Legge Biagi, due anni dopo la riforma del lavoro non decolla

 

Il giudizio sul provvedimento è sospeso. Flessibilità e precariato continuano a dividere i pareri degli operatori

 

Le collaborazioni coordinate e continuative, accusa uno studio della Cgil, hanno cambiato solo nome, diventando "collaborazioni a progetto". Per cui la riforma del diritto del lavoro ha fallito nel suo obiettivo principale di ridurre il lavoro precario. Non è vero, rispondono dal Governo: la flessibilità ha incrementato la base occupazionale e portato alla luce i rapporti di lavoro subordinati mascherati da autonomi. Dopo due anni di applicazione (i decreti attuativi sono entrati in vigore il 23 ottobre del 2003), la legge Biagi continua a dividere il mondo politico e produttivo. Con Governo e Confindustria che ne rivendicano il successo e l'Unione che parla di sostanziale fallimento e annuncia una profonda revisione in caso di successo elettorale. Mentre i sindacati provano a ridurre le distanze emerse nel 2003. Tra le poche certezze, la mancanza di un monitoraggio complessivo della legge che consenta di analizzare in maniera obiettiva gli effetti.

 

Le posizioni in campo

«La legge 30/2003 - spiega Tiziano Treu, esponente della Margherita ed ex ministro del Lavoro - ha fallito nel suo obiettivo. La scelta di accelerare sul piano della flessibilità non ha prodotto sostanziali vantaggi per i lavoratori precari, visto che la crescita occupazionale

degli ultimi anni è da  attribuire principalmente alla regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari». La posizione dell'Unione su questo punto è chiara: in caso di successo elettorale, sarà rivisto l'intero impianto della Biagi. «Attualmente — prosegue Treu — le aziende pagano il 32% di contributi per i dipendenti e appena il 18% per i collaboratori. Di qui la scelta di assumere sempre meno gente in maniera stabile. Una   differenza da colmare».

L'esponente dell'Unione prevede, inoltre, una semplificazione della legge: «Servono non più di 4-5 forme contrattuali per superare la confusione attuale».

Una posizione respinta al mittente da Maurizio Sacconi, sottosegretario al Welfare, che rivendica i successi: «La legge ha incontrato delle difficoltà, ma sta dando buoni frutti: i contratti di apprendistato sono un successo. È stato lento l'avvio dei contratti di inserimento, ma era inevitabile, visto che si rivolgono a segmenti specifici come i giovani disoccupati di lungo periodo e alle donne che abitano in aree ad elevata disoccupazione». Guardando agli ultimi cinque anni, Sacconi rivendica «un milione e 200 mila nuovi posti di lavoro, di cui 711 mila donne». La legge 30 piace anche a Confindustria, che tuttavia si riserva una posizione ufficiale quando il quadro sarà più chiaro. La riforma, dicono a mezza bocca, ha funzionato, ma alcuni istituti vanno perfezionati. «Di legge da sostenere e non smantellare» hanno parlato alcune settimane fa anche i giovani industriali riuniti a Capri.

Sul fronte sindacale le posizioni resta diversificate. Cisl e Uil, che avevano firmato con l'esecutivo il Patto per l'Italia, ne difendono la portata, pur evidenziando alcuni punti che non hanno funzionato, mentre la Cgil ne chiede l ' abolizione. Nei fatti, però, le tre sigle confederali hanno quasi sempre fatto fronte comune in sede di contrattazione collettiva, convergendo su posizioni di compromesso. «La Biagi - osserva il segretario con­federale della Cisl, Raffaele Bo-nanni - ha consentito di aumentare le garanzie di molti lavoratori e per questo merita la sufficienza. Mentre non è stato avviato il sistema degli ammortizzatori sociale, necessario per sostenere la flessibilità». Mentre Emiliano Viafora, segretario della Nidil (i lavoratori flessibili della Cgil), chiede «l'abolizione della riforma e il ripensamento degli strumenti a tutela dei lavoratori».

 

Il passaggio al progetto non aumenta le tutele

Le innovazioni della legge 30, secondo Antonio Lombardo, amministratore delegato dell'agenzia per il lavoro Ali, sono destinate a cambiare profondamente il mercato del lavoro, ma necessitano di tempo per essere  assorbite  dal mondo produttivo: «Le strategie delle imprese sono destinate a cambiare: l'attenzione sarà concentrata sul core business, mentre la gestione delle risorse umane verrà affidata a operatori esterni». Al di là delle differenti posizioni, è interessante considerare il livello di applicazione della legge:  gli istituti avviati, quelli ancora fermi, i primi effetti.  Portare a galla i rapporti di lavoro   subordinato  mascherati da collaborazioni coordinate e continuative per porre un freno al precariato. Questo l'obiettivo primario della riforma del lavoro introdotta con la legge 30/2003. Da cui l'idea di legare le collaborazioni a un progetto o a un programma di lavoro. Tuttavia, a guardare i dati diffusi dall'Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires) della Cgil, l'obiettivo è stato mancato. Infatti solo il 6,5%  degli ex co. co. co. ha oggi un contratto a tempo indeterminato e una quota simile (il 7,3%) non lavora più o lo fa in nero. Inoltre, il 46% lavora con contratti a progetto, mentre il 5,8%, afferma la ricerca «è stato indotto dal proprio committente ad aprire la partita iva». Per Emilio Viafora, «la riforma si è risolta in un passaggio formale da una forma di collaborazione ad un'altra, senza effettivi vantaggi in termini di qualità dell'occupazione. Non sono certo aumentate le tutele per i precari».

