Obbligo di ricollocazione in altre mansioni del lavoratore colpito da sopravvenuta inidoneità

 

  1. Premessa

2. Il vecchio orientamento assertore del libero recesso ex art. 1464 c.c.

3. Il nuovo orientamento delle sezioni unite civili della Cassazione affermato con la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998, preceduto dalle sentenze nn. 5961 e 7908 del 1997 della sezione lavoro

4. Le fattispecie esaminate dal nuovo orientamento ed i conseguenti principi asseriti

5. Precedenti giudiziari e dottrinali e considerazioni finali

 

1. Premessa

 

Prendiamo atto, con una non dissimulata soddisfazione, del nuovo orientamento affermato autorevolmente dalla decisione n. 7755 del 7 agosto 1998 delle sezioni unite civili della Cassazione (1)  che ha confermato e valorizzato le precedenti, conformi, statuizioni della sezione lavoro della stessa Suprema corte, di cui rispettivamente alla sentenza 3 luglio 1997, n. 5961 (2) ed alla successiva e quasi coeva del 23 agosto 1997, n. 7908 (3), entrambe precedute da Pret. Roma 2 dicembre 1996 (4). E’ infatti da quasi 15 anni – a partire dal nostro commento a Cass. n.140/1983, titolato “Un’opinabile inversione di valori: il diritto dell’impresa di adibire il lavoratore a mansioni diverse per esigenze produttive, non corrisposto per il lavoratore in caso di sopravvenuta menomazione dello stato di salute” (5) - che chi scrive sta sostenendo, pressoché  isolatamente, l’opinione secondo cui  al lavoratore che, durante lo svolgimento del rapporto, sia incorso in una condizione di inidoneità psico/fisica parziale (quand’anche definitiva e non temporanea) alle mansioni di assunzione (o di successiva assegnazione, nei termini ex art. 2103 c.c.), va accordato il diritto di svolgere mansioni diverse, sempre che siano sussistenti in azienda. Con la conseguenza  che grava sul datore di lavoro un obbligo di reperimento e di assegnazione delle mansioni più consone al mutato stato di salute, legittimandosi la risoluzione del rapporto, per giustificato motivo oggettivo, solo nel caso in cui risulti provato  dal datore di lavoro che in azienda non sussistono, per il lavoratore aggravato in salute, mansioni idonee a tutelare il suo interesse alla conservazione dell’occupazione (fondato sull’art. 4 Cost.) e il suo diritto, ex art. 2087 c.c., alla salvaguardia dell’integrità psico/fisica.

Da ultimo abbiamo riproposto la nostra opinione  in un articolo aggiornato, titolato “Il diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall’art. 2103 c.c. all’impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità psico/fisica”(6), al quale rinviamo il lettore interessato ad approfondimenti  in ordine alla trattazione della tematica, addizionali agli scarsi  accenni che effettueremo in questo breve articolo.

 

2. Il vecchio orientamento assertore del libero recesso ex art. 1464 c.c.

 

La decisione n. 7755 delle sezioni unite civili (e le precitate, antecedenti, della sezione lavoro) accolgono la nostra impostazione radicata nel sociale e nel diritto vivente piuttosto che nell’arido diritto privato delle obbligazioni, verso il quale hanno mostrato la loro propensione gli estensori della steorotipata massima sinora imperante – ed attualmente rifiutata dall’odierno nuovo orientamento che ha inaugurato un nuovo corso giurisprudenziale più aderente alla scala di prevalenza interna ai diversi valori accolti e tutelati dalla nostra Costituzione – massima che era divenuta espressione di sintesi  di un vecchio quanto consolidato principio (che riproponiamo perché se ne colga  anche tutta l’intrinseca iniquità) che così si esprimeva: “La sopravvenuta impossibilità  del lavoratore, per condizioni fisiche o psichiche, di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto e alle quali è stato in concreto destinato, secondo le esigenze dell’impresa, costituisce, ove non sia ricollegabile a casi di sospensione legale del rapporto (art. 2110 c.c.) e si prospetti di durata indeterminata o indeterminabile, giustificato motivo di recesso per il datore di lavoro ai sensi della seconda ipotesi dell’art. 3 L. 15/7/1966 n. 604, ancorché il datore di lavoro medesimo abbia nella propria azienda attività con mansioni confacenti alle condizioni del lavoratore; invero, salvo il caso di espressa previsione di legge o di contratto, non ricorre, in via generale, un diritto del lavoratore al mutamento delle mansioni pattuite, in relazione alle sue condizioni di salute; la legittimità di tale licenziamento può essere esclusa solo qualora il lavoratore ne deduca e dimostri la pretestuosità, per avere il datore di lavoro profittato di quella situazione al fine di recedere ingiustificatamente dal contratto” (7).

