Le esternalizzazioni di attività produttive tra trasferimento di ramo d’azienda e appalto

 

Sommario: 1. Premessa - 2. Il trasferimento di ramo d’azienda. La nozione di ramo d’azienda. Il campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. prima della modifica del 2003. – 3. La nozione di ramo d’azienda: A) Il sostrato materiale. – 4. B) L’autonomia funzionale e la sua preesistenza; la conservazione dell’identità. - 5. La nuova nozione di ramo d’azienda nell’art. 32 del d.lgs. 276/2003. - 6. Il ruolo dell’autonomia individuale. Il significato dell’inciso “identificata come tale dal cedente e dal cessionario”. - 7. Le interpretazioni sistematiche. L’organizzazione, l’autonomia funzionale. – 8. I profili di contrasto con la disciplina comunitaria. - 9. La disciplina dell’appalto.

 

1. Premessa

Con la recente approvazione del d.lgs. 276/2003 - “attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro”, di cui alla l. 14 febbraio 2003, n. 30 - il collegamento funzionale tra i due istituti giuridici dell’appalto e del trasferimento d’azienda, emerso da tempo nella prassi delle esternalizzazioni di impresa, sembra avere trovato espresso riconoscimento a livello legislativo[1].

Invero, secondo la ricostruzione più diffusa in dottrina, le esternalizzazioni, intese quali nuove forme di decentramento produttivo[2], adottano schemi giuridici ormai consueti[3] che consistono nell’espulsione di una parte del processo produttivo all’esterno dell’impresa cedente, attraverso il negozio del trasferimento di ramo di azienda, e con la riacquisizione dello stesso prodotto o servizio cui era adibita l’attività ceduta, attraverso la stipulazione di un contratto di appalto con l’impresa cessionaria [4].

Alle esternalizzazioni di impresa è essenzialmente dedicato l’art. 32 del d.lgs. 276/2003, che innova l’art. 2112 c.c. sotto due profili fondamentali: in primo luogo, pur mantenendo invariata sostanzialmente la disciplina del trasferimento dell’intera azienda[5], ridisegna il campo di applicazione della cessione di ramo d’azienda, alterando in termini significativi la recente definizione di cui al d.lgs. 18/2001; inoltre, introduce nell’art. 2112 c.c. un ulteriore comma, il sesto, nel quale inserisce una nuova disciplina dell’appalto, nel caso in cui questo contratto segua la stipulazione di una cessione di ramo d’azienda.

Ma nell’attuale sistema normativo, interessato da una complessiva riforma del mercato del lavoro, il fenomeno economico va letto in una prospettiva più ampia, poiché coinvolge tematiche complesse che attengono, più in generale, alla compatibilità dell’uso disinvolto di forme negoziali destinate alle esternalizzazione con la disciplina inderogabile posta a tutela dei rapporti di lavoro. Ciò, in particolare, quando si verifichi, previa dismissione della gestione in proprio di una parte della attività, una dissociazione tra chi è titolare del contratto di lavoro e chi di fatto non rinuncia mai ad una forma di controllo su di esso, per via dell’appropriazione dell’utilità finale della prestazione, senza però assumerne la responsabilità. Nella struttura complessiva del d.lgs. 276/2003, emergono, dunque, anche sotto il profilo giuridico, collegamenti tra due aree tematiche fino ad oggi evidenti solo su di un piano economico[6], in quanto ad una ridefinizione della nozione di trasferimento di parte d’azienda si accompagna una più penetrante revisione della disciplina degli appalti. In un’ottica che, almeno negli obiettivi, sembrerebbe orientata verso il recupero di una equilibrata combinazione tra disciplina lavoristica e nuove organizzazioni dell’impresa, al fine di eliminare quella discrasia che da tempo si registrava tra fenomeni economici e discipline normative.

L’analisi giuridica del fenomeno, pertanto, si è concentrata su due aspetti centrali e tra loro intimamente connessi: che cosa debba intendersi per esternalizzazione e, segnatamente, che cosa effettivamente possa esternalizzarsi, con specifico riferimento ai limiti attuativi connessi alla natura lecita o illecita dell’oggetto di un trasferimento di ramo d’azienda; se la normativa attuale, così come da ultimo modificata, sia ancora in grado di svolgere una funzione regolativa, nella duplice direzione per un verso di meccanismo frenante di forme di esternalizzazione fittizie o simulate, e per altro verso di effettiva tutela dei rapporti di lavoro già esternalizzati[7].

 

2. Il trasferimento di ramo d’azienda. La nozione di ramo d’azienda. Il campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. prima della modifica del 2003

Con riferimento al primo aspetto, è noto come l’individuazione del campo di applicazione della disciplina di cui all’art. 2112 c.c., normalmente assolva ad una funzione antifraudolenta ed antielusiva. Qualsiasi intervento legislativo sulla nozione di trasferimento di ramo d’azienda, ai fini di una delimitazione più o meno rigorosa dell’ambito di operatività dell’art. 2112 c.c., infatti, incide indirettamente anche sul piano delle tutele dei lavoratori. E’ facile comprendere come un’interpretazione della definizione del ramo d’azienda in chiave estensiva ed acritica, tale da investire esternalizzazioni non genuine, autorizzi fenomeni espulsivi dei lavoratori, esponendoli al rischio di un licenziamento collettivo mascherato (cioè privo delle garanzie che gli sono tipiche), e quindi al trasferimento automatico dei rapporti di lavoro in capo al cessionario, in assenza cioè del loro consenso (in deroga alla ordinaria disciplina in tema di cessione del contratto art. 1406 c.c.)[8].

Sotto tale profilo, l’art. 32 del d.lgs. 276/2003 opera una ridefinizione dell’istituto del trasferimento del ramo d’azienda, qualificato come “un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”[9]. Rispetto alla nozione precedente, le novità si risolvono: a) nell’eliminazione dell’inciso “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”; b) nella sostituzione di quest’ultima formula con l’identificazione dell’articolazione funzionalmente autonoma da parte dei due contraenti del negozio di cessione; c) nella limitazione temporale di tale individuazione al momento del trasferimento[10]. Secondo uno dei primi commenti alla norma, cioè, “il dato storico della preesistente autonomia tecnico funzionale del ramo d’azienda viene sostituito dalla rappresentazione soggettiva di una “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, (…) al momento del suo trasferimento”[11].

Benché una nozione legislativa di ramo d’azienda (unitamente alla disciplina del suo trasferimento) sia stata introdotta per la prima volta nell’ordinamento italiano dal d.lgs. 18/2001, si riteneva da tempo che la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. trovasse applicazione anche nelle ipotesi in cui fosse stata trasferita non tutta l’azienda, ma solo una sua parte[12]. L’articolo 2112 c.c., infatti, aveva mostrato una singolare idoneità ad assicurare un doppio ordine di tutele: sotto un primo profilo, il mantenimento in vita dei rapporti di lavoro con il cessionario avrebbe eliminato il rischio della loro risoluzione, per via della eventuale impossibilità di utilizzarli nella restante azienda non coinvolta dal trasferimento parziale; inoltre, il meccanismo della responsabilità solidale costituiva un utile strumento per evitare che il lavoratore trasferito fosse pregiudicato da una probabile insolvenza dell’impresa cessionaria.

La progressiva emersione dei fenomeni di esternalizzazione di impresa intesi nel senso anzidetto ha tuttavia mostrato come un’estensione automatica di tale disciplina all’ipotesi più circoscritta del trasferimento di una parte dell’azienda determinasse una significativa alterazione dell’assetto di interessi sotteso alla disciplina del codice civile del 1942[13].

Invero, è stato osservato come il principio dell’automatico passaggio dei rapporti di lavoro dal cedente al cessionario, rappresenti un’opportuna tutela per gli interessi dei lavoratori addetti all’impresa trasferenda, in quanto viceversa essi si troverebbero esposti al sicuro rischio di un licenziamento. Mentre, nel caso di lavoratori addetti a quella parte dell’azienda che sia oggetto di una cessione parziale, un’alternativa esiste e, dunque, l’insensibilità del rapporto di lavoro alle vicende circolatorie dell’azienda può perdere il suo significato originale, e diventare strumentale per il perseguimento di interessi più spiccatamente datoriali, volti a sottrarsi ai costi e alle complicazioni di un licenziamento collettivo. Infatti, le imprese cessionarie, specializzate nella esecuzione di una ridotta attività produttiva, connessa il più delle volte al servizio esternalizzato, sono di solito piccole realtà, sottratte, in quanto tali, alle normative più garantistiche, la cui applicazione è legata a requisiti dimensionali. I lavoratori manifestano, dunque, un’inedita insofferenza nei confronti di una disciplina tanto rigida da non consentire un adeguato controllo sulle sorti del rapporto di lavoro di cui sono parte (compresa la possibilità di rimanere alle dipendenze del cedente)[14].

La regola dell’automatico passaggio dei lavoratori nell’ipotesi del trasferimento di ramo d’azienda è stata dunque sottoposta a revisione critica da un orientamento il quale, ai fini del perfezionamento della cessione dei rapporti di lavoro, ha ritenuto necessaria l’acquisizione del consenso dei contraenti ceduti, desumendo dall’art. 1406 c.c. un principio generale dell’ordinamento.[15]

Peraltro, per quanto la Corte di giustizia europea – nella sua opera di interpretazione della direttiva 77/187 - abbia da tempo sostenuto l’inesistenza di un obbligo del lavoratore a proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario, va comunque ricordato che la disciplina degli effetti del rifiuto del lavoratore di passare alle dipendenze dell’altro datore di lavoro è stata rimessa dalla fonte comunitaria alla disciplina interna[16].

Così, quella teoria volta a sostenere l’esistenza di un diritto di resistenza del lavoratore in caso di cessione totale o parziale di azienda ha trovato un forte ostacolo nel d.lgs. 18/2001 che si è limitato a prescrivere un mero diritto di recesso (accompagnato dall’indennità di mancato preavviso) del lavoratore che subisca una sostanziale modifica delle proprie condizioni di lavoro, nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda. D’altronde, uno specifico diritto di resistenza è stato introdotto solo in ordinamenti nei quali non era ancora stata disciplinata la successione automatica nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa, richiedendosi a tale scopo la conclusione di specifici negozi dispositivi[17].

 

3. La nozione di ramo d’azienda: A) il sostrato materiale

Fino all’introduzione di una definizione legale di ramo d’azienda nel quinto comma dell’art. 2112 c.c., la tutela dei lavoratori di fronte ad esternalizzazioni animate da meri intenti espulsivi di personale in eccedenza è stata condotta per via interpretativa, attraverso una rigorosa delimitazione della nozione di ramo d’azienda, imperniata sul requisito della materialità dell’oggetto del trasferimento. In tali ricostruzioni, infatti, un ruolo fondamentale ha rivestito il collegamento tra l’art. 2112 c.c. (“trasferimento dell’azienda”) e l’art. 2555 c.c. (“nozione” di azienda), per cui si è ritenuto di potere ricondurre nell’ambito della fattispecie ex art. 2112 c.c. solo quelle vicende di esternalizzazione che presentassero un’adeguata presenza di elementi materiali da trasferire, unitamente ai lavoratori da cedere. Mentre, in assenza di un sostrato materiale dell’azienda (rectius del ramo cedendo) nel contratto di lavoro non sarebbe automaticamente succeduto il cessionario, dovendosi acquisire a tale scopo il consenso dei lavoratori ad esso addetti, secondo le regole dell’art. 1406 c.c.

Tale approdo interpretativo è stato scalzato tanto dalla prassi applicativa, che ha favorito l’emersione di nuove realtà produttive caratterizzate da una spiccata dematerializzazione (quel che comunemente si definisce processo di alleggerimento della nozione di azienda), quanto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, da tempo impegnata nella ricerca di una nozione di impresa che consentisse una più sicura applicazione della direttiva 77/187.

