Corte d'Appello Firenze 4 febbraio 2003 - Pres. Bartolomei -  Est. Amato -  Costruzioni Callisto Pontello Spa in liquidazione (avv. N. e G.L. Pinto e Bechi) c. Ginsburg e Pastore (avv. L. e G. Ferradini).
 
Demansionamento del lavoratore - Totale o parziale inattività - Ripartizione dell'onere della prova - Funzione di Rsa - Intento antisindacale - Onere della prova specifica a carico del lavoratore.
Demansionamento del lavoratore - Revoca della procura per rappresentare la società - Fattispecie - Esclusione.
Demansionamento del lavoratore - Lesione - Plurioffensività - Risarcimento danni Liquidazione - Equità - Criteri.
 
Nelle controversie aventi a oggetto il demansionamento del lavoratore, spetta a quest'ultimo l'onere di provare l'inattività o il progressivo scemare dell'affidamento di compiti operativi all'interno dell'azienda; ricade invece sul datore di lavoro l'onere di provare che il demansionamento dipende da circostanze oggettive e che la scelta di non utilizzare le prestazioni del dipendente è assistita da ragionevolezza e congruità, mentre l'onere della prova che il demansionamento è atto discriminatorio antisindacale ricade sul lavoratore che ricopre la funzione di Rsa; peraltro tale funzione non è di per sé sufficiente a connotare di antisindacalità il comportamento del datore di lavoro, se non è offerta specifica prova che quella condotta è preordinata a scopi antisindacali.1
Non costituisce demansionamento del dipendente, inquadrato quale impiegato senza funzioni direttive, la revoca della procura per rappresentare la società datrice di lavoro nel consiglio di amministrazione di altra società del gruppo, in presenza di ragioni giu-stificatrici della revoca, quali la sopravvenienza di una nuova compagine dirigenziale avente diritto e interesse a intervenire direttamente nel consiglio, rientrando peraltro tale revoca nelle scelte discrezionali di politica aziendale.2
Il danno da demansionamento deriva dalla lesione della professionalità e dell'immagine del dipendente e dev'essere liquidato in via equitativa, tenendo anche conto delle difficoltà finanziarie in cui versa il datore di lavoro (nella fattispecie è stata presa a base la metà della retribuzione mensile, rapportata al numero dei mesi presi in considerazione).3
 
(...) 1. In via preliminare la Corte ritiene opportuno precisare le coordinate dell'onere probatorio attinenti alla particolare fattispecie portata alla cognizione dell'autorità giudiziaria.
Corrisponde al vero, infatti, quanto affermato dalla società appellante relativamente al soggetto a cui risulta l'onus probandi nelle controversie aventi a oggetto il demansionamento parziale o integrale del lavoratore. È certamente quest'ultimo la parte che deve fornire il supporto fattuale per l'affermazione dell'illegittima condotta del datore di lavoro. È vero, altresì, peraltro, che nella specie risulta sostanzialmente pacifico che nei mesi tra la primavera e l'autunno 1996 Ginsburg e Pastore sono praticamente rimasti inattivi, ovvero hanno visto a mano a mano scemare pressoché integralmente l'affidamento di compiti operativi all'interno dell'organizzazione della Ccp Spa. Se così è, ricade sulla società l'onere di prova positiva che detto oggettivo demansionamento riguardante entrambi gli appellati sia riconducibile allo stato di  crisi finanziaria e operativa che all'epoca aveva investito tutto il gruppo facente capo alla famiglia Pontello, ivi compresa la società odierna appellante. Senza peraltro potersi sottrarre il datore di lavoro dal fornire - anche in caso di raggiunta prova di uno stato di crisi aziendale ostativo della piena funzionalità professionale degli addetti - elementi circa la ragionevolezza e congruità delle concrete scelte di mancato utilizzo parziale o integrale delle prestazioni lavorative offerte dai dipendenti.
D'altro canto, qualora lo specifico onere probatorio attinente al paralizzante stato di crisi venga assolto attraverso prove dirette o indiziarie, la particolare qualificazione antisindacale, assunta dai lavoratori, dell'avvenuta sottrazione di compiti lavorativi torna nuovamente a essere a carico di chi indica tale peculiare ragione (in luogo di quella invocata dalla società) del demansionamento.
