Il Funzionario Amministrativo nelle autonomie locali

 

 

 Il Funzionario Pubblico

 

Negli anni seguenti l’unità d’Italia, l’impiego presso la Pubblica Amministrazione (P.A.) veniva considerato come una sorta di locatio operarum, ovvero una prestazione di attività lavorativa regolata dal diritto privato, ma con alcune peculiarità soprattutto in materia di assunzione, carriera e aspettativa. Successivamente, una profonda evoluzione in senso pubblicistico caratterizzò il settore pubblico e se da un lato il dipendete abbandonò il ruolo di semplice prestatore di lavoro, per assumere quello privilegiato di preposto ad un ufficio con specifiche potestà, dall’altro, con l’introduzione della disciplina organica degli impiegati civili dello Stato (1923) e l’affidamento delle relative controversie ai giudici amministrativi (Giunte provinciali amministrative e Consiglio di Stato)(1924), venne a crearsi un vero e proprio corpus normativo, ben distinto dalla disciplina inerente al lavoro privato. In seguito, videro la luce testi legislativi particolarmente innovativi, giudicati ancor oggi fondamentali, se non altro per comprendere appieno la logica di certe scelte effettuate: il D.P.R. 3/1957, meglio noto come il T.U. degli impiegati civili dello Stato, che cercò di attenuare l’impostazione rigidamente gerarchica del 1923; la L. 312/1980, che introdusse sia le qualifiche funzionali articolate in profili professionali, sia i principi di efficienza, efficacia ed economicità; la L. 93/1983, legge quadro del pubblico impiego, che avvalorò ufficialmente la contrattazione collettiva; il D.P.R. 347/1983, che consentì il raggiungimento di alcuni obiettivi rilevanti prefissati in testi legislativi precedenti e introdusse nuovi istituti; la L. 142/1990, che disciplinò il nuovo ordinamento delle autonomie locali; la L. 241/1990, che regolamentò il procedimento amministrativo; il D.Lgs. 29/1993, che completò il processo di privatizzazione del lavoro pubblico, determinando oltre alla contrattualizzazione dello stesso ed il conseguente assoggettamento dei dipendenti pubblici al diritto comune, anche la cancellazione (o quasi) della posizione di supremazia speciale della P.A. nei confronti del proprio personale; i DD.LLgs. 396/1997 e 80/1998 (in attuazione della delega contenuta nella L. 59/1997) che portarono a compimento il noto processo di privatizzazione; il D.Lgs. 165/2001, che costituì il primo T.U. sul pubblico impiego post riforma, modificato poi dalla L. 145/2002 e dal D.Lgs. 3/2003.

È d’uopo ricordare che, nell’ambito del pubblico impiego, si adotta una terminologia specifica, quindi si parla di “rapporto di servizio”, se si fa riferimento all’attività lavorativa del dipendente, che si impegna a fornire una determinata prestazione in cambio di una specifica retribuzione, invece, si opta per l’espressione “rapporto di ufficio”, se si esamina il collegamento giuridico esistente tra il suddetto lavoratore e una componente dell’organizzazione: nesso grazie al quale la persona fisica acquisisce la capacità di esercitare i propri poteri e le proprio funzioni, che le norme attribuiscono specificatamente a tale ufficio: si noti che la disciplina che regolamenta il rapporto di ufficio è variabile, proprio in relazione al tipo di ufficio. In questo caso, in quanto titolare di una sfera di funzioni pubbliche, il dipendente è chiamato Funzionario Pubblico: quando si tratta di un ufficio-organo, il soggetto è persino dotato della capacità di compiere atti giuridici con rilevanza esterna, mostrando con maggiore evidenza la propria immedesimazione con la componente dell’organizzazione amministrativa, che caratterizza tale figura. La titolarità dell’ufficio si può acquisire per nomina o a seguito di elezione e si può perdere per dimissioni, per scadenza del termine, per revoca o rimozione. Esistono alcuni principi comuni a tutti i titolari di uffici, che consentono di comprendere quanto questo ruolo rappresenti davvero il cardine dell’intera P.A., sia in presenza che in assenza di figure dirigenziali: es. la continuità dell’ufficio, anche in caso di discontinuità dell’attività del suo titolare (si giustifica così l’applicazione di istituti quali la reggenza e la supplenza); la legalità del conferimento della titolarità; la disciplina e l’onore richiesti nell’adempimento delle funzioni.

 

P.A. in crisi o solo in mutamento

 

 

Tutti conoscono i problemi del settore pubblico italiano, ma i massimi esperti in materia sono senz’altro coloro che sono immersi in questa realtà quotidianamente, cioè i dipendenti degli enti pubblici: un vero e proprio esercito, se si pensa che, nel dicembre 2003, i lavoratori effettivi in servizio erano più di 3.500.000, pari al 16% dell’occupazione totale rilevata nel Paese (Nota Istat 27/02/2007, “Statistiche sulle amministrazioni pubbliche”). Negli ultimi decenni lo scenario è profondamente mutato ed è necessario acquisire nuove capacità per adattarsi ai cambiamenti in atto e per riuscire a governare processi sempre più complessi, sperimentando vie nuove e abbandonando coraggiosamente modelli del passato, che talora esercitano un’azione frenante sul presente, però, al contempo, si registra anche un fenomeno preoccupante, cioè un diffuso disinteresse da parte degli Amministratori e dei Dirigenti nei confronti del clima lavorativo interno, contraddistinto da un dilagante malumore, che serpeggia negli organici a tutti i livelli. Sarebbe opportuno riscoprire quei valori e quei principi professionali tipici della P.A., che dovrebbero proprio costituire le fondamenta di tutta la Pubblica Amministrazione, secondo quanto dispongono le leggi vigenti: es. l’imparzialità, la parità di accesso, la difesa del bene pubblico, per citarne solo alcuni. Valori giudicati pericolosamente obsoleti, seppelliti colpevolmente nel passato prossimo, spesso completamente ignorati e rarissimamente testimoniati! Riappropriarsi di tale ricchezza valoriale favorirebbe senz’altro il coinvolgimento degli operatori, rendendo più sereno il clima lavorativo attuale e aumentando la produttività degli addetti, sebbene un coinvolgimento maggiore possa anche comportare un ulteriore investimento emotivo e causare forse qualche delusione in più nei lavoratori maggiormente sensibili, però le indagini più recenti parlano chiaro e occorre tempestivamente intervenire: i dipendenti del settore pubblico, infatti, spesso silenziosamente protestano, denunciando un comportamento schizofrenico delle organizzazioni in cui operano, strategicamente protese alla soddisfazione dei bisogni della cittadinanza, ma sorde alle richieste provenienti dagli uffici interni, come se i dipendenti fossero stati privati della cittadinanza e dei diritti correlati al momento dell’assunzione.

A questo punto, c’è sempre qualcuno che invoca il classico deus ex machina per la risoluzione di ogni problema e inventa il ruolo di un nuovo burocrate o di un nuovo comitato tecnico, autorevole e indipendente, un novello controllore capace di rendere perfetta ogni amministrazione, rivalutando proprio quei principi antichi, scolpiti nelle norme, ancora esistenti, ma caduti nell’oblio, quali il buon andamento, la trasparenza, la legalità, l’efficienza, l’efficacia ecc... Se si realizzasse tutto ciò, vi sarebbero molteplici ricadute vantaggiose: ogni attività intrapresa sarebbe anche economicamente conveniente, come naturale conseguenza di una situazione favorevole, anche perchè le risorse, a parità di risultati produttivi, sarebbero meglio impiegate e gli obiettivi prefissati sarebbero raggiunti, con piena soddisfazione dei cittadini. È importante sottolineare che economicità e imparzialità sono concetti interdipendenti, poiché il bene comune si può perseguire solo prevenendo conflitti di interesse, mentre la convenienza economica oggettivizza i comportamenti in vista di un fine unificante: ecco perché l’impiego sub-ottimale delle risorse pubbliche deve sempre essere debitamente motivato, perché condannabile, essendo giudicato dannoso per l’intera collettività. Ora, se all’interno della P.A. questi valori non hanno la forza trainante e aggregante, che invece ha il profitto nel settore privato, è anche vero però che il ruolo istituzionale dell’ente pubblico, con le sue specifiche finalità sociali, offre una concreta possibilità di riscatto, sollecitando i dipendenti più onesti ad adottare comportamenti congrui e consoni al proprio ruolo, basati sull’esercizio del potere come servizio a favore dell’intera collettività.

Chiunque si può rendere conto del periodo difficile che sta vivendo il pubblico impiego e non è un caso che siano così frequenti anche le vertenze giudiziarie, che vedono contrapposti in tribunale gli enti pubblici e i propri dipendenti. Alcuni aspetti del problema sono emersi dalle indagini condotte in questi anni dal Dipartimento della Funzione Pubblica, es. Programma Cantieri, in cui addirittura è stato stilato un elenco di indicatori di “malessere”, per evidenziare ed esplicitare il disagio presente sul posto di lavoro presso gli enti pubblici, consentendo di comprendere meglio quali siano i “campanelli d’allarme” che denotano tale disagio: es. assenteismo, disinteresse, desiderio di cambiare attività, alto livello di pettegolezzo, risentimento nei confronti dell’organizzazione, aggressività abituale, nervosismo, disturbi psicosomatici, sentimento di inutilità, sentimento di irrilevanza, sentimento di disconoscimento, lentezza, confusione organizzativa in termini di ruoli e compiti, calo della propositività a livello cognitivo, aderenza formale alle regole, anaffettività lavorativa. Un’organizzazione può dirsi salubre quando almeno rispetta tutte le norme vigenti (amministrative, civili e penali), valorizza le competenze già esistenti e offre un ambiente di lavoro stimolante con obiettivi espliciti: in questo modo senz’altro previene situazioni dannose per i lavoratori e per lo stesso ente pubblico. Oggigiorno invece sembrano deluse varie legittime aspettative dei lavoratori pubblici, soprattutto in materia di responsabilità-prestazione-retribuzione-carriera, con inevitabili ricadute negative sulle rispettive famiglie, che talvolta devono affrontare spese legali ingenti per difendere diritti costituiti con l’auspicio di poter vedere riconosciuta in giudizio la legittimità delle loro pretese in un arco temporale ingiustificatamente lunghissimo. Non è un caso, quindi, che si abbia un calo progressivo sia della motivazione al lavoro, sia del senso di appartenenza al proprio ente-azienda, a fronte di continue frustrazioni per lo spazio di autonomia spesso assai ristretto e per il desiderio di maggiore personalizzazione della propria attività, di frequente “castigato” da un sorta di fisiologico anonimato, anche quando il proprio lavoro è riconosciuto come determinante: quest’ultimo aspetto risulta molto problematico per determinate figure, poiché nel settore pubblico non esiste la nozione unitaria di lavoro, ma esistono contributi professionali molteplici, caratterizzanti i singoli segmenti del processo produttivo.

