Imbrigliare i giudici e ridurre i diritti dei lavoratori: primario obbiettivo del d.d.l. n. 1441 quater
1. E’ all’esame della Camera in questa XVI legislatura il d.d.l.  C 1441 quater (Delega al Governo in materia di lavori usuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavoro sommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro, cd. «collegato lavoro»)– strutturato in data 28 agosto 2008 dallo stralcio da parte dell’Assemblea di diversi articoli del d.d.l. n. 1441 – di cui è indifferibile dar notizia, stante l’incredibile  silenzio stampa di cui beneficia.
Con questo d.d.l. il Governo si ripropone di introdurre nell’ordinamento del lavoro le seguenti modifiche ed innovazioni:
 
- tramite l’art. 67,
a) eliminare la possibilità di impugnativa giudiziale del licenziamento  con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale - cioè la normale raccomandata A/R, garantita sinora dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 -  per legittimarla solo dietro ricorso giudiziale nel termine di decadenza di 120 giorni (attualmente 60 gg.);
b) estendere la sopra riferita  modalità e decadenza all’impugnativa per i recessi dai contratti a termine sospetti di illegittimità e per i recessi del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile nonché per il trasferimento ai sensi dell’art. 2103 del codice civile.
Vengono, per tal via, pregiudicate e rese più difficoltose le esigenze di difesa del lavoratore e dall'altro viene riversato un numero elevatissimo di controversie sugli uffici giudiziari, con ulteriore allungamento dei tempi dei processi.
 
- tramite l’art. 66,
a) sostituire l’art. 410 c.p.c. con analogo che preveda - al posto del tentativo di conciliazione obbligatorio e condizione di procedibilità del ricorso al GdL dopo il decorso  improduttivo di 60 giorni - il tentativo di conciliazione su base volontaria (quindi non costituente condizione di procedibilità del ricorso al giudice), ad opera delle Commissioni istituite presso la Direzione provinciale del lavoro, con onere di notifica della richiesta anche al datore di lavoro a carico dell’istante. Parimenti sostituiti l’art. 411 e 412 (regolanti le modalità di svolgimento del procedimento conciliativo, il cui tentativo di conciliazione deve tenersi entro i 30 giorni successivi alla convocazione), ove si prevede anche la possibilità delle parti di assegnare alla Commissione stessa il compito di risolvere con lodo arbitrale la controversia. Vengono mantenute le conciliazioni in sede sindacale, secondo le previsioni dei c.c.n.l.
Viene previsto all’art. 412 quater  l’istituto dell’arbitrato volontario per la soluzione delle controversie, da conferire ad arbitri privati scelti dalle parti, con oneri di pagamento dei designati a carico delle parti stesse, senza pregiudizio del ricorso alla magistratura.
Dato l’insuccesso, nei fatti, dell’esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione – insuccesso attribuibile alle defezioni di presenza alle convocazioni da parte delle aziende congiunta all’incredibile ritardo delle convocazioni da parte della DPL,  facendo così decorrere i 60 giorni e trasferendo di fatto l’incombenza sulla magistratura – la trasformazione da obbligatorio in volontario dell’istituto conciliativo si rivela soluzione positiva. Negativo invece il deferimento delle controversie alla cd. “giustizia privata” a pagamento, onerosa per il lavoratore, soggetto intrinsecamente ed economicamente debole.
 
- tramite l’art. 65,
a) vanificare o comunque marginalizzare i poteri di intervento del giudice nella materia lavoristica, circoscrivendone le facoltà, inibendogli esami di merito e riservangogli solo la funzione notarile del controllo di legittimità, vincolandolo alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento inserite non solo nei contratti collettivi ma addirittura nei contratti individuali, seppure assistiti. In tal modo gli viene sottratto, in sostanza e a titolo esemplificativo, il potere di derubricare le sanzioni espulsive (convenute nei c.c.n.l. o nei contratti individuali) in sanzioni conservative, al riscontro di sproporzionalità ex art. 2106 c.c.  della sanzione irrogata rispetto all’infrazione,  nel chiaro intento di ostacolare ogni attività interpretativa di bilanciamento tra libertà e diritti di rilievo costituzionale. Il tutto nell’ottica di lasciare il lavoratore in balia delle pressioni datoriali all'atto di assunzione e di restringere, di fatto, l'operatività dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi le garanzie di stabilità ad esso connesse, a tutto beneficio degli interessi sostanziali delle controparti aziendali. Ciò si realizza tramite le statuizioni dei seguenti 3 comma del citato art. 65 :«1. In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.
2. Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.
3. Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice fa riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento (ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, successivamente precisato tramite emendamento, n.d.r.) il giudice tiene ugualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l'anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento».
Il tutto, ad un occhio inesperto, potrebbe essere scambiato per un potenziamento di ruolo conferito agli agenti contrattuali – anche se tale convincimento viene fugato dalla legittimazione da parte dei contratti individuali certificati a derogare ai contratti collettivi - ma siccome ciò avviene in un contesto di sostanziale inferiorità (eminentemente dal lato giuridico) in sede di negoziazione da parte di molte delle odierne OO.SS., quanto sopra riferito appare soluzione di “controriforma” regressiva per i lavoratori, per i quali il ricorso al giudice, con queste limitazioni di operatività, finisce per risolversi in operazione velleitaria. Trasformando infatti il giudice in un “notaio” cui è concesso solo un controllo di aderenza e di rispetto delle parti nei confronti degli assetti contrattuali collettivi o dei contratti individuali certificati, senza che possa sindacare nel merito in ordine alla correttezza delle soluzioni pattuite, si toglie ai lavoratori la garanzia – finora identificabile nel magistrato – che possano essere rettificate nelle aule di giustizia situazioni di sopraffazione e di compressione dei diritti.
Le soluzioni del d.d.l. n. 1441 quater sono,  quindi,  tutt’altro che caratterizzate dalla finalità di garantire una migliore e più efficace tutela ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici ma, all’opposto -  in piena sintonia con le recenti modifiche normative della manovra d’estate 2008 - volte a dar man forte alle imprese nell’ assecondare e perseguire obiettivi di maggiore produttività, flessibilità gestionale nonché a sottrarre i loro (eventualmente) illegittimi comportamenti da rischi di invalidazione in contenzioso. Peraltro sponsorizzando e traguardando unicamente le esigenze del mercato, il d.d.l. n. 1441 quater finisce – come è stato detto - per limitare pesantemente i diritti dei lavoratori, e così snaturare il valore ed il significato del “lavoro” come delineato dalla Carta Costituzionale e dalle Carte Europee.
 