 

3. Il nuovo orientamento delle sezioni unite civili della Cassazione affermato con la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998, preceduto dalle sentenze nn. 5961 e 7908 del 1997 della sezione lavoro

 

Il nuovo orientamento delle sezioni unite che di seguito illustreremo così, invece, si esprime : “La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt.1 e 3, legge n. 604 del 1966 e 1463, 1464 del codice civile), non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (articolo 2103 del codice civile) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purchè questa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”(Cass. sez. un. n. 7755/1998).

Il principio soprariferito può essere più chiaramente compreso se correlato e “tradotto” dalle tre seguenti massime di conformi decisioni:

    a)      “La sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansioni assegnategli autorizza il datore di lavoro a recedere dal rapporto, a condizione che egli dimostri, a norma degli artt. 1464 c.c. e 3 l. n. 604/1966, di non aver alcun interesse apprezzabile a utilizzare il proprio dipendente in mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte e compatibili con lo stato di salute del medesimo; tale onere  probatorio si estende fino alla dimostrazione dell’inesistenza di altra possibile collocazione equivalente in azienda”(così Pret. Roma, 6.12.1996, cit.);

    b)      “Nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni affidategli, determinante una parziale impossibilità della prestazione, il datore di lavoro può, a norma dell’art. 1464 c.c., risolvere il rapporto, ove non abbia un apprezzabile interesse all’adempimento parziale; tale opzione datoriale, tuttavia, concretandosi nell’esercizio del potere di licenziamento, va esercitata nel rispetto dei principi della l. n. 604 del 1966, con particolare riferimento  agli artt. 1 e 3. Ne consegue che può ritenersi legittimo il recesso del datore di lavoro solo quando sia provata l’impossibilità di adibire il lavoratore, la cui prestazione sia divenuta parzialmente impossibile, a mansioni equivalenti e compatibili con le sue residue capacità lavorative, senza che ciò comporti una modifica dell’assetto aziendale” (così Cass.  n. 7908/1997, cit.);

    c)      E’ soggetto  a responsabilità risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni che sebbene corrispondenti alla sua qualifica siano suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) -  di metterne in pericolo la salute. L’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di una interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui all’art. 1375 c.c. – che funge da parametro di valutazione comparativa degli interessi sostanziali delle parti contrattuali – inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione con altro dipendente nei compiti più usuranti. Quando ciò non sia possibile, il datore di lavoro può far valere l’infermità del dipendente quale titolo legittimante il recesso ed addurre l’impossibilità della prestazione per inidoneità fisica – in applicazione del generale principio codicistico dettato dall’art. 1464 c.c. – configurandosi un giustificato motivo oggettivo di recesso per ragioni inerenti all’attività produttiva,  all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute” (così Cass. n. 5961/1997, cit.).

Va invero detto che non erano mancate marce di avvicinamento dei giudici della Cassazione verso l’orientamento da noi prospettato e sostenuto  sia sulla base del richiamo ad un immanente dovere dell’impresa, quale comunità intermedia ex art. 2 Cost., di farsi carico per la sua parte dei problemi che si attualizzano al suo interno (piuttosto che delegarli alla collettività o allo Stato) ovvero sulla base del dovere morale di cooperazione affinché, ex art. 4 Cost.,  per ogni cittadino il diritto/dovere al lavoro si attualizzi con un disimpegno o svolgimento “secondo le proprie possibilità…”, ovvero ancora invocando una prevalenza dell’art. 32 Cost. in tema di “tutela dello stato di salute”- attualizzato nell’art. 2087 c.c. - sul diritto costituzionale di iniziativa economica e organizzativa dell’impresa, ex art. 41 Cost., fonte del riconosciuto ius variandi datoriale, per esigenze organizzativo produttive, che non può che arrestarsi a fronte dei valori della “sicurezza, libertà e dignità umana”(cfr. art. 41 Cost., 2° co.) dai quali è permeata la fattispecie della sopravvenuta inidoneità incolpevole del lavoratore ad esplicare le mansioni d’assunzione.

