Comunicazione scritta (e forme tecnologicamente sostitutive) del licenziamento e sua tempestiva impugnazione

 

Sommario:

1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008, n. 22287

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

3.La comunicazione di  licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

4.L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

 

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1. Il pensiero di Cass., sez. lav., 4.9.2008  n. 22287

 

La recentissima decisione di Cass., sez. lav., 4.9.2008  n. 22287 (est. Roselli) – di cui riferiamo subito il pensiero in sintesi – ci fornisce l’occasione per una più ampia disamina delle modalità di comunicazione e di impugnativa del licenziamento, alla luce dell’orientamento maturato in giurisprudenza nel corso del tempo, accompagnato dalla prospettazione  di nostre considerazioni in merito.

Vanno riferiti preliminarmente, per adeguata comprensione di quanto diremo in prosieguo, due dati normativi attinenti alla forma della comunicazione del licenziamento nonché all’impugnativa del medesimo, codificati rispettivamente nell’art. 2, L. n. 604/1966 e nell’art. 6 stessa legge (entrambi come modificati dalla L. n. 108/1990). Il primo dispone: « 1. Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. […]». Il secondoafferente all’impugnativa - recita: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla  ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. […]».

Con la precitata sentenza la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui «l'impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all'art. 6, L. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all'ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine». Senza snaturare il carattere ricettizio del licenziamento essa ha aderito all’impostazione della Corte costituzionale che aveva ritenuto – in campo processuale – che la decadenza per il soggetto onerato della notifica degli atti era impedita dalla consegna dei medesimi «all’ufficiale giudiziario oppure all'agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97)». Con tale orientamento la Consulta sottrasse al mittente l’ingiustificato accollo di eventuali responsabilità di terzi per la ritardata consegna degli atti al destinatario e conseguente ritardata cognizione dei medesimi. Nel campo del lavoro – dice espressamente  Cass. 22287/2008 – tale esigenza è ancor più sostanziale e giustificata, in ragione della privazione in capo al lavoratore e per effetto del licenziamento dei mezzi di sostentamento correlati allo stato di disoccupazione e, quindi, l’orientamento palesato in campo processuale dalla Corte costituzionale si rivela ancor più meritevole di recepimento. Giustappunto queste ragioni stanno alla base del precedente in materia – prosegue ancora la Cassazione -  afferente l'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza), ove tale disposto «è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell'istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087)».

 

2. L’inammissibile rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento consegnata a mano in azienda

 

Ciò premesso, la problematica dell’obbligo del dipendente di  ricevere comunicazioni verbali o scritte – compreso tra le comunicazioni verbali  il non rifiutabile ascolto delle determinazioni che il superiore  intende rassegnargli – è stata oggetto, abbastanza di recente, di una nuova disamina ad opera di Cass., sez. lav.,5.11.2007,  n. 23061 (est. Monaci). La Cassazione, tramite quest’ultima decisione, ha riconfermato l’insussistenza di un diritto del dipendente di astenersi (o rifiutarsi) dal ricevere sul luogo di lavoro e durante l’orario di normale prestazione una comunicazione di licenziamento, equiparando il rifiuto all’avvenuta consegna.

La problematica era stata già sviscerata in precedenza da Cass., sez. lav., 12.11.1999,  n. 12571 (est. Sciarelli) e da Cass., sez. lav., 5.6.2001, n. 7620 (est. Toffoli) che avevano raggiunto conclusioni similari, sostanzialmente conformi, talché l’orientamento della sentenza più recente può considerarsi  al momento consolidato, in quanto esente da diversificazioni di opinione o da dissociazioni.