2. Restando in tema dei tentativi di manomissione dei diritti ad opera della compagine governativa – stavolta a danno dei precari con contratti a termine illegittimi, compiuta nell’estate testé  decorsa per effetto dell’immissione nella normativa sul contratto a termine (d. lgs. n. 368/2001) dell’ art. 4 bis ad opera della l. n. 133/2008, cd. “norma antiassunzione precari” – va fornita ai lettori, assieme alla informazione negativa di cui al punto 1, una informativa di segno positivo.
Come si ricorderà l’attuale compagine governativa, nel tentativo di supportare gli interessi delle imprese che ai contratti a termine avevano massicciamente ricorso (Poste italiane, Alitalia e innumerevoli altre), studiò una formulazione ad hoc, finalizzata a convertire la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato con quella dell’indennizzo economico (cioè la soluzione tipica per il licenziamento ingiustificato applicabile alle aziende aldisotto dei 16 dipendenti, ex lege n. 108/1990 che ha innovato l’art. 8 l. n. 604/’66).
La formulazione del citato art. 4 bis  fu ed è la seguente: «(Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine). - 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
Con questa norma – da più parti considerata immediatamente incostituzionale – la compagine governativa introdusse una vistosa discriminazione (in contrasto con l’art. 3 Cost.) tra lavoratori nella identica condizione di avere un contratto a termine illegittimo (es. perché inficiato dalla carente specificazione della causale legittimante), a seconda che avessero o meno un giudizio pendente in uno dei tre gradi all’epoca dell’entrata in vigore della norma.
In sostanza si era scelto – quale criterio per la discriminazione (consistente nella privazione della conversione del contratto illegittimo in contratto a tempo indeterminato, sostituita dall’indennizzo economico) - il fatto che i lavoratori, tempestivamente, avessero azionato un ricorso giudiziario, mentre andavano esenti dalla sanzione trasformata in esclusivamente monetizzante, conservando l’usuale possibilità di conversione a tempo indeterminato (cd. stabilizzazione), coloro che il ricorso giudiziario si risolvessero ad attivarlo successivamente all’entrata in vigore della norma d’estate. Quindi soluzione punitiva per i più solerti, premiante per chi si sarebbe mosso successivamente entro i 5 anni di prescrizione.
Va tenuto altresì presente che si punivano – col privarli della stabilizzazione a tempo indeterminato – lavoratori che avevano tempestivamente esercitato l’azione giudiziaria (garantita ad ogni cittadino dall’art. 24 Cost.) ed a loro soltanto si “cambiavano in corsa” (durante l’iter giudiziario) le conseguenze sanzionatorie per l’azienda, sanzioni per il cui riconoscimento si erano rivolti al giudice imparziale.
Anche il magistrato era sottoposto a questo mutamento di regole, per effetto di questa interferenza ingiustificata del potere legislativo sul giudiziario.
In data 22 e 26 settembre 2008 rispettivamente la Corte d’Appello di Bari (est. Castellaneta) e la Corte d’Appello di Genova (est. Ravera), nonché il 21 ottobre la Corte d'Appello di Roma (est. Garri) - sottoriportata- e il 28 ottobre la Corte d'Appello di Milano (est. Trogni), hanno dichiarato non fondata la remissione della norma de qua, alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 e 117 Cost.
Con le seguenti, convincenti argomentazioni:«Il Legislatore ha (con l’art. 4 bis, n.d.r.) ritenuto di disciplinare diversamente (nelle conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la diversità delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio. In questo caso non si tratta di un trattamento differenziato nel tempo: lavoratori nella stessa situazione di fatto, che hanno cioè stipulato un contratto a tempo determinato con clausola del termine illegittima, senza giustificazione alcuna, se non quella di avere o meno iniziato la causa ad una certa data, vengono ad avere diversa tutela dei propri diritti, con evidente violazione del principio di ragionevolezza. Tanto più che il discrimine temporale non è neppure idoneo a realizzare pienamente il fine che la norma introdotta dovrebbe conseguire. Se infatti scopo della disposizione è quello di sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimità dei contratti a termine, allora non si comprende il discrimine temporale che sottrae i soli contenziosi in essere e non tutto il potenziale contenzioso (cioè, ad esempio tutti i contratti stipulati ad una certa data). Il che penalizza proprio chi comportandosi lealmente non ha atteso anni ma ha iniziato da subito la causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare il contenzioso (per magari lucrare le retribuzioni conseguenti alla messa in mora). Inoltre la differenziazione di regime non è finalizzata a realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non si fonda neppure sulle dimensioni dell'impresa. In sostanza, tra i lavoratori a tempo determinato ne viene enucleata una quota (quelli che avevano un giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria accordata a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato la causa e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione della violazione del principio di eguaglianza), tutela ordinaria che il Legislatore aveva ben presente e che non ha inteso modificare, perché diversamente non avrebbe dettato l'art. 4 bis che espressamente è applicabile ai soli procedimenti in corso, ma avrebbe invece introdotto una disciplina stabile destinata a regolamentare la materia.
La norma denunciata pone poi seri dubbi di costituzionalità con l'art. 117, co. 1, Cost. (secondo cui la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali), in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali del 4/11/1950, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848.
La norma della Convenzione, alla quale lo Stato italiano si deve conformare, nell'affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo dinanzi ad un Tribunale indipendente ed imparziale, impone al potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie in corso. In proposito la CEDU ha affermato che “il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo consacrati dall'art. 6 CEDU si oppongono, salvo per imperiose esigenze di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia con io scopo d'influenzare la risoluzione giudiziaria di una causa” (par. 126 sentenza CEDU Grande Camera nella causa Scordino c. Italia, 29.3.2006): nel caso in esame vengono proprio mutati per factum principis i diritti sostanziali a tutela dei quali si è agito in giudizio, senza che ricorrano quelle «imperiose ragioni d'interesse generale» richieste dalla CEDU come condizione per superare il divieto d'ingerenza».
Non può che auspicarsene l’accoglimento e che cessi questa pratica dell’immissione nell’ordinamento di norme ad hoc per questa o quell’altra situazione, o come peggio avviene, per questa o quella persona.