2. Nonostante la questione dei profili di antisindacalità della condotta datoriale - come indicato - si ponga a valle dell'intero ragionamento probatorio, stima la Corte
funzionale alla migliore disamina della vicenda affrontare in prima approssimazione tale versante. Anche in considerazione del fatto che, ad avviso del Collegio, la ricostruzione del primo giudice in argomento si mostra di estrema fragilità e, pur aleggiando in causa sulla base della deduzione dei lavoratori, non ha la violazione dell'are. 15 SL superato lo stadio di semplice indizio non suffragato da altri elementi rivestiti della qualità probatoria di cui all'ari. 2729 c.c.
La funzione di Rsa ricoperta da entrambi i lavoratori non è di per sé ovviamente sufficiente a dotare di antisindacalità ogni comportamento - pur lesivo di posizioni soggettive del lavoratore - del datore di lavoro. Le circostanze della unilaterale decisione aziendale di mettere in ferie Ginsburg e Pastore e del ritiro del cartellino di riconoscimento per l'ingresso in azienda, una volta che gli stessi sono stati posti in Cig, non si mostrano particolarmente probanti; nessuna incompatibilità sussiste tra la fruizione di un periodo feriale (di cui non si assume in generale l'illegittima imposizione al godimento) e il regolare svolgimento dell'attività sindacale (nei fatti compiuta dai medesimi), mentre il cartellino venne riconsegnato ai rappresentanti sindacali subito dopo la ferma richiesta dei lavoratori di continuare a svolgere il mandato sindacale. È certamente indubitabile che, dato anche - come si vedrà - l'inconfutabile stato di difficoltà economica dell'azienda, vi fosse latente o palese un clima di conflitto tra i lavoratori e i vertici aziendali, che in quel periodo hanno subito anche drastico rinnovo con l'esautoramento di componenti della famiglia Pontello. Tuttavia, una cosa è il conflitto pur aspro, ben altra questione è la discriminazione antisindacale lamentata dagli appellati. Si consideri, tra l'altro, che del tutto inutilizzabile (nonostante il contrario avviso del primo giudice che ha valorizzato la circostanza) si mostra l'unica indicazione testimoniale a favore di una forma di ritorsione antisindacale verso Ginsburg e Pastore; il teste Pazzi dichiara soltanto di avere avuto la «sensazione» che si volesse colpire Pastore e Ginsburg per la loro attività sindacale. Siffatta impalpabile coloritura discriminatoria, d'altra parte, viene negata sotto ogni aspetto da altro teste (Pasquini, ex dirigente della Ccp) a cui non risulta alcuna decisione di procedere a depauperamento delle mansioni dei lavoratori sindacalmente impegnati.
Non è, infine, privo di rilievo sul punto quanto dedotto dall'appellante, ossia che la stessa conclusione'concordata collettivamente della difficile situazione aziendale (l'accordo per la cassa integrazione) consente di ritenere la conflittualità di quel periodo nei limiti del fisiologico conflitto. Certo, il teste Pazzi riferisce di quanto meno sgradevoli e poco convenienti espressioni dell'ex titolare Ranieri Pontello secondo cui costituiva un fatto gravissimo l'intervento dei sindacati nell'azienda. La questione non connota tuttavia una diretta vessatorietà nei riguardi dei singoli sindacalisti aziendali e si tenga conto, tuttavia, che, tra l'altro, le presunte condotte antisindacali verso i due Rsa appellati sarebbero riferibili ad altri soggetti, subentrati al Pontello nella gestione della Ccp.
3. Tornando a esaminare il motivo di appello di maggiore contenuto, ossia quello attinente all'omessa valutazione dello stato di crisi della società e alla mancata distinzione da parte del Tribunale tra ipotesi di demansionamento e inattività, derivante dalla detta crisi economico-fìnanziaria e operativa, giova in primo luogo chiarire che sostanzialmente tutti i testi escussi - pur con sfumature diverse - hanno confermato la condizione di precarietà in cui si è venuta a trovare la società come tutto il gruppo Pontello.
La questione può dirsi di fatto pacifica e certamente non contrasta tale evidenza l'argomento speso dagli appellati circa l'irrilevanza della questione, essendo essi dipendenti della società (la Ccp Spa) su cui la proprietà aveva deciso di concentrare gli sforzi di salvataggio dismettendo altre attività. Questa indicazione non è utile, giacché in ogni caso anche l'odierna appellante si è trovata ad affrontare crisi e ristrutturazione come dimostrato dall'accordo sulla Cig e la sensibile riduzione di organico in breve volgere di tempo realizzatasi.
