Irrisarcibili i danni alla salute da frustrazione e delusione discendenti da mancato avveramento di aspettative e promesse

 

Trib. Roma, sez. lav., 15 maggio 2007 n. 9497 — Est. Petrucci — Di Pr. Gi. c. Ca. ed. mu. ass. Ro. e pr.

Tutela delle condizioni di lavoro - Malattie fisiche e psichiche del lavoratore - Nesso causale con vicende lavorative - Sussistenza – Illecito o inadempimento alle obbligazioni da parte del datore di lavoro - Inesistenza - Obbligo risarcitorio - Esclusione.

 

Anche ammesso che le promesse fatte alla ricorrente di affidarle la responsabilità dell’intero settore informatico (al pensionamento del precedente responsabile) siano state effettivamente fatte (il che indubbiamente costituirebbe una ragione più che comprensibile della sua delusione e del suo disagio, anche sul piano fisico, che ne è conseguito), non esiste in realtà, né è dedotto che esista, alcun atto formale ed impegnativo del datore di lavoro tale da far sorgere in capo alla lavoratrice il diritto soggettivo a ricoprire la posizione lavorativa di che trattasi. Ovviamente non esiste neppure una norma, di fonte legale o contrattuale, dalla quale tale diritto possa derivare mentre è assolutamente pacifico che rientri nel potere discrezionale del datore di lavoro - insindacabile se non viola alcuna norma e conseguentemente alcun diritto acquisito e se, come nella fattispecie, non ha caratteristiche discriminatorie (adombrate del tutto genericamente e per la prima volta nelle note illustrative autorizzate) - di affidare a chi creda una determinata posizione lavorativa. Non può dubitarsi che, sul piano puramente soggettivo, la delusione patita dalla ricorrente debba essere stata notevole (indipendentemente dal fatto che si trattasse di una mera aspettativa e non della violazione di un diritto) e che la «sofferenza» che ne è derivata abbia costituito il presupposto dei considerevoli disagi psico-fisici attestati in atti ma le malattie fisiche e psichiche del lavoratore, pur derivanti da delusioni e sofferenze patite in ambito lavorativo, non fondano alcuna obbligazione risarcitoria del datore di lavoro che non abbia commesso alcun illecito o non sia incorso in alcun inadempimento legal-contrattuale. Sicché la presunta dequalificazione è ricavata solo dal diritto, meramente presupposto, a rivestire una diversa e più qualificante attività lavorativa, dequalificazione in realtà insussistente e solo fondata su una aspettativa soggettiva.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione. — Con atto ex art. 414 c.p.c., depositato il 18 dicembre 2006, Di Pr. Gi., dipendente della Ca. ed. mu. ass. Ro. e pr., assunta in data 1º luglio 1990 in qualità di impiegata di categoria IV corrispondente all’attuale livello 3°, ed attualmente inquadrata a livello 7°, quale impiegata di categoria 1ª super c.c.n.l. dipendenti imprese edili e affini, ha convenuto in giudizio la Cassa esponendo in maniera estremamente analitica le tappe della sua progressione in carriera, evidenziando di avere sempre svolto con piena competenza e diligenza i numerosi e rilevanti compiti affidatile (sì da ottenere in più occasioni promozioni e l’erogazione di superminimi), deducendo di avere, negli anni tra il 1997 ed il 1998, in concomitanza con operazioni di riduzione del personale ed in relazione alle conseguenti carenze di personale che ne sarebbero derivate, ricevuto formali rassicurazioni che, una volta cessato dal servizio il sig. Na. An., le sarebbe stata attribuita anche la piena responsabilità, in aggiunta ai compiti già affidati, del «Servizio Ced» e del «Servizio Analisi e Programmazione»; in seguito, peraltro, non solo tali promesse non erano state mantenute (ed il servizio stato affidato ad un collega appena assunto) sì che si era configurata una situazione di demansionamento e dequalificazione, ma da quel momento in poi era stata oggetto di azioni (puntigliosamente ricostruite e analiticamente elencate) a suo giudizio configuranti una ipotesi di mobbing (imposizione di chiedere preventiva autorizzazione, mai in precedenza ritenuta necessaria, a prestare attività lavorativa oltre l’orario di lavoro ed in giorni festivi e prefestivi, contestazioni in ordine al lavoro svolto prive di fondamento, generale processo di emarginazione in ambito lavorativo, esclusione dalla trattazione di questioni di sua competenza) sì da trovarsi «spinta alla disistima e indotta a vivere nel terrore di sbagliare» e tali da procurarle stati patologici di vario genere (ritenuti conseguenti, quantomeno per l’aspetto psichiatrico, a «situazioni svalutative e stressanti nell’ambiente di lavoro» come risultante da certificazione medica allegata).

