L'AVVOCATO DEL LAVORATORE DI FRONTE ALLE CAUSE DI MOBBING (1)

 

Sommario. 1. Alle origini del mobbing;  2. Le singole ipotesi di mobbing; 3. L 'onere probatorio; 4. Le tutele giudiziarie.

 

1. Alle origini del mobbing

Prima ancora che cominciasse a diffondersi il termine, nelle aule di giustizia si dibattevano cause che riguardavano problemi di mobbing, con la differenza che, allora, si parlava, meno esoticamente, di danno biologico. Ciò avveniva almeno dalla nota sentenza della Corte Costituzionale 14/7/86 n. 184 (2) che aveva attribuito a questo tipo di danno autonoma rilevanza rispetto al danno patrimoniale e al danno morale. È pertanto almeno da allora che gli operatori del diritto erano abituati a considerare per lo meno fattispecie di danni psico-fisici, subiti dal lavoratore a seguito di illegittimi e/o  vessatori comportamenti da parte del datore di lavoro (3).

Per esempio, risale all'inizio del 1995 la sentenza con cui l'allora Pretore di Milano (4) aveva ritenuto illegittimo il comportamento del dirigente aziendale che, in un contesto lavorativo caratterizzato da fastidiosi apprezzamenti da parte dei lavoratori maschi in ordine all’abbigliamento di una lavoratrice, aveva invitato quest'ultima a modificare l'abbigliamento anziché imporre ai lavoratori di astenersi da quei comportamenti offensivi, con conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno. Come si vede, si tratta  di un'ipotesi ante litteram di mobbing, sotto forma di discriminazione sessuale.

Per fare un altro esempio, è della fine del 1995 (5) la sentenza, sempre dell'allora Pretore di Milano, con cui era stata accertata l'illegittimità del comportamento del datore di lavoro, che aveva ripetutamele irrogato, nei confronti di un lavoratore, sanzioni e licenziamenti disciplinari poi risultati tutti illegittimi, provvedendo altresì ad adottare, nei suoi confronti, misure di controllo individuale eccezionali e anomale rispetto a quelle riservate ai suoi colleghi. Lo stesso Giudice, facendo un passo verso quello che si sarebbe chiamato danno esistenziale, aveva ritenuto risarcibile il disagio nevrotico, clinicamente apprezzabile anche se non sfociato in specifica malattia psichica, conseguentemente subito dal lavoratore, e ciò in forza della violazione dei diritti della persona tutelati dal Titolo I SL e dall'art 2087 c.c. Qui poco rileva, se non per completezza espositiva, ricordare che la sentenza è stata riformata (6); ciò che conta è sottolineare che, già da tempo, la giurisprudenza andava riflettendo sulla circostanza che il lavoratore può subire perturbamenti psico-fisici a seguito di un comportamento del datore di lavoro; che in simili casi è necessario non solo rimuovere la causa del perturbamento, ma si deve specificamente risarcire il perturbamento stesso che, dunque, assume autonomia e giuridica rilevanza.

Insomma, quando elaborazioni sociologiche e di psicologia del lavoro hanno cominciato a mettere a fuoco il mobbing, gli operatori del diritto erano già pronti e la giurisprudenza non ha dovuto faticare molto per far proprio quel concetto. Ormai l'assimilazione è compiuta: la giurisprudenza - in parte sviluppando propri precedenti concetti, in parte avvalendosi delle riflessioni svolte in altre discipline scientifiche - ha dunque elaborato il concetto di mobbing, che è stato definito come le vessazioni psicologiche inflitte a un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che siano idonee a ledere i suoi diritti della persona (salute e dignità umana) e siano attuate in modo duraturo e reiterato (7). Oppure si è parlato, ma forse la differenza è terminologica più che concettuale, di pratiche poste in essere nell'ambiente di lavoro, con la finalità di isolare il dipendente o, nei casi più gravi, di espellerlo dall'azienda (8). Ancora, sono stati considerati i ripetitivi atti emulativi, posti in essere con l'intento di recar danno al lavoratore (9). Come si vede, tra gli elementi unificanti queste definizioni differenti, almeno sul piano terminologico, vi è la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti (10), tant'è vero che il mobbing è stato per esempio escluso proprio in mancanza degli indicati attributi (11).

In ogni caso, il risultato cui si è pervenuti è sostanzialmente differente dal punto di partenza. In particolare, il concetto di mobbing si differenzia dal danno biologico di cui si parlava alla metà degli anni novanta. Infatti, il danno biologico può verificarsi anche a seguito di comportamenti che, pur essendo in ipotesi illegittimi, non sono necessariamente vessatori: si pensi per esempio al danno biologico causato da infortunio sul lavoro o da malattia professionale. Inoltre, il danno biologico potrebbe non essere l'unica conseguenza giuridicamente rilevante del mobbing, giacché - è bene dirlo subito - questo può provocare anche danni di diversa natura e, in primo luogo, un danno esistenziale.

 

2. Le singole ipotesi di mobbing

Fatta questa necessaria premessa, bisogna ancora sottolineare che per un avvocato, che abitualmente difende i lavoratori, le cause di mobbing sono forse le più delicate. Il problema è che un avvocato che affronti questo problema dovrebbe essere, prima che un giurista, uno psicologo. Mi spiego meglio: il lavoratore che lamenti persecuzioni sul posto di lavoro è sempre e per definizione una persona psicologicamente disturbata; ora il primo problema è capire la direzione del rapporto causa-effetto, cioè se sia il problema psicologico che induce il lavoratore a credere di essere perseguitato sul posto di lavoro o se, viceversa, sia l'ambiente lavorativo realmente avverso ad aver creato i problemi psicologici.