 

Mario Meucci - Giuslavorista

Roma 10 ottobre 2008

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Giudici dimezzati e diritti cancellati

La controriforma del governo

Il disegno di legge n. 1441-quater-A contiene norme in materia processuale del lavoro che, se approvate, potranno segnare un clamoroso arretramento rispetto a quasi tutte le conquiste raggiunte dai lavoratori negli ultimi decenni. Durante il corso dell'iter del provvedimento è stato paventato un nuovo attacco, in forma indiretta, all'articolo 18 dello Statuto (l'art. 65 trattava delle «conseguenze da riconnettere al licenziamento», ossia le sanzioni irrogabili dal giudice in caso che questo sia illegittimo). Il governo si è affrettato a smentire questa circostanza, facendo approvare un emendamento che sembra aver fugato i dubbi (riferendosi la norma, ora, alle sole aziende con meno di 16 dipendenti). In realtà, il governo ha paura di attaccare l'articolo 18 dello Statuto, memore delle grandi manifestazioni del passato. L'operazione a cui assistiamo, comunque, è molto più grave: depotenziare il ruolo dei giudici nell'applicazione delle tutele previste dalle norme di legge. Da una parte, rimangono in piedi i presìdi dettati dalla disciplina dei licenziamenti: il concetto di giusta causa, di giustificato motivo, l'applicabilità della reintegra nel posto di lavoro nelle aziende al di sopra dei 15 dipendenti, etc... Tuttavia, dall'altra, si svuotano di significato le previsioni di legge, rendendo il giudice una sorta di «notaio». Infatti, l'articolo 65 del ddl prevede che il giudice, di fronte a concetti generali, quali la «giusta causa» o il «giustificato motivo» di licenziamento e tutte le altre «clausole generali» nel diritto del lavoro, non potrà entrare nel merito delle scelte operate dal datore, ma dovrà fermarsi alla sola verifica formale del provvedimento datoriale. Così, alla base di un licenziamento per motivi economici, sarà sufficiente dire che l'eliminazione di una postazione di lavoro, con lo spostamento del relativo carico sulle spalle dei lavoratori residui in pianta organica, rientra nelle ragioni inerenti all'attività produttiva, senza che rilevi più il parametro costituzionale del diritto al lavoro. Insomma, conterà sempre più la ragione padronale senza il doveroso bilanciamento con il diritto del lavoratore.
Ma c'è di peggio: lo stesso articolo prevede che il giudice debba «far riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero (questa è la vera 'gemma', ndr) nei contratti individuali di lavoro» certificati. Questo significa che il giudice non dovrà più interpretare ed applicare la legge alla luce della Costituzione, bensì le norme dei contratti collettivi e dei contratti individuali di lavoro certificati. Ad esempio un contratto collettivo (cosa meno probabile) o un contratto individuale certificato (circostanza molto più frequente) potrebbero prevedere che per un solo giorno di assenza si è di fronte ad una «giusta causa» di licenziamento (ossia, in tronco) e il giudice non potrebbe discostarsi da questa previsione, ritenendo legittimo il licenziamento.
E' questa, con tutta evidenza, un'innovazione dirompente: l'articolo 18 dello Statuto sarà difficilmente applicabile perché i licenziamenti saranno per lo più dichiarati legittimi. Si intravede, così, la fine del diritto del lavoro e l'inizio di un sistema di garanzie a geometria variabile. L'elenco non finisce qui: cosa dire dell'art. 66 che abilita, fin dal momento dell'assunzione, l'affidamento di ogni eventuale futura controversia all'arbitrato (anche secondo equità, ossia senza applicare la legge) nel caso in cui il contratto sia stato certificato dalle apposite commissioni? E' evidente che la certificazione non ridurrà i rischi di compressione della volontà del lavoratore il quale, al momento dell'assunzione, sarà costretto a rinunciare una volta per tutte al giudice del lavoro. L'ultima «perla» è l'articolo 67, che introduce clausole vessatorie di decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento (anche se nullo, perché discriminatorio, o inefficace, per mancanza di forma scritta), il contratto a termine, i contratti di collaborazione e i trasferimenti. Per tutti questi casi, decorsi 4 mesi dal provvedimento datoriale senza che venga depositato il ricorso giudiziario, il diritto si perde. Ed il diritto certamente si perderà per tutti quei lavoratori a termine e collaboratori a progetto che faranno per lo più decorrere i 4 mesi sperando in un rinnovo del loro contratto scaduto. Si tratta dell'ultima pietanza avvelenata di questo attraente menù che il governo sta per ammannire a tutti i lavoratori.
Questa pesante riforma governativa sarà approfondita e dibattuta dalla Consulta giuridica della CGIL nel seminario che si svolgerà a Roma, presso il CNEL, il 21.10.08.