A sostegno della sua tesi la ricorrente ha anche dedotto di aver subito un procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione della sanzione disciplinare di 3 giorni di sospensione dal lavoro per ritardi nell’espletamento di alcuni compiti affidatile (ritardi peraltro conseguenti allo stato patologico ed alle assenze che ne erano conseguite), di aver visto ulteriormente aggravarsi il suo stato di salute (anche in conseguenza di ulteriori infondate contestazioni di cui era stata oggetto, della attribuzione di nuovi incarichi da parte della Cassa conferiti senza tener conto del quadro patologico sofferto, della ingiustificata sottoposizione a visite mediche di controllo finalizzate all’accertamento della sua idoneità al lavoro e della collocazione in aspettativa quale conseguenza della accertata temporanea inabilità), di essersi vista affidare ancora compiti dequalificanti (quale supporto tecnico telefonico in qualità di analista programmatore: compito sostanzialmente configurabile a suo parere come quello di un addetto a call center).

Nell’aprile 2005 le era poi stata affidata la reggenza dell’Ufficio Imprese e nel settembre 2005 era stata nominata ufficialmente responsabile di tale ufficio.

Su tali premesse in fatto, ed evidenziando le conseguenze sul piano comportamentale, affettivo e relazionale di quanto subito nonché la compromissione delle sue «intrinseche» capacità lavorative e delle prospettive di carriera, la ricorrente ha chiesto la condanna della convenuta a risarcirle il danno biologico e alla salute patito (40 per cento di invalidità - euro 128.885,60), a risarcirle il danno morale procuratole con il suo illegittimo comportamento configurante il reato di lesioni colpose (50 per cento del danno biologico - euro 64.442,80), a risarcirle il danno alla vita familiare e di relazione («prudenzialmente» quantificato in euro 75.000,00), a risarcirle il danno professionale e da dequalificazione (nella misura del 50 per cento delle retribuzioni percepite nel periodo interessato).

Radicatosi il contraddittorio, parte convenuta, contestandone i presupposti in fatto e diritto, ha chiesto il rigetto della pretesa attrice evidenziando che le promozioni e i riconoscimenti indicati in ricorso erano stati conseguenza di provvedimenti riguardanti la gestione di tutto il personale, che la ricorrente aveva sempre svolto compiti propri del livello nel quale era inquadrata né alla stessa erano mai state fatte formali e vincolanti promesse di renderla responsabile dell’intero settore informatico, che l’affidamento ad altro dipendente del nuovo Centro Elaborazione Dati Interno, nell’ambito del generale processo di riorganizzazione posto in essere e per il quale il settore Analisi e Programmazione era rimasto, come nel passato affidato alla Di. Pr. Gi.), era frutto di una scelta aziendale pienamente legittima e non sindacabile, che nessuno dei compiti propri della qualifica e funzione rivestita era mai stato sottratto alla ricorrente, che la Di. Pr. Gi. non solo non era stata fatta oggetto di alcun comportamento tendente ad isolarla dal contesto lavorativo ma anzi era stata lei ad assumere un ingiustificato atteggiamento ostruzionistico cui era seguita l’applicazione di una modesta sanzione nell’ambito dell’esercizio del potere gerarchico disciplinare, che non sussisteva alcun obbligo (pure evidenziato in ricorso) di accogliere la domanda della ricorrente di essere collocata in mobilità orizzontale essendo in pieno diritto del datore di lavoro di utilizzare come meglio crede la professionalità (conseguita anche a sue spese) del suo dipendente, che comunque non vi erano stati posti disponibili prima del momento in cui, resasi libera una posizione lavorativa per effetto del pensionamento di un altro di-pendente, la domanda della Di. Pr. Gi. era stata accolta, che infine ineccepibile doveva essere considerato l’atteggiamento tenuto in conseguenza delle patologie lamentate dalla ricorrente (in particolare in considerazione della epitrocleite diagnosticata alla dipendente la stessa era stata temporaneamente esonerata dall’uso del PC e poi collocata in aspettativa retribuita fino all’accertamento dell’avvenuto pieno recupero dell’idoneità lavorativa).