Quest’ultima, in estrema sintesi, per l’applicazione della disciplina di cui alla direttiva, ha adottato un “criterio di carattere metodologico”[18], accertando l’esistenza di un trasferimento di azienda attraverso un’analisi complessiva delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione economica esaminata. Così, il tipo di impresa o di stabilimento trasferiti, la cessione del complesso di elementi materiali o di una sua parte, la riassunzione o meno di una quota rilevante di personale, sono stati ritenuti elementi rilevanti, ma nessuno di loro ha assunto un carattere decisivo. Piuttosto, ai fini dell’individuazione dell’oggetto del trasferimento, è stata demandata al giudice nazionale una valutazione complessiva dei suddetti indici, la cui combinazione può assumere un diverso rilievo a seconda del tipo di attività esercitata e delle modalità organizzative della singola impresa. Pertanto, laddove l’attività produttiva sia basata essenzialmente sull’apporto delle attività lavorative, l’elemento personale assumerà un rilievo decisivo ai fini dell’applicazione della direttiva, a differenza di altre ipotesi in cui potrà anche rivestire un’importanza secondaria.[19] La Corte ha anche precisato che un accertamento sull’oggetto del trasferimento non può prescindere da una valutazione dell’identità dell’entità economica che passi dal cedente al cessionario la quale, a seguito del trasferimento, non deve presentare differenze rilevanti. Essa, peraltro, deve presentarsi come un’entità economica organizzata in modo stabile, da consentire il proseguimento di tutte o di alcune attività del cedente, senza limitarsi all’esecuzione di un’opera determinata[20].

Con la direttiva 98/50 il legislatore comunitario ha introdotto una nozione dell’istituto che costituisce il consolidamento dell’elaborazione interpretativa della Corte di giustizia[21]. Secondo la definizione di cui all’art. 1, lett. a) e b), è considerato trasferimento quello di “un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale che accessoria”. La disciplina comunitaria, peraltro, si applica, al trasferimento di imprese, di stabilimenti, o di parti di imprese o stabilimenti.

Secondo il disposto di cui al quinto comma dell’art. 2112 c.c., introdotto dal d.lgs. 18/2001, attuativo della direttiva 98/50, per parte d’azienda si intende una “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”.

Un primo problema sollevato dalla nuova formulazione è stato quello dell’individuazione dell’effettivo grado di compatibilità dell’opzione legislativa per il termine “attività economica organizzata” con l’ordinamento comunitario. Se cioè con tale locuzione il legislatore italiano abbia voluto consapevolmente allontanarsi dalla normativa comunitaria, la quale fa invece riferimento ad una “entità economica organizzata”. Tale difformità è stata letta in modo diametralmente opposto dai due diversi orientamenti affermatisi in ordine alla smaterializzazione o meno della nozione di azienda di cui all’art. 2112 c.c. [22]. Sul punto, è stata tuttavia proposta una soluzione intermedia. Traendo spunto dall’evoluzione che ha caratterizzato la giurisprudenza comunitaria, di cui si è detto, è stato valorizzato il cosiddetto criterio relativistico: quando, cioè, i mezzi materiali assolvono ad una funzione essenziale ai fini dell’attività produttiva, è ovvio che il trasferimento non potrà compiersi se non attraverso la cessione di beni materiali; quando, tuttavia, un insieme di lavoratori sia destinato alla produzione di un servizio, realizzato prevalentemente o esclusivamente con prestazioni lavorative senza un decisivo apporto di mezzi materiali, allora il collegamento funzionale tra tali prestazioni ben può costituire quell’attività economica organizzata di cui all’art. 2112 c.c., indipendentemente dal trasferimento di beni strumentali[23]. E’ il collegamento funzionale tra le suddette attività (e cioè la loro organizzazione) che le dota di quel valore aggiunto che le differenzia dalle singole prestazioni individualmente considerate[24].

 

4. B) L’autonomia funzionale e la sua preesistenza; la conservazione dell’identità

Come si è detto, ai sensi della novella introdotta dal d.lgs. 18/2001, la “parte dell’azienda” da trasferire per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 2112 c.c., deve essere “un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata (…), preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

I requisiti della preesistenza e della conservazione dell’autonomia funzionale, quindi, hanno riproposto anche per il ramo d’azienda le stesse caratteristiche dell’azienda complessivamente considerata, di cui alla prima parte dello stesso comma.

In base al dato testuale, rispetto all’intera azienda esternalizzante, il ramo da cedere deve essere una “articolazione funzionalmente autonoma”. Secondo i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, il ramo d’azienda è autonomo funzionalmente quando è “in grado di funzionare in modo autonomo”, senza “rappresentare, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro, né una mera espulsione di ciò che si riveli essere pura eccedenza di personale”[25. Si deve trattare, cioè, di una “piccola azienda”, secondo una fortunata definizione suggerita dalla Corte di Cassazione e ripresa molto spesso dalla dottrina.

Alcuni dubbi interpretativi sono stati, piuttosto, sollevati in merito alla sussistenza di un’autonomia del ramo anche da un punto di vista contabile, gestionale, amministrativo o finanziario, per via della normale integrazione con il resto dell’azienda che ne rende difficile un riscontro concreto[26].

Secondo l’orientamento dominante, confortato dalla posizione prevalente della giurisprudenza, il ramo d’azienda deve essere in grado di funzionare in modo autonomo al punto da potere essere separabile dall’intero complesso aziendale, sia sul piano produttivo, sia su quello gestionale ed organizzativo[27]. Non deve, peraltro, necessitare nella fase realizzativa o produttiva di significativi interventi di elementi estranei, riuscendo a produrre autonomamente un bene da inserire nel mercato[28].

Quanto al requisito della “conservazione”, è noto come si sia trattato di un elemento di derivazione comunitaria, che la dottrina ha vincolato al momento del trasferimento (“in vista e nel corso del trasferimento”)[29], ma non anche al periodo successivo[30]. Non vi è stata tuttavia unità di vedute riguardo al tipo di intervento che sarebbe consentito al cessionario dopo la cessione. In effetti, secondo l’opinione prevalente, con la prescrizione del requisito della conservazione, collegato anche a quello della preesistenza, il legislatore del 2001 ha messo in dubbio la sopravvivenza di quell’orientamento giurisprudenziale che considerava sufficiente, ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c., che nel complesso dei beni trasferiti permanesse un residuo di organizzazione che ne dimostrasse l’attitudine all’esercizio dell’impresa, anche per via dell’integrazione successiva ad opera del cessionario[31]. Dopo la novella del 2001, pertanto, il cessionario acquistava l’organizzazione produttiva così com’era nella struttura del cedente, senza apportarvi modifiche durante il trasferimento, ad eccezione - ma solo in un momento successivo - di quelle necessarie per una sua migliore integrazione nel nuovo complesso aziendale, non potendosi di fatto evincere dal dettato normativo l’esistenza di un vincolo di immutabilità dell’entità ceduta[32].

Contrariamente al dato della conservazione, il requisito della preesistenza non è mai stato previsto espressamente dalla direttiva comunitaria. Si tratterebbe, in altri termini, di una caratteristica del ramo d’azienda introdotta per la prima volta dal d.lgs. 18/2001[33].

In verità, è stato osservato che la necessaria preesistenza dell’organizzazione del ramo ceduto era già insita nell’ordinamento italiano, se interpretato in maniera conforme al diritto comunitario. Invero, “il riferimento nelle fonti comunitarie alla conservazione dell’identità di un’entità economica presuppone che questa deve già sussistere come tale prima del trasferimento”. Ed infatti, “il concetto di conservazione richiede (…) che l’elemento da conservare esista già, e non sia invece costituito proprio in occasione del trasferimento”[34].

Indubbiamente, la previsione del requisito della preesistenza nel quinto comma dell’art. 2112 c.c. ha rappresentato un decisivo momento di svolta nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sorto sotto il vigore della disciplina previgente al d.lgs. 18/2001, in ordine ad alcune vicende di esternalizzazione realizzate attraverso il trasferimento di attività accessorie e di servizi[35].

Un primo orientamento aveva applicato la disciplina del trasferimento d’azienda, benché le attività cedute, già svolte presso l’impresa cedente, in realtà non fossero mai state rese in favore di terzi, e presentassero, altresì, una spiccata eterogeneità. Ai fini della sussistenza della fattispecie si era infatti ritenuta sufficiente un’autonomia solo potenziale, ben potendo le parti in occasione della stipulazione del contratto di cessione dare vita ad una nuova e diversa entità economica organizzata, attraverso l’individuazione di attività che fino ad allora non avevano presentato alcun grado di autonomia[36].

Secondo un’interpretazione più rigorosa, invece, il trasferimento di ramo d’azienda sussisteva solo quando avesse ad oggetto un complesso di beni produttivi, già organizzati dall’imprenditore per lo svolgimento di un’attività economica, che fosse esistente ed autonoma in epoca anteriore alla cessione. La finalità antifraudolenta di questa seconda impostazione era evidente, poiché la necessaria sussistenza di un nucleo dotato di autonomia operativa e finanziaria per il buon esito del trasferimento, portava con sé la conseguente irrilevanza della volontà definitoria delle parti datoriali[37]. Si è voluto quindi evitare che l’applicazione di una disciplina inderogabile di tutela delle condizioni del lavoratore fosse subordinata alla mera volontà delle parti: altrimenti cedente e cessionario avrebbero potuto, fuori da qualsiasi controllo sindacale o giudiziale, individuare un segmento dell’attività produttiva, in realtà non autonomo dal punto di vista funzionale, determinando l’espulsione dei lavoratori ad esso addetti[38]. Sicché, un’oggettiva autonomia funzionale del ramo da cedere avrebbe consentito minore discrezionalità alle parti del contratto di cessione, ed avrebbe ricondotto l’applicazione della disciplina inderogabile entro un ambito più circoscritto.

La novella del 2001 ha tenuto conto del dibattito, ed ha chiaramente optato per il riconoscimento delle ragioni del secondo orientamento: ha vincolato il requisito dell’autonomia funzionale ad un momento precedente al trasferimento, e ha richiesto, inoltre, la conservazione nel trasferimento stesso della “propria identità”[39].

Anche la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, pertanto, riconosceva la valenza antielusiva della disciplina poiché, attraverso una corretta verifica del requisito della preesistenza, si sarebbe evitata la costituzione da parte dell’imprenditore di rami d’azienda solo in funzione del trasferimento, mediante “un’operazione strumentale indirizzata all’espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti”[40].

 

5. La nuova nozione di ramo d’azienda nell’art. 32 del d.lgs. 276/2003

Le novità apportate dal d.lgs. 276/2003 alla nozione di ramo d’azienda sul piano definitorio si risolvono essenzialmente nella soppressione dei requisiti innanzi esaminati della preesistenza e della conservazione dell’autonomia funzionale della parte dell’azienda da trasferire. E’ osservazione comune[41] che alla base della suddetta modifica vi sia l’accoglimento di un’opinione che medio tempore (e cioè nel breve arco di tempo che ha separato il d.lgs. 18/2001 dal d.lgs. 276/2003) aveva giudicato “la opzione selettiva del legislatore” nei confronti del requisito della preesistenza “incongrua, di problematica applicazione, ma anche poco in linea con le finalità garantistiche alle quali dovrebbe rispondere”[42].