Lorenzo Fassina  (Consulta giuridica della Cgil)

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Ecco come ti aggiro l’articolo 18
 
I massimi esperti di diritto del lavoro lanciano l’allarme su due disegni di legge del governo all’esame della Camera. Nessun controllo sui licenziamenti. E i “giudici come i notai”
di Maurizio Minnucci
 
Giudici ridotti a semplici notai, licenziamenti “facilitati”, tutele solo per il mondo imprenditoriale. È quanto accadrebbe nei contenziosi sul lavoro se dovessero entrare in vigore i due disegni di legge presentati in Parlamento dal governo, il 1441-bis e il 1441-quater. L’iter dei provvedimenti (ora in discussione alla Camera) non è ancora concluso, ma giuslavoristi e magistrati esprimono preoccupazione per lo scenario che potrebbe aprirsi. Se infatti la Commissione della Camera ha apportato alcune migliorie, nell’impianto complessivo resta lo svuotamento dei diritti per i dipendenti. È questo l’allarme lanciato dalla Rivista giuridica del lavoro e dalla Consulta giuridica della Cgil, che oggi (21 ottobre) hanno riunito i massimi esperti italiani della materia nella sede nazionale del Cnel, a Roma.

GUARDA IL VIDEO

Giudici come notai? Rispetto alle cause giudiziarie sui licenziamenti, il ddl 1441 (scaricalo qui) riduce il potere decisionale del giudice al solo “accertamento del presupposto di legittimità”, escludendo di fatto ogni controllo di merito. Scrive la Rgl in un documento firmato da Pergiovanni Alleva, Amos Andreoni e Lorenzo Fassina: “Restano aperti i rischi di una funzione puramente notarile della magistratura, la cui autonomia e indipendenza sarebbero drasticamente ridotte”. In sostanza, spiegano gli esperti, “il contratto nazionale diventerebbe vincolante anche per il giudice”, il quale oltretutto, con l’entrata in vigore di questa norma, “sarà anche vincolato a quanto stabilito dal contratto individuale di lavoro. Una norma apertamente incostituzionale, che sarà fonte di serie conseguenze sulla tenuta dell’ordinamento intersindacale”.
 “Mancano tutti gli strumenti per difendere i diritti dei lavoratori”, accusa Raffaele Foglia, magistrato e presidente della Commissione ministeriale sulla normativa processuale del lavoro nel precedente governo, intervistato da rassegna.it a margine del seminario: “Quando si dice che il giudice non può sindacare le ragioni vere del licenziamento, perché costretto a fermarsi davanti ad aspetti formali, si blocca ogni intervento di controllo, cancellando garanzie essenziali che sono vigore da oltre trent’anni”.
L’altro motivo di protesta dei giuslavoristi consiste nella “minaccia” dell’arbitrato obbligatorio. Stando a quanto prevede il ddl 1441 infatti, d’ora in poi il lavoratore potrà essere costretto, se vuole essere assunto, a firmare un contratto che esclude la competenza del giudice e che rimanda il contenzioso a un arbitrato privato tra le parti (nel quale si potrà decidere a prescindere da leggi e ccnl). Proseguono i promotori dell’iniziativa: “Ciò significa che il lavoratore potrà essere posto di fronte all’alternativa se essere assunto o meno, a condizione di accettare o no l’arbitrato, e quindi finisca per accettarlo, rinunciando sin dall’inizio alla possibilità di ricorrere a un giudice del lavoro”. Per Massimo Roccella, giuslavorista e ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Torino, “è questa un’idea molto pericolosa, si tratta di minacce all’intero sistema dei diritti dei lavoratori”. In definitiva, se l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è abrogato, di fatto viene rimesso in discussione attraverso “scorciatoie”. Come quella che sostituisce la reintegrazione sul posto di lavoro con un risarcimento danni, con buona pace della stabilità e dell’articolo 4 della Costituzione.
“C’è un disegno del governo contro il lavoro dipendente”, ha detto il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, che ha concluso il seminario: “Si è partiti dallo scorso luglio con l’inizio della deregolamentazione, si è passati per norme che licenziano i precari pubblici e privati, proseguendo con l’intervento sul diritto di sciopero. Ora tocca ai processo del lavoro”. Così conclude il dirigente sindacale: “Il fatto grave è che, riguardo alle controversie sul licenziamento, si limita l’intervento del giudice da un potere d’intervento nel merito a un semplice parere di legittimità formale. Questo, abbinato alla certificazione individuale dei contratti, non fa altro che penalizzare il lavoratore dipendente in una logica che privilegia l’impresa”.
 
21/10/2008 17:42
(fonte: www.rassegna.it)
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Ordinanze di remissione per  presunta incostituzionalità della norma "antiassunzione precari" per contratti a termine illegittimi

 

Corte Appello di Roma, sezione controversie  lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria – ordinanza-  21 0ttobre 2008 – Pres. Torrice – Rel. Garri – G. Grieco (avv. Zezza, Galleano) c. Poste Italiane SpA (avv. Fiorillo)

 

ORDINANZA 

 

La Corte, letti gli atti e le note depositate ed esaminata la documentazione allegata, osserva quanto segue: 

l’odierno appellante ha chiesto la riforma della sentenza impugnata con la quale è stata respinta la sua domanda tesa ad ottenere l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto  di lavoro stipulato con la società appellata per ragioni di carattere sostitutivo di personale assente con diritto alla conservazione del posto.

Con il gravame ha reiterato tutte le ragioni poste a fondamento del ricorso introduttivo del giudizio rilevando che la sentenza impugnata ha motivato il rigetto con argomentazioni non pertinenti rispetto alla fattispecie in concreto azionata (la specifica clausola contrattuale apposta al contratto) e dunque con affermazioni che sul piano probatorio non sono conferenti.