In definitiva la convenuta ha dedotto di non aver posto in essere alcun comportamento illecito, di aver manifestato grande comprensione rispetto alle difficoltà della ricorrente, di aver adottato, in relazione a comportamenti non del tutto corretti della lavoratrice, solo blandi provvedimenti disciplinari conservativi anziché quelli ben più gravi ipotizzabili, di avere, appena reso possibile dalla situazione dell’ufficio, accontentato la ricorrente aggiungendo che comunque nessun danno poteva esserle derivato dalla situazione rappresentata posto che la stessa aveva conservato il posto di lavoro e la retribuzione ed ora, con piena soddisfazione, riveste una posizione lavorativa adeguata alla sua qualificazione professionale.

Sentite le parti, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, depositate e lette note illustrative autorizzate, nel corso dell’udienza odierna è stata esaurita la discussione orale.

La domanda attrice non può trovare accoglimento.

La vicenda lavorativa che, nella prospettazione della ricorrente, costituisce il primo atto del dedotto processo di demansionamento e dequalificazione che, in uno con tutte le vicende che ne sono conseguite, configurerebbe la situazione di mobbing lamentata nell’atto introduttivo del giudizio è individuata nella mancata nomina quale responsabile del Ced e nella designazione per tale posizione lavorativa di un collega appena assunto.

Sostiene in proposito la ricorrente, rievocando la storia del proprio rapporto con la convenuta e richiamando tutti i riconoscimenti (progressioni di carriera ed erogazioni economiche) nel tempo ricevuti, di essere stata più volte «rassicurata verbalmente» dal Direttore della Cassa e, da ultimo, anche dal responsabile della r.s.u. che la posizione alla quale aspirava le sarebbe stata effettivamente affidata e che pertanto il mancato adempimento di tali promesse configurerebbe, appunto, una situazione di dequalificazione.

La deduzione attrice peraltro appare del tutto priva di fondamento poiché, anche ammesso che tali promesse le siano state effettivamente fatte (il che indubbiamente costituirebbe una ragione più che comprensibile della sua delusione e del suo disagio, anche sul piano fisico, che ne è conseguito), non esiste in realtà, né è dedotto che esista, alcun atto formale ed impegnativo del datore di lavoro tale da far sorgere in capo alla lavoratrice il diritto soggettivo a ricoprire la posizione lavorativa di che trattasi. Ovviamente non esiste neppure una norma, di fonte legale o contrattuale, dalla quale tale diritto possa derivare mentre è assolutamente pacifico che rientri nel potere discrezionale del datore di lavoro - insindacabile se non viola alcuna norma e conseguentemente alcun diritto acquisito e se, come nella fattispecie, non ha caratteristiche discriminatorie (adombrate del tutto genericamente e per la prima volta nelle note illustrative autorizzate) - di affidare a chi creda una determinata posizione lavorativa.

