ESIGENZE DI UNIFORMITA’ IN TEMA DI PROVA DEL DANNO ALLA PROFESSIONALITA'  0  DA DEMANSIONAMENTO

(note critiche a Cass. sez. un. n. 6572/2006)

 

Sommario

1. Le sezioni unite sulla prova del danno da demansionamento

2. Il c.d. danno alla professionalità: contenitore atecnico di plurimi danni

3. Le affermazioni problematiche o censurabili di Cass. sez. un. n. 6572/2006

4. Nostre considerazioni critiche

5. Riepilogo dei punti di dissenso, anche alla luce di successive decisioni della Cassazione

6. Conclusioni e auspici

 

1. Le sezioni unite sulla prova del danno da demansionamento

In data 24 marzo 2006 le sezioni unite – aderendo ad un orientamento minoritario radicatosi in seno alla sezione lavoro – hanno inteso risolvere un contrasto tra:

a) coloro che consideravano risarcibile il danno da demansionamento (con dizione lata ed onnicomprensiva definito in passato “danno alla professionalità”) al riscontro dell’evento della dequalificazione (c.d. “in re ipsa”) ovvero in conseguenza di presunzioni gravi, precise e concordanti (basate sul dislivello tra le mansioni a quo e quelle deteriori ad quem, la durata della dequalificazione, l’indifferenza aziendale alle reiterate proteste della vittima evidenzianti, per altro verso, un intento psicologico datoriale decisamente pregiudizievole);

b) e coloro che, invece - una volta acclarato e provato l’avvenuto demansionamento - richiedevano, per il risarcimento, l’addizionale dimostrazione del tipo di pregiudizio conseguente al demansionamento stesso (c.d. “doppia dimostrazione”).

Questa alternativa si dibatteva da anni, ma l’orientamento prevalente in seno alla sezione lavoro e nelle stesse sedi di merito, era giunto ad asserire che pur non potendosi considerare il danno alla professionalità (da demansionamento) “danno evento” ma “danno conseguenza”, il carattere immateriale dei beni o valori lesi dal comportamento inadempiente al precetto dell’art. 2103 c.c. da parte del datore di lavoro, non consentiva la dimostrazione del concreto pregiudizio subito (c.d. “deminutioex art. 1223 c.c.) a meno di non voler sottoporre il lavoratore ad una “probatio diabolica”. Anche perché è dato di comune esperienza e, quindi, fatto notorio ex art. 115 c.p.c. che l’inesercizio delle mansioni oggetto del patto d’assunzione o conseguite successivamente per progressione accrescitiva di professionalità, determina automaticamente e comunque un impoverimento della stessa. L’impoverimento o degrado è destinato, ragionevolmente, a risultare maggiore per coloro che sono impegnati in incombenze sottoposte a rapida obsolescenza tecnologica (com’è il caso dell’esperto informatico), ovvero per coloro che sono adibiti a mansioni professionali di legali e fiscalisti (sottoposte alle alluvionali innovazioni legislative e giurisprudenziali), ovvero per coloro che disimpegnano mansioni di gestione di risorse e decisionali, le cui attitudini formativo-addestrative e direttive finiscono inesorabilmente per subire una caduta verticale direttamente causata da inesercizio.

Ma a questo immiserimento professionale, per il demansionato, si addiziona inevitabilmente una mortificazione da sottrazione di compiti qualificanti o da inattività, una mancata autorealizzazione che egli traguardava tramite il proprio precedente impegno di lavoro, un danno d’immagine nell’ambiente di lavoro e all’esterno in diretta conseguenza di un intuitivo discredito e danno alla reputazione (e talora all’onorabilità) di cui viene ad essere oggettivamente gravato. Giacché se l’azienda lo ha dequalificato, all’interno e all’esterno, è communis opinio che la misura sanzionatoria o pseudosanzionatoria sarà dovuta al riscontro di una incapacità professionale o a inattitudine al disimpegno delle mansioni originarie ovvero dall’aver compiuto qualche malefatta: si pensi al “venticello” infamante che circola per il rimosso dall’incarico di responsabile del personale o della selezione del personale, in un mondo in cui alberga oltre alla pratica della raccomandazione, quella della tangente o dei favori sessuali per traguardare l’ottenimento di un posto di lavoro; ovvero si pensi al responsabile dei rapporti con le variegate sigle sindacali, la cui rimozione o spostamento in ruolo dequalificato genera il diffuso convincimento che sia stato accantonato per aver colluso con l’una o l’altra delle rappresentanze sindacali interne; si pensi alla sottrazione di un incarico di responsabilità nel settore commerciale, ove lo spostamento a incombenze deteriori può indurre la diffusa convinzione di un provvedimento punitivo aziendale, volto a sanzionare in maniera atipica una carenza di trasparenti rapporti con la clientela, e le esemplificazioni potrebbero continuare. Tanto più che i provvedimenti aziendali di demansionamento non vengono mai o quasi mai motivati (in rari casi si giustificano con esigenze organizzative e con l’esercizio discrezionale dello ius variandi) e l’azienda resta sorda alle reiterate richieste della vittima di un illegittimo esercizio del potere di modifica delle mansioni, sottoposto dall’art. 2103 c.c. al vincolo della equivalenza (in senso soggettivo e oggettivo).