Premesso,quindi, che le ragioni di doglianza formulate attengono al mancato esame da parte della sentenza impugnata delle specifiche ragioni poste a fondamento della domanda, l’appellante pone in evidenza che nel sistema della l. 6 settembre 2001 n. 368 le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo devono rispondere ad una esigenza “speciale” del datore di lavoro (art. 1 comma 1) e  l’apposizione del termine deve risultare da atto scritto e motivato (art. 1 comma 2).

Nel caso in cui le ragioni non siano specifiche ovvero manchi il collegamento causale con l’assunzione, e l’onere probatorio della sussistenza dei detti requisiti non sia compiutamente assolto dalla parte datoriale su cui grava,  il termine sarebbe nullo  e, essendo venuta meno la clausola limitativa della durata,  il contratto sarebbe a tempo indeterminato, posto che la sanzione dell’inefficacia della clausola è prevista proprio dal comma 2 dell’art. 1 della legge citata.

Pertanto, ha concluso per la declaratoria dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 4.10.2003; per l’inefficacia, annullabilità o nullità  del recesso con ordine di reintegrazione e condanna al risarcimento del danno in misura non inferiore a cinque mensilità. In alternativa o in subordine ha chiesto il ripristino del rapporto e la condanna alla corresponsione delle retribuzioni mensili maturate, anche a titolo risarcitorio, fino all’effettiva reintegrazione.

Poste Italiane s.p.a. si è costituita ed ha rilevato che debba essere esclusa la necessità che il contratto sia sorretto da esigenze eccezionali e strettamente temporanee; che sia sufficiente che sussistano oggettivamente ragioni di tipo organizzativo, tecnico, produttivo o appunto come nel caso in esame sostitutivo; che tali ragioni devono essere reali e dunque verificabili di tal che al lavoratore sia consentito di escluderne un utilizzo abusivo. Dopo aver dedotto  che tutte queste condizioni erano  state rispettate nel caso in esame, ha escluso di essere rimasta inadempiente all’obbligo di specificare per iscritto le ragioni sostitutive, ed ha precisato di avere, comunque, chiesto di poter procedere all’istruttoria testimoniale sul punto. Quanto alle conseguenze della declaratoria di illegittimità, sostiene l’appellata che la sanzione non potrebbe essere quella, prospettata, della convertibilità del rapporto mancando, in tal senso, una previsione di legge. Né sarebbe, nella prospettazione difensiva della società, applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 1419 c.c. sui rilievi  che: 1) il termine apposto aveva natura essenziale; 2) diversamente, la società non avrebbe concluso il contratto; 3) la relativa clausola era stata espressamente sottoscritta dal lavoratore.

Quanto alle conseguenze economiche, ad avviso dell’appellata,  le retribuzioni sarebbero in ipotesi dovute solo dalla effettiva ripresa del servizio o, al più, dalla messa in mora da parte del lavoratore mediante offerta della propria prestazione lavorativa, nella specie realizzatasi solo con la notificazione del ricorso introduttivo del giudizio.

Nel corso di questo giudizio di gravame è entrato in vigore l’art. 21 del d.l. n. 112/2008, come convertito in l. n. 133/2008, che ha introdotto nel decreto legislativo 368/2001 l’art. 4 bis che titola :“Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine” e dispone che “ 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni ”.

Tutto ciò premesso in fatto, rileva la Corte che l’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, che regola pacificamente la fattispecie oggi in esame, trattandosi di contratto stipulato il 3.10.2003 (cfr. doc. 1 in atti Grieco), nel testo ratione temporis applicabile prescrive al primo comma (oggi art. 1 n. 1 per effetto delle modifiche introdotte dalla legge 24 dicembre 2007 n. 247) che “E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Al secondo comma (oggi n. 2) poi prevede che  “L'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma l”. Per semplicità espositiva si continuerà a fare riferimento nella motivazione all’articolazione in commi vigente all’atto della stipula del contratto e come citata dalle parti nelle loro difese.

Questa Corte si è già occupata della legittimità dell’apposizione del termine in fattispecie analoghe e degli effetti conseguenti ed ha ritenuto che il legislatore, nel recepire la direttiva 1999/70/CE e ridisegnare la disciplina del lavoro a tempo determinato, ha introdotto una clausola molto ampia di legittimazione del contratto a termine, che per la sua generalità viene a superare l’impostazione della normativa antecedente in vigenza della quale le assunzioni a termine erano vietate salvo che in ipotesi tassative.

Tuttavia, con la previsione contenuta nel richiamato comma 2 della medesima norma, il legislatore, a fronte dell’ampiezza delle possibilità nelle quali è possibile concludere un contratto a tempo determinato di cui alla clausola generale dettata nel primo comma dell’art. 1 e alla maggiore autonomia concessa alle parti, ha, tuttavia, espressamente stabilito un onere di “specificazione”, per iscritto, delle ragioni a carico del datore di lavoro.

In conseguenza questa Corte ha tratto il convincimento che per la stipulazione di un valido contratto a termine, le ragioni di cui al comma 1 non possono essere tautologicamente ripetute o semplicemente determinate senza precisione, con una giustificazione che si risolva sostanzialmente in una letterale  riproposizione delle cause di cui al primo comma; in tali casi sarebbe, infatti, eluso l’onere di specificazione di cui al comma 2. Ed ha ritenuto necessario, perché possa dirsi assolto l’onere di specificazione,  che dalle ipotesi generali indicate dal legislatore, in via astratta, nella prima parte della norma (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), si passi alla determinazione delle esigenze che, nel caso concreto, legittimano e motivano il ricorso ad una assunzione a termine, così da rendere controllabile da parte del giudice la reale sussistenza delle stesse.