Invero, è stato osservato come più il segmento di attività ceduto si avvicina al core business aziendale, più i nessi di interdipendenza con altre attività aziendali rendono praticamente impossibile l’individuazione di una sua compiuta autonomia funzionale. Spesso, peraltro, l’attività ceduta presenta presso il cedente uno stretto legame con una serie di supporti di tipo amministrativo, commerciale e contabile che ne offuscano la natura autosufficiente. Nel caso, poi, di attività particolarmente eterogenee tra loro, non è escluso che in seguito ad un “accorpamento trasversale” in occasione della cessione, esse manifestino una riscoperta unitarietà ed autonomia che nell’organizzazione del cedente non possedevano. Ma anche in ipotesi più tradizionali di attività accessorie o strumentali, la “stretta connessione finalistica o l’inscindibile nesso di complementarietà” rispetto al contesto produttivo principale, costringe l’interprete ad escludere la preesistenza dell’autonomia funzionale. In tutte queste ipotesi, cioè, l’attenuata o inesistente preesistenza della autonomia funzionale dell’attività da trasferire presso l’impresa cedente, escluderebbe dall’ambito di applicazione dell’art. 2112 c.c. tutta una serie di fattispecie circolatorie di rami d’azienda sostanzialmente genuine. Siffatta esclusione, peraltro, non troverebbe neanche giustificazione in una presunta finalità garantistica, giacché il ricorso alla preesistente autonomia funzionale del ramo che si intende cedere non pare idoneo ad attenuare il rischio di un uso distorto dell’istituto. Questo infatti può anche essere perseguito mediante una precostituita delimitazione della parte da cedere, ovvero attraverso una lenta e progressiva confluenza di personale sgradito nella struttura economica da esternalizzare. Ciò che conta, è stato sostenuto, non è tanto la verifica ex ante dell’autonomia funzionale del ramo, quanto l’accertamento, anche in un momento successivo, dell’intento fraudolento dell’operazione complessivamente realizzata, volta a perseguire, ad esempio, un obiettivo interpositorio, attraverso l’espulsione di personale che comunque, di fatto, continua a soggiacere al potere direttivo e di organizzazione del cedente[43].

Per quanto suggestiva ed attenta al dato empirico, la tesi in argomento si presta ad alcune obiezioni. In primo luogo, tale ricostruzione del fenomeno delle esternalizzazioni, realizza uno spostamento delle tecniche di tutela dall’uso fraudolento dell’art. 2112 c.c., su un piano diverso, che attiene piuttosto ad un momento successivo (quello comunemente definito di internalizzazione). Pare indubbio che l’accertamento della sussistenza di poteri direttivi ed organizzativi del cedente possa rappresentare un utile indice per smascherare la natura fraudolenta dell’intera operazione[44]. Una simile indagine, tuttavia, appare troppo limitativa, lasciando scoperta la fase precedente di esternalizzazione strettamente intesa che, realizzata attraverso il trasferimento d’azienda, necessita comunque di forme di controllo basate (anche) su meccanismi definitori tipologici[45]. Peraltro, l’intento interpositorio non è l’unico rischio al quale i fenomeni di esternalizzazione d’impresa espongono i lavoratori (si pensi solo per esemplificare alle problematiche connesse al cosiddetto diritto di opposizione del lavoratore). Non pare, infine, che la previsione del requisito della preesistenza di cui alla novella del 2001, possa efficacemente essere sostituito dalla puntuale previsione di criteri di individuazione dei lavoratori coinvolti dal trasferimento[46], che semmai attiene ad un altro versante, quello della disciplina di tutela dei lavoratori nel trasferimento d’azienda (o di un suo ramo).

Le critiche alla ricostruzione in esame non sono mancate[47] ma, di fatto, a partire dal Libro Bianco, si è assistito ad una progressiva accentuazione dei punti deboli e delle incertezze applicative della nozione di azienda trasferita – ritenuta nella versione del 2001 forse troppo rigida ed appesantita -, in un contesto di politica legislativa molto più incline ad assecondare le istanze di flessibilità delle imprese.

Il percorso legislativo che ha poi condotto alla modifica del 2003, per quanto breve, è stato altalenante[48]. La storia dell’art. 32 del d.lgs. 276/2003 è nota: la versione definitiva della legge delega n. 30/2003 è passata attraverso due differenti proposte. Il d.d.l. n. 848 intendeva abolire totalmente l’intero inciso del requisito della “autonomia funzionale del ramo d’azienda preesistente al trasferimento”. Ma quella formula avrebbe esposto il testo definitivo a fondati dubbi di compatibilità con la normativa comunitaria, poiché avrebbe legittimato esternalizzazioni di parti di aziende generiche e non dotate di autonomia funzionale[49]. L’intervento del sindacato ha infine ridimensionato i termini della questione. Il Patto per l’Italia ha infatti limitato temporalmente il requisito dell’autonomia funzionale, che pure è rimasto fermo, congelandolo tuttavia al solo momento del trasferimento.

La modifica è stata interpretata come una formula di compromesso tra le contrapposte esigenze (di flessibilità delle imprese e di tutela dei lavoratori), collocata peraltro lungo un continuum con la precedente formula normativa, poiché, al massimo, avrebbe autorizzato esternalizzazioni di articolazioni autonome di impresa sussistenti solo al momento del trasferimento. L’autonomia funzionale, quindi, avrebbe dovuto essere già in vita al momento del trasferimento, ma non successivamente, secondo una prospettiva che in effetti era già stata contemplata nella relazione di accompagnamento del d.lgs. 18/2001.[50] Altri invece si sono soffermati sulla sola circostanza della soppressione del requisito della preesistenza, e ne hanno apprezzato favorevolmente la portata perché in linea con la normativa comunitaria e con i nuovi modelli circolatori delle imprese, dal momento che ancora era stato precisato alcunché in ordine al requisito della conservazione della identità[51].

Il d.lgs. 276/2003 attua fedelmente la delega con riferimento al vincolo temporale dell’accertamento dell’autonomia funzionale. Rispetto alla versione della l. 30/2003 – che nulla prevedeva al riguardo -, tuttavia, sopprime il requisito della conservazione dell’identità nel trasferimento; e specifica che l’articolazione è “identificata come tale dal cedente e dal cessionario (al momento del trasferimento)”.

La previsione di uno specifico potere di determinazione del ramo da cedere mediante accordo tra le parti al momento del trasferimento solleva un problema di conformità dell’attuale previsione di cui al decreto delegato con quella della legge delega. Sicuramente questa era stata predisposta al fine dell’esclusione del requisito della preesistenza dell’autonomia, ma non si era certo spinta fino al punto di dotare le parti contrattuali della possibilità di conferire ex novo un’autonomia funzionale, peraltro, non più necessariamente preesistente[52].

E’ pressoché unanime, peraltro, la convinzione che con l’identificazione ad opera delle parti datoriali dell’articolazione funzionalmente autonoma si sia voluto (e si corra il rischio, anche in sede applicativa, di) valorizzare l’autonomia individuale nell’individuazione di presupposti non più oggettivi dai quali fare discendere l’applicazione di una normativa inderogabile a tutela dei diritti dei lavoratori.[53] Con le intuitive ricadute, sul piano interpretativo relativo alla delimitazione della fattispecie, in ordine alla ricerca di sicuri parametri in base ai quali individuare la nozione di ramo d’azienda di cui al nuovo testo dell’art. 2112 c.c.

 

6. Il ruolo dell’autonomia individuale. Il significato dell’inciso “identificata come tale dal cedente e dal cessionario”

Un primo orientamento, muovendo dal dato testuale, si è principalmente soffermato sulla portata semantica del termine “identificata”. E’ stato infatti precisato che l’uso dell’espressione “identificata come tale” descrive una fase di “mera definizione e delimitazione dell’entità oggetto della cessione”. Un’operazione, cioè, che in verità è stata da sempre di competenza del cedente e del cessionario, mentre, non può trascurarsi che l’entità ceduta non potrà mai risultare priva dei requisiti di autonomia funzionale e di organizzazione di mezzi, che rappresentano ancora oggi requisiti imprescindibili per l’applicabilità del regime circolatorio[54]. Ne deriva che per integrare la fattispecie trasferimento di ramo d’azienda, non sarà sufficiente l’individuazione ad opera delle parti di un qualsiasi ramo dell’azienda, ma solo di quello che presenti, al momento della cessione, requisiti tali da mostrarsi, indipendentemente da un potere costitutivo delle parti, come una oggettiva articolazione autonoma, sotto il profilo funzionale, di una organizzazione di mezzi finalizzati all’esercizio di un’attività economica.[55]

In altri termini, secondo una sintetica formula ricorrente, “un conto è identificare, altra cosa è costituire”[56]. Una differenza concettuale di non poco conto, atteso che una ricognizione per via negoziale dell’entità da cedere si traduce al massimo in una “presunzione di prova” che, al pari del nomen juris ai fini dell’accertamento della subordinazione, non esclude, comunque, l’ammissibilità della prova contraria, in merito all’effettiva insussistenza di una autonomia tecnico funzionale del ramo ceduto[57].

Un’interpretazione restrittiva del termine “identificata” è sicuramente convincente, anche perché, collegata agli altri requisiti imprescindibili della definizione di ramo d’azienda, ne riesce in qualche modo a ridimensionare la valenza costitutiva. Invero, l’eliminazione del requisito della preesistenza si traduce, nei fatti, in un ampliamento della sfera di libertà delle imprese nella identificazione del ramo da cedere, poiché rispetto al passato, esse saranno certamente più disinvolte nel “riconoscere” un collegamento funzionale tra i diversi fattori della produzione del segmento da trasferire. Ma la dottrina ha, peraltro, osservato come questa libertà si componga anche di un elemento volontaristico, che però non potrebbe essere totalmente discrezionale[58]. Anche perché la volontà dell’impresa cedente, perfino quella animata da una mera intenzione fraudolenta, deve comunque passare attraverso un momento contrattuale. Il contratto, infatti, comporta sempre una sintesi tra la volontà del cedente e quella del cessionario, nella quale non è affatto detto che quest’ultimo persegua un interesse diverso da quello dei lavoratori all’accertamento della preesistenza e della conservazione dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda[59]. La tesi, tuttavia, non prende (appositamente) in considerazione la possibilità di una collusione fraudolenta tra i due contraenti[60]. Ed in questo trova il suo limite, poiché è proprio nei confronti di quella collusione che si è tradizionalmente sviluppata la funzione antielusiva della nozione giuridica di ramo d’azienda.

 

7. Le interpretazioni sistematiche. L’organizzazione, l’autonomia funzionale

Ad un’interpretazione sistematica dei diversi elementi richiesti dalla nuova nozione si è pertanto rivolto un secondo orientamento dottrinale, che ha inteso delimitare la portata innovativa dell’identificazione soggettiva del ramo d’azienda, valorizzando il significato dei requisiti già insiti nella stessa definizione “attualizzata” di ramo d’azienda: vale a dire quelli dell’organizzazione e dell’autonomia dell’articolazione dell’attività economica da trasferire. E’ vero, infatti, che sul piano degli effetti la nuova disciplina potrebbe determinare una estensione del principio di insensibilità delle vicende circolatorie rispetto ai rapporti di lavoro, anche ad ipotesi in cui il ramo presenti un’attitudine solo potenziale presso l’organizzazione del cedente. Tuttavia, ad una più attenta analisi della norma, almeno in linea generale, è possibile riconoscere come anche la nuova disciplina mantenga al suo interno “gli anticorpi in grado di contrastare operazioni finalizzate all’indiretta espulsione di manodopera eccedente”[61].