Questo disagio si inserisce in un contesto sfavorevole, in quanto la fiducia nelle istituzioni italiane non può che diminuire, condizionata com’è anche dal comportamento dei mass media che, oltre a confermare i dati più nefasti, riportano frequentemente notizie di cronaca davvero raccapriccianti per qualsiasi cittadino dotato di un normale senso dello Stato: infatti, l’insoddisfazione e la rabbia aumentano proporzionalmente vedendo politici e burocrati che dilapidano denaro pubblico a proprio vantaggio, a dispetto delle leggi vigenti, aggirando sistemi posti a garanzia del bene comune: basti pensare alle valutazioni periodiche cui devono soggiacere i Dirigenti, ai fini dell’eventuale rinnovo del contratto individuale, che talora si rivelano davvero procedure “farsa”, in cui gli stessi soggetti si autovalutano e si autopromuovono, assicurandosi nuovi incarichi super pagati, con denaro pubblico! Per questo, di fronte a certi sprechi e a certi disservizi, il riconoscimento del valore sociale del proprio lavoro non è più sufficiente e occorre il ripristino di una legalità vera e non di facciata! È necessario correggere e reprimere tempestivamente i comportamenti riprovevoli contrari all’ordinamento giuridico in vigore, perché è necessario rendersi conto che la Pubblica Amministrazione è un bene di tutti e può davvero essere danneggiata sia dai propri amministratori che dai propri dipendenti, sia con azioni che con omissioni, agite con dolo o con colpa grave (ex L.639/1996), sebbene, purtroppo, rarissimamente chi commette illeciti soffre a titolo di pena una diminuzione del proprio patrimonio, perchè solo in campo penale la responsabilità è esclusivamente personale (art.27 Cod.Pen.) e nella maggior parte dei casi l’azione giudiziaria viene promossa in campo civile o amministrativo, quindi non può che richiedere che la condanna dell’ente nella sua interezza. È bene ricordare, a questo proposito, che in ordine alla responsabilità amministrativa, che ha quasi assunto i connotati di un istituto proprio del settore pubblico, sono stati congegnati alcuni modelli particolarmente interessanti: se da un lato, è stato sottolineato il carattere pubblicistico e sanzionatorio della stessa, dall’altro è stata considerata alla stregua di una species del genus responsabilità civile per danno, in rapporto al concetto di risarcimento, mentre taluno ha addirittura cambiato prospettiva d’analisi e ha preferito trattarla come una responsabilità complessa, distinguendo le singole sue funzioni: funzione risarcitoria, funzione sanzionatoria, funzione preventiva, funzione di garanzia. Sicuramente il verificarsi di un vero danno erariale è un elemento fondamentale della responsabilità amministrativa e ciò deve intendersi nella configurazione civilistica che ammette sia il danno emergente, con riferimento alla perdita subita, che il lucro cessante, in relazione al mancato guadagno. La Corte dei Conti, poi, ha ripetutamente evidenziato che tale danno è risarcibile solo quando è certo e attuale, oltre ad essere effettivo: certo è che il danneggiamento subito dalla cittadinanza non viene mai indagato, provato e quantificato, sebbene il concetto di danno pubblico sia stato notevolmente allargato negli ultimi decenni, fino a comprendere molteplici interessi generali di natura eminentemente pubblica riferibili allo Stato come comunità.

A onor del vero occorre riconoscere l’impegno di molti enti nel fronteggiare alcuni problemi interni ed esterni, sperimentando coraggiosamente forme contrattuali nuove, prima sconosciute, che hanno consentito di creare e mantenere aperti alcuni servizi, che avrebbero avuto costi insostenibili in mancanza di personale a part time. In certe realtà, forme contrattuali che si potrebbero anche definire “non convenzionali” hanno costituito spesso l’unica chance per sbloccare assunzioni necessarie, consentendo l’arruolamento di nuove risorse per far fonte al fabbisogno, di fronte a vincoli legislativi rigorosi. Le ricerche sul campo hanno chiarito che la diffusione di vari istituti, riconducibili al concetto di flessibilità, in cui rientrano contratti tra loro molto diversi, è ancora molto bassa (nel 2003 i dipendenti a tempo parziale costituivano il 4,4% del personale in servizio a tempo indeterminato) (Nota Istat 27/02/2007, “Statistiche sulle amministrazioni pubbliche”) ,sebbene il trend sia in crescita, soprattutto nel comparto delle regioni e delle autonomie locali. In tale contesto, il rapporto tra pianificazione strategica e controllo ha un ruolo particolarmente significativo, perchè proprio a livello di amministrazione locale, cioè in un ambiente caratterizzato da una dinamicità crescente, si evidenziano vari fenomeni: mutamenti culturali, sociali, economici, tecnologici e politici; una significativa evoluzione e variabilità della domanda di servizi pubblici; il maggior numero e la più ampia estensione di funzioni attribuite ai governi locali da parte degli enti istituzionali sovraordinati, soprattutto in relazione all’applicazione sempre più spinta del principio di sussidiarietà, attraverso l’attuazione del federalismo amministrativo e della devoluzione di poteri dal livello di governo centrale a quelli regionale e locale. Qui innegabilmente il cittadino esercita un maggiore controllo sull’operato delle istituzioni pubbliche e proprio a questo livello gli enti dovrebbero applicare con maggiore attenzione la normativa per diventare operativamente più efficienti, anche perché la P.A. non può più porsi verso l’esterno come uno statico produttore di servizi standardizzati e indifferenziati, nel tempo e nello spazio, ma deve compiere un serio esame di coscienza per riconoscere che non esiste un solo pubblico uniforme con bisogni ripetitivi, ma più “pubblici” diversi tra loro che esprimono domande varie, eterogenee, in evoluzione costante per ottenere servizi, quantitativamente e qualitativamente superiori. Analizzando la natura dei cambiamenti in atto ci si rende conto di quanto sia opportuno, conveniente e doveroso investire maggiormente sui dipendenti pubblici, migliorando il legame esistente tra detti lavoratori e le rispettive istituzioni: tutto ciò avrebbe una ricaduta positiva sul pubblico impiego, migliorerebbe l’efficacia dell’intervento pubblico, avvantaggerebbe l’intero Paese, dal momento che la qualità dei servizi pubblici dipende in larga misura dalle qualità professionali e personali degli addetti che vi operano.

Nonostante continui a sopravvivere il modello amministrativo tradizionale, caratterizzato da un forte legame con la tradizione passata, in cui non si gestiva il personale, ma lo si amministrava, in cui i meccanismi retributivi venivano considerati gli unici strumenti per la gestione del personale, ove dominava esclusivamente il valore dell’anzianità, in molti enti si assiste alla progressiva assunzione di un altro modello denominato telocratico (dal greco telos, insieme di strumenti per il raggiungimento di un fine/obiettivo). Se questa è la sfida imposta dalle politiche di riforma, occorre, però, comprendere che i mutamenti organizzativi e culturali connessi non possono essere applicati meccanicamente ed omogeneamente, nemmeno in linea teorica, in quanto occorre sempre un supporto culturale. Mentre nell’immediato passato l’attenzione si era concentrata sostanzialmente su poche politiche di direzione del personale riguardanti soprattutto gli stipendi, le carriere e le relazioni sindacali, oggigiorno, invece, occorre andare anche oltre, cioè migliorare la qualità del lavoro, fornire nuove opportunità di sviluppo professionale, investire sulle relazioni interne, che devono essere sempre più salde e capaci di produrre significati e valori condivisi. Questo profondo rinnovamento, che sta interessando il sistema P.A., mira ad affermare e potenziare la capacità di qualificarsi come fattore di sviluppo sociale ed economico del Paese. Alcuni pensano che sia sufficiente quale conditio sine qua non il superamento dei modelli organizzativi antiquati e delle logiche di stampo burocratico, che vedevano nella conformità alla norma l’unico criterio di valutazione della bontà dell’operato pubblico, ma in realtà è necessario soprattutto porre al centro il cittadino, focalizzando l’attenzione sulla necessità di soddisfare le sue esigenze, come singolo e come comunità, instaurando in tal modo un valido “sistema pubblico integrato”, in linea con la nuova logica di governance, nell’ambito del quale l’istituzione dovrebbe gestire il ruolo di soggetto regolatore con un suo spazio da esplorare più che con un insieme di norme da applicare.