Trattandosi di una specificazione necessaria, ai sensi di legge, nell’ambito del testo negoziale, è stato affermato che si tratta di un elemento essenziale  e di un requisito necessario della fattispecie delineata dal legislatore per la valida apposizione del termine. Conseguentemente, qualora dette ragioni non siano state specificate (o siano state insufficientemente o tautologicamente esplicitate) nel testo contrattuale ne ha tratto la conseguenza della invalidità della clausola contenente il termine per carenza di un suo elemento essenziale di carattere formale.

Nei casi in cui, invece, le ragioni delle parti siano state formalmente e sufficientemente specificate nello scritto, ma sia risultato accertato, in seguito all’istruttoria, l’insussistenza dei fatti posti a fondamento delle stesse (e quindi delle stesse esigenze dichiarate), la clausola contenente il termine deve essere considerata illegittima per l’assenza del  presupposto legale necessario per la sua validità, cioè per il difetto, nel caso concreto, delle ragioni “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”  di cui al comma 1 cit..

Osserva in proposito il Collegio che questa opzione interpretativa raccoglie le indicazioni dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70 CE, della quale il D. Lgs. 368/01 costituisce attuazione, che, nella clausola 3 delle “definizioni”, recita: “ai fini del presente accordo, il termine lavoratore a tempo determinato indica una persona con un  contratto o un rapporto di  lavoro  definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore  e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”.

L’assenza di quelle condizioni obiettive che siano state specificate e formalmente dichiarate dalle parti come “ragioni” giustificative del termine, determina, in conclusione,  l’invalidità della relativa clausola, come del resto sancisce l’art. 1 comma 1 cit. che vuole consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto solo a fronte delle ragioni nello stesso elencate.

In altri termini, il requisito formale di cui al comma 2 citato, è assolto quando siano inseriti nel testo contrattuale elementi  sufficienti per il controllo sulla reale sussistenza delle ragioni menzionate e per consentire al lavoratore di averne contezza effettiva e, in caso di contrasto, al giudice di verificarne la reale consistenza  e di individuare le reali esigenze alle quali  il datore di lavoro ha inteso sopperire con la stipulazione del  contratto a tempo determinato.

Il legislatore - consentendo una maggiore autonomia delle parti rispetto al passato, con la previsione, in via astratta (in luogo delle ipotesi tassative), della  amplissima e generale casistica di cui all’art. 1 co.1 - ha posto il suddetto onere di specificazione al fine di evitare  che la clausola del termine sia utilizzata anche laddove non ricorrano reali esigenze aziendali, vincolando, quindi, tale libertà alla effettiva esistenza delle ragioni giustificatrici.

Allo stato e per quanto è dato delibare ai fini dell’esame della questione di conformità a Costituzione , la clausola oppositiva del termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto in giudizio non rechi quegli elementi di specificazione che, come si è detto, ne legittimano l’apposizione.

L’assunzione è stata disposta per “ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato nell’Area Operativa e addetto al servizio recapito, presso la Regione Sud, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo dal 1.10.2003 al 31.12.2003. Resta inteso che il rapporto do lavoro a tempo determinato si estinguerà, anche anticipatamente rispetto al termine finale del 31.12.2003 ove le esigenze di sostituzione dovessero venir meno per il rientro in servizio del personale assente”.

Orbene, osserva  questa Corte che le ragioni di carattere sostitutivo non sono precisate nel concreto  e con riferimento specifico alla  struttura alla quale il Grieco  sarebbe stato addetto (filiale di Salerno 2- Sala Consilina) tale non potendosi considerare il generico riferimento ad una esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato nell’Area operativa e  addetto al servizio di recapito presso la Regione Sud con diritto alla conservazione del posto. Come è noto la “Regione Sud” comprende un’area ben più vasta di quella di destinazione (filiale di Salerno), né è stato, neppure indirettamente, precisato se e per quali specifiche aree della Regione tali esigenze si sarebbero manifestate.

La genericità delle espressioni utilizzate non sembra consentire, poi, l’individuazione  del  nesso causale tra l’assunzione del Grieco e le concrete esigenze della Società Poste Italiane, con specifico riferimento al preciso ambito organizzativo. Non è dato conoscere neppure numericamente l’incidenza delle assenze sull’organico della filiale di destinazione di tal che è interdetto al lavoratore in prima battuta, e al giudice poi,  di verificare la effettività delle ragioni giustificatrici esercitando quel controllo che, quanto meno ex post, deve essere effettuato dal giudice in relazione alla sussistenza della causale giustificativa della limitazione temporale del rapporto. Peraltro, nel caso in esame, tale verifica sarebbe preclusa anche a causa della estrema genericità delle circostanze di prova articolate dalla società appellata nella memoria di primo grado, e reiterate in appello, che tautologicamente ripetono la causale già riportata nel contratto senza null’altro aggiungere neppure in via di allegazione (cfr memoria Poste I° pagg. 2 e 11).

Va precisato che nel caso in esame, contrariamente a quanto dedotto dalla società nella memoria di costituzione in giudizio, non è stata concordata  alcuna clausola che attribuisca al  termine di durata il valore di pattuizione essenziale.

Sicchè, a prescindere dalla efficacia di una pattuizione di tal fatta, accedendo alla proposta interpretazione della normativa applicabile al caso concreto, conseguenza della declaratoria di nullità del termine, prima dell’entrata in vigore della l. n. 133 del 2008, sarebbe stata il ripristino del rapporto.

Questa Corte in altre decisioni ha già statuito che la nullità della clausola non travolge l’intero contratto prevalendo, in una prospettiva interpretativa delle norme conforme ai principi dettati dalla direttiva comunitaria, il principio di conservazione degli atti e, dunque, la persistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti. Nella stessa direzione si è pronunciata di recente la Suprema Corte che ha affermato che “l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall'art. 39 della legge n. 247 del 2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l'apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell'interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’ illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l'invalidità parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e ciò anche nel caso in cui tra le parti sia intercorso un unico contratto a termine”  ( Cass. 12985 / 2008).