In particolare la Cassazione avreva lasciato intravedere un obbligo aziendale di reperimento di mansioni ( o di modalità di disimpegno delle stesse) più consone al mutato stato di salute, richiamandosi prudentemente al dovere di cooperazione nell’adempimento della prestazione, secondo buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., cui è obbligato il creditore-datore di lavoro, tenuto ad evitare o eliminare gli effetti di eventuali ostacoli nell’esecuzione dell’obbligazione del lavoratore.

Al riscontro di questi, ancor prudenti e timidi segnali, nel commento ad una sentenza (8) concludemmo “auspicando ed attendendo maggiori e più coraggiose progressioni della magistratura di legittimità…affermando al tempo stesso che le idee ispirate al reale solidarismo e rispetto dell’uomo, si fanno strada nella coscienza dei giusti e si affermano, sia pure con lentezza e gradualità apparentemente eccessiva per le menti più aperte e sensibili, ma in realtà in tempi corrispondenti al processo di maturazione culturale delle componenti strutturali della nostra società”(9).

 

4. Le fattispecie esaminate dal nuovo orientamento ed i conseguenti principi asseriti

Possiamo dire che le decisioni della Cassazione, sezione lavoro, n. 5961/1997  e n. 7908/1997 (e di Pret. Roma 2.12.1996, cit.)  e infine quella del 7 agosto 1998, n. 7755 della Cassazione, sezioni unite, rispondono al sopracitato auspicio.

Nella prima decisione (n. 5961/1997) riguardante una fattispecie relativa ad un lavoratore, in età non più giovanile, colpito, in dipendenza da  stress causato dall’impegno lavorativo e dalle condizioni di espletamento della prestazione  - dipendenza o causalità accertata da consulenza tecnica d’ufficio -  da infarto miocardico, la Cassazione ha asserito che l’art. 2087 c.c., che tutela, nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, il bene della salute psico/fisica protetto dall’art. 32 Cost., fa si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro (che postula la c.d.”causa violenta” che determini una brusca rottura dell’equilibrio organico e non un evento lesivo costituente l’effetto lento e progressivo di condizioni gravose di lavoro che abbiano minato gradualmente l’organismo del prestatore, come nella fattispecie esaminata), sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria  per c.d. “danno biologico”, nel caso in cui non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più confacenti con il suo minorato stato di salute, tali da precludere un aggravamento della salute medesima.

L’obbligo  datoriale sussiste compatibilmente con la sussistenza di posizioni di lavoro confacenti  in azienda per il lavoratore inabile – ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato salute - senza naturalmente che la stessa azienda sia costretta a creare  per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo.

E la Suprema corte giunge a queste conclusioni adducendo che “i principi di correttezza e di buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 1375 c.c., richiedono – in ossequio a quanto imposto dall’art. 2087 c.c. – che il datore di lavoro, a conoscenza di un’infermità del lavoratore incompatibile con le mansioni affidategli, deve mettere in atto tutte e misure a tutela dell’integrità psico/fisica del suo dipendente, incorrendo conseguentemente in responsabilità per danni alla salute che il dipendente stesso abbia subito per essere stato indotto a continuare un’attività lavorativa che, per la sua natura e le concrete modalità di svolgimento, sia suscettibile di determinare un aggravamento delle sue già precarie condizioni di salute”. La decisione n. 7908 dell’agosto 1997, è pervenuta alle stesse conclusioni – in altra fattispecie  di operaio addetto alle mansioni di carico e scarico cui era divenuto inidoneo – argomentando dallo “obbligo di salvaguardia del posto di lavoro che trova il suo fondamento nei principi basilari della Costituzione (artt. 1, 3, cpv.4, 35) – di cui la regola della collocazione alternativa del lavoratore (c.d. repechage, n. d. r. ) non più utilizzabile nel ruolo svolto è diretta applicazione – che rimane eguale, sia che il potere risolutorio derivi da scelte imprenditoriali, sia che tragga origine da un evento attinente alla capacità produttiva del lavoratore. Naturalmente l’obbligo di ricollocazione rimane limitato al concreto assetto aziendale non imponendo, per il suo adempimento, anche un obbligo di modifica dello stesso” (assetto aziendale, n.d.r.).