Secondo una linea argomentativa, pertanto, una “indiscriminata liberalizzazione” dei processi di esternalizzazione ben potrebbe essere impedita da una più attenta applicazione del persistente requisito dell’organizzazione”. Quest’ultimo, infatti, impone sempre che lavoratori e beni aziendali siano “tenuti insieme da un nesso obbiettivo e necessario”. Ciò ovviamente comporta la necessità che in fase giudiziale si verifichi la reale sussistenza di un genuino ed effettivo nesso di collegamento tra lavoratore e ramo ceduto. Il che naturalmente costituisce un concreto ostacolo a prassi aziendali che si risolvano in una fittizia predisposizione di un ramo, adibendovi ad hoc lavoratori sgraditi, ai soli fini di una loro estromissione. Per il lavoratore sarà, dunque, sufficiente provare l’inesistenza di un obbiettivo collegamento tra la sua prestazione e il ramo ceduto, attraverso l’impugnazione degli atti gestionali precedenti la cessione che ne hanno determinato l’inclusione nell’articolazione da cedere, dimostrando altresì l’incoerenza e la eterogeneità tra la sua professionalità e l’organizzazione del ramo, nonché la strumentalità di una simile operazione[62].

L’autonomia funzionale, infatti, è un concetto organizzativo prima ancora che giuridico[63]. Sotto questo profilo, pertanto, un sicuro argine contro esternalizzazioni che riguardino non attività, ma gruppi di lavoratori, è rappresentato non tanto dalla preesistenza, quanto dal requisito dell’organizzazione. E cioè dall’esistenza di collegamenti tra beni e lavoratori, o anche tra soli lavoratori, tali da consentire l’esercizio di un’attività economica destinata alla produzione e allo scambio di beni di servizi, indipendentemente dalla circostanza che essi siano stati unificati solo al momento del trasferimento. Così inteso, in effetti, il requisito dell’organizzazione non potrà mai essere il frutto di un’autonoma deliberazione delle parti, ma costituisce sempre un requisito oggettivamente valutabile.[64] D’altronde, ad un simile ordine di conclusioni sembrerebbe condurre anche un’analisi complessiva delle nozioni di autonomia funzionale elaborate dal diritto comunitario (dir. 98/50, oggi 01/23) e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, le quali rimangono ancora oggi ancorate al requisito della conservazione dell’identità.

Ma sul punto si registrano opinioni discordanti. Ed infatti, l’argomento comunitario è stato spesso invocato a sostegno delle tesi prima ricordate, volte ad un potenziamento dei requisiti dell’organizzazione e dell’autonomia funzionale. I quali, per quanto non più preesistenti, postulano pur sempre un accertamento obbiettivo della loro sussistenza, anche attraverso un controllo ex post sull’attività economica svolta, a seguito del trasferimento, dal cessionario. Poiché, sebbene sia stato tradizionalmente riconosciuto a quest’ultimo uno spazio operativo minimo di integrazione e coordinazione per la implementazione organizzativa del ramo inserito nella propria struttura produttiva, il criterio dell’autonomia funzionale ha sempre portato con sé, in sede di verifica giudiziale, la necessità di un riscontro obbiettivo nelle successive fasi operative che seguono la cessione. Solo un’indagine presso l’attività del cessionario, è stato sostenuto, consente di rendere concretamente effettivo il requisito dell’autonomia funzionale, la cui effettività è stata indebolita dalla soppressione della preesistenza[65]. Ma si tratta pur sempre di un criterio ermeneutico, che dovrà confrontarsi con la precisa scelta legislativa di non menzionare il requisito in argomento nel nuovo quinto comma dell’art. 2112 c.c.

In particolare, proprio sul problema della conservazione si sono peraltro concentrate le principali obiezioni sulla compatibilità della nuova versione del 2112 c.c. con la normativa comunitaria. E’ stato rilevato come la soppressione del requisito della conservazione dell’identità crei un potenziale conflitto con la direttiva comunitaria che espressamente esige che l’entità economica trasferita “conserv(i) la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica”, atteso che la Corte di giustizia ha sempre ribadito l’esigenza di valutare che sia trasferita un’entità economica ancora esistente, e “che la sua gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare, con le stesse attività economiche o con attività analoghe”[66]. Sotto questo profilo in effetti, occorre riconoscere, anche alla luce delle precedenti argomentazioni, che l’apposita esclusione dalla nuova formulazione del requisito della continuazione espone l’attuale normativa a serie obiezioni, sotto il profilo di una “arbitraria attenuazione degli standard minimi di tutela nei casi in cui venissero trasferite articolazioni prive di un carattere di stabilità”[67. Il che ovviamente potrebbe tradursi in una specifica violazione della clausola di non regresso e di miglior favore di cui alla Direttiva n. 23/2001[68].

L’esclusione del requisito della conservazione, inoltre, per il solo ramo d’azienda, mantenuto invece per l’intera azienda, solleva qualche perplessità anche in ordine a possibili conflitti con la legge delega 30/2003, nonché con l’art. 3 della Costituzione. E’ infatti particolarmente “arduo”, dopo avere prescritto che la (intera) attività economica da trasferire debba essere preesistente e conservare in sede di trasferimento la propria attività, escludere siffatti caratteri per il solo ramo d’azienda[69]. Una differenziazione illogica ed arbitraria, come si è sostenuto, che sembrerebbe causare un’irragionevole disparità di trattamento, atteso che tra le due fattispecie, definite peraltro nella stessa sede normativa, vi può essere al più un rapporto quantitativo: si tratta cioè della versione totale o parziale di un'unica fattispecie normativa[70].

 

8. I profili di contrasto con la disciplina comunitaria

Al momento, tuttavia, la dottrina appare cauta, intenta più che altro a proporre interpretazioni del testo normativo che ne escludano gli anzidetti profili di contrasto con le normative interna e comunitaria.

Ora, pare indubbio che svolgere per via interpretativa il cosiddetto controllo della fattispecie, attraverso il radicamento oggettivo della attuale nozione di ramo d’azienda, possa attenuare la discrezionalità aziendale nell’individuazione pattizia dell’entità da cedere in vista del trasferimento. Inoltre, certamente, una attenta analisi dell’autonomia funzionale e dell’attitudine produttiva dell’organizzazione trasferita, realizzata anche mediante il potenziamento del filtro sindacale prima, e del controllo giudiziale dopo, in ordine alla genuinità dell’operazione economica, opererà in funzione antielusiva ed antifraudolenta[71]. Si tratta però di criteri ermeneutici, in quanto tali opinabili e, pertanto, non del tutto idonei ad escludere la riemersione di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali più inclini ad una liberalizzazione indiscriminata di ogni tipo di esternalizzazione.

Perfino una equilibrata combinazione tra una interpretazione restrittiva del dato dell’identificazione ed una maggiore valorizzazione dell’autonomia funzionale e dell’organizzazione potrebbe non rivelarsi sufficiente ad evitare possibili usi distorti dell’istituto.

I connotati della preesistenza e della conservazione dell’autonomia funzionale sono scomparsi dal testo di legge in modo da sfumare indiscutibilmente il dato dell’autonomia funzionale. Occorre infatti riconoscere che l’autonomia funzionale dell’articolazione dell’attività economica organizzata si basava essenzialmente, se non esclusivamente, sui due dati della preesistenza e della conservazione. La loro soppressione comporta un passo indietro, verso quel vuoto normativo che prima della novella del 2001 aveva autorizzato interpretazioni estensive dell’art. 2112 c.c., con una evidente compressione dei diritti dei lavoratori.

Se un’applicazione rigida del dato testuale, che non è esclusa né tanto inverosimile, autorizzerà l’individuazione per via negoziale di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro - solo perché suscettibili di una valutazione economica, a prescindere dalla funzione che sino al momento della cessione avevano svolto per l’impresa cedente -, il conflitto con l’ordinamento comunitario sarà evidente. Ed infatti, una simile interpretazione della nozione di ramo d’azienda risulterebbe contraria a quella stabilità strutturale per un tempo apprezzabile voluta a livello comunitario attraverso il connotato della conservazione dell’identità.

Una stabilità strutturale che soprattutto nel caso del ramo d’azienda è difficilmente riscontrabile, prima della cessione, rispetto al corpo dell’intera azienda, giacché è solo attraverso il distacco e cioè al momento della individuazione di un suo autonomo valore economico per accordo tra le parti, che questo assume una sua autonomia. La preesistenza serviva a questo, ad evitare che le parti, per il solo fatto di avere attribuito ad un frammento della produzione un valore economico, trasferissero contratti di lavoro asseritamente collegati ad una struttura economica, in realtà mai esistita prima. Sul punto, quindi, vanno sicuramente condivise quelle letture del requisito legislativo della preesistenza in chiave limitativa del campo di applicazione dell’art. 2112 c.c., contro fittizi assemblaggi di segmenti organizzativi tra loro eterogenei, considerati unitariamente al solo scopo del trasferimento[72]. Oggi, non soltanto è venuta meno la preesistenza dell’autonomia funzionale, ma è anche stata riconosciuta per via legislativa la possibilità che le parti identifichino l’entità da cedere, indipendentemente da una sua comprovata attitudine produttiva.

Soprattutto quest’ultima modifica ha peraltro realizzato una profonda discrasia, sul piano sistematico, tra i due istituti del trasferimento d’azienda e del trasferimento del ramo d’azienda. La difformità definitoria tra le due fattispecie, realizzata nell’art. 32 del d.lgs. 276/2003, non è prevista nella normativa comunitaria, atteso che anche l’ultima direttiva 2001/23 estende la disciplina del trasferimento di impresa al trasferimento di “parti di impresa”, riproponendo quindi per queste ultime la stessa nozione dell’intera impresa, intesa come entità economica che conserva la propria identità. Ma soprattutto non è voluta nella elaborazione della Corte di giustizia, dal momento che è sempre rimasto costante quell’orientamento volto ad escludere che l’applicazione di una disciplina inderogabile a tutela dei lavoratori fosse rimessa all’accordo tra cedente e cessionario. E questo è un dato che non può essere trascurato.

Proprio la difformità definitoria tra l’intera azienda - che rimane un’attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità - e il suo ramo, la cui consistenza è oggi affidata alla “individuazione” delle parti, rappresenta un indiscutibile elemento che rivela una ratio legis chiaramente orientata a definire e disciplinare in maniera diversa un aspetto di un istituto che non è più una parte del tutto. E’ un’altra cosa: è uno strumento giuridico attraverso il quale si realizzano operazioni economiche che con il trasferimento dell’azienda non presentano più alcun punto di contatto. Nella stessa sede normativa, l’art. 2112 c.c., oggi vengono disciplinati due diversi istituti: il trasferimento di azienda e le esternalizzazioni di impresa. Il punto è quindi un altro: occorre cioè capire se la nuova fattispecie giuridica - che sul piano della disciplina partecipa di quella originaria del trasferimento dell’intera azienda, ma oggi ne riceve anche una peculiare nella fase di internalizzazione realizzata con un contratto di appalto – appaia ancora idonea a tutelare gli interessi dei lavoratori, o se per caso non richieda, per un migliore garanzia dei contratti di lavoro, i dovuti aggiustamenti.

La persistente attenzione che negli ultimi anni il legislatore italiano ha manifestato nei confronti delle tecniche di segmentazione delle imprese si è infine tradotta in una liberalizzazione delle esternalizzazioni.

Una liberalizzazione forse più consona ad una logica commerciale che mal si coniuga con una disciplina che mantiene un obbiettivo collegamento con il diritto del lavoro, in quanto destinata, anche nel d.lgs. 276/2003, ai soli fini del “mantenimento dei diritti dei lavoratori”.

 

9. La disciplina dell’appalto

Sul piano più specifico delle tutele dei rapporti di lavoro in un momento successivo al trasferimento del ramo d’azienda, il secondo comma dell’art. 32 del d.lgs 276/2003 inserisce una disposizione di chiusura nell’ultimo comma dell’art. 2112 c.c.: “nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’art. 1676”.