 

 

La cat.giur. D3 negli enti locali

 

 

Mentre nel settore privato le norme disciplinano le esigenze di organizzazione del lavoro, generate da cambiamenti intervenuti nei processi produttivi e nelle strategie aziendali, nel settore pubblico avviene il processo inverso, cioè le innovazioni vengono introdotte a livello normativo e promuovono nuove forme organizzative, sollecitando l’adozione di modalità di lavoro differenti: però le norme non sono mai sufficienti e richiedono culture, strategie e logiche d’azione per radicarsi nella struttura organizzativa e per prevenire situazioni di “rigetto”, che talora possono verificarsi per l’introduzione di elementi di produttività e meritocrazia in ambienti poco accoglienti, rigidi e culturalmente impreparati. Quanto segue risulta essere un esempio emblematico. Nonostante l’abolizione delle carriere, operata dagli anni ottanta (ex L. 312/1980), nelle Pubbliche Amministrazioni il termine “Funzionario Direttivo” mantiene ancora un preciso significato, in quanto indica il Funzionario che, possedendo un’elevata professionalità, svolge compiti di alta qualificazione, condotti con notevole autonomia operativa e gestionale con l’assunzione di ampie responsabilità. Il vecchio ordinamento però, ove si parlava di “gradi”, faceva riferimento alla responsabilità dei compiti che si svolgevano a tutti i livelli, mentre con l’introduzione delle “qualifiche funzionali” e dei “profili professionali” i gradi si sono persi insieme alle carriere,  non  tenendo in debito conto la loro importanza e provocando conseguentemente danni molteplici a chi era già stato assunto in ruolo. In tal modo è stato ingiustificatamente eliminato il collegamento tra qualifica e responsabilità ed è stato possibile non solo richiedere al personale l’espletamento di funzioni a prescindere dalla carriera di provenienza, dall’esperienza e dalla professionalità acquisita, ma in seguito, con l’introduzione delle aree funzionali interne ai contratti, si è persa addirittura la possibilità di distinguere la differenza giuridica tra i diversi “ex-livelli”. Questa situazione rappresenta una grave contraddizione per la regolare funzionalità della P.A. e per la corretta ed imparziale offerta di servizi alle famiglie e alle imprese. Non si tratta, infatti, di un mero problema di visibilità della categoria dei Funzionari Direttivi, bensì di un vero e proprio problema strutturale, che si riflette sulla capacità di tutte le amministrazioni pubbliche a svolgere in modo completo la propria missione nell’interesse della collettività. Quindi, si può dire ragionevolmente che i Funzionari Direttivi, proprio in tale ottica, rappresentano la struttura portante della P.A. per lo svolgimento dei servizi pubblici, in quanto i Dirigenti sono sempre più indirizzati verso la gestione delle decisioni più complesse, lasciando responsabilità di direzione e coordinamento al livello immediatamente inferiore di “predirigenza”, chiamata a svolgere compiti che prevedono ampia autonomia decisionale, elevata professionalità e assunzione diretta di responsabilità: anche per codesta ragione in tutte le amministrazioni pubbliche, centrali e territoriali, si stanno contraendo gli organici della dirigenza.

Analizzando dettagliatamente il testo normativo incentrato sulla disciplina delle qualifiche funzionali (L. 312/1980), ci si può rendere conto della valenza di questa figura all’interno della pianta organica già a quell’epoca, tant’è vero che è sufficiente leggere l’art.2: “Ottava qualifica: attività con specializzazione professionale o con eventuale responsabilità esterna. Attività professionali comportanti preposizione a uffici o servizi con rilevanza esterna, a stabilimenti od opifici; ovvero attività di coordinamento e di promozione, nonché di verifica dei risultati conseguiti, relativamente a più unità organiche non aventi rilevanza esterna operanti nello stesso settore; oppure attività di studio e di elaborazione di piani e di programmi richiedenti preparazione professionale di livello universitario, con autonoma determinazione dei processi formativi e attuativi, in ordine agli obiettivi e agli indirizzi impartiti. Vi è connessa responsabilità organizzativa nonché responsabilità esterna per i risultati conseguiti.”. Sebbene le norme di cui al suddetto art.2 risultino oggigiorno disapplicate, ai sensi di quanto disposto dall'art. 86 del nuovo Contratto Collettivo di cui all'Accordo 24 maggio 2000, con riferimento agli articoli da 24 a 30 dello stesso Contratto, è importante notare come l’ottava qualifica, cioè il Funzionario, fosse una figura di fondamentale rilievo, ben riconosciuta a livello legislativo, specie se si tiene conto di quello che il predetto art.2 specificava più oltre: “Ogni qualifica funzionale comprende più profili professionali: questi si fondano sulla tipologia della prestazione lavorativa, considerata per il suo contenuto, in relazione ai requisiti culturali, al grado di responsabilità, alla sfera di autonomia che comporta, al grado di mobilità ed ai requisiti di accesso alla qualifica.”. La norma mette in rilievo quanto era ed è tuttora importante rispettare il sapere accademico ed esperienziale del lavoratore, che costituisce il suo bagaglio culturale in senso lato, che gli conferisce sicurezza a livello psicologico nel rapporto con gli altri e che rappresenta una sorta di “zoccolo duro” di cui il dipendente potrà sempre avvalersi per difendere la propria posizione lavorativa, a condizione s’intende che tale preparazione sia stata richiesta per l’assunzione nel ruolo occupato.

I principi della legge 312/80 vennero poi trasfusi nel DPR 347/1983, recante l’accordo nazionale per il personale dipendente degli Enti Locali, e l’art.2, che individua proprio la massima qualifica funzionale applicabile in relazione alla dimensione dell’ente, facendo ricorso alla classificazione per l’assegnazione del Segretario, colloca l’ottava qualifica come “apicale” negli enti di tipo 3, come “capi servizio” negli enti di tipo 2 e “capi ufficio” in quelli di tipo 1 che rappresentano, questi ultimi, gli enti di maggiore dimensione. Successivamente, nell’ambito della ristrutturazione delle figure del pubblico impiego, inaugurata per detti enti con il CCNL 31/03/1999,  l’ottava qualifica funzionale è confluita nella categoria giuridica D, alla posizione D3. Ha, quindi, quasi dieci anni il nuovo sistema di inquadramento professionale, che si era riproposto di promuovere le posizioni lavorative, di rispondere alle “tensioni retributive” e di ottimizzare la flessibilità dei ruoli organizzativi, anche reintroducendo meccanismi di avanzamento basati sull’anzianità e spostando risorse salariali da voci variabili a voci fisse e ricorrenti. Purtroppo, anche per effetto di ulteriori accorpamenti di posizioni giuridiche, nell’ambito di una stessa categoria, sono affiorate sintomatiche carenze gestionali nelle logiche di definizione dei profili e delle famiglie professionali, lacune nella programmazione e nello sviluppo del personale, incoerenze tra percorsi di valutazione e formazione, errata interpretazione e applicazione di norme.

 

CCNL 31/03/1999 - Allegato - CATEGORIA D

1.        Appartengono a questa categoria i lavoratori che svolgono attività caratterizzate da:

·         Elevate conoscenze pluri-specialistiche (la base teorica di conoscenze è acquisibile con la laurea breve o il diploma di laurea) ed un grado di esperienza pluriennale, con frequente necessità di aggiornamento;

·         Contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo con responsabilità di risultati relativi ad importanti e diversi processi produttivi/amministrativi;

·         Elevata complessità dei problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed elevata ampiezza delle soluzioni possibili;

·         Relazioni organizzative interne di natura negoziale e complessa, gestite anche tra unità organizzative diverse da quella di appartenenza, relazioni esterne (con altre istituzioni) di tipo diretto anche con rappresentanza istituzionale. Relazioni con gli utenti di natura diretta, anche complesse, e negoziale.

2.        Esemplificazione dei profili:

·         lavoratore che espleta attività di ricerca, studio ed elaborazione di dati in funzione della programmazione economico finanziaria e della predisposizione degli atti per l’elaborazione dei diversi documenti contabili e finanziari.

·         lavoratore che espleta compiti di alto contenuto specialistico professionale in attività di ricerca, acquisizione, elaborazione e illustrazione di dati e norme tecniche al fine della predisposizione di progetti inerenti la realizzazione e/o manutenzione di edifici, impianti, sistemi di prevenzione, ecc.

·         lavoratore che espleta attività progettazione e gestione del sistema informativo, delle reti informatiche e delle banche dati dell’ente, di assistenza e consulenza specialistica agli utenti di applicazioni informatiche.

·         lavoratore che espleta attività di istruzione, predisposizione e redazione di atti e documenti riferiti all’attività amministrativa dell’ente, comportanti un significativo grado di complessità, nonché attività di analisi, studio e ricerca con riferimento al settore di competenza.

Fanno parte di questa categoria, ad esempio, i profili identificabili nelle figure professionali di: farmacista, psicologo, ingegnere, architetto, geologo, avvocato, specialista di servizi scolastici, specialista in attività socio assistenziali, culturali e dell’area della vigilanza, giornalista pubblicista, specialista in attività amministrative e contabili, specialista in attività di arbitrato e conciliazione, ispettore metrico, assistente sociale, segretario economo delle istituzioni scolastiche delle Province.

3.       Ai sensi dell’art. 3, comma 7, per i profili professionali che, secondo la disciplina del DPR 347/83 come integrato dal DPR 333/90, potevano essere ascritti alla VIII qualifica funzionale, il trattamento tabellare iniziale è fissato nella posizione economica D3.

 

Al presente, almeno in alcuni enti, sembra davvero che la figura del Funzionario Pubblico D3, in particolare il Funzionario Amministrativo, abbia perduto un po’ di “smalto” o addirittura non abbia mai acquisito veramente quel ruolo fondamentale che il legislatore gli aveva riservato, affinché la P.A., soprattutto gli Enti Locali, cioè le amministrazioni più vicine al cittadino, potessero davvero diventare efficienti. Purtroppo, accade persino che questi dipendenti vivano situazioni dolorosamente conflittuali all’interno dell’ufficio, a causa della loro rarefatta autonomia, perchè adibiti a mansioni fittizie, compressi sia dai livelli più alti (i Dirigenti), quando contra legem ne invadono la sfera lavorativa, sia dai livelli più bassi (D1), che talora illegittimamente li sostituiscono non solo in caso di assenza prolungata, o addirittura li scavalcano perché investiti dell’incarico pluriennale di Posizione Organizzativa, in altre unità organizzative: purtroppo, capita anche che detti Funzionari siano umiliati a tal punto da vedersi sottoposti proprio a colleghi P.O. di pari livello o persino di livello inferiore! Anche per ciò che riguarda la formazione si registrano in vari enti comportamenti antigiuridici, nel senso che spesso i Funzionari, cioè i D3, non solo vengono formati insieme alle categorie inferiori, ma non sempre viene considerato il loro bagaglio culturale e rispettata la loro professionalità: così può accadere che un Funzionario Amministrativo D3 sia costretto a partecipare a corsi elementari di diritto amministrativo, quando sia già in possesso di una laurea in giurisprudenza ed eventualmente pure di ulteriori titoli avendo partecipato a corsi di approfondimento e di aggiornamento di livello superiore!  