Queste, in conclusione, nel caso concreto sarebbero state le conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimità del contratto,conseguenze oggi precluse per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 21 bis del decreto legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge 133/2008 che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l’art. 4 bis.

Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilità di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l’indennità riconoscibile sarebbe necessariamente limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilità.

Questa Corte ritiene che non si possa dubitare della rilevanza della questione di legittimità costituzionale del più volte citato art. dell’art. 21 comma 1 bis della legge n. 133/2008, sulla scorta di quanto osservato con riferimento alla vicenda dedotta in giudizio,  e della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 1, 111 comma 1 e 117 comma 1, della Costituzione, nel significato che assumono anche per effetto delle proclamazioni contenute nell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a  Nizza il 7 dicembre 2000, alle quali  la Corte Costituzionale  ha  indubbiamente assegnato il valore di parametro di riferimento nel giudizio di costituzionalità ( v. Corte Cost. 135/2002, implicitamente riconoscendo che i diritti e le libertà fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori–diritti  alla dignità delle persone, compongono un quadro di proclamazioni  assimilabili al livello costituzionale.

 

Contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

 

Va considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per il perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere è attribuito. E’ questo il connotato dei poteri costituzionali delle moderne democrazie poiché si tratta di poteri discrezionali ma non liberi nei fini , secondo la definizione di accreditata dottrina costituzionalista.

Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime funzioni nelle quali si  esprime la sovranità dello Stato non possono espletare le potestà loro attribuite per scopi diversi da quelli cui le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione.

Tale finalità è vietata dalla nostra Costituzione.

In particolare, il potere legislativo, subordinato com’è al pari degli altri poteri costituzionali all’impero delle norme e dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra nel suo esplicarsi , il limite della legalità costituiti dalla ragionevolezza dell’intervento legislativo (cfr. Corte Costituzionale 7 luglio 1964 n. 72,15 luglio 1991 n. 346).

Tanto premesso questa Corte osserva che la disposizione denunciata è stata introdotta, per i contratti regolati dal decreto legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali sia pendente un giudizio circa la legittimità del termine apposto, una regolamentazione diversa rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti a termine, secondo quanto generalmente affermato in materia dalla  giurisprudenza di merito e di legittimità.

Per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 133 del 2008 , infatti,  ove sia pendente un giudizio ( e salvi dunque solo i giudicati) la tutela accordata ai contratti a tempo determinato, stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell’art. 1, 2 e 4  del decreto stesso, è limitata al solo pagamento di una “indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e successive modificazioni.”

La norma censurata non contiene alcun riferimento all’obbligo per il datore di lavoro, pur previsto dall’art. 8 della l. n. 604/1966, di procedere al pagamento dell’indennizzo solo ove non provveda nel termine di tre giorni a riassumerlo, ma limita il richiamo ai soli criteri da seguire per l’esatta quantificazione dell’indennità.

Così facendo il legislatore ha ridotto la tutela accordata, avendo riguardo al solo discrimine temporale della attuale pendenza di un giudizio.

Per tutti quei contratti a termine stipulati nel regime del decreto legislativo 368/2001 il cui ricorso introduttivo della lite sia stato depositato successivamente all’entrata in vigore della legge 133/2008 ( che ex art. 1 ult. co. è entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e, dunque, per essere stata   pubblicata sul S.O. n. 196 alla G.U. n. 195 del 21.8.2008,  dal 22.8.2008) le conseguenze restano quelle già previste e sopra diffusamente riportate (ripristino del rapporto e risarcimento del danno).

Il discrimine per individuare la normativa applicabile è, dunque, del tutto casualmente ancorato al fatto  che il lavoratore avesse o meno iniziato un giudizio.

Ritiene allora questa Corte che non vi sia alcun elemento per ritenere che la scelta del legislatore sia stata determinata da un meditato ripensamento delle tutele da accordare, in generale, ai contratti a tempo determinato.

Questa Corte è ben a conoscenza dei principi affermati  dal giudice delle leggi il quale in più occasioni ha precisato che ben può il legislatore applicare alla stessa categoria di soggetti, trattamenti differenziati in momenti diversi nel tempo. La Corte Costituzionale ha, infatti, ancora di recente, ribadito che tale scelta  non contrasta di per sé con il principio di eguaglianza posto che proprio il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche. La demarcazione temporale consegue, come effetto naturale, alla generalità delle leggi  e non comporta, di per sé, una lesione del principio di parità di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione (v. Corte Cost. 234/2007 e  ordinanze 342/2006, 216/2005 e 121/2003).

Tuttavia la legge in esame non rappresenta una rimeditazione complessiva degli effetti con riferimento alla generalità dei soggetti , canone di eguaglianza che deve permanere ove il tempo determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto, contiene la previsione, di una sorta di moratoria delle conseguenze generali rispetto ad un contenzioso temporalmente  definito (cause pendenti alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro.

Non dubita il Collegio che il legislatore abbia il potere di dettare norme aventi contenuto concreto e particolare dalle quali possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non è ravvisabile, in via generale, un’illegittima invasione da parte della funzione legislativa nell’ambito riservato dalla Costituzione all’autorità giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una situazione anche pregressa, senza violare il giudicato, non sottrae al giudice alcuna controversia , ma gli fornisce, appunto, la regola di diritto che egli deve applicare. Ma con la norma in esame il legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto -  gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto, ad avviso di questa Corte in maniera del tutto irragionevole, di limitarne gli effetti alle sole controversie pendenti.

Non è infatti ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono  i  giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (chè se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe stato fatto salvo).

