Il mobbing entra nella giurisprudenza costituzionale

(commento a Corte Cost., sent. 19 dicembre 2003, n. 359)

 

SOMMARIO: 1) La questione “mobbing”. 2) La rilevanza giuridica del “mobbing” nell’esperienza europea. 3) Il mobbing nella pubblica amministrazione. 4) La sentenza n. 359 del 2003. 5) La tutela del lavoratore mobizzato; 6) Conclusioni.

 

1) La questione mobbing.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 359 del 2003 ha avuto modo di interessarsi, seppure con riguardo al particolare problema della competenza legislativa, del fenomeno del “mobbing” riprendendo alcuni interessanti argomenti sviluppati dalla dottrina gius-lavoristica che meritano un attento esame e che consentono di fare il punto sugli attuali indirizzi legislativi e giurisprudenziali in “subiecta materia “.

Com’è noto Il termine etologico “mobbing” costituisce l’ennesimo “anglicismo” recentemente entrato a far parte delle parole d’uso comune anche nella pratica giudiziaria: esso rievoca scenari di aggressività (“to mob” significa assalire, aggredire in gruppo) che si pongono in contrasto non solo con l’ordinato vivere sociale ma anche con il regolare svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato.

L’estrema attualità del predetto fenomeno, confermata anche dal crescente rilievo ad esso dato dai mezzi di comunicazione di massa, ha offerto lo spunto per diversi, recenti convegni sul tema che ne hanno approfondito gli aspetti medico-legali e quelli più strettamente giuridici, specie sotto il profilo del danno alla persona del lavoratore.

Grazie agli studi effettuati da esperti in neuropsichiatria e in medicina del lavoro, si è potuto affermare che il “mobbing” è fenomeno ubiquitario piuttosto diffuso in tutte le realtà lavorative non solo private ma anche pubbliche e, tuttavia, è con riferimento alle prime che esso si è primariamente palesato ed è stato oggetto di studi approfonditi sotto il profilo sia medico che legale.

Il “mobbing”, alla luce anche dell’esperienza sin qui maturata, può definirsi come «un’attività persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) e mirante ad indurre il destinatario della stessa a rinunciare volontariamente ad un incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro».

Tale attività deve avere una durata di più mesi (normalmente almeno sei, secondo la più recente medicina del lavoro), per poter essere sussunta nel concetto di “mobbing”.

Dunque, esso si presenta come una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi (c.d. mobbing “orizzontale”) o dei datori di lavoro (mobbing c.d. “verticale”).

Le forme che può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione all’assegnazione di compiti dequalificanti, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione.

Nei casi più gravi può arrivare anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali: l’obiettivo è di eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni.

Come si vede, si tratta di un fenomeno preoccupante che ha assunto dimensioni notevoli innanzitutto nel lavoro privato, che in epoca di globalizzazione è sempre più funzionale alla riduzione dei costi spesso realizzata a scapito delle garanzie dei lavoratori, ma anche nel lavoro pubblico tant’è che i settori più colpiti risultano essere la scuola e la sanità.

Peraltro occorre evitare di cadere nella facile tentazione di far rientrare nel fenomeno del “mobbing” qualsiasi provvedimento relativo allo svolgimento di compiti e mansioni del lavoratore: il requisito minimo necessario (ma non sufficiente) per la configurabilità del fenomeno in esame è che esso trovi origine in condotte e/o atti illeciti reiterati.

 

2) Rilevanza giuridica del “mobbing” nell’esperienza europea.

Le problematiche connesse al “mobbing” sono venute primariamente in evidenza nel mondo dei rapporti di lavoro privati nei paesi più industrializzati ove il fenomeno è già più volte giunto all’attenzione della scienza medico-legale e del lavoro approdando anche ad alcune regolamentazioni legislative nei paesi nord-europei, ove vi è una maggiore cultura della difesa dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

Infatti l’emarginazione dal lavoro, ingiustamente attuata attraverso il depotenziamento e la demotivazione del singolo lavoratore, ha ricevuto una sua positivizzazione primariamente nei paesi scandinavi, mentre in Italia pur non essendo stata emanata alcuna specifica norma, essa è stata fatta oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali che ne hanno fornito una ricostruzione unitaria e meritevole di tutela.