Qui il riferimento è al secondo momento del fenomeno delle esternalizzazioni in senso lato, e cioè a quel successivo “contromovimento, finalizzato alla riacquisizione al ciclo produttivo, tramite un contratto commerciale, di ciò che è uscito dalla titolarità dell’impresa”[73]. Si parla tecnicamente di internalizzazione, in un’accezione che evoca interamente le tematiche dell’appalto, dell’intermediazione vietata, dello pseudo appalto[74].

I primi commenti basati su una lettura unitaria dell’art. 32 hanno espresso opinioni critiche nei confronti di una disposizione che sembra consacrare, “in termini di legittimità formale”, “la scelta organizzativa dell’impresa di riacquisire mediante appalto parti non coordinate né autonome cedute all’esterno mediante la nuova nozione di trasferimento di parte dell’azienda (intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento…)”[75].

Sotto questo profilo, l’operazione giuridico-economica che la disposizione intende legislativamente regolare, sotto la vigenza della l. 1369/1960, era stata oggetto di valutazioni molto discordi. E l’attuale disposizione, in effetti, sembra avallare interpretazioni già diffuse, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

Ci si riferisce a quell’orientamento che aveva rinvenuto un trasferimento d’azienda anche nel caso di cessione di un complesso di beni non attualmente impiegati per l’esercizio di un’impresa, ma individuati come azienda solo al momento del trasferimento. Per i lavoratori coinvolti nell’esternalizzazione della funzione, poi tornati a lavorare nell’impresa cedente, era stata individuata una penetrante forma di tutela, attraverso una valutazione complessiva della vicenda negoziale, basata sul collegamento tra i due contratti (la cessione di ramo d’azienda e il contratto di riacquisizione della stessa funzione al ciclo produttivo). Il giudizio sulla liceità della esternalizzazione, globalmente considerata, sarebbe infatti passato attraverso il filtro di cui all’art. 1 della l. 1369/1960, ed in particolare del suo terzo comma: la violazione del divieto di interposizione avrebbe cioè determinato la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore della manodopera, in modo da ristabilire sostanzialmente la situazione precedente alla esternalizzazione[76]. In altri termini, la stipulazione di un contratto di appalto a seguito di una cessione di ramo d’azienda, avrebbe rappresentato un “criterio ermeneutico” per l’interpretazione complessiva della fattispecie. Ed infatti, il cessionario, stipulando un contratto di appalto col cedente, avrebbe dimostrato di esercitare un’attività di impresa, proprio attraverso l’uso di quel complesso di beni fino ad allora solo potenzialmente idoneo all’esercizio di un’attività economica[77]. Nel caso in cui quel complesso di beni non si fosse rivelato idoneo sotto il profilo organizzativo, sarebbe scattato il regime sanzionatorio di cui all’ultimo comma dell’art. 1.

L’orientamento in parola era già stato sottoposto a revisione critica all’indomani del d.lgs. 18/2001, giacché il riconoscimento legislativo del requisito della preesistenza imponeva ormai che il complesso di beni potesse essere considerato ai fini del trasferimento solo se già organizzato prima della esternalizzazione, e quindi non avrebbe più potuto essere individuato per la prima volta al momento della cessione. Tuttavia, era stata riconosciuta piena validità alla prima parte della ricostruzione, poiché in effetti l’art. 1 della l. 1369/1960 rappresentava ancora un utile strumento per operare una corretta valutazione del fenomeno esternalizzante. Ciò, sia al momento della stipulazione dell’appalto, sia nel corso dello svolgimento del rapporto, dal momento che un ruolo fondamentale per l’esistenza di un reale contratto di appalto è svolto dall’elemento organizzativo, inteso quale combinazione di mezzi e persone (o anche di sole persone), e dalla gestione di tale organizzazione a proprio rischio[78].

La nuova definizione del trasferimento di ramo d’azienda e, segnatamente, la soppressione del requisito della preesistenza, sembrerebbe, invero, riaprire i termini del dibattito, riportando la situazione al punto di partenza. Una più attenta analisi dell’art. 32, complessivamente considerato, ha tuttavia confermato la sopravvivenza della tesi della valorizzazione del dato organizzativo, poiché, come è stato osservato, “l’incontrollata espulsione di frazioni di reparti o uffici tra loro non coordinate”[79], che sembra oggi avere trovato un riconoscimento legislativo, in realtà, incontra un significativo ostacolo, per la fase dell’internalizzazione, nella nuova distinzione tra appalto e somministrazione illecita di lavoro, che l’art. 29 del decreto individua nell’organizzazione di mezzi e nel rischio di impresa. Sicché, il “rientro” di mezzi e lavoratori privi di una vera identità economico-organizzativa tornerà ad essere sanzionato come mera somministrazione di lavoro, in quanto privo di una reale organizzazione imprenditoriale[80].

Il problema, però, è anche un altro, ed attiene ad un momento successivo, quello della disciplina dei rapporti di lavoro esternalizzati, coinvolti da un’operazione di internalizzazione, rispetto alla responsabilità solidale tra i due imprenditori.

Invero, una volta accertata l’esistenza di un reale contratto di appalto, l’art. 32 opera, per i soli appalti di servizi, quella che è stata univocamente giudicata una “ridefinizione al ribasso del regime della solidarietà”[81], poiché introduce un regime di solidarietà tra appaltante (alienante) e appaltatore (acquirente), nei confronti dei dipendenti di quest’ultimo, entro i ristretti limiti di cui all’art. 1676 c.c.

L’articolo, come è noto, rappresenta il primo nucleo della disciplina protettiva dei diritti dei lavoratori durante lo svolgimento del contratto di appalto. La disposizione attribuisce un’azione diretta[82] ai dipendenti dell’appaltatore nei confronti del committente. I lavoratori possono fare valere il loro credito, limitatamente alla minore somma fra quanto dovuto dal committente all’appaltatore al momento della richiesta, e al credito retributivo che essi stessi vantano verso il loro datore di lavoro[83].

Rispetto a tale forma di tutela, la l. 1369/1960 si era spinta oltre, e nell’art. 3 aveva riconosciuto ai dipendenti dell’appaltatore di opere e servizi il diritto ad un trattamento minimo inderogabile retributivo e normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori del committente. Inoltre, in virtù del regime della responsabilità solidale, i lavoratori avrebbero potuto chiedere ed ottenere il soddisfacimento dei loro diritti, tanto dall’appaltatore, quanto dal committente, durante l’esecuzione dell’appalto e fino ad un anno dopo la cessazione dello stesso. Mentre, per il periodo successivo avrebbero avuto diritto all’azione diretta di cui all’art. 1676 c.c., se ancora esperibile.

L’art. 32 del d.lgs. 276/2003, opera un rinvio secco alla disciplina codicistica, determinando un inequivocabile abbassamento della soglia di tutela minima per i lavoratori coinvolti nell’appalto, sia con riferimento alla disciplina di cui alla l. 1369/1960, sia rispetto alla nuova regolamentazione di cui al titolo III del d.lgs. 276/2003, a seguito dell’abrogazione della l. 1369/1960.

Quanto alla prima, occorre ricordare che la versione originale della norma, nel disegno di legge delega 848, si riferiva, senza altro specificare, ad un generico ed imprecisato “regime particolare di solidarietà”. Il che, come è stato osservato, avrebbe potuto consentire al legislatore delegato la previsione di principi analoghi a quelli dettati dall’art. 3 della l. 1369/1960, anche e soprattutto in vista della sua prossima abrogazione[84]. Ovviamente l’attuale riferimento al disposto dell’art. 1676 c.c., inserito in seconda battuta lungo il percorso che ha poi condotto all’art. 32 del d.lgs. 276/2003, ha sollevato critiche unanimi. Oltre ad un generico disappunto per un ritorno alle origini, e cioè al nucleo essenziale della disciplina in tema di appalto, la dottrina si è principalmente concentrata sulla limitazione quantitativa del regime di solidarietà, ancorata alla esistenza del debito del committente nei confronti dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 1676 c.c., al momento in cui i lavoratori propongono la domanda. Il che vuol dire che parte del loro credito potrebbe rimanere insoddisfatto nel caso in cui esso esorbiti il debito di un imprenditore (appaltante) nei confronti dell’altro (appaltatore). Inoltre, il credito opererà nei limiti di quanto loro dovuto da parte dell’appaltatore, in forza del contratto collettivo applicato nella sua impresa, mentre il precedente regime prevedeva una solidarietà più ampia, senza alcun limite, con riferimento al trattamento economico e normativo in vigore nell’impresa appaltante, nonostante i rapporti tra i due imprenditori fossero stati già risolti e definiti.

Quanto alla disciplina attuale, il rinvio all’art. 1676 c.c., sembra non tenere conto del citato art. 29 del d.lgs. 276/2003 che, pur non distinguendo nel primo comma tra appalti d’opera e di servizi (per i quali detta una disciplina qualificatoria identica), al secondo comma dispone, per i soli appalti di servizi, che “il committente (…) è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”[85].

Il rapporto tra l’art. 32 e la nuova disposizione in materia, l’art. 29 comma 2°, andrebbe quindi ricostruita, almeno secondo un’opinione, come rapporto di specialità[86].

Ma anche con riferimento a tale disciplina generale, l’ultimo comma dell’art. 2112 c.c. comporta, in effetti, una tutela complessivamente inferiore.

Una prima precisazione va fatta con riferimento all’ambito di applicazione delle due discipline, poiché è da ritenersi che l’art. 2112 c.c. si applichi ai soli lavoratori dell’appaltatore che siano precedentemente stati coinvolti da un trasferimento di ramo d’azienda. Per costoro dunque, ex dipendenti dell’impresa dove tornano ad operare per via dell’appalto, si profila un regime di solidarietà tra i due imprenditori, con solo riferimento alla garanzia retributiva (l’art. 1676 c.c. si riferisce solo a questi ultima ed esclude quindi dal suo campo di applicazione, altri diritti di natura normativa o di credito, quale ad esempio quelli di natura risarcitoria)[87]. Tale disciplina non sembra, invece, riguardare gli altri lavoratori dell’impresa appaltatrice che andrebbero ad operare insieme ai primi nella medesima azienda. A questi piuttosto si applicherà il più favorevole regime di solidarietà previsto dal citato art. 29 comma 2, (in quanto privo del limite della concorrenza del debito).

Peraltro, la norma sembrerebbe riferirsi a dipendenti che ritornino a lavorare nell’azienda esternalizzante, ma limitatamente a quell’attività che precedentemente era svolta dal ramo d’azienda ceduto. Non, ad esempio, se il rientro in azienda sia dovuto all’esecuzione di un servizio diverso. Sul punto, tuttavia, si registra un orientamento volto a valorizzare il rinvio integrale alla disciplina di cui all’art. 1676 c.c. che piuttosto si riferisce a “coloro che alle dipendenze dell’appaltatore (…)”, e quindi a tutti gli ausiliari che abbiano svolto la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio, indipendentemente dall’originaria destinazione economica del ramo ceduto[88].

La portata più ristretta del regime di solidarietà previsto dall’art. 32 rispetto alla previsione generale in tema di appalti, secondo il convincimento più diffuso, non appare giustificata. Piuttosto, come si è detto, le peculiarità della nuova fattispecie normativa descritta dal suddetto articolo avrebbero richiesto una scelta legislativa opposta, che tenesse conto dell’opportunità di estendervi il regime di cui al precedente art. 3 della l. 1369/1960[89].

Non v’è dubbio invece che la norma si riferisca al periodo successivo alla cessione del ramo d’azienda, allorquando si svolge l’appalto, poiché per il periodo precedente è già previsto un apposito regime di solidarietà per i crediti che i lavoratori avevano maturato presso il cedente. Argomentando diversamente, infatti, e cioè se si dovesse ritenere che la disciplina operi anche nel periodo precedente, si sarebbe costretti a riconoscere una deroga legale alla responsabilità solidale di cui al comma 2° dell’art. 2112 c.c.