Cass. n. 1271/1999 si era occupata della fattispecie di un dirigente di banca al quale l’Amministratore delegato aveva tentato di consegnare una lettera di licenziamento sul posto di lavoro ma lo stesso si era rifiutato di riceverla e istantaneamente era stato colto da malore e trasportato d’urgenza presso l’ospedale di Potenza, dal quale aveva fatto pervenire il giorno dopo idonea documentazione medica di malattia con 15 giorni di prognosi. Le conclusioni della Cassazione, investita in ultima fase della vicenda, sono riassumibili nelle seguenti: «E’ principio fondamentale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell'obbligato, inficiandone l'adempimento. Nel diritto sostanziale tale principio è rilevabile dalle norme sulla mora credendi: il rifiuto dell'adempimento non può nuocere al debitore. Egualmente, il medesimo principio si ravvisa nella specifica norma sulla presunzione di conoscenza, secondo cui gli atti si presumono conosciuti col semplice arrivo all'indirizzo del destinatario (art. 1335 c.c.), essendo, dunque, irrilevante il rifiuto di accettarli. Ancor più chiaramente, nel diritto processuale, se il destinatario rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie (art. 138 c.p.c.). Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è il licenziamento: il rifiuto di ricevere l'atto scritto di licenziamento non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta».

La successiva Cass. n. 7620/2001 si era dovuta occupare della tentata consegna ad una dipendente dell’Unione industriali di Pisa  – per il tramite di un fattorino in organico all’Unione – di una lettera di licenziamento  fuori orario di lavoro, per strada, ricevendone il rifiuto (ritenuto legittimo anche dal  giudice di primo grado).

Le conclusioni raggiunte dalla Cassazione, per la fattispecie, risultarono confermative dell’inesistenza di un obbligo del lavoratore di ricevere una comunicazione aziendale a mano da parte di incaricato dell’azienda, fuori del luogo e dell’orario di lavoro, con puntualizzazioni opposte per il caso che la tentata consegna fosse, invece, avvenuta in azienda e durante l’orario di lavoro. La Cassazione ebbe così a precisare: «E’ esatto che l'art. 2 della L. n. 604/1966 non prescrive forme particolari quanto alla consegna dell'atto scritto, richiesto dalla disposizione stessa; la consegna può quindi essere effettuata tramite persona incaricata dal datore di lavoro, la quale può poi essere assunta come teste al fine di provare l'avvenuta consegna (Cass. n. 1024/1997).[…] A tale principio non sembra, però, che possa attribuirsi una validità senza limiti. Deve affermarsi infatti che non esiste un incondizionato obbligo, o onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni, e in particolare di accettare la consegna di comunicazioni scritte, da parte di chicchessia e in qualunque situazione. Una situazione di soggezione a tali fini è certamente sussistente rispetto alle comunicazioni normativamente disciplinate, quali quelle mediante notificazione (che si attuano con il concorso di un potere pubblicistico) o mediante i servizi postali. Al di fuori di questi casi, una situazione di soggezione ai fini in esame del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni e dai rapporti giuridici cui la comunicazione stessa si collega.

In relazione al rapporto di lavoro, in particolare, è configurabile in linea di massima l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (del resto la citata sentenza Cass. n. 12571/1999 si riferisce proprio a una consegna dell'atto di licenziamento nell'ambito dell'ambiente di lavoro), così come, peraltro, non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore.

Un obbligo analogo non è, però, configurabile in termini generali al di fuori dell'orario e del posto di lavoro, e, in particolare, con riferimento a comunicazioni tentate, come nella specie, in un luogo pubblico».

La recente sentenza di Cass. n. 23061/2007 si è occupata del rifiuto di un medico di una Asl di ricevere la lettera di licenziamento in azienda da parte del superiore, alla presenza di altro medico.

Essa ha ricapitolato le impostazioni delle sentenze da noi già riassunte ed ha concluso in tal senso: «Se non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest'obbligo può invece sussistere, in relazione alle circostanze, e purché non sia prescritto per legge o per contratto l'utilizzo di un mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per telegramma, tramite fax, ecc.) quando i due soggetti privati siano già uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all'interno del rapporto negoziale.