Insomma al degrado di professionalità si accompagna immancabilmente un danno all’identità personale, un danno d’immagine e un danno da mortificazione interiore. Si tratta di danni che non sono dimostrabili, in quanto la mortificazione attiene alla categoria del “danno morale” (sofferenze e patimenti interiori transeunti), il danno all’immagine e alla reputazione parimenti non risulta documentabile da chi lo subisce (quale teste direbbe che, effettivamente, la vittima è stato poi da tutti considerato un “trombato” e uno “screditato”?). Ci sono poi conseguenze più incisive e sono quelle che il nuovo orientamento giurisprudenziale introduttivo del c.d. “danno esistenziale” porta a collocare nel suo ambito, in quanto per il demansionato - estraniato o marginalizzato in azienda (es. posto in condizioni di inattività e/o in ambiente privo di dotazioni strumentali di lavoro, come i mobbizzati della ben nota Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto) - si attualizzano le condizioni di un «mutamento peggiorativo dello stile di vita e delle abitudini pregresse», per il tramite di comportamenti di evitamento delle normali relazioni sociali (conseguenti a caduta di autostima ed eterostima), per effetto di abulia, apatia, rinunzia alla fruizione naturale dei benefici ricreativi e dei convegni di aggiornamento professionale. In ambito extralavorativo e familiare, prendono corpo la svogliatezza di intrattenere gli usuali rapporti con i vicini e con i familiari (ivi inclusi i rapporti affettivi con il coniuge ed i figli), le rinunzie alla frequentazione di ristoranti, alle gite ricreative di fine settimana, la dismissione degli svaghi culturali (visite a musei, serate a teatro, frequentazione di concerti e simili).

Per ultimo, qualora il demansionamento sia incisivo e protratto determina di solito la sindrome depressiva, da stress per disadattamento lavorativo, che si riverbera in danno biologico (tramite le varie somatizzazioni da patologia ansioso-depressiva, da attacchi di panico, gastralgie, tachicardie, dermatosi ecc.), definito dall’art. 13 D.Lgs. n. 38/2000 quale «lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona» (definizione confermata sostanzialmente dall’art. 5, comma 3, L. n. 57/2000, per le lesioni di lieve entità da sinistri stradali), ed in quanto tale - a differenza degli altri sopraevidenziati - pacificamente documentabile in giudizio tramite certificazione sanitaria, eventualmente oggetto di riscontro da parte di Ctu specialista nominato dal magistrato.

 

2. Il c.d. danno alla professionalità: contenitore atecnico di plurimi danni

Questa premessa ci è sembrata necessaria al fine di evidenziare i più frequenti pregiudizi correlati al “danno alla professionalità”, da noi  sopra illustrati neppure in forma esaustiva giacché esiste anche il danno alla professionalità “oggettivamente intesa” (come ebbe ad esaminare con approfondimento sul versante probatorio, Cass. n. 14443/2000), strutturati dalla perdita di chanches, cioè di opportunità di miglioramenti retributivi conseguenti a inibita progressione di carriera interna, al mancato conseguimento di specifiche indennità o premi correlati alle mansioni originarie, nonché dalla perdita di opportunità di ricollocazione sul mercato esterno.

Ciò detto, va evidenziato come la prima decisione della Cassazione che ebbe modo di delineare come il c.d. “danno alla professionalità” - rivendicato dai legali del demansionato (nel periodo compreso tra gli anni ’90 ed il primo quinquennio del nuovo secolo) - fosse un contenitore poliforme di una serie più analitica di danni, è stata Cass. 14 novembre 2001, n. 14199 (e poi, conf. ex multis, Cass. 22 febbraio 2003, n. 2763).

Essa ebbe opportunamente modo di specificare come: «il danno da dequalificazione professionale o, più sinteticamente, il danno professionale [...] può assumere aspetti diversi. Innanzitutto può consistere nel danno patrimoniale derivante, in via diretta ed automatica, dalla dequalificazione, dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (un danno molto evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni, soggette a una continua evoluzione e quindi bisognose di continui aggiornamenti), così come può consistere nella perdita addizionale, a seguito della minor qualificazione (conseguente a dequalificazione), di un maggior guadagno per privazione della possibilità per il lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o, come preferiscono esprimersi alcune decisioni, nella perdita di chance.

Peraltro il danno professionale potrebbe assumere anche aspetti non patrimoniali. Potrebbe, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività, o l'esercizio di mansioni inferiori, ha determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere, una afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299) e, secondo alcune decisioni, potrebbe anche costituire una lesione del diritto all'immagine o del diritto alla vita di relazione (Cass. 10 aprile 1996, n. 3341). L'accertamento della sussistenza e dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle varie specie di danni, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia denominazione, è compito del giudice di merito e si risolve in una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata».

Da quanto sopra consegue, a nostro avviso, che la rivendicazione del c.d. “danno alla professionalità” contenuta nei giudizi pendenti attivati dai ricorsi depositati in quel determinato arco temporale (1990-2005 ca) - e che vengono, grazie alla lentezza della nostra giustizia, ora a definizione - pur rivelandosi atecnica, indica un contenitore di plurimi danni del tutto chiaro ed in uso nei ricorsi dell’epoca, costituiti da danni patrimoniali e non patrimoniali, che il magistrato – secondo il principio “iura novit curia”, specificherà in base alla sua competenza giuridica. Talché sarebbe errato, in data successiva e al giorno d’oggi, considerare non ricompresi nella rivendicazione risarcitoria del c.d. “danno alla professionalità” le fattispecie del danno morale da mortificazione, del danno d’immagine, del danno esistenziale (nato ed accolto successivamente), precludendone l’accoglimento quale “domanda nuova”, quando si tratta, invero, di mere specificazioni di sottospecie di danni delineatisi con più trasparenza ed autonomia a seguito della successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Si vuole in sostanza dire che, una volta rivendicato il “danno da demansionamento” ovvero il “danno alla professionalità”, incombe al magistrato – sulla base della descrizione dei pregiudizi connessi ed allegati – individuare le specifiche ed analitiche fattispecie di danni (il biologico, il morale soggettivo, il patrimoniale, l’esistenziale ecc.) e disporne il risarcimento.