Certamente questi comportamenti anomali, contrari ad un’applicazione “ortodossa” della legge, devono essere modificati. Occorre giungere all’osservanza integrale del nuovo sistema di suddivisione del personale dipendente professionale volontario, inaugurato con il CCNL 31/03/1999, che aveva creato le condizioni per un reale sviluppo di ogni categoria giuridica, fissando i presupposti per l’implementazione sia dell’istituto della progressione orizzontale all’interno di ogni categoria giuridica, con variazioni economiche a scala (le cosiddette categorie economiche), sia dell’istituto delle progressioni verticali, affinché tutti i dipendenti potessero essere stimolati al perfezionamento della propria prestazione. Proprio con riferimento specifico alla categoria più elevata del sistema di classificazione del personale non dirigente (cat.D), il suddetto CCNL 31/03/1999 prevedeva pure una particolare disciplina per i dipendenti titolari delle Posizioni Organizzative (art.8, comma 1, CCNL 31/03/1999), che ogni ente può istituire, dopo aver concertato con le organizzazioni sindacali i criteri generali necessari. Così, per quanto riguarda la categoria giuridica D3, è naturale che la contrattazione collettiva abbia previsto l’incarico quinquennale di Posizione Organizzativa, quasi a titolo di garanzia, come sviluppo naturale del percorso lavorativo per avvantaggiare quei lavoratori che, trovandosi già alla sommità della gerarchia, sarebbero stati altrimenti penalizzati, in quanto altrimenti avrebbero potuto aspirare esclusivamente a un avanzamento economico (D4, D5 e D6), a differenza di tutto il restante personale non appartenente alla fascia dirigenziale. Le Posizioni Organizzative sono caratterizzate dall’assunzione diretta di elevata responsabilità, sia di prodotto che di risultato, e possono riguardare lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative, attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione, con autonomia gestionale e organizzativa, attività di staff/studio/ricerca oppure vigilanza o controllo (quindi le stesse prerogativa richieste ai Funzionari con la legge 312/80). L’area delle Posizioni Organizzative risulta oggi di fatto ampliata con le cosiddette “alte professionalità”, che, pur costituendo una figura autonoma, risultano soggette alla medesima disciplina giuridica, fatte le debite eccezioni, e sono state create allo scopo di premiare particolari posizioni specialistiche e di responsabilità, che non implicano necessariamente poteri gestionali e organizzativi. Ovviamente tutti questi incarichi sono correlati a un giudizio positivo dell’operato del dipendente, ma sfortunatamente il sistema valutativo impiantato, che avrebbe dovuto perseguire l’obiettivo di ottenere un perfezionamento nella funzionalità degli uffici, con l’incremento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa e della gestione delle risorse, ha mostrato in questi anni molte lacune e ha contribuito ad aumentare i dissapori, soprattutto nelle categorie più elevate, poiché, impiegando precipuamente, se non esclusivamente, meccanismi di misurazione quantitativa, è risultato inadatto a stimare il lavoro immateriale, cioè il lavoro intellettuale, perchè difficilmente quantificabile.

Le principali norme di riferimento, per la valutazione del personale non dirigente, provengono dai seguenti Contratti Collettivi: artt.6-16-10 CCNL 31/03/1999, artt.4-17-18 CCNL 1°/04/1999, art.8 CCNL 5/10/2001 e artt.3-10-13-14-32-37-39 CCNL 22/01/2004. In tale contesto la valorizzazione delle professionalità esistenti ed il sistema incentivante, teso a premiare la qualità delle prestazioni individuali, dovrebbero diventare funzionali alle esigenze di miglioramento qualitativo dell’organizzazione e dei servizi erogati e avrebbero dovuto avviare un processo profondamente innovativo di gestione della componente umana intesa quale vera e propria risorsa, capace di attribuire un valore aggiunto agli obiettivi perseguiti dalle autonomie locali. Affinché tale percorso virtuoso di perfezionamento si inneschi, qualora non sia stato ancora attivato, risulta strategica la condivisione della finalità e del sistema adottato da parte dei diversi attori coinvolti nelle fasi del processo valutativo. Ogni ente, stabiliti i criteri generali in sede di contrattazione collettiva decentrata integrativa aziendale o a livello territoriale, deve adottare una metodologia permanente per la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei dipendenti, basata su indici e standard appositamente individuati. La metodologia adottata deve poter favorire la capacità di autoanalisi di ogni singolo collaboratore tesa allo sviluppo della propria professionalità. La procedura di valutazione, però, deve inserirsi in un contesto più ampio che comprende varie fasi: pianificazione strategica, programmazione, assegnazione budget e controllo (nel senso di monitoraggio in itinere e misurazione finale del risultato), con elementi di oggettività su cui fondare la propria specifica metodologia. Non può essere formulata alcuna stima senza la possibilità di verificare gli obiettivi predeterminati, né può aversi alcun controllo senza la possibilità di misurare i risultati: in questo senso la struttura deputata al controllo interno dovrebbe poter mettere a profitto anche i risultati del controllo di gestione ex D.Lgs.286/1999. Malauguratamente, ancor oggi, ci sono enti in cui i lavoratori appartenenti alle categorie D1 e D3, confluite entrambe nella medesima categoria giuridica D, pur mantenendo le loro singole e singolari peculiarità, vengono valutati senza alcun parametro proprio che li differenzi, trascurando sistematicamente il curriculum professionale, giudicando le responsabilità agite assegnate solo raramente ed esclusivamente sulla base di giudizi espressi dai superiori, senza nessun criterio logico e senza nessuna selezione sul campo, nemmeno di soli titoli. In particolare possono essere affidate le seguenti responsabilità: la responsabilità professionale, civile, amministrativa e penale (l’impiegato può anche arrivare ad avere un’effettiva responsabilità diretta e personale anche sul piano penale); la responsabilità di gestione delle risorse economiche (il lavoratore può giungere a svolgere funzioni aventi rilevanza economica con una reale ed autonoma responsabilità o con effettiva incidenza sulle decisioni finali); la responsabilità di gestione di risorse umane (il prestatore di lavoro può diventare persino responsabile di un gruppo di non piccola dimensione, con collaboratori che svolgono attività di carattere-professionale, tale da richiedere significativi livelli di delega). Questi enti, illegittimamente, non tengono conto del ruolo dei dipendenti D3 che, per un giudizio ormai consolidato e convergente da più fonti, dovrebbero rivestire all’interno della propria organizzazione una specifica valenza, perchè godono di una propria qualificazione giuridica (non meramente economica), nel senso che le figure professionali e le relative mansioni, che rientrano nella categoria giuridica D3, danno appunto diritto a tale posizione, in quanto godono di uno status loro proprio, che non le rende equivalenti a quelle genericamente rientranti nella categoria D, perchè indubbiamente superiori. Ciò risulta evidente già sulla base di come si è pervenuti alla formazione non solo delle quattro categorie, in cui è suddivisa la classificazione del personale dipendente degli Enti Locali, ma anche delle diverse posizioni in cui, a loro volta, si suddividono tali categorie giuridiche e, in modo del tutto particolare, la categoria D in relazione alla posizione D3. Infatti, dall’art. 3, comma 3 del CCNL del 31.3.1999, secondo il quale tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti sono esigibili, non si ricava senz’altro l’equivalenza e, perciò, l’esigibilità di tutte le mansioni della stessa categoria, ma piuttosto, l’esigibilità di tutte le mansioni della categoria in quanto siano professionalmente equivalenti a quelle precedentemente espletate dal lavoratore, e questo è un principio ormai consolidato sia dalla giurisprudenza (vedi in fondo) che dalla dottrina.

 

Il futuro del Funzionario Amministrativo D3

 

 

C’è chi afferma che questo è il tempo giusto per la ridefinizione delle professionalità dirigenziali, grazie alla consapevolezza, ormai ovunque raggiunta, del passaggio dalla cultura della norma alla cultura del risultato, dove la legge diventa strumentale al perseguimento degli obiettivi della P.A.. In passato, la tradizione voleva che ai Dirigenti venisse richiesto di garantire solo il rispetto della legalità e di esprimere una competenza essenzialmente normativa e procedimentale; in questa fase, invece, definita anche “espansiva”, essi sono invitati alla piena realizzazione degli obiettivi prefissati dall’autorità politica, nella direzione di un’azione amministrativa orientata al perseguimento degli interessi pubblici con efficacia, efficienza ed economicità. È necessario quindi compiere lo sforzo di passare da un concetto di cambiamento, inteso come variazione di tipo quantitativo, a quello di mutamento, che presuppone una variazione sistemica e qualitativa. Le pubbliche amministrazioni, in tal modo, avrebbero l’occasione di svolgere un ruolo importante, anche se il loro campo d’azione potrebbe e dovrebbe essere riformulato e soprattutto orientato proprio alla logica dell’efficacia-efficienza-economicità, poiché la P.A. deve continuare a sostenere oneri che il privato cittadino non potrebbe mai sopportare. Ora però, mentre nel modello burocratico si registra una leadership che può oscillare da una tipologia autoritaria a una caratterizzata dal laissez faire o persino assumere una modalità burocratica e/o adattiva, nel nuovo modello il management potrebbe davvero risultare più efficace, in quanto dovrebbe essere più partecipativo, innovativo e professionale, basando la propria azione sulla valorizzazione e lo sviluppo delle competenze proprie e dei collaboratori più stretti (primi tra tutti i Funzionari), che dovrebbero essere formati attraverso progetti mirati e coinvolti per la realizzazione di percorsi di carriera fattibili. Indubbiamente un elemento essenziale della “managerializzazione” è rappresentato proprio dalla capacità di gestire le risorse umane, come strumento idoneo per migliorare le prestazioni della P.A.; infatti il manager deve essere capace di programmare e coordinare e se fallisce in questo campo, inevitabilmente si affievolisce l’efficacia della sua prestazione dirigenziale.