Questo è il primo problema che l'avvocato del lavoratore deve affrontare, e non è di poco momento, perché - come si comprende - coinvolge aspetti estranei alla scienza giuridica strettamente intesa. Ricordo una lavoratrice che lamentava di essere perseguitata dal suo datore di lavoro al punto che questo la faceva pedinare nel tragitto casa-lavoro e viceversa; la signora aggiungeva che il pedinamento era così ben fatto che non era sempre la stessa persona che la seguiva: ogni tanto il pedinatore, durante il tragitto, cambiava, per essere immediatamente sostituito da un altro.

Questo è un caso limite, che può anche rendere l'idea di ciò che sto dicendo, ma purtroppo la situazione non è sempre così chiara e realmente l'avvocato del lavoratore deve fare grossi sforzi psicologici e utilizzare tutta la sua sensibilità per capire se realmente il disturbo sia causato da una situazione lavorativa avversa o se invece sia vero il contrario,

È evidente che se il professionista dovesse accorgersi che la persecuzione lavorativa sia solo il frutto di una mente alterata, il discorso si chiuderebbe. Se mai, in questo caso, il problema è convincere il lavoratore, che è sinceramente e in buona fede convinto di aver subito un torto, che purtroppo non c'è nulla da fare sul piano giudiziario.

Ma anche laddove la conclusione fosse quella contraria, i problemi non sarebbero finiti. Intendo dire che quand'anche l'avvocato si convincesse che esiste realmente una situazione lavorativa genericamente avversa, si tratterebbe ancora di verificare come si sia realizzata concretamente questa persecuzione.

Qui è necessario fare una premessa: nel nostro ordinamento, la responsabilità per fatti illeciti ex art. 2043 c.c. si fonda - appunto - su un fatto illecito, il che evidentemente significa che se il danno è cagionato da un comportamento che illecito non è, il danno è giuridicamente irrilevante e, come tale, irrisarcibile. Tuttavia, nel caso di mobbing la responsabilità del datore di lavoro rileva non tanto ai sensi dell'art. 2043 c.c., quanto piuttosto ex art. 2087 c.c, che attribuisce al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del proprio dipendente (12). Pertanto, si deve concludere che qualsiasi comportamento che sia lesivo della sfera psico-fisica del lavoratore viola il divieto della norma in esame ed è dunque di per sé illegittimo. Coerentemente, è stato ritenuto che il mobbing può realizzarsi attraverso un insieme di comportamenti, ognuno dei quali può essere anche legittimo e apparentemente inoffensivo, purché il loro insieme sia realizzato al fine di nuocere o infastidire o svilire un lavoratore, per allontanarlo dall'impresa (13). Simmetricamente è stato precisato che non possono ritenersi persecutori i comportamenti riferibili alla normale condotta imprenditoriale, funzionale all'organizzazione produttiva (14).

Come si vede, dunque, il concetto dell'illecito qui è più ampio che altrove, tuttavia, non si può pensare che ogni comportamento sia valutabile ex art. 2087 c.c, perché tra il lecito e l'illecito c'è un'enorme zona grigia che potrebbe essere giuridicamente irrilevante. In particolare, c'è il problema della reiterazione del comportamento; per alcuni c'è la necessità che il comportamento sia finalizzato a intenti vessatori. Ricordo che alcuni lavoratori lamentavano comportamenti persecutori consistenti nel fatto che il loro capo ostentatamele non li salutava. Anche in casi come questi, come nell'esempio della lavoratrice pedinata, il discorso per un avvocato finisce subito; ancora una volta, il problema è tutto psicologico, nel senso che bisogna spiegare a un lavoratore convinto di essere perseguitato (e forse questa volta a ragione) che la buona educazione non è imposta per legge.

Anche questo è un caso limite e, ancora una volta, al di là dei casi limite ci sono numerosi casi dubbi, là dove - pur in assenza di eclatanti comportamenti illeciti del datore di lavoro - risulta una pluralità di atteggiamenti che forse, considerati uno per uno, restano nel campo dell’irrilevanza giuridica ma che, se esaminati nel loro complesso, possono condurre a concludere nel senso di un comportamento persecutorio rilevante.

Anche qui posso fare un esempio concreto. Io avevo già impugnato, per un certo lavoratore, una dequalificazione con conseguente danno biologico, e il Tribunale di Milano aveva accolto entrambe le domande. All'indomani della sentenza (pur formalmente eseguita, nel senso che al lavoratore era stato risarcito il danno ed erano state assegnate mansioni professionalmente equivalenti), la situazione è paradossalmente peggiorata, nel senso che il datore di lavoro non ha cessato il suo comportamento persecutorio; solamente, l'ha manifestato in forme meno eclatanti. Per esempio, il lavoratore è stato letteralmente inondato di sanzioni disciplinari pretestuose; al lavoratore -che nel frattempo si era sposato - è stata negata la possibilità di fruire del congedo matrimoniale; anche a seguito della sentenza che accertava il diritto di questa persona alla fruizione di tale permesso, con conseguente condanna nei confronti della società, quest'ultima ha preteso di scegliere il periodo di fruizione del permesso, di fatto impedendola durante il differente periodo che era stato scelto dal lavoratore.