Non è mancata in una controversia giudiziaria l’obiezione della difesa di parte convenuta, secondo cui un certo tipo di danno (nel caso, da mobbing) non avrebbe dovuto essere indennizzato, per supposta “domanda nuova” nel corso del giudizio incentrato sulla richiesta iniziale del “danno da demansionamento”; tesi correttamente disattesa dalla Cassazione che ha osservato come la fattispecie del mobbing all’epoca del ricorso era pressoché sconosciuta e comunque essa non costituiva affatto domanda nuova, in quanto la difesa del ricorrente aveva anche rivendicato tutti i danni conseguenti al complessivo illegittimo comportamento datoriale (così, Cass. 23 marzo 2003, n. 6326).

Quanto sopra esplicitato deve servire a non fraintendere - ma, invece, a correttamente interpretare – quell’affermazione reperibile in Cass., sez. un., n. 6572/2006, secondo cui: «... occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore [...], che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 c.p.c. – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto».

Se invece la soprariferita affermazione la si dovesse (o volesse) interpretare nel senso che essa è volta ad esigere dal ricorrente (e dalla sua difesa) – a pena di esclusione – la specificazione analitica e giuridicamente appropriata della tipologia dei danni rivendicati in conseguenza della dequalificazione, notoriamente ricompresi (nel) e riconducibili al già delineato contenitore “danno alla professionalità” o “danno da demansionamento”, la richiesta non si sottrarrebbe al legittimo sospetto che si sia trovato l’espediente surrettizio per rigettare la maggior parte dei ricorsi pendenti e smaltire, per tal via, anche l’arretrato accumulato.

 

3. Le affermazioni problematiche o censurabili di Cass., sez. un., n. 6572/2006

Venendo all’esame delle ulteriori statuizioni di Cass., sez. un., 24 marzo 2004, n. 6572, postulante la prova a carico del lavoratore del pregiudizio concreto derivante dal demansionamento o dal confinamento in condizioni di ben più mortificante inattività, riteniamo di dover evidenziare il nostro dissenso dalle seguenti affermazioni:

«Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma; non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di cui all’articolo 1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 c.c., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale n. 372/1994».

«[...] Va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore».

«Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire».

 

4. Nostre considerazioni critiche

A noi sembra che gli estensori siano incorsi in una certa confusione o per lo meno si sia deliberatamente fatta la scelta di veicolare ed accreditare un orientamento restrittivo ed oscurantista, quando si è affermato - riprendendo l’opinione espressa originariamente da Cass. n. 16792/2003 - che l’inadempimento datoriale consistito nella violazione dell’art. 2103 c.c. è già “sanzionato” dalla irriducibilità (o invarianza) retributiva e che quindi, per sottrarsi all’addebito della cd. “doppia dimostrazione”, il reale ed unico danno da provare era il concreto pregiudizio alla professionalità, all’immagine, alle modificazioni peggiorative delle pregresse abitudini di vita.

Va al riguardo ricordato che già la vecchia formulazione dell’art. 2103 c.c. afferente allo ius variandi conteneva la “condizione” limitativa dell’assegnazione a mansioni diverse, rappresentata dal non abbattimento della retribuzione (attraverso la formula secondo cui: «l’imprenditore può [...] adibire ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui», giurisprudenzialmente interpretata come esigibile la modifica alla condizione che fosse resa necessaria dalle esigenze produttive e quindi avesse carattere provvisorio, non determinasse una di lui diminuzione nella qualifica o grado rivestito e non determinasse sottoremunerazione). E Lodovico Barassi intorno agli anni ’20 notava (in Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società Editrice Libraria, Milano, 1915-1917, II, p. 422) che «non basta asserire [...] che per il lavoratore è sufficiente che la mercede rimanga intatta», mutando poi - secondo noi - opinione 40 anni dopo tramite la successiva e più conservatrice affermazione tesa a giustificare la c.d. ineluttabile adattabilità a mansioni diverse che sarebbe stata accettabile per il lavoratore in quanto «resa innocua dalla tutela – questo deve importargli soprattutto – della retribuzione» (in Il diritto del lavoro, Giuffrè, Milano 1957, I, 372-374 ed ivi nota 41).

Con l’art. 13 della legge n. 300/1970, al divieto di sottoremunerazione, il legislatore statutario ha addizionato – per lo ius variandi – la condizione ulteriore del rispetto della equivalenza (in senso oggettivo e soggettivo), oltre alla “sanzione” (questa sì è una sanzione!) di nullità dei patti di dequalificazione e sottoremunerazione (art. 13, ult. comma, l. n. 300: «Ogni patto contrario è nullo»). Patti, all’opposto, pacificamente legittimi in epoca di vigenza del vecchio art. 2103 c.c., come si desume dal passo della seguente decisione: «il consenso del lavoratore non è richiesto quando l'imprenditore, osservando le limitazioni previste dall'art. 2103, destina il prestatore di lavoro a mansioni diverse, ma tale consenso occorre quando il lavoratore stesso sia adibito non temporaneamente ad una mansione diversa, con diminuzione della retribuzione e con un mutamento sostanziale nella posizione di lui, quando, cioè, non vengano osservate le limitazioni indicate nell'art. 2103. In tal caso, il lavoratore è libero di rifiutare o accettare le nuove condizioni di lavoro. Se le rifiuta può domandare la risoluzione del rapporto per colpa dell'imprenditore e le indennità dipendenti da giusta causa di recesso, ma se le accetta non può pretendere che mansioni diverse e inferiori siano retribuite nella misura originaria, salvo, sempre, il rispetto dei minimi stabiliti dall'art. 36 Cost. e dai contratti collettivi per le nuove mansioni» (Cass. 5 giugno 1963, n. 1494, in Riv. dir. lav., 1964, II, 38).