Ginsburg e Pastore erano entrambi addetti - in fasi diverse - alla gestione amministrativa dell'attività societaria in tema di gare per la realizzazione di opere pubbliche.
a) Il primo si duole, peraltro, soprattutto della sottrazione delle mansioni affidategli nell'aprile 1996, quando - per l'evidente penuria di gare di appalto, per le quali egli svolgeva la c.d. prequalifica con particolare riferimento alle gare estere in quanto conoscitore di più lingue straniere - è stato addetto a un compito che proprio la situazione di crisi economica della Ccp (quindi indirettamente confermata e anzi assunta implicitamente come elemento di partenza delle rivendicazioni di Nicola Ginsburg) aveva reso urgente; la c.d. gestione dei decreti ingiuntivi che in numero considerevole e per importi consistenti i creditori della società avevano cominciato a richiedere e ottenere. Al Ginsburg venne demandato il compito di trovare le soluzioni per dilazionare i pagamenti e per reperire i fondi per far fronte a queste pressioni creditorie.
L'istruttoria condotta consente di confermare la versione del lavoratore secondo cui per circa sette mesi egli ha operato con profitto e dedizione, dimostrando a detta dello stesso responsabile dell'ufficio legale - presso il quale di fatto esplicava pressoché interamente la sua attività lavorativa Ginsburg - particolare attaccamento al lavoro e ottenendo buon rendimento nell'espletamento delle mansioni.
Alla fine del 1996 , tuttavia, in modo improvviso e senza una specifica motivazione (v. deposizione Pazzi), queste incombenze sono state sottratte a Ginsburg e avocate dal nuovo direttore amministrativo.
Se, come si evince agevolmente dal materiale istruttorie raccolto, ad avviso della Corte, il lavoratore non può sostanzialmente censurare l'operato della società allorché non gli sono stati più affidati compiti attinenti alle gare estere, per la ragione decisiva che a dette gare praticamente in quei mesi non si provvedeva a partecipare per lo stato di riassetto complessivo e di difficoltà di mercato, appaiono invece certamente discutibili le modalità con cui sono stati tolti i compiti relativi ai decreti ingiuntivi. Al di là della questione, non approfondita in prime cure, se effettivamente tale sottrazione sia dipesa da un comportamento ritenuto lesivo degli interessi della società tenuto da Ginsburg con un creditore (su cui v. la deposizione Lombardi, ma - rileva la Corte - coglie comunque nel segno la difesa del lavoratore nel segnalare che questa circostanza sarebbe stata eventualmente da sanzionare disciplinarmente e non altro), non si mostra sufficiente la motivazione addotta dalla società circa la piena legittimità della scelta datoriale di concentrare la delicata gestione delle esposizioni debitorie nelle mani del nuovo management. Infatti, per essere razionale e conseguenziale tale scelta avrebbe semmai reso necessario il sollevamento dell'incarico del capo dell'ufficio e non dell'impiegato addetto, non essendo certo plausibile che le incombenze dell'impiegato di 2a cat. Ginsburg potessero essere assunte dal direttore amministrativo; ma soprattutto è ancora il teste Lombardi, precedente direttore amministrativo, a riferire di non sapere chi in concreto abbia assunto l'incarico della gestione di questi decreti ingiuntivi a carico della società.
La sottrazione del compito - svolto sostanzialmente con diligenza dal lavoratore - e lo spostamento alle precedenti mansioni che, non solo soffrivano di una considerevole riduzione per l'acclarata crisi aziendale, ma secondo l'indicazione del teste Lombardi in effetti mai si erano sostanziate davvero (secondo il teste avevano «carattere atipico»), perché collocate nell'ambito di prospettive aziendali «non realizzate», si mostrano scelte lesive della professionalità del lavoratore che - ad esempio - avrebbe potuto continuare a lavorare in affiancamento al nuovo responsabile e dunque configurano un vero svuotamento di mansioni atteso che quelle di «ritorno» erano, per stessa ammissione della società, al momento prive di effettiva possibilità di esplicazione.