Come si vede, qui si è in presenza di comportamenti che, isolatamente considerati, sono magari anche illegittimi, ma inidonei a ipotizzare fattispecie di situazione lavorativa avversa. Voglio dire che se anche un lavoratore subisce una sanzione disciplinare illegittima, può certamente impugnare giudizialmente quella sanzione in quanto tale, ma non sarebbe credibile al contempo lamentare una conseguente ipotesi di mobbing. Tuttavia, quando episodi di questo spessore si presentano non isolati ma inseriti in un più ampio contesto di episodi plurimi (per quantità o qualità), è possibile ipotizzare una fattispecie di mobbing.

Infine ci sono i casi più eclatanti, dove la persecuzione da parte del datore di lavoro si realizza attraverso comportamenti più grossolani, nel senso di essere non solo macroscopicamente illegittimi, ma anche possibile causa di mobbing di per sé, anche se avulsi da un più articolato quadro persecutorio. Mi riferisco, innanzi tutto, alla dequalificazione: è ormai scientificamente provato che la radicale sottrazione di mansioni, ma anche l'assegnazione di compiti meno qualificanti sono possibile causa di danno biologico e, comunque, fonte di mobbing nel caso in cui risulti accertato che l'emarginazione professionale si sia protratta nel tempo e sia stata causata da motivi punitivi e/o vessatori (15).

Alla stessa conseguenza si può pervenire con un trasferimento o con un licenziamento I provvedimenti di questo tipo, a differenza della dequalificazione, che è illegittima per definizione, possono essere anche legittimi, se esercitati nei limiti previsti dalla legge. Pertanto, la condizione per la risarcibilità dei danni causati da uno di questi provvedimenti è l'illegittimità del provvedimento stesso; in caso contrario, il danno conseguentemente subito resta nel campo dell'irrilevante giuridico, in quanto causato da un comportamento che rientra nel normale esercizio del potere imprenditoriale. D'altra parte, se viene accertata l'illegittimità di un trasferimento o di un licenziamento, il discorso diventa simile a quello già fatto per la dequalificazione, nel senso che è altrettanto scientificamente certo che un provvedimento di questo genere è teoricamente in sé sufficiente all'insorgenza quanto meno di un danno biologico. Non solo; in casi simili si può parlare anche più propriamente di mobbing se il trasferimento o il licenziamento non si presentano isolati, ma sono il momento terminale e culminante di un'attività persecutoria già in essere, magari attuata con altri comportamenti che, di per sé, rientrerebbero nell'irrilevante giuridico. Può capitare che il trasferimento o il licenziamento siano preceduti da reiterati approcci compiuti dal datore di lavoro, per cercare di convincere il lavoratore a rassegnare le dimissioni, o a trasformare il rapporto di lavoro subordinato in un rapporto di collaborazione, o a progetto come si dice ora, o ad accettare mansioni dequalificanti: in casi come questi, non è raro che il rifiuto del lavoratore ad accettare simili proposte sia seguito - o punito, a seconda dei punti dì vista - da un più radicale e traumatico provvedimento, come appunto il trasferimento o addirittura il licenziamento; in questi casi si configurerebbe una fattispecie di comportamenti articolati, reiterati e finalizzati all'emarginazione del lavoratore e, dunque, di mobbing.

Come si vede, tra le diverse ipotesi di mobbing sono particolarmente dubbie quelle che presuppongono una pluralità di comportamenti in sé poco eclatanti; pertanto, è con riferimento a queste che è opportuno passare brevemente in rassegna fattispecie esaminate dalla giurisprudenza. Tra queste, sono particolarmente ricorrenti le ipotesi di linguaggio scurrile e aggressioni verbali (16), isolate o accompagnate per esempio dall'emarginazione fisica del lavoratore, costretto a lavorare in un ambiente angusto (17), oppure da controlli esasperati sull'attività lavorativa e da sanzioni disciplinari per episodi di scarso rilievo (18). Oppure un'ipotesi di mobbing è stata accertata in un caso in cui si erano verificati un mutamento di mansioni, un trasferimento, l'assegnazione a un locale insalubre, la privazione dei riposi (19). Ancora, il mobbing è stato accertato in un caso in cui la lavoratrice era stata invitata a rassegnare le dimissioni, per poi sostituirla, durante una sua malattia, mediante altra lavoratrice appositamente assunta a tempo indeterminato, e per infine assegnarla, al suo rientro, a mansioni dequalificanti (20).

Prima di concludere questa breve rassegna bisogna ancora ricordare che anche le molestie sessuali possono sfociare in ipotesi di mobbing, ovviamente a condizione di essere reiterate o inserite in un quadro vessatorio più articolato, sebbene la gravita in sé di questa forma di molestia induca la lavoratrice o il lavoratore a reagire giudizialmente prima che si verifichi la reiterazione (21). Con riguardo a quest'ultimo argomento è bene ricordare che, secondo una pronuncia, nel caso di mancato assolvimento della prova in ordine alle molestie sessuali, accompagnato da espressioni che avevano leso il prestigio della società, è legittimo il licenziamento conseguentemente inflitto a quella lavoratrice (22). Quasi all'inverso, una sentenza di un giudice di merito ha escluso la facoltà del datore di lavoro di procedere disciplinarmente nei confronti del lavoratore che aveva denunciato alla dirigenza aziendale comportamenti mobbizzanti ai propri danni (23).