Quindi già ab illo tempore la sottoremunerazione non era caratteristica strutturale e costitutiva della modifica delle mansioni e del demansionamento illegittimo, ma ne costituiva remora, disincentivo o deterrente legislativamente introdotto, piuttosto che “sanzione” o “provvedimento compensativo” primario del danno da demansionamento, implicante l’onere (affermato primariamente da Cass. n. 1792/2003 e recepito da Cass., sez. un., n. 6572/2006) della prova del pregiudizio addizionale ed ulteriore rispetto al supposto danno primario già legislativamente precompensato o “sanzionato” tramite un’invarianza retributiva, che invero non assolveva a funzione risarcitoria, ma costituiva la riaffermazione, nello specifico articolo e con finalità deterrente, della contrattualità della qualifica e del livello retributivo ad essa corrispondente.

Da quanto sopraevidenziato consegue, inequivocamente, che il demansionamento si identifica ed attualizza esclusivamente nella fattispecie della sottrazione o erosione dei compiti e delle mansioni o nella totale inattività, ed ha esclusiva attinenza alle mansioni e non già al trattamento retributivo, non suscettibile di degradazione, talché si è giustamente detto, a suo tempo, che il nuovo art. 2103 c.c. (dopo la modifica statutaria) ha sancito «l’irreversibilità della carriera aziendale del lavoratore» (così, G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano 1977, I, 486).

Già, peraltro, aveva detto Cass., sez. lav., 14 novembre 2001, n. 14199 che: «...il danno da dequalificazione professionale..., non si identifica con il danno derivante dalla mancata corresponsione del trattamento retributivo dovuto in relazione alle mansioni [...] ma può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della propria professione», e l’aveva, tre anni dopo, ribadito Corte cost. n. 113/2004 quando aveva affermato che: «... dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo».

Quindi solo se si predilige (nell’intimo e senza esternarla) una concezione del lavoro come “pena, fatica o sofferenza” ovvero si ragiona come il Barassi del 1957 (soprariferito) - talché per il lavoratore, sottoposto a demansionamento, concepito come sollevazione da incombenze e mansioni penose a retribuzione invariata e percepita, gli si arrecherebbe addirittura un beneficio che renderebbe assolutamente ingiustificata qualsiasi lamentela - e non si opta, invece, per la concezione del lavoro, accolta dalla Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4, 35, 41), che la delinea come fonte di autorealizzazione della propria personalità, perseguendo la «effettività del diritto al lavoro» nonché il disimpegno di «una attività e funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 Cost.), si può affermare quanto segue: che vanno provate «... quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore [...] è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire» (così, Cass., sez. un., n. 6572/2006).

Quindi da queste affermazioni delle sezioni unite esce legittimato un inadempimento alla norma imperativa di ordine pubblico dell’art. 2103 c.c. (e dell’art. 2087 c.c.) senza sanzione alcuna, rendendo “eventuale” un ristoro risarcitorio solo dietro assolvimento di oneri probatori particolarmente difficoltosi (quando non si risolvono in una “probatio diabolica”) per l’utente debole del servizio giustizia (il lavoratore subordinato). La decisione si risolve in un vero e proprio salvacondotto o garanzia di impunità per i responsabili dell’inadempimento, che (si premurano di puntualizzare le sezioni unite) - qualora venissero assoggettati ad un risarcimento non supportato da prove circostanziate di danno da demansionamento allegate dal lavoratore ricorrente - sarebbero indebitamente sottoposti ad una misura esclusivamente punitiva non contemplata dal nostro ordinamento (i c.d. “danni punitivi”, o “somma castigo”, secondo la dizione delle sezioni unite).

Non si può non osservare che se si è giunti a queste conclusioni, un atteggiamento più al passo con i tempi o più realistico o più equilibrato e meno ancorato al burocratese, avrebbe dovuto orientare la Corte ad essere meno rigorosa e più corrente in tema di oneri probatori, invece puntigliosamente pretesi e posti a carico del lavoratore ricorrente (pur lasciando spazio, come non poteva non fare, al già affermato ricorso “precipuo” alle presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c. ed al fatto notorio ex art. 115 c.p.c., sostenuto dall’orientamento maggioritario non accolto, vertendosi in un ambito di lesione di beni eminentemente immateriali).

 

5. Riepilogo dei punti di dissenso, anche alla luce di successive decisioni della Cassazione

Tornando a quanto detto al punto 1, va altresì sottolineato che la decisione n. 6572/2006, oltre a rivelarsi lacunosa (ad es. per mancata o non esauriente trattazione del danno morale e del danno d’immagine correlato al demansionamento), risulta contraddetta da successive decisioni della Cassazione civile, che hanno dibattuto il risarcimento del danno morale, del danno d’immagine e alla reputazione nonché del danno esistenziale.