Quindi, la decisione del Tribunale in tema di an della pretesa del Ginsburg, sebbene con motivazione parzialmente difforme da quella resa dal primo giudice, deve essere confermata.
b) Riguardo alla posizione del Pastore la questione è da un canto meno chiara e da un altro decisamente più lineare. .
Il primo aspetto concerne gli effettivi compiti affidati al Pastore prima della vicenda dallo stesso denunciata. Se può dirsi raggiunta la prova di una generica adibizione dello stesso sul versante dell'amministrazione contabile e della gestione alla concreta partecipazione di Ccp Spa alle gare, anche come addetto alla riscossione dei pagamenti da parte dei committenti i lavori eseguiti dall'azienda (cfr. deposizioni Lombardi e Pasquali), se ne deve altrettanto concludere - per quanto in precedenza più volte richiamato - che in concreto l'operatività di detti compiti nel periodo in questione era certamente contenuta e quantitativamente ridotta, attesa la condizione di sostanziale impasse che - come si desume dall'istruttoria - ha vissuto la società nei mesi in questione.
Per Pastore, tuttavia, non vi è stato spostamento ad altre più consistenti mansioni, ragion per cui quello che può essere definito anche come progressivo svuotamento delle mansioni di sua pertinenza (in assenza di una precisa diversa ragione, tramontata quella fondata sull’antisindacalità) appare soltanto il frutto della scarsa operatività aziendale a partire dai primi mesi del 1996 (periodo peraltro antecedente alla stessa nomina del lavoratore a Rsa).
D'altra parte, la doglianza principale che muove Pastore all'azienda è rappresentata dalla revoca della procura a rappresentare Ccp Spa nella riunione del consiglio di amministrazione di altra società del gruppo, la Uta Firenze Sri, indetta nel dicembre 1996.
Francamente, ad avviso del Collegio, questa circostanza appare priva di ogni portata afflittiva, considerato che la revoca della delega appare supportata da ampia giustificazione, rappresentata dallo stato di difficoltà dell'intero gruppo, dalla delicatezza del consiglio di amministrazione in questione e dal sopravvenire di una nuova compagine dirigenziale che aveva diritto e interesse a intervenire direttamente. D'altro canto, la delega a partecipare come rappresentante della società è di per sé - soprattutto se riferita a un impiegato di 2a cat. e non a un impiegato con funzioni direttive, a un quadro o a un dirigente - soggetta a revoca secondo scelte discrezionali di politica aziendale e sul diverso spessore di cui dotare la presenza societaria nella compagine direttiva di società collegata o controllata.
In conclusione, la decisione del Tribunale riguardante Luciano Pastore deve essere riformata non sussistendo profili di illegittimità dei comportamenti datoriali verso il medesimo.
Si rifletta, inoltre, anche sulla circostanza - valida peraltro anche per l'altro lavoratore appellato - secondo cui non viene dai dipendenti impugnata la messa in cassa integrazione ovvero eccepita la natura discriminatoria di tale determinazione datoriale. I lavoratori in altri termini non contestano che in concreto proprio le loro posizioni lavorative (per Ginsburg, tuttavia, solo quelle pregresse e di «ritorno» successivamente all'adibizione ad altri incarichi da cui è stato illegittimamente distolto) rientravano tra quelle per le quali il ricorso alla Cig era giustificato per l'oggettivo impoverimento quantitativo di esse.
4. La questione riguardante la quantificazione del danno, oggetto del terzo motivo d'impugnazione della società, è ovviamente assorbita per quanto riguarda Pastore, mentre resta da esaminare relativamente alla posizione di Nicola Ginsburg.
Va preliminarmente respinta l'eccezione degli appellati concernente la genericità del motivo. È vero che esso si milita a denunciare l'eccessività della somma riconosciuta dal primo giudice (il 100% della retribuzione mensile per i mesi di assunto danno da dequalificazione), ma trattandosi di giudizio meramente equitativo del giudice anche tale anodina indicazione appare sufficiente a sollecitare una diversa valutatone del giudice di secondo grado.
