisposta al prestatore di
lavoro solo in caso di effettiva chiamata da parte del datore di lavoro”.
E’ una disposizione da leggere più volte, dato il dubbio di avere male
inteso. Sembra di capire che nel lavoro c.d. intermittente, in cui la
disponibilità alla “chiamata” è compensata appunto da una indennità di
disponibilità, vi sia una sotto-fattispecie, relativa al caso di quel
lavoratore che stipula il contratto intermittente dando la propria specifica
disponibilità per le ferie estive e per le vacanze natalizie e pasquali. Siamo
di fronte quindi a una persona così disagiata socialmente da accettare di stare
vicino al telefono per ricevere l’ordine di assunzione nell’afoso mese di
agosto e quando le persone normali festeggiano il Santo Natale e la Santa
Pasqua. Bene, sembra di capire che se quel telefono non squilla e la chiamata
non c’è, quel lavoratore non ha neppure …l’indennità di disponibilità!
E’ mai possibile che per promuovere le c.d. politiche di occupabilità si
debba giungere a estremi del genere, lesivi dei più elementari diritti di
dignità della persona?
Più
in generale, anche qui la domanda è: prima di porre ovvie questioni
di legittimità costituzionale, è
funzionale e razionale tutto questo?
c) l’indeterminatezza di alcune fattispecie: in specie il lavoro a
progetto e la c.d. certificazione
In
tema si pongono i
problemi più delicati. Qui infatti non sono in gioco pure e semplici, per
quanto rilevanti, normative sul mercato del lavoro. E’ in gioco la struttura
stessa del diritto del lavoro, il nucleo della sua identità disciplinare,
teorica e pratica, al tempo stesso l’ubi consistam del diritto del lavoro e la
delimitazione del suo campo di applicazione. Chi scrive, come altrove
argomentato, non è per nulla convinto di alcune tesi in voga relative alla
sostanziale dissolvenza del discrimen della subordinazione di cui
all’art.2094 c.c., allo smarrimento dei confini tra lavoro dipendente e
lavoro autonomo, all’esaurimento della tipicità del diritto del
lavoro, intesa come disciplina dedicata a chi per vivere deve prestare lavoro per
altri, a favore di una regolamentazione indifferenziata del lavoro c.d. sens
phrase (Pedrazzoli 1999), che rischia in realtà di ridursi, al di là delle
buone intenzioni, a un ritorno alle antiche
ideologie, sostanzialmente reazionarie, del diritto “comune” del
lavoro. E tutto ciò argomentato sulla base delle ben note sociologie in materia
di superamento del lavoro standardizzato di tipo fordista, della articolazione
pluralistica delle forme di lavoro, delle modalità del lavoro immateriale ecc.
Di modo che per conseguenza si debba parlare oggi di uno “statuto dei
lavori” centrato sulla formalizzazione dei modi di lavoro oggettivati dal
mercato, piuttosto che sulla centralità dei diritti soggettivi, individuali e
collettivi, espressi efficacemente nella
formula “Statuto dei lavoratori”. A chi scrive pare invece che se si osserva
il fenomeno lavoristico nella dimensione globale, e non solo in quella di una
piccola provincia dell’Europa chiamata Italia, ciò che colpisce è la
straordinaria diffusione di forme subordinate di lavoro, nella accezione
classica della subordinazione intesa come
soggezione anche a un potere organizzativo, e nelle accezioni apparentemente più
sfumate della c.d. dipendenza socio-economica. Ciò non per una inclinazione
vetero-classista, dato che la “classe” in senso marxiano come soggetto “in
sé e per sé” non esiste più, ed anzi forse non è mai esistita essendo
stata essenzialmente una costruzione politico-intellettuale, ma sulla base di
una osservazione delle cose così come esse si presentano: in questa prospettiva
dire che la subordinazione come criterio giuridico di qualificazione dei
rapporti di lavoro non funziona più, per il semplice motivo che è stata in
genere superata una determinata forma della subordinazione, quella tipica della
organizzazione gerarchica della grande fabbrica taylorista, significa confondere
l’albero con la foresta. Chi scrive ritiene insomma che diritto del
lavoro e subordinazione siano due facce della stessa medaglia: simul stabunt,
simul cadent. Tutto sta
poi nell’intendersi sulla
nozione di subordinazione, in senso sociale e giuridico. Ma questo è un altro
discorso. Qui il tema specifico consiste nel valutare il modo in cui
le normative in commento regolano una specifica figura di rapporto di
lavoro (il c.d. lavoro a progetto) e uno strumento finalizzato ad agevolare i
problemi di qualificazione dei rapporti di lavoro (la c.d.certificazione).