In particolare, per quanto qui interessa, quest'obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell'ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in un caso di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, "anche nell'ambito del diritto sostanziale il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta." (Cass. civ., 12 novembre 1999, n. 12571).

In proposito, e sempre con riferimento ad un altro caso di consegna di una lettera di licenziamento, la Corte ha precisato ulteriormente che "il principio, secondo cui (...) il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generali ed incondizionati, l'obbligo, o l'onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione [...] una soggezione in tal senso del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni o dai rapporti giuridici cui la comunicazione si collega. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto" (Cass. civ., 5 giugno 2001, n. 7620), mentre "un obbligo analogo non è configurabile, in genere, al di fuori dell'orario di lavoro e, in particolare, in un luogo pubblico».

 

3 .La comunicazione di  licenziamento (e la sua impugnazione) tramite fax, telegramma ed e-mail

 

Il licenziamento, in quanto atto unilaterale ricettizio, è efficace quando sia provata la ricezione della relativa comunicazione. Questa caratteristica ha fatto sorgere problemi attinenti alle forme e strumenti di trasmissione della comunicazione, che – come dice l’art. 2, L. n. 604/66 – deve avvenire per iscritto, nonché in ordine alla prova (effettiva o presunta) di avvenuta ricezione da parte del destinatario.

Se di regola la comunicazione avviene tramite la tradizionale raccomandata A.R. indirizzata al domicilio del destinatario, non è inusuale che  - in ragione dell’evoluzione delle tecnologie – si utilizzino le nuove strumentazioni a disposizione (fax, telegramma fono dettato, e-mail). Allo stato attuale prevale assolutamente il metodo tradizionale della raccomandata; il ricorso alla comunicazione via fax, telegramma o e-mail assolvono di regola al ruolo di una “anticipazione” o “preannuncio”. Tuttavia non mancano casi in cui l’uso della comunicazione tramite le nuove tecnologie sia autonoma ed avvenga senza che sia attivata la successiva conferma tradizionale per posta raccomandata.

 

3.1. La comunicazione via fax realizza, senza dubbio alcuno, i requisiti dell’atto scritto richiesti dalla legge per la comunicazione di licenziamento, mentre problematiche sono state sollevate circa  la prova dell’avvenuta ricezione da parte del destinatario. Quest’ultime perplessità – tuttavia – sono state convincentemente fugate recentissimamente da Tar Lazio 9.6.2008, sez. 3 bis, n. 5113, la quale ha statuito in una controversia di carattere commerciale che: «Se c’è l’ok il fax si presume arrivato. I documenti trasmessi via fax si presumono giunti al destinatario se il rapporto di trasmissione indica che il loro invio è avvenuto regolarmente». Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha così accolto il ricorso di una società contro Sviluppo Italia s.p.a., ora Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa, che aveva respinto la richiesta della ricorrente di ottenere un finanziamento per intraprendere l’attività avente per oggetto la creazione di un centro di rigenerazione e di ricostruzione cartucce e toner per stampanti con servizio di manutenzione e assistenza. Secondo i giudici amministrativi il ricorso è da considerarsi fondato in quanto l’Agenzia aveva rifiutato il finanziamento senza prendere in considerazione i chiarimenti a sostegno della domanda che le erano stati trasmessi dalla società via fax. L’Agenzia aveva dichiarato di non averli esaminati poiché non li aveva mai ricevuti. Il Tar ha però chiarito che «non è sufficiente sostenere di non aver ricevuto i documenti via fax. Infatti l’Agenzia avrebbe dovuto fornire una prova concreta della loro mancata comunicazione, dal momento che, quando i dati si trasmettono via fax, se il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta correttamente, si presume che il destinatario ne sia venuto a conoscenza, a meno che non provi l’esistenza di un cattivo funzionamento dell’apparecchio ricevente o di una sua rottura che abbia impedito l’effettiva comunicazione, mentre il mittente non deve fornire alcuna ulteriore prova sull’invio».