In sostanza la Di. Pr. Gi. ritiene che l’aver espletato con competenza, diligenza, massimo impegno e grande competenza professionale i compiti, anche complessi, nel tempo affidatile, configurerebbe di per sé il suo diritto ad essere nominata responsabile del Ced al momento del processo di riorganizzazione di tutto il servizio posto in essere dalla convenuta e che solo per ragioni imperscrutabili e per la volontà di discriminarla, tale posizione non le sarebbe stata attribuita (forse in ragione del sesso, come afferma nelle note conclusionali il suo difensore senza peraltro indicare a sostegno di tale apodittica e tardiva affermazione alcun elemento concreto). L’aspettativa della lavoratrice, sicuramente legittima ma certo non vincolante per il datore di lavoro, sarebbe stata rafforzata, come già evidenziato, dal fatto di aver ricevuto continui avanzamenti di qualifica e considerevoli progressioni economiche nonché dalle rassicurazioni verbali (anch’esse sicuramente non vincolanti, come detto, e comunque risalenti a molto tempo prima) ricevute dallo stesso Direttore della Cassa (nessuna rilevanza ovviamente, possono, avere invece le rassicurazioni e le promesse del rappresentante sindacale). La convenuta afferma in proposito di non essersi mai vincolata ad affidare alla Di. Pr. Gi. la responsabilità dell’intero settore informatico e deduce che tutte le promozioni ed erogazioni di superminimi alla sua dipendente erano non riconoscimenti ad personam ma «conseguivano a generali provvedimenti e criteri di gestione del personale»: ritiene il giudicante che il contrasto sussistente tra le parti in ordine a tali circostanze di fatto non debba essere oggetto di indagine e di accertamento proprio perché le risultanze probatorie eventualmente favorevoli alla ricorrente non potrebbero mai far ritenere configurato il diritto, e dunque l’inadempimento del datore di lavoro, azionato in questa sede (sia pure quale mero presupposto delle considerevoli richieste di risarcimento avanzate con l’atto introduttivo) ed anzi l’accertamento del riconoscimento nel tempo di considerevoli meriti personali varrebbe a smentire di per sé qualsiasi intento di emarginazione e qualsiasi volontà di discriminazione (come del resto risulta evidente dalla conclusione della vicenda, sicuramente tormentata, e dal riconoscimento in capo alla ricorrente di una posizione lavorativa di sua piena soddisfazione come dalla stessa confermato in udienza).

In definitiva su tale punto cruciale della controversia deve ritenersi non esistesse alcun diritto della ricorrente a ricoprire la posizione lavorativa cui aspirava e dunque nessun diritto può ritenersi violato né alcuna dequalificazione, sotto tale profilo, posta in essere.

Non può dubitarsi che, sul piano puramente soggettivo, la delusione patita della ricorrente debba essere stata notevole (indipendentemente dal fatto che si trattasse di una mera aspettativa e non della violazione di un diritto) e che la «sofferenza» che ne è derivata abbia costituito il presupposto dei considerevoli disagi psico-fisici attestati in atti ma neppure per il periodo successivo può dirsi sotto alcun aspetto censurabile il comportamento del datore di lavoro.

Ed infatti non è affatto vero che vi siano stati, successivamente, altri provvedimenti dequalificanti poiché tutti gli incarichi comunque affidati alla Di. Pr. Gi. (compreso quello di «supporto tecnico telefonico», tutt’altro che assimilabile, come risulta evidente anche dalla descrizione del suo contenuto fattane in ricorso ed in contrasto con la conclusione cui poi in tale atto si perviene, a quello di un qualsiasi addetto ad un call center) appaiono, già nella prospettazione attrice, di notevole responsabilità e pienamente rientranti nei compiti propri della qualifica di inquadramento, sicché la presunta dequalificazione è ricavata ancora dal diritto, meramente presupposto, a rivestire una diversa e più qualificante attività lavorativa.