Pertanto riproponiamo il nostro dissenso più analiticamente, tramite i seguenti punti e sui contenuti sostanziali in essi dibattuti:

a) relativamente al “danno alla professionalità” (circoscritta dall’orientamento degli ultimi 2-3 anni, al depauperamento delle cognizioni ed attitudini di lavoro da demansionamento, quando invece sin dagli anni ‘90 era, come già detto, contenitore di plurimi danni, patrimoniali e non patrimoniali) di cui si richiede la dimostrazione, va detto che la richiesta costituisce “probatio diabolica” (se non soccorre il precipuo ricorso alle presunzioni): infatti chi mai potrebbe documentare o testimoniare che il ricorrente demansionato è caduto in uno stato di obsolescenza (non certo gli omertosi colleghi, terrorizzati dalle realistiche quanto mimetiche ritorsioni sulla carriera se si imbarcano in deposizioni testimoniali; si dovrà forse ricorrere ad una Ctu affidata dal magistrato ad un professionista ad hoc?).

La richiesta probatoria delle sezioni unite appare del tutto singolare, poiché è tanto risaputo quanto intuitivo che l’inesercizio (per fatto notorio e salvo che per talune mansioni di infimo valore) risulta determinativo di un automatico immiserimento, come fulgidamente scrive - dal 1992 a tutt’oggi (e quindi da oltre 14 anni) - il Tribunale di Milano, secondo cui: «l'impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.) circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore [...] non può essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale dipende ed è costituita non solo dalle nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente valutabile.

La determinazione del danno alla professionalità in senso stretto va compiuta in via equitativa, con riferimento alla quota della retribuzione globale nel periodo di demansionamento corrispondente alla parte di retribuzione che compensa la capacità professionale del lavoratore (in fattispecie il danno alla professionalità è stato risarcito in misura pari al 72% della retribuzione mensile per ogni mese di demansionamento)» (così, Trib. Milano 21 gennaio 1992, Trib. Milano 4 maggio 2001, Trib. Milano 14 aprile 2005, Trib. Milano 6 gennaio 2006, in http://dirittolavoro.altervista.org/link3_a.html);

b) quanto al “danno morale” da mortificazione e sofferenza interiore (c.d. “pretium doloris”), ricompreso nel “danno alla professionalità” in conseguenza di demansionamento, si osserva che di esso non è pretendibile la prova e quindi è necessariamente presunto come “danno conseguenza”, discendente dal “danno evento” del demansionamento (opinione pacifica in dottrina e in giurisprudenza); oltreché essere divenuto risarcibile – dopo l’interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c. c. (fornita da Corte cost. n. 233/2003 e dalle sentenze gemelle della Cassazione nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003), oramai a prescindere dalla ricorrenza del reato, sufficiente essendo che consegua da violazione di valori costituzionalmente protetti (quali, quello all’autorealizzazione nel lavoro e alla salvaguardia della dignità del lavoratore, ex artt. 1, 2, 3, 4, 35, 37 e 41, comma 2, Cost.).

In un caso emblematico di danno morale da irragionevole durata del processo (disciplinato dalla c.d. legge Pinto), con 4 decisioni del 26 gennaio 2004, n. 1338 (Balzini), n. 1339 (Lepore), n. 1340 (Corbo), n. 1341 (Lepore), la Cassazione civile si è così espressa: «... mentre l’esistenza del danno patrimoniale, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l’id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell’articolo 6 della cedu (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001, c.d. legge Pinto), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso). Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che, dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate». Il che equivale, praticamente, ad inversione dell’onere della prova, incombente pertanto su chi sostiene non essersi realizzata (come di norma avviene) tale consequenzialità pregiudizievole. E questi principi di diritto non possono non attagliarsi anche al danno morale da “demansionamento professionale”;

c) quanto al “danno all’immagine e alla reputazione” da discredito nell’ambiente di lavoro e all’esterno (presso la clientela, i fornitori, le associazioni professionali di cui uno faceva parte per motivi di lavoro prima del demansionamento e della rimozione da incarico ed alle cui riunioni non viene più inviato dall’azienda) è anch’esso non documentabile (come potrebbe il demansionato provare di essere considerato uno screditato all’interno ed all’esterno: il discredito raramente è plateale mentre di solito viene maturato dai terzi interiormente, e chi di loro lo testimonierebbe?).

Ne consegue che potremmo dire che è ragionevolmente automatico, come ha asserito la Cassazione recentissimamente per la fattispecie assimilabile del “protestato illegittimamente”, senza efficace rettifica. A questo riguardo con sentenza n. 14977 del 28 giugno 2006, la I sezione civile della Cassazione ha affermato: «Il protesto cambiario, conferendo pubblicità ipso facto all'insolvenza del debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un'ottica commerciale-imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda, di indubitabile discredito, tanto personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato ed ove privo di una conseguente, efficace rettifica, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale anche sotto il profilo della lesione dell'onore e della reputazione del protestato come persona, al di là ed a prescindere dai suoi eventuali interessi commerciali; onde, qualora l'illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo di diritti della persona, il danno, da ritenersi in re ipsa, andrà senz'altro risarcito, non incombendo sul danneggiato l'onere di fornire la prova della sua esistenza ed essendo quindi il medesimo danneggiato legittimato ad invocare in proprio favore l'uso, da parte del giudice, del relativo potere di liquidazione equitativa».