Peraltro il Parlamento Europeo ha approvato recentemente un ordine del giorno (AS-0283/2001) che impegna la Commissione ad emanare una direttiva al fine di garantire una regolamentazione unitaria del fenomeno del “mobbing” in tutti gli Stati membri, cui è ovviamente rimessa l’emanazione di norme vincolanti all’interno dei singoli ordinamenti.

In Italia un tentativo di regolamentazione del fenomeno si è, peraltro, avuta nella dodicesima legislatura con i disegni di legge “Tapparo” e “Benvenuto” (non trasformati), il primo –in particolare- così lo delinea:

“Ai fini della presente legge vengono considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche, nell’ambito dell’attività lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore..…esse devono mirare a discreditare, screditare, danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale od informale, grado di influenza sugli altri, rimozione da incarichi, esclusione o immotivata marginalizzazione dalla normale comunicazione aziendale, sottostima sistematica dei risultati, attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione fisica o di salute”.

Nella perdurante assenza di una specifica normativa statale, si è inserita la legislazione regionale: infatti il Lazio, nell’ambito dei più ampi poteri legislativi riconosciuti dalla riforma del titolo V° della Costituzione, ha emanato la legge 11 luglio 2002 n.16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro ) la cui impugnativa da parte del governo ha portato alla pronuncia della Corte costituzionale n.359 del 2003 di cui ci si interessa in questa sede.

Va comunque sottolineato come nel nostro Ordinamento il fenomeno del “mobbing” pur non essendo oggetto di specifica regolamentazione legislativa sia già attualmente contratabile attraverso il richiamo alla norma generale di cui all’art.2087 del codice civile secondo la quale “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Proprio tale norma ha consentito il formarsi di una giurisprudenza dei giudici di merito nel nostro Paese: in particolare merita menzione la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in data 11.12.1999 con cui sono stati attentamente analizzati anche gli stati patologici sintomatici dell’esistenza di un comportamento discriminatorio giuridicamente rilevante: sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, disappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto con conseguente frequente ricorso all’uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi, e disintossicanti.

I danni alla persona che conseguono a tali condizioni patologiche sono evidenti e ben possono essere sussulti, come di seguito si dirà, nell’ipotesi del “danno biologico”.

 

3) Il mobbing nella pubblica Amministrazione.

La Costituzione repubblicana contiene alcuni importantissimi principi in materia di tutela del lavoro precisando innanzitutto all’art. 41 che ”l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la dignità umana”: sennonché di recente il problema si è posto in termini sempre più ampi tanto da diffondersi anche nel pubblico impiego ove si è certamente “slatentizzato” per l’innesto massiccio di logiche privatistiche nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione, consacrato nel D.lgs. n. 29/1993 e successive modifiche (oggi D.lgs. 30.3.2001 n. 165, come modificato dalla legge n. 145 del 2002).

L’esistenza del fenomeno nella P.A. è stata presa in considerazione anche in sede di rinnovi contrattuali: ad esempio il C.C.N.L. comparto “ministeri” 2002-2005 all’art. 6 prevede l’istituzione di un comitato paritetico sul mobbing a seguito della condivisa constatazione che nelle pubbliche amministrazioni sta emergendo con sempre maggiore frequenza tale fenomeno ; inoltre, all’art. 13, sotto la rubrica “codice disciplinare” è prevista la possibilità di irrogare la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a un massimo di dieci giorni …….per “ sistematici e reiterati comportamenti aggressivi, ostili e denigratori che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di altro dipendente “.

Il fenomeno nella pubblica amministrazione è esteso a “macchia di leopardo”: così in alcuni settori esso ha avuto maggiore presa come nel mondo della sanità ove ha trovato un terreno particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra personale medico e paramedico, fra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale alla quale ultima sono stati commessi, dalle più recenti leggi di riforma, poteri decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità tali da poter sfociare in forme di vero e proprio arbitrio, non facilmente sindacabili nemmeno dall’Autorità Giudiziaria.

Anche in seno alle autonomie locali si sono registrati comportamenti mobbizzanti ad esempio nei confronti dei segretari comunali, dopo le recenti leggi di riforma della categoria, che ne hanno ampliato le ipotesi di rimuovibilità.