Ha poi aggiunto il Tar del Lazio che: «mette conto evidenziare che, ai sensi dell’art. 45, comma 1, del d. lgs. 17 marzo 2005, n. 82, recante il "Codice dell’amministrazione digitale", i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale (l’ora riportata disposizione legislativa è sostanzialmente reiterativa di quella contenuta nell’art. 43, comma 6, del d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, con il quale è stato emanato il "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa)».

Sotto il versante giurisprudenziale, dopo aver premesso che «il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l'utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente», è stato affermato che «tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, ne fanno uno strumento idoneo a garantire l'effettività della comunicazione» (cfr. CdS, VI, 4 giugno 2007, n. 2951, cui adde: Tar Lazio, III-quater, 13 febbario 2008, n. 1254; Tar Sicilia, Palermo, II, 7 febbraio 2008, n. 197; Tar Lazio, III-bis, 4 gennaio 2008, n. 238; Tar Lazio, I bis, 27 ottobre 2004, n. 17353; Tar Piemonte, 10 giugno 2002, n. 1190).

E stato poi soggiunto, in ordine alla presunzione che assiste la ricezione del fax e della prova contraria che può essere opposta dal destinarlo (presunzione che ha riflessi sul thema decidendum), quanto segue: «Posto […] che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue che […] un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio» (cit. sent. CdS n. 2951/2007, che fa riferimento a una precedente decisione della Sez. V, 24 aprile 2002, n. 2202; nonché Tar Lazio, III, 11 febbraio 2006, n. 1066).

 

3.2. Circa l’utilizzo del telegramma fono dettato (e convertito per iscritto in cartaceo dall’operatore delle Poste), si registrano le affermazioni di legittimazione (nel caso di specie per l’impugnativa di licenziamento ad iniziativa della lavoratrice, ma pacificamente estensibili alla comunicazione di licenziamento ad iniziativa datoriale) di Cass. n. 7260/2001. In essa la Cassazione ha statuito che: «va ricordato che l'art. 2705 c.c. (sulla cui ratio cfr. Cass. n. 12128/1992) , attribuisce l'efficacia dell'atto scritto al telegramma anche se l'originale consegnato all'ufficio telegrafico non è sottoscritto dal mittente, "se l'atto è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo".

La rilevanza di tale norma anche ai fini dell'impugnativa stragiudiziale del licenziamento - che, a norma dell'art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, deve rivestire la forma scritta - è stata ripetutamente enunciata da questa Corte (Cass. n. 7610/1991, n. 6749/1996, n. 12256/2000, n. 14297/2000; cfr. anche Cass. n. 13959/2000 a proposito dell'intimazione del licenziamento mediante telegramma).

La possibile efficacia ai fini in esame anche di un telegramma spedito mediante l'apposito servizio telefonico è stata affermata da una recente pronuncia di questa Corte (Cass. n. 14297/2000, cit.), che ha rilevato anche come, in caso di contestazione, la prova della provenienza della dichiarazione da parte del lavoratore licenziato possa essere fornita anche mediante presunzioni.

Peraltro a conclusioni analoghe è pervenuta, con riferimento all'accettazione di una proposta contrattuale, una precedente sentenza (Cass. n. 6788/1990), la quale ha ritenuto che, anche in caso di fonodettatura del telegramma, prevista dall'art. 299 del d.P.R. 29 marzo 1973 n. 156 (cd. codice postale), chi ne appare il mittente, in caso di contestazione, ha la facoltà e l'onere di provare, con ricorso ad ogni tipo di prova, che l'affidamento all'ufficio incaricato di trasmetterlo è avvenuto a sua opera o sua iniziativa.