In più deve osservarsi che molti dei comportamenti denunciati nel ricorso come elementi sintomatici di una volontà discriminatoria e irragionevolmente punitiva sono solo interpretazioni soggettive della lavoratrice ma in realtà atti assolutamente leciti: si pensi solo alla «pretesa» imposizione di chiedere preventiva autorizzazione a prestare attività lavorativa oltre l’orario di lavoro ed in giorni festivi e prefestivi da considerare non solo legittima ma doverosa indipendentemente dal fatto che la prassi aziendale in precedenza non la richiedesse (né viene dedotto che di tale imposizione sia stata oggetto la sola ricorrente), si pensi alle contestazioni in ordine al lavoro svolto che, lungi dall’essere prive di fondamento erano legittimate dai notevoli ritardi nell’espletamento dei compiti affidati (pur in parte spiegabili con un precario stato di salute della lavoratrice), si pensi infine al «generale processo di emarginazione in ambito lavorativo» sicuramente smentito, quanto alle mansioni affidate, da quanto affermato dalla stessa ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, e per il resto riconducibile appunto a mere «interpretazioni» della lavoratrice di atti e comportamenti del tutto innocui, comunque leciti o posti in essere da singoli colleghi di lavoro.

Che poi la Cassa non abbia tenuto nel dovuto conto lo stato fisico della Di. Pr. Gi. e ne abbia anzi tratto occasione per ulteriori atti lesivi dei suoi diritti è smentito non solo dagli atti ma da quanto, anche sotto tale aspetto, esposto dalla stessa lavoratrice: i controlli medici disposti per accertare la effettiva sussistenza delle malattie denunciate e la legittimità delle assenze che ne derivavano così come gli accertamenti disposti per valutare la sussistenza della capacità lavorativa sono da considerare atti pienamente leciti ed anzi dovuti così come dovute ed obbligate, all’esito dei controlli, erano la parziale esenzione dal lavoro o da alcune modalità del suo svolgimento e la collocazione in aspettativa retribuita fino al completo recupero delle energie lavorative.

Tale effettiva attenzione e disponibilità della Casa emerge proprio dalla vicenda disciplinare richiamata in ricorso: è la stessa Di. Pr. Gi. ad evidenziare non solo il notevole ritardo nella elaborazione di uno dei compiti affidatile (solo in parte giustificato dalle sue condizioni di salute) ed un suo atteggiamento ostruzionistico (sia pure in parte riconducibile, come evidentemente è stato ritenuto, alla condizione soggettiva ed oggettiva in cui si trovava la lavoratrice) e la sanzione disciplinare applicata, solo dopo numerosi solleciti e richiami rimasti privi di riscontro, è stata sicuramente la più blanda possibile (si osserva in proposito che la relazione commissionata alla ricorrente oggetto della contestazione è stata consegnata a dieci mesi dal conferimento dell’incarico ed a quatto mesi dalla applicazione della sanzione).

Infine, come già ricordato, a conclusione della complessa vicenda e ad ulteriore dimostrazione che il suo comportamento non può essere oggetto di alcuna censura, la Cassa ha affidato alla ricorrente un incarico di maggiore responsabilità e di sua piena soddisfazione ed anche questo costituisce la migliore smentita dell’esistenza di qualsiasi intento «mobbizzante» ed evidenzia una apprezzabile volontà di «pacificazione» che è sicuramente nell’interesse di entrambe le parti ed è evidentemente sostenuta dalla necessità di utilizzare al meglio le energie lavorative di una dipendente sicuramente apprezzata per l’impegno e le qualità professionali dimostrati nell’espletamento del lavoro affidatole.

La copiosa documentazione medica prodotta in atti non può evidentemente giovare alla tesi attrice posto che il comportamento del datore di lavoro deve essere ritenuto non censurabile sotto alcun aspetto: le patologie riscontrate in capo alla ricorrente non sono sicuramente in discussione così come non può essere messo in discussione il nesso di causalità con la sofferenza patita in ambiente lavorativo attestato da tale documentazione ma deve solo osservarsi che, per quanto sin qui detto, non può ritenersi sussistente alcuna prova che le malattie certificate trovino, o abbiano trovato, una causa scatenante oggettiva in comportamenti non corretti del datore di lavoro sì che se di nesso di causalità con la situazione lavorativa può parlarsi lo stesso deriva esclusivamente dalle percezioni soggettive (anche se realmente esistenti) della Di. Pr. Gi. e da come la stessa ha vissuto ed interpretato le vicende delle quali è stata protagonista.

La natura della controversia e le sue particolari connotazioni suggeriscono l’opportunità di una integrale compensazione delle spese di lite. (Omissis).

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