Il fenomeno delle privatizzazioni di interi settori dell’Amministrazione (vedasi da ultimo la “Cassa depositi e prestiti”) nonché l’emanazioni di leggi che tendono ad estendere i moduli privatistici della scelta fiduciaria dei dipendenti nella P.A. con frequente ricorso ad assunzioni esterne effettuate senza alcun previo concorso contribuiscono certamente all’espandersi del fenomeno e non sembrano diminuire nonostante la constatazione delle obiettive controindicazioni: così di recente vi è stata la legge n. 145 del 2002 che ha ampliato tali possibilità (c.d. “spoil-sistem), inserendo anche un elemento di valutazione politica nelle nomine di vertice, nonostante l’art. 98 della Costituzione parli di pubblici dipendenti al servizio esclusivo della Nazione (e non di questa o quella maggioranza parlamentare !).

Tali normative costituiscono certamente terreno fertile per l’accrescersi del mobbing nel pubblico impiego, ove si caratterizza per condotte in parte diverse da quelle usualmente studiate nel lavoro privato quali quelle concretizzantesi in immotivati scavalcamenti in carriera.

Dall’esame della casistica fin qui emersa si può infatti rilevare come nel pubblico impiego (privatizzato) la principale causa di possibili atteggiamenti “mobbistici” è da ricercare nella richiamata attuale tendenza legislativa che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità dell’agire amministrativo, sacrificandoli sull’ “altare” di un malinteso efficientismo che certo non è un principio antitetico ai primi come testimonia l’art.97 della Costituzione, ove si parla di “buon andamento della P.A.”.

In questo contesto l’attribuzione di una funzione dirigenziale a persona esterna all’Amministrazione da parte dell’organo politico (ex art.19 D.lgs.165/2001) in dispregio del curriculum e dell’anzianità di servizio di altri aspiranti a quella carica provenienti dai ruoli dell’Amministrazione interessata può divenire un fatto “mobbistico” ed essere contemporaneamente difficilmente perseguibile in sede giudiziaria essendo sostanzialmente consentito dalla legge al fine di garantire il presunto efficiente funzionamento della struttura.

Analogamente è a dirsi per quanto attiene alle nomine dei primari di reparto operate dai Dirigenti del Servizio sanitario nazionale di cui all’art.26 del D.lgs.165/2001, o nel settore della pubblica Istruzione, ove il sempre più ampio margine di discrezionalità dei dirigenti nell’affidamento e nella valutazione dei servizi pre-ruolo può anche configurare ipotesi di comportamenti mobbistici.

E gli esempi potrebbero continuare anzi c’è il concreto rischio che nel pubblico impiego privatizzato il frequente cumularsi delle inefficienze del previgente sistema con i vizi del nuovo finisca per dare un poderoso “contributo” all’arricchimento della casistica del “mobbing”: si avverte, infatti, un crescente e generalizzato malessere nei diversi settori attraverso i quali si articola l’amministrazione pubblica, generato da crescenti condotte asseritamente vessatorie perpetrate nei confronti dei dipendenti.

Se in passato la rigidità strutturale ed organizzativa delle amministrazioni comportava la conseguenza che il lavoratore venisse preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente modificabili almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale sistema di gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando verso moduli e modelli di funzionamento “aziendalistici” mutuati dal settore privato, ha provocato l’attenuarsi di tale garanzia al fine di perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

Il vincolo di fiduciarietà tra gli organi di direzione politica e gli organi di gestione, che secondo il legislatore deve rappresentare una linea guida per la riforma del nostro sistema amministrativo, in modo da renderlo efficiente ed efficace nel perseguimento degli obiettivi prefissati in sede politica attraverso le diverse tipologie di atti di programmazione a cui deve ricondursi l’attività gestionale -pur condivisibile in linea di principio - nella prassi applicativa può facilmente prestarsi a connivenze, complicità o parzialità che possono integrare gli estremi del comportamento “mobbizzante” nel pubblico impiego.

La complessiva rilevanza del fenomeno del “mobbing” pur senza destare allarmismi, non va dunque sottovalutata se è vero come è vero che L’INAIL ai sensi dell’art.10 comma 4 del D.lgs. 38/2000 lo ha inserito negli studi sulle nuove patologie professionali: in questo contesto si è inserita la controversia approdata alla Corte Costituzionale

 

4) La sentenza n.359 del 2003

Si è detto che in Italia il fenomeno del “mobbing” non ha ancora avuto una specifica regolamentazione ed in tale vuoto si è inserita la regione Lazio che ha emanato la legge n.16 del 11 luglio 2002 recante “disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro” ritenendo di essere competente a legiferare in tale materia a seguito dell’attribuzione dei più ampi poteri legislativi riconosciuti alle regioni dalla recente riforma del titolo V° della Costituzione.