Questi principi, che si ritengono condivisibili, non sono stati correttamente applicati dal giudice d'appello, nel momento in cui ha ritenuto decisivo, riguardo alla provenienza della dichiarazione, il dato formale della dettatura del telegramma dallo studio dell'avv. X.Y. (circostanza alla quale, evidentemente, si collega l'indicazione del medesimo quale mittente, ai fini dell'addebito del costo e dell'invio della copia del telegramma), considerando detto professionista per solo questo fatto autore della dichiarazione di impugnativa del licenziamento, e trascurando invece che la presenza in calce al testo del telegramma, quale firma, delle parole "P. G." (circostanza testualmente, riferita nella stessa sentenza) sancisce la lavoratrice come soggetto a cui formalmente è riferita e imputata la dichiarazione, e, in tali termini, come effettivo mittente (al riguardo cfr. anche la citata Cass. n. 14297/2000, in cui la titolarità dell'utenza telefonica è solamente compresa tra i vari elementi indicati in via esemplificativa quali valutabili ai fini della prova per presunzioni della provenienza dal lavoratore della dichiarazione di impugnativa).

Al riguardo è opportuno precisare che in realtà non è decisivo neanche chi sia l'autore materiale della dettatura del telegramma o il redattore della dichiarazione nella sua formulazione letterale (non diversamente che nel caso delle ordinarie dichiarazioni per iscritto). Quel che conta è l'adesione della volontà (anche se orientata da qualche consulente) del soggetto interessato e apparentemente autore della dichiarazione, senza che possa avere alcuna efficacia ostativa la collaborazione di un terzo (ed eventualmente dello stesso consulente) agli aspetti concettuali o agli aspetti materiali dell'operazione. Queste conclusioni appaiono perfettamente aderenti al testo dell'art. 2705 c.c., che, quando parla di originale anche privo di firma "fatto consegnare" dal mittente, non richiede che il relativo testo sia materialmente scritto dal mittente.

Le precedenti considerazioni possono riassumersi con il seguente principio di diritto: "L'impugnativa per iscritto del licenziamento a norma dell'art. 6 della legge n. 604/1966 può essere realizzata, in base alla disciplina di cui all'art. 2705 cod. civ., anche mediante telegramma inoltrato tramite l'apposito servizio di dettatura telefonica, sempreché l'invio del telegramma, anche se effettuato materialmente da parte di un altro soggetto e da un'utenza telefonica non appartenente all'interessato, avvenga su mandato e a nome di quest'ultimo, il quale in caso di contestazione in giudizio, rimane onerato della prova di tale incarico, che può essere fornita anche a mezzo di testimoni e per presunzioni"».

 

3.3. Altra modalità suggerita dall’innovazione tecnologica, dalla diffusione di computer e stampanti e da appositi spazi comunicativi di  cd. “intranet” aziendale, è la comunicazione tramite e-mail.

Va preso atto che nelle aziende (multinazionali in primis) oramai da tempo si usa il sistema “intranet” per comunicazioni di servizio al Personale, notifica di organigrammi - riservando anche uno spazio apposito (albo virtuale) per la divulgazione di comunicati sindacali da parte delle RSA in attuazione evolutiva del diritto di affissione ex art. 25 Statuto dei lavoratori - nonché per le contestazioni disciplinari ex art. 7, L. n. 300/70 – cui replica il lavoratore con stesso mezzo per fornire le proprie giustificazioni nei 5 gg.- e così via. Chi si occupa di contenzioso del lavoro deposita sovente in giudizio una serie di e-mail scambiate tra il lavoratore e la direzione aziendale che vengono considerate pacificamente documenti attendibili e probanti da parte del magistrato.

Il dissenso di taluni in ordine all’efficacia della e-mail per il licenziamento risiede nella considerazione che - correttamente ritenendosi la comunicazione di licenziamento atto unilaterale ricettizio -  il licenziamento via e- mail sarebbe inefficace in quanto non vi sarebbe la prova che la e-mail strutturi le caratteristiche intrinsecamente connaturate all’atto ricettizio e all’atto scritto.