Infine le sezioni unite hanno ricomposto tutti  tasselli dell’intero mosaico argomentativo asserendo che l’art. 3 della L. n. 604/1966 è una specificazione – e non una deroga -  nel campo del diritto del lavoro, degli artt. 1463 e 1464 c.c. afferenti, rispettivamente, all’impossibilità totale e parziale di adempiere. Specificazione che ha comportato l’obbligo di repechage (ovverosia di reperimento in ambito aziendale di posizioni di lavoro o mansioni alternative) nel caso in cui il datore di lavoro intenda procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cioè per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”). E, nel caso del lavoratore colpito da sopravvenuta inidoneità psico/fisica parziale, tali mansioni andranno ricercate primariamente tra quelle equivalenti a quelle di ultima assegnazione, in conformità all’art.2103 c.c., ma – in carenza – anche tra quelle inferiori, legittimandosi l’assegnazione ad esse in ragione della prevalenza del bene dell’occupazione su quello della conservazione di una professionalità (oramai vanificata dalla menomazione o dall’infermità) non più sussistente. Solo in caso di inesistenza reale in azienda di mansioni utili per l’impresa nelle quali occupare il lavoratore minorato, il datore di lavoro avrà titolo e legittimazione per la risoluzione del rapporto di lavoro, inesistenza della cui prova il datore di lavoro è  onerato  a fronte di contestazioni del prestatore di lavoro. Le sezioni unite giungono a queste conclusioni, fondandosi sul seguente ‘nocciolo’ argomentativo: “Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, deve essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione  dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del codice civile.

Ciò induce a non accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la prestazione lavorativa, il residuo interesse all’adempimento debba essere apprezzato soggettivamente – senza alcuna possibilità di controllo da parte del giudice, interprete del contratto – dall’imprenditore-creditore, a cui spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente situazione di mera soggezione del lavoratore. Ammesso che l’infermità dia sempre luogo ad un’impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi dell’apprezzamento soggettivo di tale interesse è stata seguita in giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita…, ma non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l’oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d’obbligazione nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione  all’imprenditore.

Sarà perciò il giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del prestatore ed all’organizzazione dell’azienda come definita insindacabilmente  dall’imprenditore, valuterà la persistenza dell’interesse alla prestazione lavorativa, secondo buona fede oggettiva”.

Sono le medesime conclusioni cui eravamo giunti – sebbene con differenti argomentazioni - -  noi stessi (nei citati articoli del 1983 e del 1996) quando, criticando il vecchio orientamento, asserimmo che “Le conclusioni raggiunte dall’orientamento rigorista, su di un piano di stretto diritto privato, vanno pertanto armonizzate con i principi pubblicistici in tema di promozionalità e difesa dell’occupazione (art. 4 Cost.), di non emarginazione e di integrazione sociale, di non colpevolizzazione delle minorazioni e delle flessioni dello stato di salute, principi tutti implicanti l’adattamento della prestazione – nei limiti di un riscontro organizzativo – alle mutate condizioni di salute del lavoratore. Il che significa che l’azienda non dovrà certo creare – per mero assistenzialismo – posizioni superflue ma che, al verificarsi dell’evento della “inabilità parziale”, essa dovrà verificare al suo interno  se sussistono effettive incombenze o posizioni di lavoro compatibili con la menomazione ove egualmente impiegare, con apprezzabile proficuità, il lavoratore medesimo e, correlativamente dimostrare, nel caso di ricorso al licenziamento per g.m.o.,  che esso si è imposto, quale extrema ratio, per l’assenza di alternative. In tal modo – e secondo noi correttamente – viene inserita una così delicata fattispecie nell’orientamento postulante il repechage, prima   dell’estromissione dall’azienda, orientamento consolidatosi …per legittimare, in caso di ristrutturazioni aziendali, il licenziamento per l’identica causale del giustificato motivo oggettivo”.