La predetta normativa si articola in sette disposizioni di contenuto più che altro programmatico: l’art.1 individua gli ambiti di operatività della legge stessa autoqualificandosi come disciplina provvisoria “in attesa dell’emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia” ; l’art.2 dà la definizione del mobbing,riprendendo le conclusioni cui è pervenuta la dottrina gius-lavoristica ed individuando una serie di atti che possono concretizzare il fenomeno ; l’art.3 prevede la possibilità di iniziative da parte degli organi paritetici di cui all’art.20 del D.lgs. 19 settembre 1994 n.626 (in tema di sicurezza sul lavoro) ; l’art.4 stabilisce che le aziende sanitarie locali istituiscono o favoriscono l’istituzione di appositi centri per fornire assistenza al lavoratore mobbizzato; l’art.5 incentiva le attività degli enti locali di prevenzione del mobbing ; l’art.6 istituisce un Osservatorio regionale per lo studio del mobbing ; l’art.7 determina, infine, gli stanziamenti in favore delle ASL per l’istituzione degli osservatori e per le iniziative degli enti locali.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, premettendo che lo Stato intende produrre principi legislativi in materia,in assenza dei quali non vi sono “spazi vuoti” nei quali le regioni possono considerarsi libere di legiferare ha impugnato l’intera legge in rassegna adducendo a norme parametro violate gli artt.117,secondo comma lett. l) e g), 81 e 119,quarto comma, della Costituzione.

Ha evidenziato come la definizione del mobbing e l’individuazione degli atti che lo concretizzerebbero verrebbe ad incidere sulla disciplina civilistica dei rapporti di lavoro subordinato regolati dal diritto privato nonché sulla disciplina pubblicistica dei residui rapporti di pubblico impiego statale.

Pertanto ha eccepito che l’art.2 contrasterebbe con l’art.117,secondo comma,lett. l) (ordinamento civile) e lettera g) (per il caso in cui il datore di lavoro sia un’amministrazione statale ) della Costituzione che appunto riserva tali materie alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

La regione Lazio, costituitasi in giudizio, ha sostanzialmente sostenuto la natura programmatica e di mera valenza socio-politico-culturale della normativa censurata, peraltro autodefinita “provvisoria” in attesa dell’intervento statale.

La Corte costituzionale, con la sentenza in rassegna, ha accolto le tesi del Presidente del Consiglio dei Ministri con una ampia motivazione con cui ha innanzitutto ripercorso le acquisizioni della moderna sociologia in materia di mobbing giungendo ad evidenziare che una disciplina legislativa di tale materia può avere un triplice oggetto in quanto può riguardare: a) la prevenzione e la repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno ; b) le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l’ìindividuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno ; c) il regime degli atti e dei comportamenti posti in essere dalla vittima come reazione a quanto patito.

La Corte riconosce, poi, come l’ assenza di una specifica disciplina normativa del mobbing non abbia impedito ai giudici di merito l’adozione di vari provvedimenti reintegratori e risarcitori per apprestare adeguate forme di tutela, prevalentemente fondati sull’art.2087 del cod.civ.

Da tanto il giudice delle leggi fa discendere solidi argomenti per affermare che la disciplina del mobbing,valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell’ordinamento civile (art.117,secondo comma,lett.l) mentre, sotto il profilo della salute del lavoratore è inquadrabile nella tutela e sicurezza del lavoro nonchè nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l’ampiezza che le si debba attribuire (art.117, terzo comma della Costituzione).

Si versa, cioè,ancora una volta in una materia dai molteplici contorni per la quale è prevista una competenza legislativa esclusiva dello Stato o, al più, concorrente.

Tanto premesso il Giudice delle leggi passa ad un’attenta disamina delle disposizioni della legge regionale impugnata per verificare la loro compatibilità con le norme parametro evocate e giunge alla conclusione che la legge della regione Lazio n.16 del 2002, contenendo nell’art.2 una definizione generale del fenomeno del mobbing detta norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali riservati, nelle materie a potestà legislativa concorrente, alla competenza dello Stato.

Poiché poi tale norma costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, il giudizio di illegittimità costituzionale non può che estendersi all’intero testo legislativo regionale.