Non altrettanto limpida si presenta invece la disciplina circa la distanza temporale che deve sussistere tra il trasferimento del ramo e la stipulazione del contratto di appalto. Sotto questo profilo, anzi, sembrerebbe che il decreto abbia disatteso le indicazioni della delega, che al contrario, prevedeva una “connessione” tra le due operazioni. Non si comprende, dunque, al momento, se l’appalto debba immediatamente seguire il trasferimento o se sia consentito un lasso di tempo. Simili incertezze, è ovvio, rischiano di autorizzare interpretazioni elusive, poiché da una interpretazione più o meno rigorosa deriverà l’opzione per uno dei due regimi di solidarietà: l’uno, quello dell’art. 1676 c.c., limitato all’ammontare del debito dell’appaltante nei confronti dell’appaltatore, l’altro limitato temporalmente entro un anno dalla cessazione dell’appalto.

Ed anche su questo aspetto si registra, dunque, un passo indietro della nuova normativa che non ha saputo cogliere l’occasione offerta dalla legge delega per predisporre garanzie maggiori rispetto a quelle già previste, ovvero di introdurne di nuove per sostituire quelle venute meno per via della generale abrogazione della l. 1369/1960.

I dubbi sollevati da tali disposizioni, dovuti probabilmente ad un intreccio tra diverse discipline e ad una non completa ricognizione delle diverse fonti che insistono su più istituti coinvolti da quel collegamento negoziale cui sopra si accennava, inducono ad un’ultima riflessione.

In effetti già da tempo la dottrina aveva manifestato insofferenza rispetto ad una disciplina che era stata giudicata troppo angusta e difficilmente applicabile alle prassi organizzative delle imprese, perché probabilmente non era stata in grado di cogliere le reali dinamiche dei nuovi processi produttivi. Emerge, tuttavia, una convinzione di fondo, poiché si è inevitabilmente costretti, ancora una volta, a rinvenire nelle intenzioni del legislatore una spiccata propensione per le istanze dell’impresa, alla quale non sempre risponde una adeguata attenzione per le tutele lavoristiche. Ed è ovvio, pertanto, che esse saranno rimesse ad una prudente ed attenta applicazione da parte della giurisprudenza alla quale rimane il non facile compito di accertare la conformità dell’operazione economica ad una controversa fattispecie giuridica.

 

Marina Nicolosi

(fonte:http://www.di-elle.it/approfondimenti_frameset.htm )

 


[1] Sulla tematica delle esternalizzazioni di impresa la letteratura è molto vasta. L’argomento, peraltro, è stato oggetto delle Giornate di studio A.i.d.l.a.s.s. di Trento, nel 1999, sul tema “Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo”; ai testi delle relazioni di P. Ichino, Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, P. Lambertucci, Area contrattuale e autonomia collettiva, R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, è dedicato il volume di DLRI, 1999. Si vedano, fra gli altri, le più recenti ricostruzioni di R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, in Aa. Vv., I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, a cura di R. De Luca Tamajo, Napoli, 2002; A. Perulli, Esternalizzazione del processo produttivo e nuove forme di lavoro, DL, 2000, 303 e ss.; ID., Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, ADL, 2003, 473 e ss.; S. Ciucciovino, Trasferimento di ramo d’azienda ed esternalizzazione, ADL, 2000, 385 e ss.; M. Magnani – F. Scarpelli, Trasferimento d’azienda ed esternalizzazioni, DLRI, 1999, 485 e ss.; S. Leonardi, Esternalizzazione e diritto del lavoro, LG, 2001, 527 e ss.; F. Scarpelli, “Esternalizzazioni” e diritto del lavoro: il lavoratore non è una merce, DRI, 1999, 353 e ss.

[2] Più in generale, in tema di decentramento produttivo cfr. F. Carinci, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, DLRI, 1985, 203; M Brollo, Il lavoro decentrato nella dottrina e nella giurisprudenza, QDLRI, 8, 1990, 133 e ss.; P. Ichino, Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, DLRI, 1999, 203 e ss.; R. De Luca Tamajo, I processi di terziarizzazione intra moenia ovvero la fabbrica “multisocietaria”, DML, (saggi), n. 1, 1999, 49 e ss.; P. Lambertucci, Area contrattuale e autonomia collettiva, DLRI, 1999, 281; M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Torino, 2002.

[3] La tipicità sociale del suddetto schema e la frequenza con cui si manifesta nella prassi aziendale ha indotto la dottrina a riconoscere l’esistenza di una nuova fattispecie, il contratto di esternalizzazione, derivante da una sorta di collegamento negoziale caratterizzato dall’elemento sostanziale dell’unicità degli interessi perseguiti dai contraenti: R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 61 e ss. Contra F. Mazziotti, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori, in Aa. Vv. Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, a cura di R. De Luca Tamajo, M Rusciano, L. Zoppoli, 623 che ritiene piuttosto le due operazioni tra di loro autonome, in quanto coordinate solo dal punto di vista finalistico, ma non da quello strettamente giuridico. V. in giurisprudenza Cass. 28 giugno 2001, n. 8844, MFI, 2001, (contratto in genere), 239.

[4] Il contratto di appalto è senz’altro quello più diffuso, ma spesso le imprese si avvalgono di altre figure contrattuali, quali la fornitura, la vendita, la somministrazione, il franchising. In questo senso R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 10. La teoria economica si esprime, in generale, in termini di “rapporti di fornitura”, alludendo al fenomeno in cui le imprese tendono a specializzarsi in attività specifiche di trasformazione di beni e servizi forniti da altre imprese. V. anche R. Del Punta, Mercato o gerarchia? Il disagio del diritto del lavoro nell’era delle esternalizzazioni, DML, 2000, 49.

[5] In questo senso R. Romei, Il campo di applicazione della disciplina del trasferimento d’azienda, in Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 579. Il primo comma dell’articolo in questione si limita infatti a specificare le cause in forza delle quali si determina il mutamento della titolarità di un’attività economica organizzata che da luogo al trasferimento d’azienda. Viene cioè introdotta un’ampia formula “cessione contrattuale o fusione” che, almeno secondo l’opinione prevalente, non pare modificare il campo di applicazione della norma, così come identificato da ultimo con il d.lgs. 18/2001. Altrettanto si è detto con riferimento all’eliminazione della dizione “al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”, considerato che essa rappresenta un “corollario necessario di qualsiasi attività economica organizzata, ai sensi dell’art. 2082 c.c.”. Così A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda. Le novità del d.lgs. 276/2003, in http://www.cgil.it , 4. Ma v. per un approfondimento su quest’ultimo aspetto anche C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda fra garanzie per i lavoratori e nuove forme organizzative dell’impresa: l’attuazione delle direttive comunitarie è conclusa?, in Commentario al D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, coordinato da F. Carinci, Milano, 2004, 239.

[6] R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto. Relazione introduttiva alle Giornate A.i.d.l.a.s.s. di Trento del 4-5 giugno 1999, in Aa. Vv., Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo, Milano, 2000, 141.

[7] Si tratta, in effetti, di un tipo di analisi proposta già con riferimento alla precedente disciplina del trasferimento di ramo d’azienda. V., in proposito, R. Del Punta, Mercato o gerarchia?, cit., 52.

[8] A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, cit.., 479; R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit. 24; M.L. Vallauri, Studio sull’oggetto del trasferimento ai fini dell’applicazione del nuovo art. 2112 c.c., LD, 2002, 638 e s.

[9] Nella versione precedente, introdotta dal d.lgs. 18/2001, il quinto comma dell’art. 2112 c.c. intendeva per “trasferimento di parte dell’azienda” una “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

[10] La nuova versione del 2112 c.c. esclude dalla definizione di ramo d’azienda anche lo scopo produttivo. Si tratta, invero, di una modifica poco valutata dalla dottrina, ma non sono mancate ricostruzioni che hanno tentato di ricavarne un autonomo significato. L’omissione dello scopo produttivo può essere letta in vari modi: da una scelta non precettiva, volta a snellire semplicemente una disposizione che appariva fin troppo appesantita, ad una precisa opzione per il rifiuto di una nozione di autonomia del ramo d’azienda vincolata ad un preciso scopo produttivo, ovvero ancora per l’accoglimento delle teorie della mera potenzialità dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda. Cfr. più diffusamente C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 263.

[11] A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 11.

[12] Questo anche alla luce dell’art. 47 della l. 428/1990 che aveva già fatto riferimento, ai fini della procedura di consultazione sindacale, al trasferimento di una “unità produttiva”. In giurisprudenza, v. Cass. 17 marzo 1993, n. 3148, MFI, Lavoro rapporto, 1993, 1298; Cass. 5 maggio 1995, n. 4873, MGL, 1995, 731. In dottrina, G. Villani, Trasferimento d’azienda, Dig. Comm., agg., Torino, 2000, 99 e ss., S. Ciucciovino, La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il D. Lgs. 18/2001, in Aa. Vv., I processi di esternalizzazione, cit., 93 ss.

[13] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 21. Ma v. anche la ricostruzione del quadro normativo in tema di trasferimento dell’intera azienda che fornisce V. Luciani, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori: il bilanciamento di interessi nell’evoluzione dell’art. 2112 c.c., Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 562 e ss. M. L. Vallauri, Studio sull’oggetto del trasferimento ai fini dell’applicazione del nuovo art. 2112 c.c., cit., 638 e s.

[14] Cfr. C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 254, nonché R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, cit., 179, A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, cit., 477, il quale precisa che ciò che è cambiato, piuttosto, è il diverso interesse dell’impresa preso in considerazione dalla norma. Ed infatti, se prima attraverso la disciplina in esame l’impresa perseguiva il ricordato interesse alla conservazione dell’integrità del complesso aziendale, comprensivo anche della forza lavoro ad esso addetta, oggi i meccanismi di tutela garantiti dalla stessa disciplina assecondano gli emergenti intenti di frammentazione del processo produttivo cui sopra si accennava.

[15] F. Scarpelli, “Esternalizzazioni” e diritto del lavoro, cit., 363; M. P. Aimo, Il trasferimento di azienda tra diritto comunitario e diritto interno. Le garanzie individuali dei lavoratori, RGL, 1999, 839; C. De Marchis, Aspetti vecchi e nuovi del trasferimento d’azienda alla luce del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 18, RGL, 2002, 121. Ma in senso contrario, M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit. 73 e ss. e S. Piccinino, Trasferimento di azienda, rapporti di lavoro e autonomia privata, ADL, 2000, 669. Un diritto di opposizione del lavoratore in caso di trasferimento di parte di azienda è stato riconosciuto da una giurisprudenza minoritaria, Pret. Milano, 14 maggio 1999, in D&L, 1999, con nota di S. Chiusolo, Trasferimento di ramo d’azienda, art. 2112 c.c. e normativa comunitaria: la cessione del rapporto di lavoro è subordinata al consenso del lavoratore ceduto, ILLJ, 1999, 6, con nota di M.P. Aimo, RGL, 2001, 344 con nota di A. Lepore, Trasferimento di ramo di azienda e diritto di opposizione del lavoratore alla sua cessione (anche con riferimento al nuovo articolo 2112 cod. civ. in attuazione della direttiva 98/50).