 

3. L 'onere probatorio

Inoltre, l'avvocato del lavoratore, prima di decidere se tradurre in azione giudiziaria il problema lamentato dal lavoratore, deve anche attentamente valutare i numerosi e delicati problemi probatori che si pongono in cause di mobbing.

Ormai, in giurisprudenza, è parifico che la responsabilità del datore di lavoro, derivando come si è già visto dall'ari 2087 c.c., è di natura contrattuale e non extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (24). Infatti, come è ben noto, la differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale non attiene alla fonte della responsabilità, ma alla determinabilìtà dei creditori dell'obbligo. In altre parole, non si può dire che sia contrattuale la responsabilità che deriva da contratto ed extracontrattuale la responsabilità che deriva da una fonte diversa. Al contrario, è contrattuale la responsabilità che si determina quando il comportamento, che è rimasto inadempiuto, sia obbligatorio nei confronti di uno o più soggetti determinati o determinabili; la responsabilità è invece extracontrattuale quando il comportamento rimasto inadempiuto sia obbligatorio nei confronti di una pluralità indeterminata di soggetti. Pertanto, poiché il datore di lavoro è obbligato ex art. 2087 c.c. nei confronti dei suoi dipendenti, ovvero di una pluralità di persone determinabili, ne consegue che la responsabilità è di tipo contrattuale.

Accertata la natura della responsabilità, è relativamente agevole stabilire come sia ripartito l'onere della prova: il datore di lavoro deve provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, mentre a quest'ultimo spetta di provare sia la lesione, sia il nesso di causalità tra l'evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa (25). Anche nei casi in cui è stata affermata la concorrenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, si è concluso nel senso dell'applicabilità del regime probatorio più favorevole al lavoratore e, dunque, quello appena indicato, tipico della responsabilità contrattuale (26).

Nonostante la semplificazione che deriva dal regime probatorio caratteristico della responsabilità contrattuale, non si deve credere che la prova per il lavoratore sia agevole. Infatti, è stato affermato che il lavoratore deve fornire la prova dell'esistenza dei singoli episodi di persecuzione (27), talvolta precisando che deve inoltre essere dimostrata la finalità unitaria delle singole azioni poste in essere dal datore di lavoro allo scopo di vessarlo (28). Sì capisce dunque che il primo problema riguarda la reperibilità di testimoni, giacché spesso le molestie avvengono nel chiuso di una stanza tra molestatori da un lato e molestato dall'altro. In ogni caso, l'onere probatorio del lavoratore si complica ulteriormente, in particolare quando la situazione lavorativa avversa non culmini in un unico fatto eclatante ma si limiti a una serie di comportamenti, significativi più nel loro complesso che ciascuno di per sé; in casi come questi, il lavoratore deve provare il verificarsi non di uno, ma di tanti comportamenti illegittimi, giacché la conferma della situazione avversa può aversi solo dalla compresenza e dalla reiterazione di una pluralità di singoli episodi, il che ovviamente comporta una moltiplicazione esponenziale del rischio probatorio.

In ogni caso il lavoratore, come si diceva, deve dimostrare sia il danno che il nesso di causalità (29). Con particolare riferimento al danno biologico (che se non è l’unica, è di regola la conseguenza più importante che può derivare dal mobbing, anche sul piano risarcitorio), la valutazione dell'avvocato non può essere particolarmente selettiva, giacché trarre una simile conclusione presuppone conoscenze mediche e/o psicologiche più che giuridiche. Peraltro, questa inevitabile lacuna è in parte colmata da risultati scientifici che sono ormai diventati fatti notori, e che dicono universalmente che situazioni lavorative avverse sono in sé idonee a cagionare stati depressivi, che possono poi manifestarsi con somatizzazioni di diverso tipo (30). A tale ultimo riguardo, posso dire che, nella mia esperienza, non ho visto solo lavoratori che lamentavano i soliti fenomeni di apatia, insonnia, inappetenza e simili, ma anche casi più gravi con vere e proprie crisi cardiache.

Tuttavia, dato per certo che la conseguenza è possibile in linea teorica, bisogna valutare se quella conseguenza si sia verificata davvero in pratica e, dunque, se quello stato depressivo, con quelle conseguenti somatizzazioni, sia davvero la diretta conseguenza di un comportamento vessatorio del datore di lavoro. Come si diceva, questa conclusione non può essere tratta dall'avvocato che, al riguardo, non può far altro che invitare il lavoratore a recarsi da un medico specialista, per poi redigere il ricorso solo a fronte di un certificato di quel medico che attesti l'effettiva ricorrenza del danno e del nesso causale. Tale certificato deve rappresentare la condizione indispensabile per decidere se promuovere un'azione giudiziaria, per i motivi già illustrati e, al contempo, fornisce al giudice quel principio di prova necessario ad ammettere una consulenza tecnica d'ufficio. In effetti, le stesse lacune scientifiche che si sono viste per l'avvocato appartengono anche al giudice, né si può pensare che la sussistenza in sé del danno biologico e, a maggior ragione, il nesso causale possano essere esclusivamente fondati sulla prova testimoniale. Pertanto, si deve concludere sul punto dicendo che l'onere probatorio del lavoratore sulle circostanze in questione si può assolvere mediante una consulenza tecnica d'ufficio, previo certificato medico che attesti l'esistenza di un problema psico-fisico e il nesso di causalità con una situazione lavorativa avversa.