La Corte costituzionale infine evidenzia come l’intera legge si fondi sul presupposto (da ritenere contrastante anche con l’attuale assetto costituzionale dei rapporti stato-regioni ) secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano in via provvisoria poteri generali di legiferare: esse infatti possono sì intervenire, anche con atti normativi, ma al solo fine di predisporre misure di sostegno volte a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze.

 

5) La tutela del lavoratore “mobbizzato”

La rilevata assenza nel nostro Ordinamento di norme specifiche sul mobbing non rende certamente privo di tutela giurisdizionale chi è ne rimane vittima: sotto il profilo sostanziale si può parlare di una rilevanza sia penale che civile del fenomeno.

Va infatti affermato che l’attività persecutoria posta in essere dal detentore di poteri decisionali capaci di incidere nell’altrui sfera giuridica, ove provata, costituisce un atto illecito, cioè un atto che devia dai canoni della corretta attuazione del sinallagma contrattuale e che è meritevole di sanzione da parte dell’Ordinamento giuridico.

Le varie condotte che la psicologia e la sociologia del lavoro riconducono alla generale categoria del mobbing, ben possono essere valutate dalla giurisprudenza ai fini dell’approntamento di adeguate forme di tutela attraverso l’utilizzo di norme giuridiche vigenti come gli artt. 2043, 2087 e 2103 c.c. sul piano civilistico, o gli artt. 59, 594, 595 e 610 c.p. sul piano penalistico: iniziamo con l’interessarci di tale ultima evenienza (meno frequente) per poi fermarci diffusamente sulla prima.

Le condotte di mobbing possono essere sussunte, nei casi più gravi, nelle seguenti fattispecie incriminatici:

-art.590 c.p.: “lesioni personali colpose”, con cui si sanziona in via generale la condotta di colui che cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti ;

-art.610 c.p.: “violenza privata” con cui viene sanzionata la condotta di chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa;

-art.594 c.p.: “ingiurie”, con cui si sanziona la condotta consistente nell’offendere l’onore o il decoro di una persona presente, anche quando l’ingiuria è commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta ;

-art.595 c.p.: “diffamazione”, che punisce il comportamento di chi lede la reputazione di un soggetto non presente al fatto ;

-artt.609-bis c.p. e sg.: che puniscono varie tipologie di comportamenti che violano la libertà sessuale della vittima (in materia di lavoro particolare importanza acquistano le c.d. “molestie sessuali”)

Statisticamente, però, è la strada della tutela civile, restitutoria o risarcitoria, ad essere più percorsa in ipotesi di “mobbing”: nel caso in cui venga accertata in capo al datore di lavoro, al dirigente o a colleghi la responsabilità per comportamenti di mobbing, vengono in evidenza diverse tipologie di danni risarcibili.

In linea generale è pacifica la risarcibilità del danno patrimoniale, di quel danno, cioè, che incide sulla capacità di lavoro e di guadagno del dipendente e che consiste nel danno emergente e nel lucro cessante che siano conseguenza immediata e diretta della condotta lesiva (art.1223 c.c.).

Di tale danno potrà essere chiesto il risarcimento in tutte le ipotesi di responsabilità aquiliana (extracontrattuale ex art.2043 c.c.) o contrattuale (2087, 2103 c.c): nel primo caso per giungere all’affermazione di responsabilità per il danno subito dalla vittima, quest’ultima è chiamata a provare: a) la condotta antigiuridica dell’agente ; b) la colpevolezza del soggetto agente (dolo o colpa) ; c) il danno patito ; d) il nesso causale che lega il danno alla condotta lesiva del mobber.

Ovviamente l’applicazione di tale normativa alle ipotesi di mobbing presenta alcune difficoltà sotto il profilo probatorio sia per quanto concerne il profilo dell’antigiuridicità delle condotte vessatorie del mobber, sia per quel che riguarda il nesso di causalità tra tali comportamenti e le patologie psico-fisiche manifestate dalla vittima.

La responsabilità contrattuale del datore di lavoro deriva, invece, dall’art.2087 del codice civile che dispone espressamente:

“ l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “.

Tale norma, sulla base di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, obbliga il datore di lavoro non solo ad adottare tutte quelle misure di protezione tassativamente imposte dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma lo vincola anche all’applicazione di quelle misure generiche di prudenza e diligenza necessarie finalizzate a garantire una tutela effettiva dell’integrità psico-fisica del lavoratore, anche da iniziative dei suoi colleghi.