[16] Cfr. C. Giust. 16 dicembre 1992, Katsikas, cause riunite  C-132-138-139/91, Racc., 1992, I, 6577; C. Giust. 7 marzo 1996, Merck, cause riunite C-171794 e 172/94, Racc. 1996, 1253 e MGL, 1996, 362 con nota di I. Inglese, Sulla necessità di una rigorosa definizione di trasferimento di azienda, e LG, 1996, 717, con nota di L. Corazza, Il trasferimento di attività costituisce trasferimento d’impresa ai sensi della direttiva 77/187; C. Giust. 12 novembre 1998, Eurpìeces, causa C-399/960, Racc. 1998, 6976.

[17]U. Runggaldier, Trasferimento d’azienda e consenso del lavoratore alla cessione del contratto, DLRI, 1999, 523.

[18] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 59 e ss. Sull’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di trasferimento di impresa v. anche S. Ciucciovino, La nozione di “azienda trasferita” alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza interna e della disciplina comunitaria, ADL, 1998, 893 e ss., S. Giubboni, L’outsourcing alla luce della direttiva 98/50/CE, DLRI, 1999, 423 e ss., R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, cit., 334 e ss., R. Foglia, Il trasferimento d’azienda nell’Unione europea: la normativa comunitaria, La nuova disciplina del trasferimento d’impresa. Commento al D. Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18,?, 27 e ss., ID., L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova, 2002, 177 e ss., R. Santagata, Trasferimento del ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 607, A. Lepore, Il trasferimento d’azienda tra diritto interno e disciplina comunitaria, MGL, 2001, 182 e ss.

[19] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 62. C. Giust., 14 aprile 1994, causa C-392/92, Schmidt, Racc., 1994, 1311 e C. Giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Suezen, Racc. 1997, 1259.

[20] C. Giust. 19 settembre 1995, causa C-48/94, Rygaard, Racc. 1995, 2745 e NGL, 1996, 459.

[21] M. Roccella, Tutela del lavoro e ragioni di mercato nella giurisprudenza recente della Corte di giustizia, DLRI, 1999, 33. Ed infatti, secondo l’VIII “considerando” della direttiva 98/50, la necessità di un chiarimento della nozione giuridica di trasferimento non modifica l’ambito di applicazione della disciplina comunitaria, così come individuato dalla Corte di giustizia. Pertanto, la nuova disposizione dovrà continuare ad essere interpretata in conformità all’evoluzione della giurisprudenza della Corte.

[22] Invero, secondo una prima opinione, la divergenza terminologica delle due normative (“attività economica organizzata” di cui all’art. 2112 c.c. ed “entità economica” di cui alla direttiva 98/50) autorizzerebbe un’interpretazione dell’art. 2112 c.c. decisamente più ampia rispetto a quella comunitaria, nel senso di potervi ricomprendere tutte quelle attività economiche organizzate, comprese quelle che siano prive di quell’”insieme di mezzi” che caratterizza un’entità economica. Cfr. A. Maresca, Le “novità” del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda: la nozione di azienda trasferita, ADL, 2001, 587. Di contro, secondo altre letture della norma, la nozione del 2001 non potrebbe consentire il trasferimento di una mera attività organizzata (ad esempio un insieme di rapporti di lavoro il cui collegamento sia finalizzato alla realizzazione di un’attività sia essa principale o accessoria), non potendosi prescindere dal trasferimento di un complesso di beni organizzati. G. Santoro Passarelli, La nozione di azienda trasferita tra disciplina comunitaria e nuova normativa nazionale, ADL, 2001, 575 e ss.

[23] R. Romei, Il campo di applicazione della disciplina sul trasferimento d’azienda, cit., 581. La Corte, infatti, nella sua elaborazione non ha mai utilizzato un metodo sussuntivo, utilizzando più che altro, un insieme di “test composti da indici presuntivi ciascuno dei quali di per se non è né sufficiente né necessario”.

[24] Un “amalgama organizzativo idoneo a trasformare i singoli lavoratori addetti in un insieme capace di sviluppare una autonoma iniziativa imprenditoriale al fine della produzione di un bene o di un servizio”. Così F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2003, 162, V. anche M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 67. Nello stesso senso S. Ciucciovino, La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il D. Lgs. 18/2001, cit., 94. In giurisprudenza, tra le tante, Cass. 23 luglio 2002, FI, 2002, I, 2278, con nota di R. Cosio, Il trasferimento di impresa dal d. leg. 18/01 al patto per l’Italia.

[25] Si tratta di un orientamento ormai consolidato, v. per tutte Cass. 4 dicembre 2002, n. 17207, FI, I, 2003, 110, Cass. n. 15105 ibidem, 104, che tuttavia aveva acquistato una sua rilevanza anche prima della novella del 2001. In questo senso G. Quadri, I limiti all’applicabilità dell’art. 2112 c.c., DML, 2003, 323.

[26] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 36 e ss. L’autonomia funzionale è stata infatti interpretata in dottrina nel senso di una “coesione funzionale ed organizzativa dell’attività ceduta”, senza tuttavia implicare anche “un’autonomia gestionale o amministrativa, né una dipendenza economico commerciale o un’assoluta autonomia del risultato produttivo”. Pertanto, “ciò che rileva è che il segmento aziendale separato dalla originaria organizzazione aziendale sia in grado di funzionare autonomamente e di produrre beni o servizi”.

[27] C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 87 e 91.

[28] M. Marazza, Impresa ed organizzazione nella nuova nozione di azienda trasferita, ADL, 2001, 616.

[29] G. Quadri, I limiti all’applicabilità dell’art. 2112 c.c., cit., 325.

[30] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 31, A. Maresca, Le “novità” del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, cit., 596, M. Marazza, Impresa ed organizzazione nella nuova nozione di azienda trasferita, cit., 612.

[31] In questo senso S. Ciucciovino, La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il D. Lgs. 18/2001, cit., 98 con riferimento alla giurisprudenza citata in nota 26

[32] In tale direzione sembrava orientata anche la relazione di accompagnamento al d.lgs. 18/2001 che ammetteva che l’entità economica trasferita potesse essere “fatta oggetto delle modificazioni programmate dal nuovo imprenditore”. Eventuali modifiche all’attività trasferita, pertanto, avrebbero potuto essere apportate dal cessionario, nell’esercizio della libertà di iniziativa economica, solo dopo il trasferimento, per inserire il nuovo complesso nella nuova impresa, ed adattarlo ad essa; il ramo così importato, tuttavia, doveva rimanere in condizioni tali da consentire al cessionario di esercitare un’attività economica per il mercato (magari anche per il cedente), senza però alcun ulteriore aggiustamento. E’ l’opinione di F. Mazziotti, Trasferimento d’azienda e tutele dei lavoratori, cit., 621. Ma nello stesso senso, S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Diritti mercati lavori, 2003, 700. Vedi anche S. Ciucciovino, La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il D. Lgs. 18/2001, cit., 99. Sul punto v. anche l’opinione di G. Santoro Passarelli, Sulla nozione di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., FI, 2000, I, 1962, che invece rinveniva un vincolo funzionale del ramo d’azienda trasferito, in base al quale quest’ultimo avrebbe dovuto continuare a svolgere le stesse attività che svolgeva presso la struttura del cedente.

[33] G. Quadri, I limiti all’applicabilità dell’art. 2112 c.c., cit., 326; P. Passalacqua, Successione nell’appalto, trasferimento d’azienda e definizione legale della fattispecie, MGL, 2001, 490.

[34] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 71.

[35] Pret. Genova, 27 giugno 1998, Pret. Genova 12 maggio 1998, Pret. Milano 16 settembre 1998, Pret. Genova 22 ottobre 1998, ADL, 1998, pp. 982, 987, 995, 1006. Per una completa esemplificazione si rinvia F. Scarpelli, “Esternalizzazioni” e diritto del lavoro, cit., 353.

[36] Trib. Milano 11 marzo 2000, ADL, 2000, 433.

[37] V. Trib. Genova, 19 luglio 1999, Pret. Genova, 22 ottobre 1998, DLRI, 1999, 509, ed in senso contrario, Pret. Milano, 16 settembre 1998, cit. 416.

[38] Il pericolo, secondo l’opinione prevalente, è anche quello che le parti alterino la consistenza dell’articolazione attraverso aggiunte o sottrazioni (di beni o di capitale umano) stravolgendone l’assetto originario. Con l’accertamento della preesistenza (e della conservazione) dell’autonomia funzionale del ramo cedendo, si è dunque inteso impedire che l’ambito di applicazione della norma inderogabile venisse rimesso alla discrezionalità delle parti datoriali contraenti. E’ l’argomento di A. Maresca, Le “novità” del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, cit., 596. In questo senso anche G. Santoro Passarelli, La nozione di azienda trasferita tra disciplina comunitaria e nuova normativa nazionale, cit., 583

[39] S. Ciucciovino, La disciplina del trasferimento d’azienda dopo il D. Lgs. 18/2001, cit., 95.

[40] Cass. 4 dicembre 2002, n. 17207, cit., Cass. 25 ottobre 2002, n. 15105, cit.

[41] R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 613. V. in proposito anche F. R. Grasso, La recente giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di trasferimento di “ramo” di azienda ed esternalizzazione, ADL, 2003, 591.

[42] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 33 e ss.

[43] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 33 e ss.

[44] Ma si vedano in proposito le puntualizzazioni di M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 125.

[45] Convince di più, sotto questo profilo, un’analisi che si concentri sull’opportunità di scegliere altri meccanismi selettivi, diversi da quelli sottoposti a critica, al fine di una più compiuta delimitazione del campo di applicazione della disciplina. In questa direzione si è infatti orientato il dibattito che ha poi condotto alla definitiva formulazione dell’art. 32 del d.lgs. 276/2003.

[46] R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 36, in ordine alla scelta legislativa del 2001 di non contemplare un simile strumento che, invece, potrebbe svolgere una funzione garantistica sopratutto in ipotesi di dubbia o incerta inerenza dei lavoratori al ramo da cedere.

[47] Ne offre una attenta sintesi C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 576 e ss. Ma v. anche A. Maresca, Le “novità” del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, cit., 596, il quale ha osservato che il rigore applicativo del carattere della preesistenza potrebbe risultare attenuato ammettendo che l’autonomia funzionale possa essere valutata sia sul piano produttivo, sia su quello gestionale ed organizzativo.

[48] Per i commenti sulle modifiche alla disciplina del trasferimento d’azienda nella fase immediatamente precedente al d.lgs. 276/2003 cfr. M. Miscione, Il diritto del lavoro che cambia, LG, 2003, 105, T. Treu, Il Patto per l’Italia: un primo commento, GL, 2002, 29, 1062 e ss., E. Menegatti, Il difficile ruolo della nozione di trasferimento di ramo d’azienda, LG, 2003, 219 e ss., E Nespoli, Le modifiche alla disciplina del trasferimento d’azienda, GL, 62 e ss.

[49] P. Passalacqua, “Patto per l’Italia”: sviluppi e prospettive in tema di trasferimento d’azienda, cit., 220. Ma vedi anche le opinioni sull’originario testo del disegno di legge delega di P.G. Alleva, A. Ardreoni, V. Angiolini, F. Coccia, G. Naccari, Delega al Governo in materia di mercato del lavoro: un disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti, www.cigl.it/giuridico.

[50] P. Passalacqua, “Patto per l’Italia”: sviluppi e prospettive in tema di trasferimento d’azienda, cit., 220.

[51] T. Treu, Il Patto per l’Italia: un primo commento, GL, 2002, e E Nespoli, Le modifiche alla disciplina del trasferimento d’azienda, cit., 62 e ss.