In secondo luogo, altrettanto sfornita di pregio si palesa l'eccezione di merito svolta dalla difesa dell'appellante in sede di discussione. Essa riguarda l'inesistenza stessa del danno atteso che per il periodo richiesto (Ginsburg si riferisce ai mesi da febbraio 1997 al 6/6/97) l'interessato è stato prima in ferie e quindi posto in Cig. Argomenta l'appellante che dunque in tale periodo non si è verificato danno da dequalificazione. La deduzione è suggestiva, ma non coglie nel segno. Infatti, il danno da dequalificazione attiene alla realizzazione della condotta illecita (sopra ricostruita) e averne contenuto la portata risarcitoria a carico del danneggiante a un determinato periodo temporale (di fatto immediatamente successivo allo spostamento dai compiti attinenti ai decreti ingiuntivi) fa parte della strategia giudiziaria del soggetto che sicuramente a partire dal demansionamento (e dalla successiva inoperosità) - qualunque sia stata la sua successiva storia professionale presso la Ccp - ha subito un complessivo danno d'ordine professionale e d'immagine. È questo che viene risarcito, è tale afflittività plurale che si mira a imputare al responsabile, non il materiale mancato espletamento di questa o quella attività.
In punto di quantificazione va accolta la censura della società riguardante l'eccessività del parametro utilizzato dal primo giudice. In primo luogo, va espunta dalla ricostruzione di detto parametro qualsiasi incidenza dell'antisindacalità della condotta, che questa Corte ha escluso si rintracci nelle determinazioni datoriali.
In secondo luogo appare pertinente, tenuto altresì conto dell’oggettiva condizione di difficoltà finanziaria e operativa della datrice di lavoro, una quantificazione attorno alla metà circa della paga netta mensile che, rapportata alla moneta avente attuale corso legale, stimasi equo fissare intorno a 580/600 € mensili. Questo dato va moltiplicato per i quattro mesi e pochi giorni del periodo richiesto fino al 6/6/97, per giungere quindi a un totale netto di € 2.500, quantificati secondo arrotondamenti altrettanto equitativi. Su tale somma sono dovuti dal mese successivo di luglio 1997 rivalutazione e interessi come per legge. (...).
NOTA
(1-3) RIPARTIZIONE DELL'ONERE DELLA PROVA E CRITERl PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO IN IPOTESI DI DEMANSIONAMENTO: ESAME DELLA GIURISPRUDENZA
 
La Corte d'Appello di Firenze fa piena applicazione del principio di ripartizione dell'onere della prova (art. 2697 c.c.): i fatti costitutivi della domanda devono essere provati dall'attore; 5 fatti estintivi, modificativi, impeditivi, dal convenuto. Sulla scorta di questa premessa, il giudice del gravame ha attribuito al lavoratore ricorrente l'onere di provare le circostanze «inattività» o «progressivo scemare dell'affidamento di compiti», fatti in cui si risolve il demansionamento e che costituiscono il fondamento della domanda (cfr, Trib. Treviso 30/4/01, in Rass. giur. lav. Veneto 2001,2,110), mentre ha attribuito al datore di lavoro resistente l'onere di provare che il demansionamento dipende da circostanze oggettive, che rendono ragionevole e conforme a diritto la scelta effettuata, ossia il fatto impeditivo (cfr. Pret. Milano 14/2/96, in questa Rivista 1996,743).
Nel senso che l'illiceità dell'atto del datore di lavoro, perché dettato da motivi antisindacali, debba essere provata da chi ne deduce l'esistenza, v., ad esempio, Cass. 19/8/86 n. 5089, in Rep, Foro it. 1986, voce «Sindacati» n. 100; Pret. Roma 20/11/98, ivi/2000, stessa voce n. 126; Trib. Parma 1/10/84, in Giur, it. 1985,1, 2, 405, con nota di Ardau.
In ipotesi di demansionamento la ripartizione dell'onere della prova sull'an non ha occupato molto la giurisprudenza, verosimilmente perché il lavoratore ricorrente avverte l'esigenza di dimostrare il fatto del demansionamento, ricorrendo a un ampio dispiegamento di mezzi istruttori (si vedano in proposito i rilievi di de Angelis, «Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore», in Foro it. 2000,1,1557).
Dall'esame delle massime giurisprudenziali si constata una maggior attenzione in tema di prova del danno prodotto dal demansionamento.