Nel caso in cui al lavoratore venga impedito il normale e completo svolgimento delle mansioni di sua competenza, o in cui venga comunque mortificato nelle sue capacità o aspettative professionali, è risarcibile anche il danno alla professionalità che ha una componente complessa, cioè non solo patrimoniale ma anche esistenziale, in quanto connessa al danno da immagine professionale.

Più recentemente ha iniziato ad affermarsi in giurisprudenza la risarcibilità del danno c.d. “biologico” che è di natura non patrimoniale e consiste nella menomazione dell’integrità psico-fisica della persona in quanto tale e, dunque, non collegato alla capacità di guadagno, ma alla totalità dei riflessi pregiudizievoli rispetto alle funzioni naturali del soggetto nel suo ambiente di vita.

Ad esclusione di quello meramente patrimoniale, tali danni sono liquidati dal giudice in via equitativa ex art.1226 c.c., come meglio vedremo nel prossimo paragrafo.

Sotto il profilo processuale il lavoratore, pubblico o privato,che ritiene di essere “mobbizzato” può certamente trovare una prima forma di tutela giudiziale nell’invocazione di provvedimenti d’urgenza di tipo inibitorio innanzi al giudice del lavoro(vedasi Pretura Milano, ordinanza 31.1.1997) e, tuttavia, tale ipotesi non sembra di facile realizzazione anche per la mancanza di norme processuali “ad hoc”: si può far comunque ricorso all’art. 700 c.p.c. che consente una tutela urgente di tutte quelle situazioni ritenute meritevoli di tutela da parte dell’Ordinamento Giuridico e per le quali questo non abbia approntato apposite azioni.

Il provvedimento richiedibile al Giudice del lavoro – in chiave sostanzialmente preventiva – è quello di inibizione di determinate condotte ritenute dannose: manca però un’immediata sanzionabilità dell’omessa ottemperanza, come accade – ad esmpio- in materia di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 della L. n. 300 del 1970.

Tralasciando gli aspetti penali che, come abbiamo visto, non sono di facile configurabilità, la via giudiziale più praticata in ipotesi di comportamenti mobbistici giuridicamente rilevanti è quella delle azioni civilistiche di tipo risarcitorio innanzi al Giudice Ordinario.

Infatti, anche in ipotesi di rapporti di lavoro pubblico “privatizzato”, il massimo consesso della Giustizia amministrativa con l’ordinanza n.6311 del 6.12.2000 prendendo per la prima volta in esame il concetto di “mobbing “ nel pubblico impiego ha affermato che è competente l’Autorità giudiziaria ordinaria a decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico ad esso conseguente.

Tale decisione viene motivata con la considerazione che la giurisdizione in tal materia appartiene alla magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie “sanitari”) atteso che l’art.33 comma 2 lettera e) del D.lgs. n.80/1998, nel testo modificato dalla legge 21.7.2000 n°205, esclude dalla giurisdizione amministrativa “le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o alle cose”.

Dunque può adirsi il giudice ordinario con azione tesa ad ottenere la condanna dell’ente o società datore di lavoro di appartenenza al risarcimento del danno derivante da “mobbing”: particolare interesse riveste la richiesta di risarcimento del danno biologico che ha trovato la sua prima definizione in sede legislativa con il comma 3 dell’art.5 della Legge n.57 del 2001 che (seppure ad altri fini) lo ha definito come “lesione all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale “ che “è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.

L’ipotesi del risarcimento del danno biologico è quella che statisticamente dovrebbe, dunque, essere preminente: essa postula un duplice accertamento fattuale: innanzitutto relativo alla sussistenza di un atteggiamento ingiustificatamente vessatorio (da provarsi attraverso prova testimoniale e/o documentale, informazioni sindacali, etc. ) e, solo successivamente, l’accertamento dell’esistenza di effetti pregiudizievoli per l’equilibrio psico-fisico del dipendente direttamente connessi al fatto “mobbistico “, accertamento da compiersi essenzialmente attraverso un’attenta consulenza medico-legale (i parametri applicabili sono quelli universali al pubblico ed al privato, del disagio psico-fisico,come descritti in una eccellente sentenza resa dal Tribunale di Torino in data 11.12.1999.

Successivamente a tale duplice accertamento si potrà procedere alla determinazione del risarcimento del danno da effettività uarsi probabilmente in via equitativa ex art.1226 c.civ. senza il ricorso a criteri egualitari o comunque unicamente fondati sul “reddito del lavoratore”.