Su
entrambi i piani si può dire che le
regole introdotte risultano insoddisfacenti e inadeguate a risolvere i dilemmi
di fondo. Sul “lavoro a progetto”, anche a non condividere le critiche più tranchantes
(come quella di Perulli infra; v. anche Novella,
infra) ) resta una ambiguità di fondo: il lavoro a progetto, ammesso che
sia regolarmente stipulato secondo i canoni previsti dal decreto,
diventa una forma speciale di lavoro parasubordinato destinata ad
assorbire tutte le altre, o è una forma marginale aggiuntiva rispetto alle
varie collaborazioni coordinate e continuative che continuano ad essere ammesse?
Il disegno originario era chiaro: i cd. co.co.co venivano trasformati in
lavori a progetto, e i co.co.co non trasformati in lavori a progetto venivano
convertiti in rapporti di lavoro subordinato. Questa era, per così dire,
l’anima di sinistra del progetto-Biagi. Marco infatti diceva, in privato e in
pubblico: “la Confindustria mi chiama sempre a parlare dell’art.18 dello
Statuto, io invece vorrei parlare dell’uso fraudolento dei co.co.co”.
L’esito, più che modesto, appare imprescrutabile. A partire dalle
corpose eccezioni previste dal comma 3 dell’art. 61 del d.lgs. n. 276, tra cui
spiccano, in particolare, quelle relative alle “professioni intellettuali per
le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali” e quelle
riferite a coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia. A queste eccezioni
ne va aggiunta un’altra, molto rilevante, scritta al secondo comma
dell’art.1 del decreto, per la quale “il presente decreto non trova
applicazione per le amministrazioni pubbliche e il loro personale”.
Disposizione, questa, criticabile da molti versanti. Da quello relativo
all’evidente abbandono che in questo modo si compie della prospettiva della
unificazione del diritto del lavoro tra dipendenti privati ed ex- pubblico
impiego, a quello concernente lo svuotamento sostanziale della rilevanza della
disposizione in commento, dato che,
come è noto, svariate centinaia di migliaia di rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa sono attivate proprio nella Pubblica Amministrazione,
specie nelle regioni e negli enti locali, anche al fine di aggirare i vincoli
sulla spesa corrente e di liberarsi dalle faticose procedure del concorso
pubblico (Borgogelli infra
).
Quanto
alla “certificazione” la valutazione è ancora, se possibile, più
problematica. Anche qui, in origine, il disegno aveva una sua razionalità. Si
trattava di costruire meccanismi di validazione della qualificazione formale dei
rapporti di lavoro in maniera tale da fornire certezza alle relazioni di lavoro
e anche, come successiva conseguenza, di deflazionare e razionalizzare il
contenzioso giudiziario. Tale prospettiva sembra del tutto compromessa dal
marchingegno escogitato al Tit. VIII, capo I, art.75 ss. del decreto in
commento. A partire dalla identificazione degli “organi di certificazione”,
riferita dall’art.76 a commissioni istituite presso:
“le università pubbliche e private, comprese le Fondazioni
universitarie…”( art.76, I comma,lett.c), disposizione francamente
incomprensibile dato che le Università
oggi hanno molti problemi, tra i quali non risulta che debba annoverarsi quello
di svolgere funzioni di gestione del mercato del lavoro; “le Direzioni
provinciali del lavoro e le province”, ovvero le strutture pubbliche a cui in
realtà si sarebbe dovuta affidare
in esclusiva l’esercizio delle funzione se se ne voleva fare una cosa seria e
infine, al solito, “gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale
di riferimento ovvero a livello nazionale quando la commissione di
certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza
nazionale”. Così disciplinata la c.d. certificazione probabilmente non
funzionerà. Il che esonera dal richiamare, almeno in questa sede, i molti
problemi giuridici che si pongono, anche sotto il profilo della legittimità
costituzionale del meccanismo (Mazzotta 2004; Avondola 2004; Nogler
Speziale).
d) l’incerto significato dei richiami alla contrattazione collettiva
Il
decreto legislativo in commento conta almeno cinquanta richiami alla
contrattazione collettiva (per una puntuale classificazione v. Carinci 2004).
Si tratta di richiami asimmetrici, disordinati e spesso disfunzionali.
Alle origini del decreto va ricordata una scelta politica scritta nel “libro
bianco del lavoro”: nell’epoca dell’ingresso nell’Euro valevano le
politiche di concertazione, ora invece vanno adottate politiche di competizione,
diceva quel testo, affermando perciò la necessità di liberarsi dai vincoli
della vecchia concertazione. Si è avviata quindi ciò che è stata chiamata la
concertazione ”malata” (Bellardi infra).