In buona sostanza sarà l’azienda a dover dimostrare, come in tutti i casi di licenziamento per g.m.o., l’impossibilità di riutilizzo del lavoratore in altre mansioni - primariamente equivalenti ex art. 2103 c.c. e, secondariamente, attesa l’oramai intervenuta legittimazione (10) di pattuizioni di “declassamento concordato o consensuale” (al solo scopo di evitare il licenziamento) - in mansioni anche non equivalenti ed inferiori ma suscettibili di salvaguardare il bene dell’occupazione  (più che lo stato di salute), potendo l’imprenditore – secondo le sezioni unite – rifiutare l’assegnazione a mansioni equivalenti (o anche inferiori) quando ciò “comporti aggravi organizzativi ed in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido”, precisazione quest’ultima che non inficia assolutamente la posizione della sezione lavoro che aveva suggerito lo spostamento dell’invalido da attuarsi anche secondo turn-over nelle mansioni di colleghi meno usurati (così Cass. n. 5961/1997).

Le sezioni unite, richiamando ed aderendo ad una prevalente giurisprudenza in tema di “dequalificazione consensuale”, implicitamente sembrano richiedere che l’assegnazione a mansioni inferiori dell’invalido avvenga previo consenso del lavoratore (o anche dietro assegnazione unilaterale seguita tuttavia da esplicita accettazione). Da parte di  uno dei primi commentatori della decisione in questione (11) si è obiettato che:” In questa maniera, tuttavia, richiamando l’importanza dell’accordo del lavoratore sulla dequalificazione, le Sezioni unite giungono ad abrogare direttamente una precisa disposizione di legge, secondo la quale (articolo 2103 del codice civile, ultimo capoverso) ‘Ogni patto contrario è nullo’. Una via più diritta per giungere a superare quello che, ancor oggi, costituisce un vero sbarramento alla condivisione della soluzione delle sezioni unite, sarebbe stata quella di denunciare questa disposizione dell’art. 2103 del codice civile (interpretata rigidamente) alla Corte costituzionale come sospetta di incostituzionalità (in relazione agli articoli, 1,3,4,35,36, della Costituzione). In tale denuncia di incostituzionalità, si sarebbe potuto opportunamente sottolineare come una interpretazione rigida della norma, approvata per tutelare le condizione del lavoratore, finirebbe – seppure solo in qualche caso – per tradursi in una disposizione contraria alle esigenze di dignià e libertà che la legge del 1970 intendeva originariamente tutelare”.

L’osservazione è in parte condivisibile, ma solo in parte giacchè il ricorso alla Core costituzionale va praticato quando il magistrato non riesce a trovare un’interpretazione plausibile della norma che si sottragga al vizio di incostituzionalità. Anche noi stessi, in via subordinata, in carenza di una soluzione quale quella prospettata dalle sezioni unite (ed in precedenza dalla sezione lavoro) avevano prospettato l’ipotesi della denuncia di incostituzionalità dell’art. 2103 c.c., sebbene per motivi leggermente diversi (o complementari) rispetto a quelli suggeriti dal precitato autore. Avevamo infatti ipotizzato – negli articoli del 193 e del 1996, già citati - il contrasto con l’art. 3 Cost. da parte dell’art. 2103 c.c. che, se interpretato rigidamente nel senso di accordare  solo al datore di lavoro lo ius variandi per esigenze produttive negandolo al prestatore di lavoro infirmato nello stato di salute ed impossibilitato a permanere nelle ultime mansioni, avrebbe comportato l’effetto di “privilegiare un cittadino(datore di lavoro) titolare del diritto di libertà ed iniziativa economica (ex art. 41 Cost.) a danno di un altro cittadino (prestatore di lavoro) parimenti titolare di altri diritti di rango costituzionale, quale quello “al lavo secondo le proprie possibilità…” (ex art. 4 Cost.) e alla “tutela della salute” (ex art. 32 Cost.), inibendo ( o non contemplando) per quest’ultimo la corrispondente sperimentazione di soluzioni di mobilità in altre mansioni su richiesta individuale fondata sull’infirmazione dello stato di salute”.