In proposito va tenuto presente che a seconda che si agisca a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale cambiano alcuni rilevanti elementi dell’azione: nel primo caso competente sarà il giudice del lavoro e il ricorrente dovrà innanzitutto provvedere a richiedere il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art.410 c.p.c. e, quindi, avrà l’onere di provare il solo danno e il rapporto di lavoro mentre il giudice dovrà tener conto del limite della “prevedibilità del danno” di cui all’art.1225 del codice civile, ove non sia provato il dolo del debitore.

Nel secondo caso si andrà dinnanzi al Giudice ordinario in sede civile, si sarà sottoposti all’onere di provare la sussistenza di tutti gli elementi di cui all’art. 2043 del codice civile, ma la risarcibilità del danno non incontrerà alcun limite della prevedibilità.

Inoltre mentre per la responsabilità contrattuale vi è un termine prescrizionale decennale, decorrente dal fatto dannoso solo in ipotesi di tutela reale del posto di lavoro, per la responsabilità extracontrattuale vi è un termine quinquennale, decorrente dal verificarsi del fatto illecito dannoso.

Chi invoca il risarcimento sulla base dell’art.2087 c.c., è agevolato sul piano probatorio in quanto dovrà dimostrare soltanto l’inadempimento del datore di lavoro, mentre toccherà a quest’ultimo, ex art.1218 c.c., provare che lo stesso è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Il lavoratore dovrà, pertanto, limitarsi a provare il danno subito e il rapporto di causalità tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza e prevenzione ed il danno predetto, mentre grava sul datore di lavoro, ai fini dell’esclusione della responsabilità, la prova di avere adottato tutte le cautele necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

L’analisi della recente giurisprudenza in tema di mobbing evidenzia come, almeno fino ai tempi recenti, non vi sia stato un approccio unitario al fenomeno mentre si è preferito intervenire sanzionando questo o quel comportamento vessatorio senza provvedere ad elaborare strumenti generali di tutela: tale situazione ha iniziato a modificarsi a seguito di alcune recenti pronunce del Tribunale di Torino (a partire da quella 16.11.1999) che, per la prima volta, hanno recepito nel nostro sistema giuridico la categoria psico-sociale del mobbing segnando un significativo punto di svolta rispetto all’approccio tradizionalmente seguito fino ad allora dalle Corti italiane.

Per la prima volta, con esse, un giudice italiano ha fornito tutela giuridica alle condotte vessatorie patite dai lavoratori configurandole espressamente come “mobbing”.

Si tratta di due sentenze che, pur riguardando tipologie differenti di comportamenti mobbizzanti, seguono sostanzialmente il medesimo impianto decisionale: a) individuazione del concetto giuridico di mobbing attraverso il meccanismo del fatto notorio ex art. 115 –2°co. c.p.c. ; b) accertamento delle condotte datoriali vessatorie e loro qualificazione quale espressione del fenomeno mobbing, c) affermazione della responsabilità del datore di lavoro ex artt. 32 Cost., 2087 c.c. e 2103 c.c.; d) condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa.

Non va dimenticato che, nel settore pubblico, una condanna della P.A. per danno da mobbing (di qualsiasi genere) può comportare, tra le altre conseguenze, un danno per l’Erario di cui l’autore può essere chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei Conti in sede di giudizio di responsabilità amministrativa.

E’ un’ipotesi tutt’altro che scolastica se è vero come è vero che di essa se ne è interessato recentemente, seppure con pronuncia a carattere processuale, il Consiglio di Stato in una controversia intentata da una dipendente dell’ AUSL n°5 di Crotone che aveva convenuto in giudizio l’azienda di appartenenza per ottenere il risarcimento del danno biologico da “mobbing”.

 

6) Conclusioni.

La sentenza della Corte costituzionale n. 359 del 2003, consente – ad avviso di chi scrive- un duplice serie di considerazioni: una sul riparto di competenze legislative fra Stato e regioni e uno sullo stato della tutela apprestata dal nostro Ordinamento nei confronti del fenomeno “mobbing”.

Sotto il primo profilo essa si inserisce in quella corrente di pronunce con cui la Corte sta cercando di chiarire i confini fra il potere legislativo statale e quello delle regioni, specie dopo la recente riforma dell’art. 117 della Costituzione che ha attribuito a queste ultime una competenza legislativa generale, ad eccezione delle materie riservate alla legislazione, esclusiva o concorrente, dello Stato espressamente indicate nei commi secondo e terzo di detto articolo.