È fatto notorio e dato di comune esperienza che il demansionamento o l’inattività, conseguenti alla rimozione da incarichi, non rimangono chiusi “nel silenzio del chiostro” ma sono accompagnati da una rapida e diffusa pubblicità (talora anche per effetto dell’affissione nelle bacheche aziendali di comunicazioni di servizio certificative dello spostamento ad incarico non funzionale deteriore – ad esempio: staff, “ricerche di mercato”, incarichi “uti singulus”- ovvero conseguenti da pubblici o divulgati organigrammi che attestano la sparizione della posizione e del ruolo in precedenza rivestito e, se del caso e solitamente, attribuito ad altri). Per quanto innanzi detto non si vede, pertanto la ragione, per cui - considerato automatico il danno d’immagine e alla reputazione del “protestato illegittimamente” senza rettifica -, lo stesso principio di diritto non debba essere applicato al “demansionato” illegittimamente (e senza motivazione o con motivazione non convincente o realistica delle causali, da parte aziendale, la cui carenza è indubitabilmente suscitatrice, all’interno e all’esterno, di sospetti o convinzioni di compiute nefandezze o al limite di inettitudine), la cui condizione diventa di pubblico dominio per diffusa conoscibilità e con effetti di discredito nella cerchia delle sue pregresse relazioni socio-professionali ed in ambito geografico tutt’altro che circoscritto, tanto da legittimare automaticamente l’accoglimento della richiesta della vittima di pubblicazione sulla stampa e di affissione in azienda della sentenza di condanna datoriale, a ripristino dell’ingiustamente subito danno all’immagine;

d) quanto al “danno esistenziale” da “alterazione peggiorativa della qualità della vita”, conseguente al danno alla professionalità da demansionamento, sul quale le sezioni unite si mostrano particolarmente esigenti in tema di prova a carico del lavoratore (giacché, a differenza dell’interiore danno morale, il danno esistenziale si esteriorizzerebbe tramite modificazioni comportamentali del pregresso soddisfacente stile di vita), va osservato che l’aver eretto a danno degli utenti più deboli del servizio giustizia una tale serie di ostacoli probatori, pressoché insormontabili, equivale ad aver indirizzato ai datori di lavoro un messaggio di licenza di “emarginare e dequalificare”. I malcapitati se la vedranno, poi, con i cavilli probatori e con il percorso ad ostacoli costruitogli dalla magistratura di vertice, aggravati dalla congenita lentezza della giustizia del nostro Paese. È anche probabile che si sia data la stura a “transazioni al ribasso” da parte dei danneggiati, a tutto vantaggio di una “pseudo-giustizia” stragiudiziale.

Si può quindi senza tema di errore affermare che come si poteva (e si può) “precarizzare” in virtù della c.d. “legge Biagi” o “legge 30”, ora si può pressoché impunemente “demansionare” per licenza delle sezioni unite. Sembra un’affermazione forte, ma è la fotografia della realtà prossima ventura in seno alle aziende, se non si ha l’accortezza di adottare da parte della magistratura - nei confronti delle rigide affermazioni di principio delle sezioni unite - dei correttivi applicativi di buon senso pratico.

Perché, per essere più chiari, le aperture al ricorso alle prove presuntive e a tutta la serie delle prove dell’ordinamento, rischiano di apparire fittizie in quanto contraddette dalle specificazioni esemplificative attinenti alla tipologia di prove da fornire, delineate puntigliosamente dalle stesse sezioni unite. Esse dicono che se si vuole dimostrare una modificazione alterativa delle abitudini di vita (c.d. danno esistenziale), si dovranno depositare documenti (che non si sa, allo stato, quali possano essere ma che comunque non si identificano con le odierne certificazioni rilasciate dai vari Centri diagnostici per il disadattamento lavorativo idonee solo a documentare il danno biologico, a meno che essi non si attrezzino in futuro per documentare anche alterazioni comportamentali probatorie dei danni esistenziali), ovvero si dovranno portare le testimonianze dei congiunti o dei colleghi. Insomma la frustrazione e la mortificazione dovrà essere esternata in azienda e resa percepibile (attraverso decise prese di posizione o “reazioni”, come richiedono le sezioni unite, del demansionato verso il datore di lavoro o il superiore mobber o i colleghi side mobbers, che  - se non fossimo in un Paese civile - verrebbe da auspicare si concretizzassero nella più liberatoria e risolutiva “regolazione dei conti” a livello fisico, come si meriterebbero coloro che demansionano o mobbizzano strategicamente).

In buona sostanza il demansionato non dovrà macerarsi interiormente ma “dar segni di essere andato fuori di testa”, per tal via potendosi testimoniare da qualche collega “volenteroso” ed “autolesionista” (per le più che certe ritorsioni sulla carriera) l’alterazione del di lui pregresso stile di vita. Quanto al ricorso (legittimato e suggerito) ai congiunti, si attualizzerà traducendo a teste il coniuge per attestare la caduta verticale dei rapporti sessuali o affettivi in senso lato, gli sgarbi verso i figli, l’indisponibilità allo shopping e alle ricreazioni del tempo libero, l’abulia verso cinema, teatri, cene a ristorante, verso scampagnate fuori porta o nei confronti della fruizione delle vacanze et similia.