Peraltro, come già si accennava, il danno biologico può non essere l'unica ipotesi di danno subito a seguito di mobbing. A tale riguardo, bisogna in primo luogo menzionare il danno esistenziale. Infatti, si è osservato che le vessazioni del datore di lavoro non sempre o non solamente provocano lesioni apprezzabili sotto il profilo clinico. Per questo motivo, considerati anche i limiti alla risarcibilità del danno morale ex art 2059 c.c. (che ne impone il risarcimento solo nel caso in cui tale danno sia causato da una fattispecie di reato: non più dopo Corte cost. n. 233/2003 che dell’art. 2059 c.c. ha imposto una lettura costituzionalmente orientata, n.d.r.), si è osservato che il disagio derivante dal mobbing potrebbe rischiare di restare senza alcuna sanzione. Insomma, le categorie tradizionali del danno patrimoniale, danno biologico e danno morale sono risultate insufficienti a risolvere la questione, conseguentemente agevolando l'individuazione di una nuova ipotesi di danno, appunto quello esistenziale. Quest'ultimo è stato definito come il pregiudizio esistenziale che, senza ridursi al mero patema d'animo interno, comporta tuttavia disagi e turbamenti di tipo soggettivo, tale cioè da compromettere le attività realizzatrici della persona umana e, in particolare, la serenità familiare e il sereno svolgimento della propria vita lavorativa. Si è poi precisato che il danno esistenziale rientra nell'ambito dei diritti inviolabili, giacché la Costituzione tutela non solo la salute ex art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia o di altra comunità ex artt 2 e 29 Cost. Pertanto, una lettura costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile, come non può lasciar senza tutela i pregiudizi alla salute, neppure può trascurare le lesioni alla dimensione esistenziale (31).

In giurisprudenza ormai è pacifico che all'accertamento del mobbing possa conseguire il risarcimento del danno esistenziale (32). Con riferimento al regime probatorio, qui si può ricordare che una sentenza (33) ha tenuto conto della testimonianza resa dal coniuge e dal figlio del lavoratore vessato, che avevano ricordato come il loro congiunto si fosse chiuso in se stesso, soffrisse di ricorrenti crisi di pianto, parlasse esclusivamente dei suoi problemi di lavoro e sobbalzasse a ogni telefonata, temendo che provenisse dall'azienda.

Quanto invece al danno professionale derivante da vessazioni poste in essere tramite dequalificazione, l'onere probatorio è relativamente più semplice: accertata la dequalificazione, la giurisprudenza è sostanzialmente concorde nel ritenere che il danno professionale si produce di per sé, senza che sia necessario procedere a particolari accertamenti istruttori (34).

In ogni caso, il rigore dell'onere probatorio è temperato dal principio, ormai acquisito, secondo cui la prova del nesso di causalità è fornita anche quando risulti accertato che il danno consegua alla causa in termini di alta probabilità (35). Altro temperamento deriva dal concetto di concausa: l'autore dell'illecito è esente da responsabilità solo a fronte del sopravvenire di eventi esterni ed eccezionali (36), da sé soli idonei a determinare l'evento dannoso, indipendentemente dall'apporto del comportamento umano (37). In buona sostanza, se il danno trova una pluralità di cause, la responsabilità del datore di lavoro può essere attenuata solo a fronte di una concorrente corresponsabilità causale umana, ma non naturale o ambientale (38). Questo in particolare significa che il datore di lavoro non potrebbe eccepire che i disturbi psico-fisici sono stati causati da una naturale predisposizione del lavoratore (39).

Neppure il datore di lavoro potrebbe eccepire di essere stato del tutto all'oscuro della persecuzione. A tale riguardo, bisogna ricordare la giurisprudenza che si è consolidata con riferimento agli infortuni sul lavoro (40): è principio ormai acquisito che l'obbligo ex art. 2087 c.c. presuppone anche un onere di vigilanza a carico del datore di lavoro, con la conseguenza che egli, per esempio, non è esente da colpa nell'ipotesi in cui il lavoratore infortunato non avesse adottato i prescritti mezzi protettivi. Trasferendo questo principio al problema di cui si sta parlando, ne deriva che il datore di lavoro, pur all'oscuro delle vessazioni, sarebbe nondimeno responsabile ex art. 2087 c.c, sotto il profilo di non aver adeguatamente vigilato al fine di prevenire o reprimere le vessazioni stesse.

 

4. Le tutele giudiziarie

Resta da capire quale forma di tutela giudiziaria possa chiedere il lavoratore in caso di vessazioni. In parte se n'è già parlato, ma conviene svolgere qui un discorso più organico.

Innanzi tutto, talvolta il lavoratore può chiedere un risarcimento in forma specifica, per esempio domandando la reintegrazione sulla base dell'accertata illegittimità del licenziamento o del trasferimento, oppure chiedendo di essere assegnato a mansioni coerenti con la sua professionalità e con il suo livello di inquadramento in casi di accertata dequalificazione.

Inoltre, il lavoratore può rivendicare il risarcimento dei danni subiti. Si è detto che i danni che astrattamente possono conseguire a vessazioni sul posto di lavoro sono molteplici: innanzi tutto il danno biologico e il danno esistenziale; se il comportamento del datore di lavoro è penalmente rilevante si può configurare anche la risarcibilità del danno morale; nel caso di dequalificazione si può chiedere il risarcimento del danno professionale.

La quantificazione dei danni sopra indicati di per sé non è agevole in quanto, trattandosi di danni extra-patrimoniali, la relativa liquidazione deve avvenire secondo equità. Non può dunque stupire se la giurisprudenza ha elaborato differenti sistemi di quantificazione dei danni di cui si sta parlando.