Ancora una volta la Corte ha dovuto ribadire la sussistenza della competenza legislativa statale evidenziando come – in base all’assetto costituzionale dei rapporti Stato-regioni – queste ultime –in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale (come il “mobbing”), non abbiano nemmeno in via provvisoria poteri illimitati di legiferare.

Si tratta di una di quelle pronunce che forse potrà “irritare” i più accesi regionalisti che in essa troveranno ulteriori motivi per invocare una modifica nella composizione dell’Alta Corte, ma in realtà si tratta dell’ennesimo altissimo insegnamento sull’assetto dei rapporti Stato-regioni alla luce delle modifiche costituzionali intervenute e anche in vista di quelle ulteriori paventate per il futuro.

In altri termini le dimensioni relativamente ridotte del nostro Stato e la intima uniforme pervasività dei fenomeni sociali e culturali che lo interessano rende inutile, costoso e pleonastico il tentativo di dar vita a singole regolamentazioni regionali di fenomeni identici sicchè si finisce spesso con il ricalcare le norme statali o con l’ aggiungere particolari irrilevanti: il nodo della legislazione concorrente va dunque sciolto, ma con l’attribuzione alle regioni della potestà legislativa in un novero di materie veramente limitato, essendo molte di quelle attualmente elencate nel terzo comma dell’art. 117 della Costituzione ineludibilmente bisognose di una disciplina unitaria a livello nazionale se non europeo.

Il caso della legge della regione Lazio n. 16 del 2002 ci sembra confermi tale teoria in quanto la stessa regione nel costituirsi nel giudizio di legittimità costituzionale aveva evidenziato come “sia lo spirito della legge che il dato letterale chiariscono la natura programmatica e di mera valenza socio–politico-culturale della stessa“.

Sotto il secondo profilo, la sentenza in commento, recependo i più recenti risultati cui è pervenuta la sociologia e la giurisprudenza di settore ha sostanzialmente evidenziato come già allo stato attuale della legislazione esista un elevato livello di protezione dalle condotte mobbistiche grazie alla vigenza di norme generali nelle quali tali condotte possono essere sussunte.

Dal che può discendere, ad avviso di chi scrive, l’opportunità di rimeditare l’effettiva esigenza di emanare una normativa specifica sul mobbing che potrebbe correre il rischio di cristallizzarne condotte ed effetti.

Una notazione particolare merita infine il mobbing nella pubblica amministrazione: qui è auspicabile una rivalutazione del primato del principio di legalità dell’azione amministrativa in uno al pieno utilizzo degli organi di controllo interno per monitorare la situazione dei dipendenti sotto il profilo non solo del loro rendimento, ma anche della corretta gestione delle risorse umane.

Solo il costante impiego di tali metodiche eviterà un prevedibile massiccio ricorso alla giurisdizione per reprimere le più varie condotte asseritamente mobbistiche configurabili nel pubblico impiego, con la conseguente lievitazione di cause per risarcimento del danno biologico da mobbing.

Ove insorga un contenzioso di tal genere è, peraltro, necessaria un’attenta e non preconcetta attività istruttoria da parte del Giudice al fine di evitare di incorrere nell’errore di considerare mobbismo ogni provvedimento organizzatorio della P.A.: non sono e non possono, ad esempio, considerarsi ingiusti i richiami allo svolgimento dei compiti e delle mansioni, le sollecitazioni e l’assegnazione di termini temporali e scadenze congrue comunque correlate ad esigenze di servizio, i procedimenti disciplinari attivati in relazione ad inadempimenti, etc.

Insomma va anche evitato che un fenomeno sociale rilevante come il mobbing diventi l’ennesima occasione per un uso strumentale della Giustizia più che altro finalizzato a costituire un nuovo filone di contenzioso destinato (al di là dei casi di effettiva verificazione) ad arricchire pochi e a danneggiare le pubbliche finanze e, quindi, tutti i cittadini-contribuenti.

 

 MICHELE ORICCHIO

Consigliere della Corte dei conti

 

Documenti correlati:

CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 19 dicembre 2003* (dichiara costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16, la quale dettava disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro)

M. BARBERO, Nota di commento a Corte Cost. 359/2003.

 

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