Ma c’era bisogno della richiesta di queste prove per dedurre – come avevano fatto sinora i magistrati secondo l’id quod plerumque accidit – che il demansionato e il frustrato, il leso nell’autostima ed eterostima dalle incisive iniziative vessatorie, non poteva che comportarsi secondo quel quadro sintomatico e generalizzato di anomalie, eccezion fatta per i rari casi in cui ci si trova di fronte ad uno cui tutto scivola addosso (ma allora questo non adisce neppure la magistratura per ottenere di essere rinfrancato nella propria insicurezza da una sentenza di condanna datoriale)? Non si è forse imbrigliato oltre misura, con queste linee guida, il libero convincimento del magistrato che opera per affermare una giustizia sostanziale, al di là dei formalismi, piuttosto che per negarla in omaggio al detto popolare secondo cui essa è “forte con i deboli, debole con i forti”?

Quanto sopra va adeguatamente rimarcato, giacché non va neppure taciuto il convincimento che la pretesa probatoria delle sezioni unite in ordine al danno esistenziale da parte del demansionato, se può indiscutibilmente risultare esiziale per i ricorsi pendenti, può risultare sostanzialmente superflua e rischia addirittura di risolversi invece in un onere burocratico a connotazione “farisaica” per i futuri ricorrenti, stante la non infondatezza del rilievo avanzato in dottrina, secondo cui: «...non sarà difficile d’ora in poi per il lavoratore dedurre tempestivamente e, poi, comprovare più o meno veritiere alterazioni delle proprie abitudini di vita conseguite all’illecito datoriale. Tanto più che si tratta di circostanze inerenti alla sfera privata del lavoratore medesimo, su cui la difesa del datore di lavoro riesce difficilmente a contraddire» (così A. Vallebona, L’edonismo d’assalto di fronte alle Sezioni unite: il danno alla persona del lavoratore, in Mass. giur. lav., 2006, n. 6, 486).

Ciò evidenziato, non resta che sperare, eminentemente (ma non solo) per i ricorsi pendenti, in una ragionevole prassi applicativa di buon senso da parte della magistratura inferiore, pur nel rispetto dei vincoli ad essa frapposti dall’organo di nomofilachia, che si traducono in pressoché insormontabili ostacoli eretti nei confronti degli utenti più deboli (i lavoratori) che hanno avanzato richieste in epoca in cui l’onere probatorio del danno esistenziale non era stato ancora introdotto, in maniera così formalistica e restrittiva, dall’orientamento delle sezioni unite palesato nel marzo del 2006.

Sembrerebbe che per i lavoratori abbia giocato contro una impostazione conservatrice a favore dell’imprenditoria ovvero il pregiudizio che gli stessi – come si usa dire – “ci marcino” e tendano ad “arricchirsi” attraverso gli indennizzi (che, invero, sono andati via via riducendosi di valore dai primi anni novanta, come testimoniano le sentenze in materia, nelle quali alla liquidazione equitativa di una mensilità intera per ogni mese di demansionamento si è sostituita una frazione pari in media al 30-40% della stessa). Per dirla poi più chiaramente, va evidenziato che nella realtà i lavoratori – dati i tempi biblici delle attuali decisioni giudiziarie – utilizzano come extrema ratio il ricorso giudiziale e solo se spinti dall’umana esigenza di rafforzare il senso di identità sottrattogli da un incisivo demansionamento e per cercare di compensare in parte (con l’adire il magistrato nella speranza di una accertamento giudiziale ricognitivo delle ingiustizie subite) le mortificazioni conseguentemente sofferte o, per meglio dire, inflittegli da un patrigno datore di lavoro, nella stragrande parte dei casi del tutto deliberatamente e strategicamente in vista dell’espulsione dal posto di lavoro, per insostenibilità psicologica della situazione aziendale emarginante e vessatoria creatagli ad hoc, solitamente ad una certa età critica dopo che si è già dato il meglio di se.

Va anche detto - per evidenziare come ci si stia muovendo su un terreno infido e costellato di incongruenze (tali da legittimare l’esigenza di un meditato quanto tempestivo ripensamento su talune delle rigide pretese delle sezioni unite, la cui attenuazione, per l’utilizzo precipuo della prova presuntiva, è ragionevolmente testimoniata dalle successive Cass. n. 20616/06, Cass. 21406/06, Cass. n. 21826/06 e Cass. 22551/06 della sez. lav., rispettivamente del 22.9., 5.10., 12.10. e 22.10.2006) - come in epoca posteriore a Cass., sez. un., n. 6572/2006, si registri (per un caso in un certo qual modo dotato anch’esso di caratteristiche di assimilabilità), l’asserita esclusione dall’onere probatorio. Ciò è stato sancito dalla Cassazione con espresso riferimento al danno esistenziale da “uccisione del congiunto” a seguito di sinistro stradale”. In data 12 giugno 2006 la 3° sezione civile della S. Corte, con la decisione n. 13546 ha affermato: «La prova del danno esistenziale da uccisione dello stretto congiunto, che deve essere accertato e liquidato anche quando venga genericamente chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale in assenza di specifiche limitazioni della domanda a solo alcune delle altre voci (danno morale, danno biologico) che tale categoria compongono, è a carico del danneggiato, e può essere data anche a mezzo di presunzioni. Provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è allora da ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull'assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche ) all'esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione.

Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es., situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà “separati in casa”, ecc. ).

Non si tratta infatti, diversamente da quanto lamentato dalla odierna ricorrente, di un'ipotesi di presunzione iuris et de iure.