La ricerca porta a rilevare due orientamenti giurisprudenziali: quello che esclude che dalla violazione dell'art. 2103 c.c. derivi di per sé un danno, che sarà pertanto onere del lavoratore, ancorché ricorrendo alle presunzioni semplici di cui all'art. 2729 c.c.: v. in tal senso Trib. Milano 10/6/2000, in Orientamenti 2000,367; Trib. Milano 16710/98, ivi 1998,912; Trib. Milano 9/11/96, in questa Rivista 1997,360.
L'altro orientamento sembra invece accedere a un'applicazione meno rigida dell'art. 2697 c.c., e induce a ritenere non necessari ai fini della prova del danno «particolari accertamenti se non l'uso di nozioni di comune esperienza»: v. in questo senso Trib. Milano 12/3/01, in Orientamenti 2001,43; Trib. Milano 26/4/2000, ivi 2000,375; alcune pronunce affermano anzi una sorta di automatismo, che induce ad affermare l'intrinsecità del danno da demansionamento: v. Trib. Treviso 30/4/01 cit.; Trib. Milano 22/12/01, in questa Rivista 2002,377; per Trib. Milano 4/5/01, ivi 2001,705, il danno da demansionamento costituisce un «fatto notorio»; esclude la necessità della dimostrazione dell'effettivo pregiudizio patrimoniale causato dal demansionamento Cass. sez. lav. 6/11/2000 n. 14443, in Arch. civ. 2001,180; in senso conforme cfr. Trib. Vicenza 20/7/2000, in Rass. giur. lav. Veneto 2000,2,51 ; Corte App. Milano 11/5/01, in Orientamenti 2001,256; a questo secondo indirizzo si è attenuta la sentenza qui pubblicata.
La distanza fra i due orientamenti però è più formale che di sostanza.
Occorre tenere presente che il richiamo alle presunzioni semplici da parte delle pronunce che escludono ogni automatismo fra demansionamento e danno non è foriero di quella rigidità nella vantazione della prova che l'affermazione di principio pare contenere; specie ove si consideri che proprio l'ari. 2729 c.c. rimette alla «prudenza del giudice» la valutazione delle presunzioni. In definitiva la rigidità del principio è mitigata nell'applicazione del potere discrezionale dei giudice e nel caso concreto può giungere fino a sfumare in affermazioni proprie dei precedenti richiamati per l'orientamento più favorevole al lavoratore: il punto è efficacemente riassunto da Cass. sez. lav. 2/11/01 n. 13580, in Rep. Foro it. 2001, voce «Lavoro (rapporto)», n. 753.
A ciò si aggiunga che in modo uniforme la giurisprudenza afferma la plurioffensività del demansionamento; mentre la sentenza qui pubblicata parla di «danno d'ordine professionale e di immagine», Cass. sez. lav. 14442/2000 sopra citata, parla di una «pluralità di pregiudizi» riconducibile al demansionamento e Trib. Milano 17/3/01, in Orientamenti 2001,47, in particolare in motivazione p. 49, menziona, oltre alla «professionalità», anche la «dignità» e ('«immagine» del lavoratore fra i beni lesi dal demansionamento: si tratta cioè di risarcire un danno che non lede solo beni patrimoniali del lavoratore, ma anche beni non patrimoniali o immateriali, rispetto ai quali la prova del danno non può che essere ricollegata sulla scorta (più che della comune esperienza) di un giudizio circa la rilevanza giuridica di determinati interessi della parte lesa a contenuto non patrimoniale, meritevoli di tutela risarcitoria, ancorché per equivalente; cfr. in proposito de Angelis, «Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore», cit.
La giurisprudenza è concorde nel proporre criteri equitativi per la liquidazione del danno riconducibile al demansionamento.
A tale orientamento si è attenuta anche la sentenza qui pubblicata; in proposito senza alcuna pretesa di completezza, si richiamano: Cass. sez. lav. 1/6/02 n. 7967, in Rep. Foro It. 2002, voce «Lavoro (rapporto)» n. 195; Cass. sez. lav. 2/1/02 n. 10, ivi 2002, stessa voce n. 30; Cass. 13580/01 cit; Cass. sez. lav. 20/1/01 n. 835, in Mass. giur. lav. 2001,1014, con nota di Vallebona; Cass. 14443/2000 cit.; Trib. Milano 4/5/01 cit; Pret Milano 1/3/99, in Orientamenti 1999,88; Pret Milano 19/2/99, in questa Rivista 1999,375.