[52] V. F. Mazziotti, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori, cit., 622. Contra V. Nuzzo, L’oggetto del trasferimento: entità materiale, organizzazione o mera attività?, Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 593 e ss. Ma un ulteriore profilo di eccesso di delega viene individuato nell’art. 32 anche da C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 239 e ss., poiché la legge 30/2003 delegava al Governo un “completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria”. Si è osservato che sotto questo profilo la delega appare vuota di contenuto, dal momento che la direttiva 23/2001 in nulla (se non per l’eliminazione di alcuni articoli bis e per la nuova numerazione) diverge da quella del 1998. In secondo luogo, questa poteva essere un’utile occasione perché il Governo italiano intervenisse su alcuni punti non del tutto definiti né conformi all’ordinamento comunitario (v. sul punto più diffusamente, P. Passalacqua, “Patto per l’Italia”: sviluppi e prospettive in tema di trasferimento d’azienda, cit., 227 e ss., con riferimento al trasferimento dell’impresa in crisi, agli effetti del trasferimento dell’azienda sui rapporti previdenziali, alla disciplina del trasferimento d’azienda nelle pubbliche amministrazioni). Mentre, come si è visto, il decreto delegato è intervenuto solo sulla disciplina del trasferimento di parte dell’azienda e, per l’intera azienda, limitatamente al titolo del trasferimento.

[53] S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 699, R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 614 , P. G. Alleva, Ricerca e analisi dei punti critici del decreto legislativo 276/2003 sul mercato del lavoro, RGL, 2003, 3 e ss., A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, cit., 473, G. Santoro Passarelli, Fattispecie e interessi tutelati nel trasferimento di azienda e di ramo di azienda, RIDL, 2003, 189, C. Cester, Trasferimento di ramo d’azienda, direttive comunitarie e garanzia dei diritti dei lavoratori, Aa. Vv., La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, a cura di M. T. Carinci, Milano, 2003, 81.

[54] M. De Felice, Il trasferimento d’azienda e il trasferimento di ramo d’azienda nel Decreto Legislativo attuativo della legge 30/2003, in http://www.cgil.it , 5.

[55] Su questo punto si registra una inedita uniformità di vedute perfino dal versante dottrinale che aveva posto in evidenza i punti deboli della disciplina del 2001. V. R. De Luca Tamajo, La disciplina del trasferimento di ramo d’azienda dal codice civile al decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003, Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit. 575, V. Nuzzo, L’oggetto del trasferimento: entità materiale, organizzazione o mera attività, cit., 598

[56] A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 14.

[57] A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 14. Il parallelismo con la fattispecie del lavoro subordinato è stato proposto anche da V. Bavaro, Il trasferimento d’azienda, Aa. Vv., Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, a cura di P. Curzio, 2004, 185 che precisa che in molte altre fattispecie, come anche nel rapporto di lavoro, l’oggetto è pur sempre tipizzato dall’ordinamento, e le parti contrattuali sono costrette a muoversi entro gli ambiti legislativamente imposti. Il “controllo di razionalità giuridica”, pertanto, impone comunque di verificare la conformità dell’operazione economica del trasferimento al “canone normativo insito nella fattispecie”. Nello stesso senso A. Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, cit., 479, che evoca in proposito il concetto della “indisponibilità del tipo”, nel senso che non potranno mai essere le parti contrattuali a disporre della nozione legale di articolazione funzionalmente autonoma.

[58] V. Bavaro, Il trasferimento d’azienda, cit., 184.

[59] Così V. Bavaro, Il trasferimento d’azienda, cit., 184. Potrebbe infatti astrattamente isolarsi uno specifico interesse dell’imprenditore cessionario alla protezione del lavoro attraverso la protezione dell’attività economica in circolazione.

[60] L’accertamento della autonomia funzionale di un’articolazione aziendale, va condotto indipendentemente da una “valutazione probabilistica che parte dall’accordo tra cedente e cessionario per proiettare gli esiti di tale accertamento nella futura utilizzazione del bene ceduto” V. Bavaro, Il trasferimento d’azienda, cit., 184.

[61] V. Luciani, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori: il bilanciamento di interessi, cit., 567.

[62] V. Luciani, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori: il bilanciamento di interessi, cit., 566 e s.

[63] R. Romei, Azienda, Impresa, Trasferimento, DLRI, 2003, 56. Il dato della preesistenza del ramo alla vicenda traslativa è stato costantemente interpretato come un predicato aggiuntivo e limitativo del trasferimento. La sua soppressione per via legislativa, pertanto, è stata letta come una pericolosa espansione del rischio di usi fraudolenti dell’istituto traslativo. A conclusioni diametralmente opposte si perverrebbe invece, laddove si considerasse la preesistenza quale “elemento esplicativo di una caratteristica tipica e cioè interna al trasferimento di una attività economica organizzata funzionale alla produzione di beni o servizi”. Sotto questo aspetto, dunque, il riconoscimento legislativo del 2001 della preesistenza non avrebbe avuto alcuna portata innovativa, poiché si sarebbe limitato a riconoscere legislativamente qualcosa che già era insito, quale attributo essenziale, nell’essenza del complesso aziendale. Ne è sintomatica la circostanza che il requisito della preesistenza sia stato richiesto in sede giurisprudenziale con riferimento a fattispecie concrete, sottoposte all’esame della Corte di Cassazione in data anteriore al decreto del luglio 2001. Ci si riferisce, ancora una volta a Cass. 4 dicembre 2002 n. 17207, cit.

[64] R. Romei, Azienda, Impresa, Trasferimento, cit., 65. Nello stesso senso R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 614.

[65] S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 700.

[66] C. Giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit. In questo senso anche R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 615

[67] R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 616. Ma nello stesso senso C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 261. La stabilità del ramo d’azienda connessa al requisito comunitario della conservazione dell’identità, misurata nel tempo, cioè prima durante e dopo il trasferimento, è stata tradizionalmente intesa quale necessaria garanzia per i lavoratori di fronte a processi di frammentazione dei complessi produttivi con lo scopo di aggirare le norme di tutela. V. anche A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., e M. De Felice, Il trasferimento d’azienda e il trasferimento di ramo d’azienda nel Decreto Legislativo attuativo della legge 30/2003, cit., 6 e 7 che tuttavia escludono il conflitto con il diritto comunitario attraverso un’interpretazione del nuovo testo dell’art. 2112 c.c. che valorizzi i caratteri dell’organizzazione e dell’autonomia funzionale quali condizioni imprescindibili di applicabilità del particolare regime circolatorio.

[68] L’art. 8 della direttiva 23/2001 precisa che essa “non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli per i lavoratori”. Da tale disposizione è stata desunta, a contrario, l’esistenza di un implicito vincolo preclusivo di una normativa interna meno garantistica per i lavoratori. Così R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 616. Ma, v. anche C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 261, e più in generale, S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 699, che interpreta la norma di cui all’art. 2112 c.c. quale norma “lavoristica inderogabile ed imperativa che deve sempre essere interpretata, per lettera e ratio, nella prospettiva del “mantenimento dei diritti dei lavoratori”, secondo la dizione ribadita anche nella direttiva 23/2001.

[69] A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 14.

[70] In questo senso S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 701; R. Santagata, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina comunitaria e diritto interno, cit., 613 e A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 14. In giurisprudenza Cass. 23 ottobre 2002 n. 14961, GD, 2002, 32.

[71] F. Mazziotti, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori, cit., 622; R. Romei, Il campo di applicazione della disciplina del trasferimento d’azienda, cit., 567; M. De Felice, Il trasferimento d’azienda e il trasferimento di ramo d’azienda nel Decreto Legislativo attuativo della legge 30/2003, cit., 7 e ss.; S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 701; V. Bavaro, Il trasferimento d’azienda, cit., 185.

[72] Per tutti v. R. Romei, Azienda, Impresa, Trasferimento, cit., 62; R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 30 e ss; M. Marazza, Impresa ed organizzazione nella nuova nozione di azienda trasferita, cit., 609.

[73] R. Del Punta, Mercato o gerarchia?, cit., 56.

[74] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 133 e ss., S. Nappi, Negozi traslativi dell’impresa e rapporto di lavoro, Napoli, 1999; F. Scarpelli, Trasferimenti di azienda, cit., 499 e ss., M. Magnani, Trasferimento d’azienda ed esternalizzazioni, cit., 491 e ss., R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, cit., 139 e ss., De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, cit., 40 e ss., G. Vidiri, Il d. lgs 2 febbraio 2001, n. 18: Trasferimento d’azienda tra “flessibilità” e “garantismo”, MGL, 2003, 4 e ss.

[75] In questo senso P. Chieco, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, Aa. Vv., Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, a cura di P. Curzio, cit., 146 e ss.

[76] R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, cit., 364, S. Ciucciovino, Trasferimento di ramo d’azienda ed esternalizzazione, cit., 401; v. anche P. Ichino, Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, cit., 232.

[77] In senso parzialmente critico per via della formulazione dell’art. 2112 c.c., a seguito della novella del 2001, M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 126.

[78] R. Romei, Cessione di ramo d’azienda e appalto, cit., 368; M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 131.

[79] L’espressione è di C. Cester, Trasferimento d’azienda, direttive comunitarie e garanzia dei diritti dei lavoratori, cit., 88.

[80] P. Chieco, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, cit. 147, che infatti riconosce come oggi, “in termini espressi e più chiari di ieri”, non sia più sufficiente solo dubitare dell’esistenza di un potere direttivo dell’imprenditore-appaltatore nei confronti dei suoi lavoratori, in quanto la sorte e la titolarità del rapporto di lavoro sono legate ad ulteriori valutazioni che attengono alla sfera dei rapporti commerciali, investendo il concreto coordinamento delle due organizzazioni a confronto. Ma in questo senso già A. Bellavista, Le sabbie mobili del divieto di interposizione, GC, 1998, I, 3228 e M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 131.

[81] P. Chieco, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, cit., 147, C. Cester, Il trasferimento d’azienda e di parte di azienda, cit., 271, A. Andreoni, Impresa modulare e trasferimenti di azienda, cit., 17, S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 703, C. Chisari, Cessione di ramo d’azienda, appalto, solidarietà, Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit.,., 589, M. T. Salimbeni, Trasferimento d’azienda e conservazione dei diritti dei lavoratori, Aa. Vv., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, cit., 605.

[82] Per azione diretta si intende l’azione proposta da un soggetto per ottenere da un terzo, al quale non è legato da alcun rapporto obbligatorio, quanto avrebbe potuto conseguire dal proprio debitore che a sua volta è anche creditore del terzo.

[83] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 139.

[84] In questo senso anche P. Passalacqua, “Patto per l’Italia”: sviluppi e prospettive in tema di trasferimento d’azienda, cit., 224 e C. Chisari, Cessione di ramo d’azienda, appalto, solidarietà, cit., 589.

[85] In questo senso S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 703; ma vedi più in generale P. Chieco, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, cit. 155, che ritiene che la limitazione del regime in questione per i soli appalti di servizi accentui, da un lato, la convenienza per quegli appalti interni che con la l. 1369/1960 beneficiavano della più favorevole garanzia di cui all’art. 3, dall’altro determini un irragionevole trattamento per gli ex appalti interni non di servizi che, dal regime della totale solidarietà ex art. 3 l. 1369/1960, passano oggi a quello estremamente limitato dell’art. 1676 c.c.

[86] S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 704.

[87] M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit., 140.

[88] S. Mainardi, “Azienda” e “ramo d’azienda”: il trasferimento nel d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cit., 704.

[89] C. Cester, 2003, Trasferimento d’azienda, direttive comunitarie e garanzia dei diritti dei lavoratori, cit., 98, il quale ribadisce l’esigenza di un regime privilegiato (privo di limiti quantitativi e temporali), trattandosi di lavoratori che, in effetti, già godevano del trattamento retributivo e normativo applicato nell’azienda esternalizzante, in cui “continuano a lavorare fianco a fianco dei loro ex compagni di lavoro o comunque nell’ambito del ciclo produttivo dell’appaltante”.

 

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