Le criticità evidenziate chiamano in causa tutte le figure della pianta organica di ogni ente pubblico, anche se interrogano principalmente i Dirigenti, quali responsabili delle scelte effettuate, protagonisti di un processo che può e deve essere guidato, per giungere alla gestione legale ed efficace delle trasformazioni in atto. Non è più accettabile che i Dirigenti impieghino i loro Funzionari in modo fungibile ed indifferenziato, trascurando le debite difformità tra compiti amministrativi e tecnici, ignorando le norme relative al profilo professionale di appartenenza e alle mansioni equivalenti, tutelanti ogni lavoratore! Non è possibile che i Dirigenti, pressati da ogni parte per il raggiungimento di determinati obiettivi, con il rischio di non essere più riconfermati nel ruolo alla scadenza del contratto in caso di insuccesso, favoriscano dipendenti D1 più stimati o più favoriti (anche politicamente), affidando loro compiti propri dei Funzionari (D3), quindi delegittimando di fatto questi ultimi! È enigmatico il comportamento delle Organizzazioni Sindacali che, invece di difendere questa figura ristretta da ogni parte e probabilmente già “in via di estinzione” (qualora non titolare di Posizione Organizzativa), continuino a sottoscrivere accordi a livello locale, in cui non si registrano differenze di trattamento tra gli appartenenti della categoria D, di cui peraltro non si esaminano mai i curricula professionali, per valutare e valorizzare i più meritevoli o anche solo per premiare in base all’anzianità di servizio all’interno della medesima categoria giuridica! Tutto questo sta avvenendo nella P.A. italiana, nonostante la Dottrina e la Giurisprudenza (senza contare l’Aran) (vedi più oltre) dichiarino inutilmente che tali differenziazioni, all’interno della categoria giudica D, sussistono e devono essere mantenute, così come non può essere eliminata la distinzione macroscopica esistente nel campo delle attività, tra la sfera amministrativa e quella tecnica, dove nel primo caso occorre raffinare e spendere una capacità di gestione/coordinamento/organizzazione delle risorse (uomini e mezzi), cioè un potere che si sviluppa in senso orizzontale, mentre nel secondo caso si tratta di esercitare un sapere verticale, una prestazione specialistica settoriale, che si potrebbe definire quasi sempre scientifica e che comprende varie professionalità.

La P.A. è sottoposta a grandi stress che potrebbero sfociare in cambiamenti anche profondi entro pochi anni, certo è che all’interno delle piante organiche la figura del Funzionario D3 sembra sempre in stato di forte sofferenza: chi lo vede già scomparire all’interno della categoria D, dove convive, fortemente penalizzato, con il livello inferiore, troppo privilegiato da questa coabitazione; chi, invece, lo considera necessariamente già investito dell’incarico di P.O., che considera alla stregua di un vero e proprio diritto. Sicuramente in futuro, se non verranno emanate leggi a titolo di garanzia, i lavoratori più svantaggiati saranno proprio i Funzionari Amministrativi D3, perché le loro attività più peculiari (soprattutto i poteri gestionali e organizzativi), che potrebbero far loro ottenere avanzamenti di carriera, li costringono a sopravvivere in uno spazio assai ristretto di autonomia, confinato in alto e in basso da altre figure più invadenti e al presente più potenti, che spogliano il Funzionario delle sue prerogative. Poiché la speranza è l’ultima a morire c’è ancora chi confida nel dormiente istituto della Vicedirigenza, novità creata sulla carta, ma mai attuata, che potrebbe dare il giusto riconoscimento a quei Funzionari, che già costituiscono la spina dorsale di tanti enti, supportando, altresì, i livelli apicali delle strutture amministrative nel concreto svolgimento delle proprie funzioni di direzione e di governo di apparati complessi. Il Vicedirigente, per taluno già inserito nell’area dirigenziale, svolgerebbe proprio il ruolo di vicario del Dirigente, collaborerebbe con lui al raggiungimento degli obiettivi programmati, lo coadiuverebbe nella sperimentazione di nuove strategie più funzionali e tradurrebbe in azioni esecutive le direttive impartite. Lo scopo dell’istituto sarebbe pertanto quello di dare spazio e visibilità a tanti dipendenti meritori, che esercitano rilevanti funzioni di interesse collettivo e di vicariato, spesso misconosciute o comunque nascoste, premiandoli anche dal punto di vista retribuivo. Con l’istituzione della Vicedirigenza, creata nel 2002 attraverso una disposizione della L. 145/2002, che ha integrato sul punto il D.Lgs.165/2001, si è voluto dare anche al settore pubblico diritto di cittadinanza alla categoria dei “quadri”, tipica del diritto privato, proprio per valorizzare adeguatamente una categoria di dipendenti troppo spesso mortificata e appiattita tra il personale dei livelli inferiori e i Dirigenti. La Vicedirigenza, in tal modo, si configurerebbe come un’area funzionale dai contorni precisi, ma differenziati rispetto a quello di tutto il restante personale, di indubbia natura assimilabile alla dirigenza, acquisita a seguito dell’esercizio delle funzioni direttive.

Attualmente, quindi, la P.A. è posta di fronte ad almeno tre grandi sfide, che richiedono articolate e complesse politiche di gestione e di sviluppo delle risorse umane: deve cercare di rendere attrattivo il settore pubblico per i talenti migliori; deve sviluppare un maggior senso di appartenenza e motivazione tra le persone che operano nei servizi pubblici; deve adeguare le capacità e le competenze degli operatori. Non si può mancare a questo appuntamento col tempo, per cui il Funzionario Amministrativo D3 deve continuare a sperare che nella P.A. sia valorizzato il suo ruolo e ottenga almeno il riconoscimento, già garantito per contratto, di responsabile di Posizione Organizzativa, spettandogli di diritto la gestione di una unità operativa complessa.

 

Dott.ssa Simonetta Delle Donne

Settembre 2007

 

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399-3C2. In caso di mobilità volontaria ex art.30 del D.Lgs.165/2001, è possibile che il nuovo datore di lavoro attribuisca al dipendente, attualmente in possesso di un profilo professionale avente il tabellare iniziale in D3, un profilo professionale avente il tabellare iniziale in D1 ? Precisiamo che il lavoratore si è dichiarato d’accordo e che gli sarebbe comunque garantito il trattamento economico in godimento.


Non possiamo che confermare l’orientamento più volte espresso con riferimento a casi analoghi: salvo casi eccezionali, espressamente individuati dalla legge o dalla giurisprudenza, tutte le operazioni che si traducano in una dequalificazione professionale del dipendente devono ritenersi vietate dagli artt.2103 del codice civile e 52 del D.Lgs. 165/2001 e costituiscono illecito civile, anche se viene conservato il trattamento economico in godimento ed anche se vi è il consenso del lavoratore, che potrebbe sempre impugnare il relativo accordo entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (art.2113 codice civile).

Nel caso di specie, l’attribuzione al dipendente di un profilo professionale avente il trattamento tabellare iniziale in D1, anche se accompagnata dalla garanzia del trattamento economico in godimento, rappresenterebbe una evidente dequalificazione rispetto alle mansioni attualmente svolte, proprie di un profilo professionale avente il trattamento tabellare iniziale in D3; si tratta di mestieri diversi, che non possono essere considerati equivalenti, per il semplice fatto che, pur essendo ascritti alla categoria D, hanno un differente trattamento stipendiale.

 

399-3C3. Dopo la sentenza del TAR Puglia si deve ritenere che, all’interno delle categorie B e D, le posizioni B3 e D3 hanno una valenza esclusivamente economica?

 

Sulla particolare problematica proposta, si possono fare le seguenti considerazioni:

1. la sentenza del TAR per la Puglia n. 2116/2004 interviene in un procedimento giudiziale riguardante, in via diretta, solo un problema di accesso alla dirigenza e la legittimità del regolamento concorsuale adottato in materia da un comune e fa stato, ovviamente, una volta diventata definitiva, solo tra le parti interessate, con conseguente esclusione di ogni efficacia generalizzata;

2. per quello che qui rileva, fermo restando il necessario e pieno rispetto per l’autonomia di valutazione e decisione dell’autorità giudicante, si deve comunque evidenziare come l’interpretazione sistematica proposta, che finisce per attribuire, nell’ambito della categoria D, alla posizione D3 una valenza solo ed esclusivamente economica, non corrisponde pienamente ai contenuti delle clausole contrattuali concernenti il sistema di classificazione;

3. queste, infatti, espressamente stabiliscono che, all’interno dell’unica categoria D, vi sono dei profili professionali per i quali, in considerazione della maggiore rilevanza e complessità delle mansioni che li caratterizzano, il trattamento economico stipendiale iniziale, di accesso (dall’interno e dall’esterno), è stato fissato non in relazione alla posizione economica iniziale della categoria D, e cioè in D1, come avviene in relazione alla generalità degli altri profili della suddetta categoria D, ma in corrispondenza alla più elevata posizione economica D3;

4. per tali profili è previsto espressamente l’accesso diretto sia dall’esterno che dall’interno (attraverso lo strumento della selezione verticale, di cui all’art.4 del CCNL del 31.3.1999);

5. pertanto, la posizione D3 non può considerarsi dotata di una valenza esclusivamente economica; infatti, relativamente ai profili per i quali questa rappresenta lo stipendio tabellare iniziale, la posizione D3, proprio perché costituisce il trattamento economico ordinario di attività (artt. 3, comma 7, 13, comma 1, e declaratoria relativa alla categoria D, dell’allegato A, del CCNL del 31.3.1999 che espressamente considera la posizione D3 come trattamento tabellare iniziale dei profili di cui si parla), non può non collegarsi alla diversità delle mansioni, l’unico elemento che giustifica e legittima, all’interno della unica categoria di inquadramento, un diverso e più elevato livello retributivo;