 

5.  Precedenti giudiziari e dottrinali e considerazioni finali

 

Le soprariferite affermazioni di principio sono peraltro conclusioni che, sia pure isolatamente, si erano potute reperire:

    a)      in talune vecchie decisioni del Tribunale di Milano (12) che avevano rispettivamente affermato che “il datore di lavoro – a tutto concedere – ha l’obbligo di adibire il dipendente divenuto  inabile a mansioni confacenti che siano esistenti, non quello di creare un posto insistente”, e che “è da ritenersi legittimo il licenziamento per sopravvenuta impossibilità della prestazione per inidoneità fisica, ove non esista in azienda una tipologia di mansioni compatibili con l’infermità fisica e col livello professionale del lavoratore”;

    b)      nonché nella più recente decisione del 30.4.1996  del medesimo Collegio (13), secondo cui: “Per valutare l’interesse all’adempimento, la cui mancanza giustifica il recesso ai sensi dell’art. 1464 c.c.(per la sopravvenuta invalidità parziale, n.d.r.) si deve tener conto in particolare della speciale tutela che la legge n.604/66 garantisce al lavoratore. Tale norma impone la verifica della giustificatezza del recesso non solo sotto il profilo delle obiettive esigenze tecnico produttive dell’impresa, ma altresì sotto il profilo della sua adeguatezza, nel contemperamento degli opposti interessi; fino a rendere doverosa la dimostrazione da parte del datore di lavoro delle ragioni ostative a un utile impiego del lavoratore in mansioni diverse da quelle parzialmente divenute impossibili”.

Riteniamo che non sarà davvero facile per le imprese di medio-grandi dimensioni dimostrare di non aver la possibilità del riutilizzo confacente del lavoratore divenuto inidoneo in corso di rapporto - per malattia o infortunio in congiunzione con la progressione in età - alle mansioni da ultimo  disimpegnate. Ma, d’altra parte, anche questi sono i prezzi di un’operazione di coerenza – in ordine all’obbligo di repechage prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – che non poteva ulteriormente tardare, considerata l’incongruenza del previgente assetto (legittimata dal vecchio orientamento in tema di libero recesso per sopravvenuta inidoneità) correttamente denunciata anche dal Presidente del Tribunale del lavoro di Milano, Dr. Mannacio (14) secondo il quale:”non è rilevabile una plausibile ragione per trattare diversamente le varie ipotesi di giustificato motivo oggettivo quanto al repechage: dunque sembrerebbe più razionale o escludere sempre tale obbligo o ammetterlo sempre”. Con ciò mostrando altresì di considerare illogica e insuscettibile di giustificare trattamenti discriminatori – a differenza di quanto lumeggiato da taluno –  quell’impostazione che  vorrebbe differenziare il  giustificato motivo oggettivo che trova origine nell’ambito dell’impresa (esubero di personale o soppressione di posto di lavoro) da quello che si attualizza per situazioni incolpevoli verificatesi nella sfera del lavoratore (inidoneità fisica), giacché finalisticamente entrambi confluiscono nell’unitario concetto legale di cui all’art. 3 L. n. 604/’66 che contempla il licenziamento per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.

Ne esce, così,  ribaltato e definitivamente sconfitto quell’orientamento prevalente – da taluno assertivamente qualificato consolidato (15)-  e quella dottrina (16) che aveva appuntato i suoi sforzi critici nei confronti della nostra impostazione e sui prodromi giurisprudenziali della sezione lavoro, confermati autorevolmente dall’attuale posizione delle sezioni unite.