Il parametro di riferimento pacificamente usato in giurisprudenza per determinare il risarcimento del danno da demansionamento è costituito dalla retribuzione; il problema nasce al momento della concreta liquidazione, caso per caso: in altri termini la domanda è di «quanta» retribuzione si deve tener conto ai fini della determinazione dell'importo da corrispondere al lavoratore demansionato.
Il danno patrimoniale viene liquidato con riferimento alla retribuzione percepita durante il periodo di demansionamento: v., ad esempio, Pret Milano 11/1/96, in questa Rivista 1996, 741.
Qualora siano stati presi in considerazione altri aspetti del danno, il medesimo è stato liquidato con misure diverse, nelle quali trova espressione il noto potere discrezionale conferito al giudice dall'art. 1226 c.c.
Ha commisurato il risarcimento all'intera retribuzione mensile, ad esempio, Pret. Roma 1/4/99, in Lav. prev. oggi 2000,1238, con nota di Meucci; ha invece escluso che il danno possa essere commisurato all'integrale retribuzione mensile, peraltro in un'ipotesi di lavoro a tempo parziale, Cass. sez. lav. 835/01 citata.
Alcune decisioni hanno determinato il quantum sulla base della metà della retribuzione: v., ad esempio, Pret. Milano 14/2/96, in questa Rivista 1996, 743; Pret. Milano 16/9/94, ivi 1995,143; Trib. Milano 22/11/97, in Orientamenti 1997,975 suggerisce di non superare, di norma, la metà della retribuzione nella liquidazione del danno da demansionamento, rilevando come la retribuzione non rappresenti il corrispettivo della sola capacità professionale.
A questa misura del risarcimento si è attenuta anche la sentenza qui pubblicata, la quale si segnala per lo sforzo compiuto per rendere ostensibile il criterio di equità applicato: il giudice fiorentino infatti ha tenuto contò anche dello stato di dissesto economico-finanziario del datore di lavoro.
Altre decisioni hanno liquidato il danno con percentuali minori della retribuzione: Trib. Milano 6/5/02 cit. e Pret. Milano 1/3/99, in Orientamenti 1999,88, hanno preso a base, ad esempio, il quaranta per cento della retribuzione; Corte App. Milano 11/5/01 cit. ha ritenuto equo assumere a base della liquidazione il venti per cento della retribuzione, mentre la stessa Corte milanese, con altra sentenza dell'11/5/01, anch'essa in Orientamenti 2001,261, ha applicato il dieci per cento della retribuzione; ha applicato il quindici per cento della retribuzione Corte App. Milano 5/6/01, in questa Rivista 2001,1007.
È opportuno ricordare che il tema del demansionamento concernente i giornalisti ha dato luogo a un indirizzo giurisprudenziale con tratti specifici: v. in proposito la nota di F. Bernini, «La dequalificazione del giornalista», in calce a Trib. Milano 26/6/02, in questa Rivista 2002,639; nonché Cass. sez. lav. 7/7/01 n. 9228, ivi 2001,999.
Il danno è stato escluso nell'ipotesi di demansionamento di breve periodo o nel caso del lavoratore ormai prossimo alla pensione, ovvero ancora quando il dipendente svolge mansioni di basso profilo: v., ad esempio, Trib. Milano 2674/2000 cit.; Trib. Milano 16/10/98, in Orientamenti 1998,912.
Va infine segnalato che l'azione di risarcimento del danno per violazione dell'alt. 2103 c.c. è soggetta a prescrizione decennale, trattandosi di illecito contrattuale, come ricordato, ad esempio, da Pret. Milano 11/1/96 cit.
2 II conferimento di procure speciali ai dipendente per la rappresentanza della società datrice di lavoro, ovvero la loro revoca, sono questioni che compaiono spesso nelle controversie in cui si discute di demansionamento.
L'irrilevanza di tali conferimenti e/o revoche - confermata anche nella fattispecie qui pubblicata - è da ravvisare, soprattutto in ipotesi di mansioni non direttive, nella circostanza che specifici incarichi di rappresentanza della società datrice di lavoro esulano, per lo più, dal contenuto tipico che caratterizza e qualifica le mansioni del dipendente.
marco orsenigo
(pubblicata in Riv. crit. dir. lav. 2/2003, p. 354)

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