6. trattandosi di profili per i quali è previsto uno specifico e più elevato trattamento stipendiale iniziale (e, quindi, un maggiore onere a carico degli enti), all’interno della categoria D, per la determinazione della dotazione organica, gli enti devono procedere all’individuazione di una doppia dotazione organica: una per i profili con trattamento stipendiale iniziale in D1 ed una per i profili con trattamento stipendiale iniziale in D3;

7. la valenza non esclusivamente economica della posizione D3, in quanto collegata a specifici profili professionali, emerge anche dalle previsioni contrattuali concernenti la progressione verticale:

 

a) l’art. 4, comma 1, ultimo periodo, del CCNL del 31.3.1999, nell’ambito della disciplina della materia, prevede espressamente che la medesima procedura prevista per il passaggio tra categorie trova applicazione anche per la copertura dei posti vacanti dei profili per i quali sia previsto un trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione D3 (a conferma che si tratta di mansioni e, quindi, mestieri diversi e più qualificati – e maggiormente retribuiti - ma sempre all’interno dell’unica categoria D e che, pertanto, la copertura dei posti vacanti della dotazione organica ad essi relativi non poteva non avvenire che attraverso lo strumento della progressione verticale);

b) l’art. 35, comma 1, lett. a) del D.Lgs.n.165/2001, secondo il quale le procedure selettive anche per la progressione verticale devono essere finalizzate all’effettivo accertamento del possesso da parte del lavoratore della professionalità richiesta dal posto vacante da ricoprire; tale regola non può non trovare applicazione anche nel caso della copertura dei posti relativi a profili con un trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, dato che, come detto, essi rappresentano profili diversi dagli altri pure collocati nella categoria D, e, quindi, non poteva prescindersi dall’accertamento dell’effettiva sussistenza negli aspiranti della necessaria capacità e competenza professionale richieste per l’espletamento delle nuove mansioni; in tal senso provvede appunto l’art.4 del CCNL del 31.3.1999, come detto al punto a);

c) la medesima clausola (art.4, comma 1, del CCNL del 31.3.1999) espressamente prevedeva (tale previsione deve considerarsi superata per effetto degli spazi di autonoma regolazione riconosciuti in materia agli enti dalla dichiarazione congiunta n.5 allegata al CCNL del 14.9.2000), nell’ambito delle procedure selettive interne per la copertura dei posti vacanti corrispondenti ai suddetti profili “speciali”, la riserva a favore del personale degli altri profili professionali della medesima categoria D (e cioè quelli con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1); il ricorso alle procedure selettive della progressione verticale e la riserva a favore del personale in possesso di profili professionali della medesima categoria D, ma con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1, non sarebbero state certo necessarie se la posizione D3 avesse avuto una valenza esclusivamente economica (nell’ambito della progressione economica orizzontale, il lavoratore continua a svolgere sempre e soltanto le medesime mansioni correlate al profilo posseduto, occupando sempre lo stesso posto della dotazione organica);

d) significativo è anche il riferimento dell’art.4, comma 1, ultimo periodo del CCNL del 31.3.1999 alla : “… copertura dei posti vacanti dei profili delle categorie B e D di cui all’art.3, comma 7,….”; questo richiamo ai posti vacanti della dotazione organica relativi ai profili con trattamento stipendiale iniziale in D3 chiaramente dimostra che vengono in considerazione profili autonomi rispetto agli altri della medesima categoria e che, dato il maggiore costo che comportano (più elevato trattamento stipendiale iniziale), per essi devono essere previsti specifici posti nell’ambito dell’unica dotazione organica di categoria; una valenza esclusivamente economica delle posizioni D3 avrebbe reso del tutto superflua ed inutile una tale previsione (come avviene in generale nell’ambito della progressione economica, in cui, venendo in considerazione un incremento di carattere esclusivamente retributivo corrisposto in relazione alle mansioni proprie della categoria e del profilo di appartenenza , quindi anche con riferimento al medesimo posto della relativa dotazione organica, non si pone in alcun modo un problema di determinazione della dotazione organica per ciascuna delle posizioni economiche in cui si articola la stessa progressione orizzontale);

e) infine, l’art.15, comma 2, del CCNL del 31.3.1999 dispone che, in caso di passaggio verticale tra categorie del personale o di acquisizione da parte di questo di uno dei profili per i quali sia stabilito un trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3, qualora il trattamento economico in godimento del personale suddetto, per effetto degli incrementi derivanti dalla progressione economica orizzontale conseguiti nella precedente categoria o profilo, sia superiore a quello stabilito in relazione alla nuova categoria o al nuovo profilo (D3), il personale conserva a titolo personale la differenza, che però è riassorbibile nella successiva progressione economica; l’equiparazione, anche a questi fini, dell’acquisizione di uno dei profili con trattamento stipendiale iniziale in D3 alla progressione verticale dimostra, ancora una volta, che le parti negoziali non hanno in alcun modo voluto riconoscere alla posizione D3 un significato esclusivamente economico;

f) una valenza solo economica della posizione D3, infatti, avrebbe reso inutile ed inapplicabile la previsione dell’art.15, comma 2, del CCNL del 31.3.1999 in quanto un lavoratore inquadrato in profili professionali con trattamento stipendiale iniziale in D1 e pervenuto per effetto di progressione economica orizzontale alla posizione economica D4 non potrebbe mai avere interesse pratico o professionale a conseguire una posizione economica più bassa (D3), secondo la regola ivi contenuta, in quanto il maggiore importo salvaguardato sarebbe comunque mantenuto solo ad personam e sarebbe riassorbibile per effetto delle successive progressioni orizzontali.

 

8. nell’ambito del CCNL del 22.1.2004 relativo al comparto Regioni-Autonomie Locali, è stata prevista (art.12) la costituzione di una specifica Commissione Paritetica per la revisione di alcuni punti del vigente sistema di classificazione del personale; uno dei profili che dovrà formare oggetto del lavoro della Commissione è appunto “perfezionare la clausola sulle selezioni verticali tra categorie e chiarire i punti intermedi di accesso sulle posizioni B3 e D3”. Il preciso riferimento della clausola contrattuale ai “punti intermedi di accesso sulle posizioni B3 e D3”, indica chiaramente che le parti negoziali (e quindi anche le OO.SS.) attribuiscono alle suddette posizioni D3 e B3, anche una precisa valenza giuridica. Infatti, il termine “accesso”, nella terminologia propria del lavoro pubblico, sta ad indicare, come è noto, non solo la fase propria dell’assunzione del dipendente ma anche quella del suo inquadramento in una categoria superiore (in tal senso, Corte di Cassazione, sentenza 1543/03, che considera le selezioni verticali pur sempre come forme di accesso, sia pure dall’interno, con conseguente riserva delle controversie in materia alla giurisdizione del giudice amministrativo). Il richiamo, nella clausola contrattuale, alla nozione di “accesso”, relativamente alle posizioni B3 e D3, si giustifica, come è evidente, solo in quanto entrambe le parti riconoscano alle stesse anche una precisa valenza giuridica.

Considerazioni analoghe, per l’identità di disciplina, valgono anche per la categoria B, relativamente alle posizioni B1 e B3.

Alla luce della ricostruzione fatta, quindi, si deve ribadire che, anche dopo la sentenza del TAR per la Puglia, sede di Bari, sez. II, n. 2116/2004 del 10 maggio 2004, le posizioni D3 continuano a conservare una valenza sia giuridica che economica e che solo un espresso e specifico intervento negoziale potrà attribuire alle stesse un diverso significato e valore.

 

399-3D. Posizioni di accesso.

399-3D1. E’ vero che a partire dall’1.1.2002 le posizioni di ingresso nelle diverse categorie si sono ridotte da 6 a 4, a seguito del venire meno delle posizioni B3 e D3 ?

 

Non è vero. Si tratta di affermazioni del tutto prive di fondamento, contenute nel “Il giornale dei Comuni” di ANCITEL del 7.1.2001 sotto il titolo “Regime transitorio categorie dipendenti” ripreso nell’articolo di Luigi Olivieri “Il personale entra a regime”, pubblicato nella rubrica “Enti locali”, pag.20, del quotidiano “Italia Oggi” dell’11.1.2002. Tali conclusioni, sicuramente errate, deriverebbero da una lettura dell’art.12, comma 3, del CCNL del 31.3.1999 e della dichiarazione congiunta n.11 del CCNL del 5.10.2001. In realtà detta dichiarazione congiunta ha inteso semplicemente richiamare l’attenzione degli enti sulla circostanza che, a partire dall’1.1.2002, sarebbe venuto meno il particolare regime transitorio contenuto nell’art.12, comma 3, del CCNL del 31.3.1999. Pertanto, come previsto da tale ultimo articolo, a partire dall’1.1.2002, il personale in possesso di profili per i quali è previsto il trattamento stipendiale iniziale corrispondente alle posizioni economiche rispettivamente di B1 e di D1, nell’ambito della progressione economica orizzontale di cui all’art.5 del CCNL del 31.3.1999, non è più vincolato al raggiungimento delle sole posizioni economiche B4 e D3, ma può conseguire anche tutte quelle successive previste all’interno delle due categorie B e D (per il personale con profilo in B1 anche B5, B6; per quello in D1, invece, anche D4 e D5). Alla luce di quanto detto, appare del tutto illogico ed immotivato ritenere, come fanno sia l’articolo di ANCITEL che quello di Italia Oggi, che una semplice dichiarazione congiunta (neppure uno specifico articolo del contratto) abbia potuto introdurre una modifica così rilevante dell’assetto del sistema di classificazione delineato nel CCNL del 31.3.1999.

E’, pertanto, da escludere in modo assoluto che, a decorrere dall’1.1.2002:

- è venuta meno la distinzione all’interno delle categorie B e D tra profili collocati rispettivamente in B1 e B3 e in D1 e D3;

- i profili collocati precedentemente in B3 e D3 devono essere ricondotti in B1 e D1;

- gli enti del comparto, conseguentemente, non possono più procedere ad assunzioni per profili di B3 e D3.