Inoltre questi lavoratori non sono affatto autonomi: infatti il 76% degli intervistati lavora per un unico datore di lavoro, l’80% è tenuto a rispettare un orario di lavoro e al 74% è richiesta una presenza quotidiana sul luogo di lavoro. Il nuovo istituto non piace nemmeno ai dirigenti d'azienda: «Se il passaggio ai co. co. pro. voleva moralizzare il sistema — osserva Giorgio Ambrogioni, vice segretario di Federmanager — l'obiettivo è stato mancato in pieno. Legare il lavoro di un manager alla realizzazione di un progetto è una forzatura evidente, che complica ulteriormente le cose e non aiuta a smascherare gli abusi».

 

Il collocamento privato e la Borsa lavoro

Tra le altre novità della riforma, l'ingresso dei privati nei servizi per il lavoro, viste le deficienze evidenziate dal collocamento pubblico. Sono così nate le agenzie per il lavoro, incaricate di far incontrare più agevolmente domanda e offerta di lavoro. «Un'innovazione che ha avvicinato l'Italia alla maggior parte degli altri Paesi occidentali», afferma Piermario Donadoni, amministratore delegato di Metis, uno dei principali operatori del settore. Questo però non ha permesso di eliminare gli abusi. «La differenza degli oneri contributivi — commenta — spinge ancora oggi molte aziende a inquadrare come collaboratori autonomi persone che in realtà vengono utilizzate come dipendenti. In questo modo — aggiunge — i giovani si vedono costretti a rinviare nel tempo la definizione del proprio progetto di vita».

Procede, intanto, con qualche inciampo anche la Borsa continua nazionale del lavoro, una banca dati di domande  e  offerte  di   lavoro alimentata sia da operatori   pubblici, che dai privati autorizzati. La riforma prevedeva in una prima fase l'avvio delle borse regionali, destinate poi a confluire in un portale nazionale da avviare entro il 2004. Ma i tempi si sono dilatati: Lombardia e Veneto sono partite all'inizio di quest'anno. Altre regioni hanno le hanno seguite nei mesi successivi, ma quasi la metà è ancora al palo, frenata da intoppi burocratici. La nuova data di avvio per la borsa nazionale è stata fissata per marzo 2006.

 

Apprendistato e staff leasing

Le regioni sono state coinvolte anche nel nuovo apprendistato, con il compito di fissare i programmi formativi. Ma anche in questo caso gli accordi conclusi si possono contare sulle dita di un mano. Tanto che il ministero del Welfare è intervenuto a luglio prevedendo l'applicazione dei contratti collettivi in quelle regioni sprovviste di regolamentazione propria. Poco successo hanno avuto anche il lavoro a chiamata e quello ripartito: il primo, detto anche "job on call ", destinato a sostituire il cosiddetto "lavoro a fattura"; il secondo, identificato anche come "job-sharing ", che affida a due soggetti l'adempimento in solido dell 'obbligazione lavorativa, lasciandoli liberi di stabilire le modalità di esecuzione.

Infine c'è lo staff leasing (o somministrazione di lavoro a tempo indeterminato), che consente alle agenzie per il lavoro di assumere personale e "affittarlo" alle aziende clienti. «Uno strumento da tempo impiegato dalle grandi aziende — commenta Donadoni — anche ;  se con nomi differenti, come l'appalto di servizi». Questo istituto, nei fatti, non è mai partito. Frenato dalle resistenze della Cgil, che non ha voluto firmare l 'accordo collettivo nazionale, e dai confini non ancora del tutto definiti dell'istituto. Un giudizio interlocutorio sulla riforma viene espresso, infine da Alessandro Ramazza, presidente di Obiettivo Lavoro: «job sharing e job on cali sono rimasti al palo, dimostrando di essere modalità lontane della cultura italiana». Mentre l'apprendistato è importante «per la funzione formativa nei confronti dei giovani». Da rivedere, infine, la disciplina dello staff leasing. «Uno strumento — commenta  - con buone potenzialità di crescita, ma il cui avvio è frenato dalla scarsa chiarezza sulle modalità di applicazione».

 

LUIGI DELL'OLIO

(fonte: La Repubblica, Affari e Finanza del 21.11.2005, p. 21)

 

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