Nel caso in esame, incontestato il fatto-base della normale e pacifica convivenza del nucleo familiare costituito dal defunto, dalla consorte e dai due figli maggiorenni, il cui armonico svolgimento trova sintomatica conferma nella circostanza che uno dei figli svolgeva anche attività lavorativa con il padre e che della costituita società faceva parte anche la rispettiva moglie e madre, ed allegata (atteso che, se dispensa la parte che intende avvantaggiarsi dagli effetti favorevoli collegati al fatto dall'onere di provare quest'ultimo, la presunzione non dispensa altresì dall'onere di allegare il medesimo) dagli odierni controricorrenti la circostanza che la morte del loro stretto congiunto ha per essi comportato un'alterazione dell'equilibrio mentale riflettentesi sotto il profilo della difficoltà di partecipazione all'attività quotidiana e della demotivazione rispetto alla vita futura (come pure delle molteplici difficoltà incontrate nella conduzione della piccola azienda di cui avevano dovuto continuare ad occuparsi da soli), la corte di merito ha ritenuto provato il danno esistenziale da essi sofferto.

Era quindi l'odierna ricorrente a dover fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione di sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative, o del modo di relazionarsi con il prossimo derivante ai controricorrenti dalla perdita del – rispettivamente - marito e padre».

Rendendosi conto della valorizzazione conferita alla presunzione semplice – ai fini probatori del danno esistenziale da morte del congiunto e trovandosi di fronte alla recentissima (infelice) affermazione delle sezioni unite che, per il caso del demansionamento, avevano ipotizzato che il demansionato poteva non subire, in astratto, alcun danno esistenziale una volta soddisfatta (dall’invarianza retributiva) la sfera patrimoniale – la 3° sez. civ. nella sentenza n. 13546/06 afferma che: «pur se anche nell'ambiente familiare è astrattamente possibile che la perdita dello stretto congiunto (coniuge o genitore) possa non determinare conseguenze pregnanti nella sfera soggettiva laddove rimangano garantite quelle economiche, tale conseguenza appare invero nei normali rapporti di vita familiare assolutamente meno probabile e frequente che non nei rapporti di tipo lavorativo, come quello preso in considerazione da Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572».

In buona sostanza, per non dissociarsi dal precedente delle sezioni unite, la 3° sez. civ. asserisce che l’inversione dell’onere della prova – conseguente all’azionamento della presunzione ex art. 2729 c.c. – ha natura di normalità per il “danno esistenziale” da perdita del congiunto, in considerazione della pressoché costante alterazione peggiorativa della qualità della vita subita dai familiari, privati dell’affetto e dell’assistenza del deceduto, mentre può essere meno probabile per il danno esistenziale da mortificazione, discredito, lesione dell’immagine e della reputazione, perdita di autostima ed eterostima (occasionante spesso sindrome depressiva con incisive somatizzazioni) conseguente al demansionamento e alla rimozione da incarico.

Si tratta invero di una considerazione piuttosto opinabile – verosimilmente effettuata per non svalutare platealmente il meno intenso ricorso alle presunzioni per l’indennizzo del demansionato ventilato dalla sentenza n. 6572/2006 delle sezioni unite, presumibilmente per finalità eminentemente deflazionistiche del contenzioso o di matrice conservatrice e di sfavore verso l’ampia platea dei lavoratori subordinati - in quanto coloro che hanno dimestichezza della vita aziendale ben sanno quanto sia “normale” e “scontato” per il dipendente oggetto di una sostanziosa e protratta dequalificazione (per sorvolare sullo strategico accantonamento o confinamento in inattività forzata) subire una incisiva modificazione peggiorativa della qualità della vita, nei suoi aspetti relazionali e sociali, sovente accompagnata da danno biologico allo stato di salute, acclarato sempre più spesso dalle strutture sanitarie pubbliche o dai Ctu.

 

6. Conclusioni e auspici

Potremmo allora concludere queste nostre considerazioni, affermando che - a meno di non voler dar consistenza a differenti ed irragionevoli regimi probatori, quali esemplificativamente un ricorso alle presunzioni non necessario per il danno d’immagine “in re ipsa” per il “protestato” ingiustificatamente, un ricorso alle presunzioni incisivo e soddisfacente per il danno “non patrimoniale o morale” da irragionevole durata del processo e per il “danno esistenziale” pressoché sostanzialmente immanente per uccisione del congiunto ed  un ricorso alle presunzioni invece attenuato  e flebile per i danni arrecati al lavoratore demansionato, – la prospettiva applicativa del regime della presunzione semplice delineata in fatto da Cass. n. 13546/2006 merita di divenire ed imporsi quale prassi generalizzata anche per il risarcimento del “danno alla professionalità” o esistenziale da “demansionamento” (salva la prova contraria di parte convenuta), in applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit.

In tal modo l’orientamento di buon senso finora in prevalenza praticato in ambito giudiziario si sottrarrebbe all’imbrigliamento ad opera di tanto defatiganti quanto speciosi formalismi burocratici, suscettibili di peggiorare il servizio-giustizia per gli utenti, già oltremodo infastiditi dalle sue inefficienze. Giacché  ancora nessuno può negare con realistico fondamento che, al verificarsi di un demansionamento qualitativamente e temporalmente significativo, sia invce del tutto “normale”, reale, fondata e rispondente all’id quod plerumque accidit ed al fatto notorio, la considerazione reperibile nell’orientamento sinora maggioritario della sezione lavoro (non privilegiato dalle sezioni unite), secondo cui: «Il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall'art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima nell'ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello, determinando danni riconducibili nell’ambito del danno non patrimoniale» (così, Cass. n. 10157/2004).

 

Roma, 12 novembre 2006

 

(pubblicato su Lavoro e Previdenza Oggi, 8-9/2006, 1003 e ss.)

Mario Meucci

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