In conclusione e per ulteriore maggiore chiarezza precisiamo che, anche dopo il 31.12.2001:

continuano a sussistere all’interno delle categorie B e D le posizioni giuridiche B3 e D3;

-·conseguentemente, gli enti del comparto, anche dopo tale data, possono continuare a bandire concorsi o selezioni interne per la loro copertura.

 

399-3E4. Vi sono casi in cui è possibile procedere alla riclassificazione o promozione automatica del personale nella categoria superiore? E’ possibile classificare un dipendente in un profilo con ingresso in B3 o in D3 se egli abbia già acquisito un identico trattamento economico a seguito di progressione orizzontale?

 

Confermiamo che la collocazione dei profili professionali, attuale o futura, ha un contenuto esclusivamente oggettivo e non produce in nessun caso effetti automatici sull’inquadramento dei soggetti. Eventuali sviluppi verticali di carriera possono essere realizzati solo alle condizioni indicate dal D.Lgs. n. 29/93 e dall’art. 4 del Ccnl del 31.3.1999. Il dipendente in possesso di un profilo professionale con trattamento tabellare in B1 o D1 che, per effetto di progressione economica orizzontale, abbia acquisito la posizione di sviluppo B3 o D3 non può essere riclassificato senza selezione in un posto di organico e in un profilo con parametro tabellare di ingresso in B3 o D3, anche se resta invariato il trattamento economico stipendiale, con esclusione della I.I.S. che è contraddistinta da due diversi valori (vedi anche quesito S5 e relative tabelle). Il CCNL, infatti, richiede, proprio per tale ipotesi, l’espletamento della selezione riservata di cui all’art. 4, comma 2.

 

399-3G2. E’ possibile attribuire ad un lavoratore di posizione tabellare D1 mansioni di un profilo di livello superiore corrispondenti ad una posizione economica D3? Che valore ha il principio della equivalenza delle mansioni nella categoria D?

 

In linea di principio, ogni lavoratore ha il diritto di essere compensato in relazione alle mansioni che svolge non solo quando queste siano legittimamente conferite ma anche quando l’affidamento dovesse risultare nullo (si veda, a tal proposito, il contenuto dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001). Nel caso specifico di un lavoratore con un profilo classificato in categoria D, posizione tabellare D1, cui siano state conferite le mansioni di un profilo di livello superiore corrispondenti ad un profilo classificato nella posizione tabellare D3, riteniamo che il soggetto interessato abbia titolo a fruire di un compenso aggiuntivo pari alla differenza dei due trattamenti tabellari messi a confronto. Anche se si tratta di profili inseriti nella medesima categoria D, siamo pur sempre in presenza di due “mestieri” diversi cui sono correlati trattamenti stipendiali diversi; appare iniqua, al riguardo, la applicazione del principio delle “mansioni equivalenti” in quanto il CCNL del 31.3.1999, all’art. 3. non afferma che tutte le mansioni di una categoria sono da ritenere sempre equivalenti; lo stesso articolo, infatti, usa l’espressione “in quanto equivalenti” che può tradursi, più semplicemente, in questa ulteriore affermazione: il principio della equivalenza può essere applicato solo se le mansioni interessate possono essere considerate equivalenti secondo il consolidato indirizzo interpretativo fornito dalla più recente giurisprudenza della Cassazione. Nel confronto delle mansioni dei profili di D1 e di D3, il criterio della equivalenza dovrebbe essere escluso per il semplice fatto che sussiste una differenza di trattamento stipendiale che non può essere disconosciuto. Siamo, quindi del parere che, qualora sussistano le condizione per il legittimo conferimento di mansioni di livello D3 ad un lavoratore classificato in profilo D1, debba essere applicata la regola sul trattamento economico correlato allo svolgimento delle mansioni superiori, nel rispetto, in ogni caso, di tutte le prescrizioni contenute nell’art. 8 del CCNL del 14.9.2000.

 

399-4G3. In caso di passaggio dalla posizione giuridica B1 alla posizione giuridica B3, per effetto di una progressione verticale, è possibile conservare al lavoratore le mansioni corrispondenti al profilo in precedenza posseduto?

 

Dobbiamo anzitutto rilevare che la progressione verticale di carriera, ai sensi dell’art. 4 del CCNL del 31.3.1999, è finalizzata alla riclassificazione del personale in un posto di organico diverso da quello in precedenza ricoperto, cui è necessariamente correlato un profilo professionale altrettanto diverso. Le predette considerazioni valgono sia nel caso di passaggio tra categorie sia nel caso di passaggio giuridico nelle categorie B e D. (B1 e B3, D1 e D3). Ci sembra pertanto del tutto irragionevole che, a seguito delle procedure selettive interne, che l’ente conservi al personale interessato le stesse mansioni della posizione giuridica di provenienza. Si potrebbe ipotizzare, anzi, nel caso in esame, una situazione di dequalificazione del lavoratore (vietata secondo la disciplina dell’art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 2103 del codice civile) con l’insorgere di un difficile contenzioso in sede giurisdizionale.

 

399-9A2. Il dipendente può rifiutare l’incarico di posizione organizzativa che l’ente abbia deciso di conferirgli?

 

Si ritiene che, in generale, il dipendente al quale viene conferito un incarico di posizione organizzativa non possa rifiutare l’incarico stesso. Infatti, nel contesto generale della disciplina contenuta negli artt. 8 e ss. del CCNL del 31.3.99, la titolarità di posizione organizzativa costituisce il contenuto possibile ed eventuale, sempre e non necessario, dei profili collocati nella categoria D.

A tal fine è sufficiente richiamare l’art. 8, c. 2, del CCNL del 31.3.99 secondo il quale le posizioni organizzative “possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, ....”.Conseguente, con il conferimento dell’incarico di tali posizioni, non viene in considerazione l’esercizio di un potere negoziale, e quindi la sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro.

Si tratta, piuttosto, dell’esercizio di un potere del datore di lavoro di determinare unilateralmente l’oggetto del contratto di lavoro, in virtù del quale lo stesso può esigere dal lavoratore tutte le mansioni ascrivibili alla categoria di inquadramento, (ai sensi dell’art. 52, del D.Lgs. 165/2001, dell’art. 3, del CCNL del 31.3.99. Ad analoghe conclusioni si può pervenire anche nel caso di enti privi non solo di posizioni dirigenziali ma anche di posizioni di lavoro collocati nella categoria D (quindi con dipendenti apicali collocati in categorie C o B). Infatti, in tali casi, alla luce della previsione della L. n. 191, la titolarità della posizione organizzativa coincide con la responsabilità degli uffici e dei servizi formalmente individuati. Pertanto, anche in questa ipotesi viene in considerazione l’esercizio di un potere unilaterale del datore di lavoro pubblico in quanto nel momento stesso in cui il sindaco conferisce al personale inquadrato nella categoria C o B, la responsabilità degli uffici e dei servizi (sempre che si tratti di strutture apicali) finisce automaticamente con il coincidere con la titolarità della posizione organizzativa. Pertanto, alla luce di quanto detto, poiché il conferimento delle posizioni organizzative rappresenta estrinsecazione del potere direttivo del datore di lavoro, sotto il profilo della specificazione delle mansioni esigibili, e poiché tali incarichi si inquadrano sicuramente, sulla base delle previsioni contrattuali, tra le mansioni proprie della categoria D, il lavoratore in presenza di un atto di incarico di posizione organizzativa non può rifiutarlo. Infatti, si tratterebbe di un inadempimento contrattuale in quanto il lavoratore è tenuto a rendere le prestazioni dovute sulla base della declaratoria delle mansioni della categoria e del profilo di appartenenza, secondo le indicazioni e le esigenza del datore di lavoro e non secondo le proprie autonome valutazioni.

 

399-11A2. Gli incarichi delle posizioni organizzative possono essere affidate, nei comuni di cui all’art. 11 del ccnl del 31.3.1999, al personale della categoria C anche nel caso in cui l’ente abbia uno o più posti della categoria D?

 

Tale ipotesi è del tutto esclusa dalla lettera dell’art. 11 del CCNL del 31.3.1999, che consente di applicare le norme sull’area delle posizioni organizzative al personale della categoria C solo nel caso che manchino nell’ente posti della categoria D.

Tale impostazione discende direttamente dal principio della equivalenza delle mansioni nella categoria secondo la disciplina dell’art. 52, comma 1 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 3, comma 2 del CCNL del 31.3.1999. Nel caso in cui l’ente abbia un posto di categoria D vacante può eventualmente decidere di coprirlo mediante l’affidamento di un incarico di mansioni superiori al personale della categoria C, in presenza delle condizioni indicate dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 e dall’art. 8 del CCNL del 14.9.2000.