Sul piano tecnico va osservato che i rinvii alla contrattazione collettiva
seguono una traiettoria che è eufemistico definire confusa. Basti citare alcuni
casi emblematici per la loro reciproca contradditorietà. All’art 86 del d.lgs
n.276, in sede di “norme transitorie e finali”, al comma 13 compare la
seguente disposizione: “entro i cinque giorni successivi alla entrata in
vigore del presente decreto, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali
convoca le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale al fine di verificare la possibilità di affidare a uno o più
accordi interconfederali la gestione della messa
a regime del presente decreto…”. Sorprende intanto l’espressione
“messa a regime del presente decreto”. Un decreto, se è un vero decreto
attuativo di una legge-delega, per definizione si mette a regime di per sé.
Sconcerta poi il fatto che in un decreto legislativo il governo
senta il bisogno di dichiarare la volontà di incontrare le associazioni
sindacali (che meglio sarebbe stato definire “confederazioni sindacali”) per
discutere di come attuare lo stesso decreto. Questo un governo lo fa, se vuole,
di fatto: non c’è bisogno di scriverlo in un testo di legge. La cosa si
spiega forse in via di interpretazione per così dire politica: avendo quel
governo promosso una clamorosa spaccatura tra le principali confederazioni, con
il Patto per l’Italia del luglio 2002, esso cerca ora di recuperare. Infatti
si sono stipulati alcuni accordi appunto interconfederali sulla base di quel
richiamo, ad esempio in tema di contratti di inserimento (v. Gottardi infra).
Sembra quindi che la norma debba essere intesa come dichiarazione di volontà
politica da parte di un governo accusato di voler alterare i rapporti tra
esecutivo e organizzazioni sindacali, e più in specifico tra legge e
contrattazione collettiva: in tale disposizione si dice infatti che il governo
rinvia alla negoziazione sindacale niente meno che, appunto, la “messa a
regime”, vale a dire l’attuazione delle nuove normative. Ciò tuttavia è
contraddetto da un insieme di altre disposizioni in ordine al rapporto tra legge
e contrattazione collettiva: da quelle relative alla alternatività tra
contratto collettivo e accordi individuali in materia di part time, a quelle
riferite a rinvii a termine alla contrattazione collettiva
surrogati, in mancanza di determinazioni contrattuali, dal ricorso a
decreti ministeriali (così in materia di lavoro intermittente e di
somministrazione di manodopera). Infine si segnalano disposizioni
particolarmente singolari in materia di c.d. “buone pratiche”. All’art.77,
comma 4°, del d.lgs.n.276, in tema di certificazione si stabilisce che “entro
sei mesi dalla entrata in vigore del presente decreto il ministro del lavoro
adotta con proprio decreto codici di buone pratiche per
l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei
rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti
economici e normativi. Tali codici recepiscono, ove esistano, le indicazioni
contenute negli accordi interconfederali stipulati da associazioni dei datori e
dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale”. Allo stesso modo l’art. 84 del decreto in commento prevede, al
secondo comma, che “entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto il Ministro del lavoro adotta con proprio decreto codici di
buone pratiche e indici presuntivi in materia di interposizione illecita e
appalto genuino…Tali codici e indici presuntivi recepiscono, ove esistano, le
indicazioni contenute negli accordi interconfederali o di categoria stipulati da
associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale”. Sembra qui che
nell’improbabile intreccio tra accordi interconfederali e decreti
ministeriali si debba svolgere la consumazione definitiva del rovesciamento del
principio classico del diritto del lavoro: quello relativo al carattere, in via
generale e di principio, inderogabile
delle norme lavoristiche (Garofalo M.G. 2004). Occorrerebbe poi analizzare
compiutamente i molteplici richiami ai diversi livelli contrattuali, nel
rapporto contraddittorio tra dimensione nazionale e territoriale, e infine
valutare il significato della rinuncia dichiarata nel “libro bianco del
lavoro” a regolare la rappresentanza e la rappresentatività sindacale,
lasciando quindi irrisolto il problema della efficacia giuridica del contratto
collettivo, salvo utilizzare la formula ambigua
delle “associazione comparativamente più rappresentative” (v.
Roccella infra). Se ne trae una sola conclusione: tutto ciò assomiglia a un puzzle confuso, più che a una
ordinata e razionale regolazione.
Non
è un caso che le maggiori confederazioni sindacali, già divise in occasione
del c.d. “patto per l’Italia” abbiano ritrovato una unità di azione, non
solo sul tema della riforma delle pensioni.