Va dato altresì conto, a conclusione,  di un recente orientamento della Cassazione, manifestato nella decisione  del 5 agosto 2000, n. 10339 ( inedita allo stato) secondo cui: "Il lavoratore certificato parzialmente inidoneo alla mansione - nella fattispecie di operatore unico aeroportuale, caratterizzata intrinsecamente e principalmente dal carico e scarico bagagli e zavorra - non può pretendere di permanere nella stessa mansione venendo esonerato dal compito principale e gravoso del carico e scarico, eventualmente eliminabile dall'azienda con l'adozione, non già di mezzi in dotazione, ma di strumenti ad hoc offerti dalle nuove tecnologie, non essendo configurabile un obbligo dell'imprenditore di  acquistarli ed adottarli per porsi in condizione di cooperare all'accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di garantire la sicurezza imposta dalla legge (d.lgs. n. 626/'94). In caso di impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, sussiste invece - come affermato da Cass. sez. un.  n. 7755/'98, di cui si condivide l'orientamento - il diverso diritto di assegnazione a mansioni diverse ed equivalenti (sempreché sussistenti in azienda) ed anche inferiori, dietro manifestazione di consenso del lavoratore alla dequalificazione finalizzata alla salvaguardia del superiore interesse dell'occupazione, per la cui richiesta al datore di lavoro anche il lavoratore deve attivarsi precisando le residue attitudini professionali tali da rendere possibile all'azienda una diversa collocazione all'interno".

 

Roma, 15 novembre 2000

 

MarioMeucci

 

(pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti, in Lav. prev.oggi 1998, n. 11, p.2059 come nota a Cass. sez. un. 7 agosto 1998, n. 7755)

 

NOTE

(1) In Lav.prev.oggi 1998, pag. 2012.

(2) In Lav. prev. oggi, 1997, 2375 con commento di M. Meucci a p. 2398.

(3) In Mass. giur. lav. 1997, 871 con nota di Riccardi

(4) In Riv. it. dir. lav. 1997, II, 817, con nota di Caro.

(5) In Giust. civ. 1983, I, 3037.

(6) In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 35.

(7) Così Cass. n.1556/1976, e, recentemente, conf. Cass. 20.3.1992 n. 3517, in Mass. giur. lav. 1992, 210; Cass. 18.3.1995, n. 3174, in Giur. it. 1995, I, 1, 1635 e in Lav giur. 1995, 860; Cass.2.4.1996, n. 3040, in Not. giurisp. lav. 196, 618; Cass. 6.11.1996 n. 9684, in Mass. giur. lav. 1996,768 ed ora anche in Riv. it. dir. lav. 1997,I, 612 con nota di Campanella, dal titolo Sul licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore, nella quale l’autrice, nell’esaustiva riproposizione della problematica, si affianca a noi nell’evidenziare la contraddizione del pregresso, dominante, orientamento inspiegabilmente negatore dell’obbligo datoriale di repechage alla fattispecie del licenziamento per g.m.o. dell’inabile per sopravvenuta infermità.

(8) Trattavasi di Cass. n. 8152/ 1993, in Mass. giur. lav. 1994, 63.

(9) Così in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 42 e ss.

(10) Cfr., ex plurimis, Cass. 7.9.1993, n.9386, in Mass. giur. lav. 1993, 639 con nota di Riccardi.

(11) C. Filadoro, “Repechage” del lavoratore:le sezioni unite risolvono il contrasto?, in Guida al lavoro 1998, n.39, 32 e ss.

(12) Vedi Trib Milano 27.3.1979, in Not. giurisp. lav. 1979, 388 e 30.1.1982, in Or. giur. lav. 1982, 457.

(13) Vedi Trib. Milano 30. 4. 1996, in Lav. giur. 1996,764.

(14) Nell’articolo “Malattia e inidoneità permanente alle mansioni” in Dir. prat. lav. 1992, 1518.

(15) Così Mammone, nella sottonota 1) della nota titolata “Riduzione della capacità lavorativa e accertamento dello stato di inidoneità fisica”, in Riv. it.dir.lav. 1998, II, 532:

(16) Vedi P.Scognamiglio, “Sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e mutamento delle mansioni”, in Mass. giur. lav. 1998,438.

 

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