Ricordiamo, infine, che lart. 8, comma 2 del CCNL del 5.10.2001 ha confermato la prevalenza e l’esclusività della disciplina dell’art. 11 del CCNL 31.31999, per quanto riguarda il vincolo per l’affidamento degli incarichi di posizione organizzativa al personale della categoria D, anche in vigenza dell’art. 109, comma 2 del D. Lgs. 267/2000

 

 

Massime interessanti

L'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001

 

 

Cassazione Civile  - Sez. lavoro, sent. n. 17774 del 07 Agosto 2006

In tema di rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, con la previsione secondo cui il prestatore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto e con l'assenza di previsione circa la sua utilizzabilità in mansioni inferiori, preclude, in termini generali, la possibilità di richiedere mansioni ulteriori rispetto a quelle qualificanti e tipiche della professionalità acquisita, alla stregua dell'art. 2103 cod. civ. che pone un divieto analogo esplicitato dalla previsione della nullità di ogni patto contrario. L'esatto ambito delle mansioni esigibili è, pertanto, indicato in termini analoghi nelle due citate disposizioni e l'attività prevalente e assorbente svolta dal lavoratore deve rientrare fra le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza e, tuttavia, per ragioni di efficienza e di economia del lavoro o di sicurezza, possono essere richieste, incidentalmente o marginalmente, attività corrispondenti a mansioni inferiori che il lavoratore è tenuto ad espletare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale la quale, muovendo dalla considerazione che on erano state sottratte al dipendente le prestazioni tipiche della professionalità da lui acquisita, essendosene invece aggiunte di ulteriori, aveva fatto riferimento esplicito alla nozione di mansione accessoria, osservando: che ciascuna qualifica conteneva in sé anche i compiti, non esplicitati immediatamente, preparatori o inscindibilmente strumentali ad essa, andando a far parte del bagaglio professionale del dipendente, non potendo risolversi la loro esecuzione in un pregiudizio alla professionalità del lavoratore; che l'unico limite all'esigibilità era costituito dalla pretestuosità del comportamento datoriale, circostanza di difficile dimostrazione in concreto, dovendo tenersi conto dell'interesse dei terzi utenti dell'ufficio pubblico sui quali non potevano gravare, nei limiti del possibile, carenze di organico; infine, che il dipendente non aveva neppure allegato né l'assoluta in conferenza delle mansioni accorpate alla sua qualifica rispetto a quelle dirigenziali spettantigli, né che tali mansioni, tipiche di profili professionali più bassi, precedentemente attribuite ad altri dipendenti, fossero talmente assorbenti da snaturare la sua qualifica). (Rigetta, App. Brescia, 24 Marzo 2003)

 

Cassazione Civile - Sez. Lav., sent. n. 14193 del 05 Luglio 2005

 Al rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni dopo la cosiddetta privatizzazione non è applicabile la disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 c.c. e legge n. 190 del 1985), stante la specialità del regime giuridico previsto per il primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti cosicché la contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite dell'inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato, quale emerge dal complesso normativo del D.Lgs. n. 165 del 2001, testo che ora costituisce lo "statuto" di tale rapporto di lavoro, il quale - dettando regole peculiari solo per i dirigenti e per i vicedirigenti - attribuisce per il resto delega piena alla contrattazione collettiva, senza che possa desumersi un obbligo di prevedere la categoria dei quadri dall'art. 40, del suddetto D.Lgs. n. 165 del 2001, che rinvia ad eventuali distinte discipline dei contratti collettivi per peculiari posizioni lavorative.

 

Tribunale Grosseto del 03 Maggio 2005

L'art. 52, D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive.

 

Tribunale Cagliari – del 10 Ottobre 2004

Dato che il T.U. sul pubblico impiego demanda espressamente alla contrattazione collettiva gli aspetti relativi all'inquadramento del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, le scelte operate dagli agenti contrattuali non possono essere censurate dal giudice se non in dipendenza dell'accertata violazione di norme imperative di legge ovvero delle clausole generali di buonafede e correttezza nella esecuzione del contatto. Tenuto conto che l'art. 52 del T.U. 30 marzo 2001 n. 165 detta, in relazione alle mansioni e all'inquadramento nell'ambito del pubblico impiego contrattualizzato, una disciplina speciale contrastante con quella generale prevista dall'art. 2103 c.c., quest'ultima disposizione non si applica nei confronti dei pubblici dipendenti e non rientra quindi fra le norme imperative da osservare ai fini dell'inquadramento.

 

Tribunale Trieste del 08 Febbraio 2002

L'esercizio dello jus variandi del datore di lavoro pubblico può essere esercitato nell'ambito di mansioni equivalenti, cioè che salvaguardino il bagaglio professionale acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto di lavoro.

 

Tribunale Trieste - ord. 13 Agosto 1999 -   Dapas c/ Comune di Trieste

In tema di esercizio dello ius variandi nel lavoro pubblico, l'equivalenza delle nuove mansioni a quelle in precedenza svolte sussiste quando le prime consentano l'utilizzo ed il perfezionamento dei corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto e, di conseguenza, non è configurabile solo se le nuove mansioni comportino uno stravolgimento e depauperamento del patrimonio professionale del lavoratore"

 

 

La nuova classificazione del personale

 

 

Cons. Stato Sez. V, 27 febbraio 2007, n. 997

Il 31 marzo 1999, è entrato in vigore il nuovo contratto collettivo, che ha ordinato il personale degli enti locali secondo categorie ed aree professionali diverse dalla precedenti qualifiche. Il nuovo sistema di classificazione in aree professionali prevede la progressione solamente economica all'interno di ciascuna area ed abroga l'articolazione precedente in qualifiche funzionali reciprocamente indipendenti. Il passaggio a tale nuovo sistema non significa però la totale vanificazione del precedente, come si evince dallo stesso allegato 1 al CCNL che nell'attribuire le nuove categorie, all'interno delle aree professionali, ha tenuto in considerazione le precedenti qualifiche proprie del D.P.R. n. 347 del 1983.

 

Cons. Stato Sez. IV, 30 dicembre 2006, n. 8247

All'ottava qualifica del personale statale (funzionario amministrativo) ineriscono "attività con specializzazione professionale ed eventuale rappresentanza esterna".

 

Cons. Stato Sez. VI, 28 settembre 2006, n. 5690

Secondo quanto dispone l'art. 2 L. n. 312/1980, nella declaratoria della VI e VII q.f. sono indicate le attività professionali che comportano la preposizione a uffici, servizi o altre unità organiche non aventi rilevanza esterna, con margini valutativi per il perseguimento dei risultati, e facoltà di decisione e proposta nell'ambito di direttive generali, nonché piena responsabilità per le direttive o istruzioni impartite nell'attività di indirizzo e coordinamento e per i risultati conseguiti; afferiscono, invece, all'VIII q.f. le attività professionali che comportano preposizione a uffici o servizi con rilevanza esterna, a stabilimenti od opifici; ovvero attività di coordinamento e di promozione, nonché di verifica dei risultati conseguiti e responsabilità esterna per gli stessi, relativamente a più unità organiche non aventi rilevanza esterna operanti nello stesso settore. Ne consegue che nel caso sia dubbia la riconducibilità delle mansioni espletate dal dipendente in quelle proprie della qualifica dirigenziale e manchi al contempo una formale e specifica attribuzione della VIII q.f., indispensabile per il riconoscimento della qualifica stessa, non può spettare, al medesimo dipendente, il relativo trattamento economico.

 

Tribunale di Lanciano del 26 novembre 2004 (Giudice Grilli)

Per contro, l'amministrazione resistente ritiene che nel caso di specie non vi siano profili di illegittimità nel senso invocato da controparte, avendo lo stesso CCNL previsto l'accorpamento dei profili e nel contempo una esigibilità di prestazioni ascrivibile a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti; in sostanza, l'assegnazione di mansioni equivalenti non costituirebbe altro che il potere determinativo del contratto di lavoro. Osserva a questo punto il giudicante che, com'è noto, l'attuale formulazione dell'alt. 56 d.l.gs 29/93 (oggi art. 52 d.lgs. 165/01), prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle "mansioni considerate equivalenti nell’ ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi"....   Contrariamente a quanto previsto dall'art. 2103 c.c. (ove al giudice viene delegata l'integrazione del concetto di equivalenza), l'art. 52 rimanda al contratto collettivo il compito di prevedere regole finalizzate a completare il contenuto della disciplina legale, nello specifico delle mansioni. Ebbene, nel caso di specie il CCNL Regioni ed Enti Locali 31.3.1999 all'art. 3 dispone che "ai sensi dell'art. 56 d.l.gs. n. 29/1993.... tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro." Non c'è dubbio che una tale previsione, nella sua generica formulazione, può essere variamente interpretata; la lettera di tale disposizione contrattuale può infatti essere intesa in due diversi sensi, tra loro contrastanti: l'espressione "in quanto professionalmente equivalenti" può infatti significare sia "poiché professionalmente equivalenti", sia "qualora siano professionalmente equivalenti". Accogliere la prima soluzione potrebbe portare a ritenere che le parti sociali abbiano voluto stabilire l'equivalenza di tutte le mansioni ascritte alla medesima categoria; il che comporterebbe il rischio che le parti collettive obblighino i dipendenti ad una sorta di prestazione "in divenire", con conseguente vanificazione di ogni forma di tutela della professionalità, ritornando in sostanza al vecchio primato dell'inquadramento sulle mansioni, per giunta aggravato (essendo state le precedenti qualifiche accorpate in sole quattro categorie). La soluzione opposta (esigibilità di tutte le mansioni ascritte alla medesima categoria ''qualora siano" professionalmente equivalenti) appare quella preferibile, anche perché in sintonia con la finalità della realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane e di cura della formazione e dello sviluppo professionale dei dipendenti, di cui all'art. 1 lett. c) d.lgs. 165/01. Ebbene, proprio perché le parti sociali hanno riconosciuto che all'interno di ogni "categoria possono esservi mansioni non equivalenti, limitandosi semplicemente a rendere ammissibile la mobilità orizzontale del dipendente (oltre che ad evitare che possano essere considerati equivalenti compiti appartenenti a categorie diverse) appare possibile e necessario verificare in concreto l'equivalenza delle nuove mansioni rispetto alle precedenti.

 

Tribunale di Vicenza del 21.8.2001

Lo jus variandi del datore di lavoro può esercitarsi solo nell’ambito di mansioni aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente, che ne salvaguardino il livello professionale e gli consentano di utilizzare il patrimonio di esperienze acquisito nella pregressa fase del rapporto di lavoro….va confutata l’idea secondo la quale l’art. 56 del D. Lgs. N. 29/93 (ora art. 52 del d. Lgs. 165/2001) avrebbe rimesso in toto alla contrattazione collettiva l’individuazione delle posizioni professionali equivalenti, perché rinviare alla disciplina della contrattazione collettiva non significa affermarne l’insindacabilità…dall’art. 3, comma 3 del CCNL del 31.3.1999 – secondo il quale tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti sono esigibili - non si ricava senz’altro l’equivalenza e, perciò l’esigibilità di tutte le mansioni della stessa categoria, ma piuttosto, l’esigibilità di tutte le mansioni della categoria in quanto siano professionalmente equivalenti.

 

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