4.
Lo sfasamento
Ciò che colpisce comunque di più nella faticosa lettura del d.lgs.
n.276/2003, oltre agli aspetti formali e sostanziali sopra descritti, è un
senso per così dire di straniamento. Le norme in oggetto assumono la
flessibilità del lavoro come criterio della regolazione e al tempo stesso come
valore presupposto. Sembra di intendere che quando è stato scritto quel
complicato testo normativo si immaginasse una situazione siffatta: siamo alle
soglie di una nuova fase di sviluppo, di un c.d. nuovo miracolo economico. Per
adeguarsi a questa nuova fase l’Italia ha bisogno essenzialmente di una cosa:
flessibilizzare il proprio mercato del lavoro. Da qui nasce l’idea della
abolizione della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi, con
la sostanziale abrogazione
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori prefigurata dalla prima versione del
disegno di legge n.848 del 2001, e la stessa idea di moltiplicare all’eccesso
le figure flessibili di accesso al mercato del lavoro: dal lavoro a termine al
part time elasticizzato al lavoro a
chiamata fino alla somministrazione di manodopera.
Mai diagnosi risultò tuttavia più
erronea, e quindi fallace la terapia conseguente.
In Italia e in Europa non si è infatti verificato alcun “miracolo
economico”. Si è avviata invece una fase recessiva. Si registra, in
particolare in Italia, piuttosto un declino industriale. Dopo la crisi Fiat e le
bancarotte finanziarie tipo Cirio e Parmalat, nessun imprenditore serio si
azzarda più a invocare flessibilità
del lavoro e libertà di licenziamento come panacee per tutti i mali. Anche la
Confindustria si avvia a cambiare registro: non ci saranno più “manifesti di
Parma” in cui, alla presenza di un padrone di casa poi rivelatosi
bancarottiere fraudolento, si indica nella rigidità del lavoro
e nelle politiche di concertazione i mali da abbattere. I fatti hanno
dimostrato che c’è invece bisogno dell’esatto contrario: rilanciare le
politiche di concertazione e coesione sociale,
rivalorizzare il senso e il significato del lavoro, anzitutto garantendo
a chi si cimenta nel lavoro nel settore privato, cioè ai giovani, una
prospettiva di vita e di sicurezza,
e poi sviluppando efficaci politiche di integrazione della nuova forza lavoro
extracomunitaria, di cui questo paese ha un bisogno vitale.
Sono quindi in gioco oggi politiche di stabilizzazione e valorizzazione
del lavoro, esattamente agli antipodi della filosofia che ha animato le leggi in
commento.
5.
Le prospettive. Abrogare la legge n.30/2003?
Resta una ultima
domanda. Gli oggetti legislativi qui commentati avranno vita lunga o breve?
Caratterizzeranno le politiche del lavoro dei prossimi anni o verranno
cancellate con un colpo di spugna mediante un semplice atto di abrogazione da
parte di un prossimo eventuale legislatore? Il futuro, anche e specialmente sul
piano politico, è di per sé imperscrutabile.
Proprio qui può invece servire il contributo di una comunità scientifica
capace di riaffermare nei fatti la propria indipendenza, di vestirsi, come
diceva Machiavelli, dei panni che “solo sono miei”, emancipandosi quindi
dalla alternativa, distruttiva
anzitutto per la libertà di pensiero, tra identificazione delle leggi qui
commentate come una sorta di nuovo testo biblico a cui non si può che giurare
fedeltà ovvero, al contrario, come una specie di specchio del diavolo. Occorre
distinguere il grano dal loglio, tra norme che dovranno essere semplicemente
cancellate ed altre che andranno invece ampiamente rivisitate e riformulate.
Luigi
Mariucci
(Ordinario
di diritto del lavoro nell’Un. di Venezia)
Bibliografia
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Postilla dell'autore del Sito
Nel condividere pienamente quanto esposto dal prof. Mariucci, evidenzio come io mi sia deliberatamente "contenuto" - direi quasi "astenuto" - nella corsa inflazionata all' analisi della "legislazione spazzatura" di questa compagine di maggioranza, anche perché con i tempi che corrono non va sottratto soverchio spazio... a cassonetti privati e a discariche pubbliche. L'auspicio è per una totale abrogazione di questa nefasta e fetida produzione da parte di nuovi, prossimi, legislatori, più rispettosi dei valori dell'uomo riscoperto capace di governare (e di porsi aldisopra de) gli interessi dei mercanti e del mercato.
Roma, 20 aprile 2004
Mario Meucci
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