Con particolare riguardo al danno biologico, soprattutto la giurisprudenza milanese fa riferimento a tabelle elaborate dal Tribunale di Milano (41), che suggeriscono un metodo equitativo per il risarcimento del danno sia da invalidità permanente che da invalidità temporanea. Nel primo caso, è prevista una certa somma, da moltiplicarsi per il grado di accertata invalidità permanente e per un coefficiente che dipende dall'età del lavoratore; nel secondo caso è prevista una somma da moltiplicarsi per i giorni di inabilità temporanea.

Quanto agli altri danni, vengono utilizzati parametri ancor meno certi. In ogni caso, con riferimento al danno esistenziale (ma un discorso simile si può fare per il danno morale), viene talvolta liquidata una somma che rappresenta una certa frazione di quella quantificata a titolo di danno biologico, in misura più o meno prossima alla metà a seconda dell'entità del danno patito, della durata della vessazione e della gravita del­la colpa del datore di lavoro (42). Talvolta, non condividendo il sistema a punti del risarcimento del danno biologico sopra descritto, il danno esistenziale è stato quantificato considerando, come parametro, la somma di 15 mensilità previste dall'ordinamento per il caso di licenziamento illegittimo (43). Altre volte, ma in ipotesi di mobbing derivante anche da dequalificazione, il danno esistenziale è stato quantificato utilizzando, una frazione della retribuzione moìtipìicata per i mesi per i quali è perdurata la vessazione (44).

Quanto infine al danno professionale, abitualmente si liquida una frazione della mensilità del lavoratore, moltiplicata per il numero di mesi di accertata dequalificazione.

Prima di concludere, bisogna ancora ricordare che il lavoratore, a fronte di fattispecie di mobbing, può anche trovarsi di fronte alla scelta del soggetto da convenire in giudizio. Infatti, in aggiunta alla responsabilità del datore di lavoro, si potrebbe configurare la responsabilità diretta e personale del lavoratore che ha posto in essere le vessazioni: a tale riguardo, solitamente si distingue (per quanto, da un punto di vista giuridico, la distinzione non sia particolarmente significativa) tra un mobbing orizzontale e un mobbing verticale, a seconda che i comportamenti vessatori siano stati posti in essere da colleghi o da un superiore.

Procedendo con ordine, si può innanzi tutto dire che, in ogni caso, è stata affermata la responsabilità diretta del datore di lavoro, sia sotto il profilo dell'ari 2087 c.c, giacché egli non ha fatto il possibile per impedire il compiersi delle vessazioni, sia sotto il profilo dell'art. 2049 c.c., che configura la responsabilità solidale del datore di lavoro per gli illeciti commessi dai suoi dipendenti nell'espletamento del loro incarico (45). Alla responsabilità del datore di lavoro può aggiungersi, come si diceva, quella dell'autore delle vessazioni, con riferimento al quale è stata affermata la competenza del Giudice del Lavoro (46), soprattutto in ipotesi di molestie sessuali (47), di reiterate violenze verbali (48), di reiterate richieste di dimissioni seguite dalla divulgazione del contenuto di contestazioni disciplinari e della motivazione del licenziamento (49). In ogni caso, quand'anche fosse ipotizzabile un concorso di responsabilità tra datore di lavoro e autore materiale dell'illecito, il lavoratore potrebbe omettere di convenire in giudizio quest'ultimo, limitandosi a citare il primo, giacché è stato escluso che si tratti di litisconsorzio necessario (50). Pertanto, tutte le volte in cui sarà configurabile un diretto responsabile dell'illecito, distinto dalla persona del datore di lavoro, il lavoratore potrà scegliere se convenire in giudizio uno o l'altro o entrambi. In ogni caso, se non altro per prosaici motivi di solvibilità, la scelta cadrà sul datore di lavoro, mentre l'autore materiale dell'illecito sarà chiamato in giudizio nei casi più gravi, al fine di veder accertata - anche a fini preventivi - una responsabilità diretta e personale.

Stefano Chiusolo

 

(fonte D&L, Riv. crit. dir. lav. 1/2005, p.14 e ss. A D&L si fa riferimento quando nelle note si indica “in questa Rivista”)

Note

1) II presente articolo è la relazione presentata al convegno «Conflitti e contenziosi con i dipendenti», organizzato dall'Istituto internazionale di Ricerca, svoltosi a Milano il 25-26/1/05.

2) La sentenza è pubblicata in Foro it. 1986,1,2053. Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale giungeva dopo che il concetto era già noto in giurisprudenza: v. per es. Cass. 6/4/83 n. 2396, in Giur. it 1984,1,1, 537; Cass. 11/2/85 n. 1130, in Rep.Foro it. 1985, v. «Danni civili», n. 104.

3)  Il danno biologico è stato per esempio definito come «il danno alla salute immanente alla lesione dell'integrità bio-psichica della persona e sì distingue da ogni altro danno di natura patrimoniale e dal danno morale conseguente a reato, ed è comprensivo anche del danno alla vita di relazione» (Cass. sez. lav. 5/11/99 n. 12339, in questa Rivista 2000,205, con nota di Liguori, «Danno biologico e concause»), in senso sostanzialmente conforme, v. anche Cass. 23/2/99 n. 2037,in Riv. gur. lav, 2000,1,468.

4) PreL Milano 12/1/95, in questa Rivista 1995,349, con nota di Vettor, «Minigonna e discriminazione sessuale».