Con l’aggravante che  proprio per il modo in cui interviene “con riferimento ai soli giudizi in corso”, il comma 1-bis dell’art. 21 della l. n. 133 del 2008 finisce per amplificare ulteriormente, anche sul piano dell’utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto sul piano del diritto alla difesa e dell’ “equo processo” (artt. 3, 24 comma 1 e 111, 1° comma , 117  Cost.), gli effetti, già illustrati e per loro stessi discriminatori, dell’intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli  artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo  n. 368 del 2001.

 

Contrasto con  gli artt. 24 comma 1, 111 comma 1 e 117 comma 1 della Costituzione

 

Va premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate e dall’intepretazione che delle stesse ha ripetutamente offerto la Corte Costituzionale, emerge con evidenza l’esistenza, nel nostro ordinamento costituzionale, di un principio immanente del giusto processo, che proclamato dall’art. 111 comma 1 Cost., si manifesta in maniera complessa e poliedrica e che ha stretta correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi ( art. 24 comma 1° Cost.), con il diritto ad avere regole giuste nel processo (art. 111 comma 1° Cost), a tutela del contraddittorio, della terzietà ed imparzialità del giudice (art 111 comma 2° Cost.), con  il diritto del cittadino di vedere esercitato il potere legislativo da parte dello Stato e delle Regioni non solo nel rispetto della Costituzione Italiana ma anche dei vincoli dettati dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117 comma 1 Cost.).

L’art. 4 bis del decreto legislativo 368/2001 viola il principio costituzionale del giusto processo perchè nel corso del procedimento giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta del legislatore.

Ritiene infatti questa Corte che nel caso in esame l’intervento legislativo determini un’alterazione della condizione di parità  nell’esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata.

Ed infatti, è evidente che il legislatore a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani  è intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie  pendenti in termini di minor impatto economico per le parti datoriali , senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle  imperiose ragioni d’interesse generale, che, ad esempio, la Corte Europea di Strasburgo richiede come condizione per superare il divieto d’ingerenza ( in tal senso si legga l’ordinanza della Corte Cass. n.  22260/2008 relativamente all’ art. 1 comma 218 l. 266 /2005).

Ed, infatti, nessuna traccia di ciò è riscontrabile  nel procedimento legislativo che ha condotto all’approvazione di tale disposizione. E’ sintomatico, anzi, che la norma, inizialmente pensata  proprio per definire il contenzioso dei contratti a termine con la società qui appellata, sia stata in corso d’opera estesa a tutti i contratti a tempo determinato , proprio per rimediare ad una evidente violazione, quanto meno, dell’art. 3 della Costituzione.

Ma anche nel testo approvato, ed oggi esaminato, non sono rintracciabili quelle ragioni oggettive a tutela di un interesse generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l’adozione.

Al contrario, si potrebbe dire che l’ inesistenza di una simile ratio è “in re ipsa” per il solo fatto che la ridotta tutela è limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione di interesse generale risulta in qualche modo esplicitata neppure nei lavori parlamentari.

Con ciò, e senza che per questo sia ravvisabile alcuna esigenza concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata la stessa ordinaria ed elementare logica del processo “equo” e improntato all’effettività della tutela giurisdizionale; giacché sarebbe logico, al contrario di quel che discende dalle previsioni del comma 1-bis dell’art. 21 della l. n. 133 del 2008, che nei “giudizi in corso” le certezze sulla difesa dei propri diritti tanto più siano  acquisite, e non passibili di essere rimesse in gioco da capo, quanto più il processo sia pervenuto in una fase avanzata e sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti.

Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla violazione dell’art. 117 1°comma Cost..

La Corte osserva che nell’esaminare la rilevanza della questione con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., si può dare valore interpretativo ai principi contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), sia in relazione ai parametri costituzionali di cui tenere conto  che alle norme censurate (cfr. Corte Cost. n. 505/1995; ord. n. 305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative, anche di natura sovranazionale (cfr. di recente Corte Cost.  n. 349/2007 ma anche Corte Cost. n. 231/ 2004).

In taluni casi la Corte Costituzionale ha richiamato norme della CEDU, svolgendo argomentazioni espressive di un’interpretazione conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell’esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003) che risultava così avvalorata anche in ragione della sua conformità con i “valori espressi” dalla Convenzione, “secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo” (v. sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998. Si è infatti sottolineato come un diritto garantito da norme costituzionali sia “protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti (...) come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo” (cfr. sentenza n. 154 del 2004).

Avvalorata e confermata la possibilità di utilizzare il parametro richiamato per valutare la compatibilità della norma censurata con l'art. 6 della CEDU e dunque con l’art. 117 comma 1 Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come più volte statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino c. Italia, 29.3.2006), gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall’esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l’intervento retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale.

Ne consegue che nel caso in esame il legislatore con una disposizione che, non interpreta norme di legge esistenti ma muta il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimità del termine apposto al contratto e così impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall’ordinamento generale (tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa).

In tal modo la norma in esame determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si è evidenziato, solo e soltanto sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge realizzando  una inammissibile intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie.

In conclusione, ed alla luce delle esposte considerazioni, ritiene la Corte di dover ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti.

Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte Costituzionale.

 

PQM

La Corte d’Appello di Roma, sezione lavoro;

visto l’art. 23 comma 2 della legge 11.3.1953 n. 87 dichiara rilevante e non manifestamente infondata la  questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 comma 1 bis della legge 6 agosto 2008 n. 133 con il quale dopo l’art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 è stato inserito l’art. 4 bis , per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 1, 111 comma 1  e 117 comma 1 della Costituzione.

Sospende il presente giudizio.

Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri nonché di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Dispone la trasmissione dell’ordinanza e degli atti del giudizio alla Corte Costituzionale unitamente alla prova delle comunicazioni prescritte.

 

Roma, 21 ottobre 2008

 

Il Giudice estensore

Dr.sa Fabrizia Garri

IL PRESIDENTE

Dr.sa Amelia Torrice

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