5)  Pret. Milano 14/12/95, in questa Rivista 1996,463, con nota di Tagliagambe, «Vessazioni datoriali e sofferenze psichiche dei lavoratori».

6) Cass. 2/5/00 n. 5491, in questa Rivista 2000,778, con nota di Tagliagambe, «Un'occasione sprecata».

7) Trib. Milano 28/2/03, in questa Rivista 2003,655;Trib. Forlì 15/3/01, ivi 2001,411, con nota di Greco. V. anche Trib. Milano 31/7/03, in Lavoro nella giur. 2004,402, che ha altresì distinto tra mobbing orizzontale (nei caso di vessazioni poste in essere dai colleghi) e mobbing verticale (nell'ipotesi di persecuzioni provenienti direttamente dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici).

8) Trib. Torino 30/12/99, in questa Rivista 2000,378; Trib. Torino 11/12/99, in Foro it 2000,1,1556; Trib. Torino 28/1/03, in Giur. Piemontese 2003,92;Trib. Venezia 15/1/03, in Lavoro e prev. oggi 2003,923.

9) Trib. Milano 30/9/02,in Orientamenti 2002,532.

10) Su tale concetto, v. anche Trib. Milano 22/8/02, in Orientamenti 2002,536.

11) Trib. Milano 20/5/2000, in Orientamenti 2000,958; in Dir. relazioni ind.. 2001,285, con nota di Boscati, «Mobbing e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata»; in Lavoro giur, 2001,367, con nota di Nunin, «Mobbing: nodo critico è l'onere della prova». La sentenza ha anche precisato che i comportamenti denunciati, oltre a non essere sistematici, erano oggettivamente rapportati alla vita di tutti i giorni all'interno di un'organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di scontro umano.

12) È pacifico che l'obbligo dì cui all’art. 2087 c.c. riguardi non solo il rispetto della legislazione in materia di prevenzione degli infortuni, comportando per il datore di lavoro il divieto di porre in essere qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità psico-fisica dei suoi dipendenti: Cass. 2/5/2000 n. 5491, cit. Con specifico riferimento alla tutela anti-infortunistica, Cass. 4/12/92 n. 12911, in questa Rivista 1993,577 ha ritenuto: «La norma dell'art. 2087 c.c. è tipicamente indeterminata, o in bianco, e il contenuto di essa va individuato in base a tre dati esteriori (particolarità del lavoro, esperienza e tecnica). Tale norma che trova la sua fonte nell'art. 32, 1° comma, Cost. (secondo il quale lo Stato assume la tutela della salute dei cittadini come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività) e nell'ari 41,1° e 2° comma (ove, affermandosi il principio di libertà dell'iniziativa privata, si condiziona in concreto tale iniziativa imponendosi che essa si svolga con modalità tali da non pregiudicare la sicurezza degli addetti) - cfr. Cass. pen. 8/3/88 n. 1610 - pone l'obbligo di adottare le misure necessarie, e non solo quelle prescritte in modo espresso e specifico, per tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori. Sicché l'imprenditore deve rispettare non solo tutte le norme espressamente dettate dall'ordinamento ai fini della sicurezza del lavoro, ma anche quelle che si rivelino via via necessarie secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, potendo non essere sufficiente - anche se è sempre necessaria - l'esatta applicazione delle specifiche norme anti-infortunistiche. In tal senso si è del resto espressa questa Corte in numerose decisioni (cfr. Cass. pen. 9/2/89 n. 4805; Cass. 23/6/86 n. 1171)».

13) Trib. Como 22/5/01, in Lavoro giur. 2002,73, con nota di Ege, «Mobbing aziendale e collettivo, o molestia»; in Orientamenti 2001,277, con nota dì Quaranta, «Un'altra pronuncia sul mobbing»; Trib. Corno 22/2/03, in Mass. Giur. lav. 2003,328, con nota da Beretta.

14) Trib. Milano 16/11/2000, in Orientamenti 2000,962.

15) Trib. Lecce 31/8/01, in Lav. prev. oggi 2001,1428;Trib. Pinerolo 6/2/03, in Resp. civ. 2003,424, con nota di Nisticò; in Nuova giur. civ. 2003,1,513, con nota di Pizzoferrato, in Giur. it. 2003,2295, con nota di Viglione.

16) Trib. Pavia 14/12/02,in questa Rivista 2003,349.

17) Trib. Torino 16/11/99, in Dir Relazioni ind. 2000,385, con nota di Matto, «II mobbing nella prima ricostruzione giurisprudenziale».

18) Trib. Milano 28/2/03, cit.

19) Cass. 4/5/04 n. 8438, in questa Rivista 2004,339.

20) Trib. Torino 30/12/99, cit.

21) In tema di molestie sessuali, v. per esempio Trib. Milano 9/5/03, in questa Rivista 2003,649; Trib. Milano 21/4/98, ivi 1998,957; Pret. Milano 31/1/97, ivi 1997,619.

22) Cass. 8/1/2000 n. 143, in Riv. it dir. lav. 2001, II, 92, con nota di Conte, «L'onere della prova in tema di molestie sessuali e le conseguenze del suo mancato assolvimento».

23) Trib. Modena 18/2/04, in Lavoro nella giur. 2004,685, con nota di Mannelli.

24) Cass. 4/5/2000 n. 8438, in questa Rivista 2004,339; Trib. Campobasso 16/1/04, ivi 2004,107; Trib. Tempio Pausania 10/7/03, in Riv. Giur. Sarda 2004,143, con nota dì Cicero e in Risorse umane 2003,761, con nota di Zampieri; Trib. Venezia 15/1/03, cit

25) Cass. 5/2/00 n. 1307, in Orientamenti 2000,391, con nota di Ludovico, «Superlavoro e demansionamento: due pronunce della Cassazione in tema di danno biologico e rilevanza delle concause naturali»; in Dir. relazioni ind. 2000,390, con nota di Veronesi, «Danno da superlavoro e responsabilità del datore»; Cass. 2/5/00 n. 5491, cit; Trib. Milano 28/2/03, cit.

26) Trib.Forlì 15/3/01,cit.

27) App. Torino 12/11/02, in Giur. piemontese 2004,80.

28) App. Bologna 29/3/04, in Sito Giuremilia.it, 2004. Contro questo orientamento prende apertamente posizione la citata Trib. Milano 28/2/03, escludendo la necessità della prova in questione e affermando che per configurare un'ipotesi di mobbing è sufficiente accertare che il comportamento sia in sé idoneo a ledere i beni della persona, il che si può verificare attraverso la monodirezionalità della condotta, la pretestuosità della stessa e il permanere nel tempo del comportamento vessatorio. In buona sostanza, la ricorrenza degli elementi costitutivi del mobbing racchiudono necessariamente in sé l'aspetto finalistico della condotta, che dunque non deve essere oggetto di prova specifica.

29) In giurisprudenza non mancano accertamenti che la lesione all'integrità psico-fisica del lavoratore dipenda da circostanze estranee all'attività lavorativa (v. per esempio Cass. 2/5/00 n. 5491, cit).

30) Bisogna peraltro segnalare che Trio. Catania 3/12/03, in Mass. Giur. lav. 2004,6,104, ha escluso che, in un caso di licenziamento, il danno biologico sia in re ipsa, giacché tale danno presuppone che l’atto del datore di lavoro sia arbitrario e discriminatorio e che abbia effettivamente danneggiato la salute psico-fisica del lavoratore.

31) Cass. 3//7/01 n. 909.

32) Trib. Forlì 15/3/01, cit.;Trib. Pinerolo 6/2/03, cit V anche Trib. Pisa 6/10/01, in questa Rivista 2002,126, in un caso di molestie sessuali

33) Trib. Milano 28/2/03 cit.

34) In ogni caso, la dequalificazione può comportare il risarcimento anche di danni di diversa natura: in un caso in cui la dequalificazione aveva causato anche una psicopatologia con inabilità temporanea, il datore di lavoro è stato condannato a risarcire anche il danno biologico e il danno morale (Trib. Milano 6/5/02, in questa Rivista 2002,635).

35) Trib. Milano 28/2/03, cit. ; Trib. S. Maria Capua Vetere 28/2/03, in questa Rivista 2003,655.

36) Pret. Milano 20/6/95, in questa Rivista 1995,944.

37) Cass. 5/11/99 n. 12339, cit.

38) Cass. 5/11/99, cit.

39) Trib. Tempio Pausania 10/7/03, cit.

40) Cass. 13/10/2000 n. 13690, in Orientamenti 2000,1126: Cass. 2/3/84 n. 1478, in Mass. giur. lav. 1984: Cass. 30/1/85 n. 633, ivi 1985; Cass. 7/3/87 n. 2417, ivi 1987.

41) Per es.Trib. Milano 26/6/99, in questa Rivista 1999,883. 42 Trib. Milano 28/2/03, cit.

43 Trib. Pisa 6/10/01, cit.

44) Trib. Forlì 15/3/01, cit.

45) Trib. Lecce 31/8/01 cit.;Trib.Torino 16/11/99, cit. A tale riguardo,bisogna ricordare che la giurisprudenza ha escluso che la responsabilità del datore di lavoro sia configurabile unicamente nell'ipotesi in cui la mansione da questo affidata all'autore del danno sia direttamente la causa del danno stesso. Piuttosto, è stato ritenuto che il datore di lavoro deve essere ritenuto responsabile tutte le volte che lo svolgimento della mansione abbia anche solo reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno (Cass. 5/1/85 n. 20, in Mass. Giur. it. 1985; Cass. 3/4/91 n. 3442, ivi 1991 ; Cass. 6/1/83 n. 75, in Giur. it. 1983,1,1, 1481; Cass. 27/3/87 n. 2994, in Mass. Giur. it.; Cass. 7/8/97 n. 7331, ivi 1997; Cass. 20/3/99 n. 2574, in Danno e resp. 1999, con nota di Pedrazzi; Cass. 22/5/01 n. 6970, in Mass. Giur. it. 2001).

46) Cass. 8/9/99 n. 9539, in questa Rivista 2000,250, con nota di Muggia, «Sulla competenza del giudice del lavoro nelle ipotesi solamente connesse al rapporto lavorativo».

47) Trib. Milano 9/5/03, cit. Al riguardo, bisogna però anche citare Trib. Venezia 15/1/02, in Foro pad. 2002, 1,404, che ha escluso la responsabilità ex art. 2049 c.c. del datore di lavoro, in un caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro perché le circostanze ambientali non consentivano di considerare il comportamento del molestatore rientrante tra le incombenze di dipendente, né di tali incombenze costituivano un prolungamento.

48) Trib. Pavia 14/12/02, cit.

49) Cass. 8/9/99 n. 9539, cit.

50) Trib. Lecce 31/8/01 cit.

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