Si sostiene che la e-mail non fornirebbe al destinatario la garanzia della provenienza dal mittente dichiarato (l’azienda, nella persona di un suo rappresentante munito di poteri rescissori del rapporto di lavoro) – potendo ad esso sostituirsi qualsiasi “smanettone” informatico capace di confezionare un indirizzo elettronico aziendale fraudolento – e che  inoltre non avrebbe le caratteristiche dell’atto scritto, che implica – ex art. 2702 c.c. – la sottoscrizione da parte del mittente (cfr. Cass. n. 7620/2001, ove rinvio a precedenti decisioni conformi).

Le obiezioni hanno un loro fondamento anche se, in caso di contestazione, l’azienda mittente è facoltizzata a provare con tutti i mezzi dell’ordinamento (incluse le presunzioni e le testimonianze) che l’indirizzo del mittente è un indirizzo proprio e non falsificato.

Notevolmente più seria si presenta l’obiezione in ordine alla perplessità che la e-mail possa essere considerata “atto scritto” ai sensi e per gli effetti dell’art. 2702 c.c.

In effetti la e-mail come il telegramma non sono normalmente sottoscritti (cioè firmati), ove la firma serve quale garanzia per il mittente ai fini di un agevole disconoscimento. Per il telegramma la ratio di questa disciplina agevolativa, viene evidenziata da  Cass., sez. II, 11.11.1992, n. 12128, secondo la quale: «Ai fini dell’efficacia probatoria del telegramma quale scrittura privata, siccome prevista dall’art. 2705 c.c., il legislatore nell’intento di favorire la rapidità dell’incontro di volontà negoziali fra persone distanti, ha inteso prendere in considerazione l’ipotesi normale secondo cui il telegramma proviene dall’apparente mittente, con la conseguenza che solo in caso in cui ciò sia contestato il mittente medesimo è tenuto, ove intenda valersene quale scrittura privata, a fornire la prova delle condizioni, poste dal citato art. 2705, mentre, ove nessuna contestazione vi sia stata circa la provenienza del telegramma, questo ha a tutti gli effetti il valore di scrittura privata, senza che il mittente sia tenuto a dare alcuna ulteriore prova». Si può quindi correttamente sostenere che la  e-mail, per la quale non esiste una disciplina speciale  (quale quella ex art. 2705 c.c. riservata al telegramma) esonerativa della sottoscrizione da parte del mittente – e fatta salva l’ipotesi che il responsabile aziendale mittente, oltre all’inclusione dei suoi dati anagrafici identificativi, non utilizzi quella abilitata tecnicamente all’inclusione della firma digitale - è carente della sottoscrizione e non costituisce, al momento, “atto scritto” in senso giuridico. La carenza di tale caratteristica garantista per il destinatario fa sì che – allo stato attuale della nostra normativa e legislazione – la e-mail non sia utilizzabile dall’azienda a fini di comunicazione del licenziamento, anche quando l’azienda, accortamente, si faccia recapitare dal destinatario la ricevuta di avvenuta ricezione via e-mail. Anche in tale ipotesi infatti il destinatario – se non può negare di aver ricevuto la comunicazione – ha tuttavia ricevuto una comunicazione inidonea ed inefficace, priva delle caratteristiche dell’atto scritto e sottoscritto, ai sensi dell’art. 2702 c.c. L’inefficacia della e-mail quale mezzo di comunicazione del licenziamento discende quindi dall’impropria natura della comunicazione, non già da questioni inerenti la prova dell’avvenuta ricezione (o meno). A questo riguardo, infatti, anche qualora il destinatario non abbia fatto pervenire conferma all’azienda via e-mail, la mail indirizzatagli si presume pervenuta per effetto del disposto dell’art. 1335 c.c.  così formulato: «Presunzione di conoscenza - La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia». Né si potrebbe fondatamente sostenere (salvo rigido onere probatorio a carico del lavoratore) che è stata ricevuta – o è stata dotata di conferma di ricezione al mittente – per l’intervento di terzi estranei (colleghi), in quanto in azienda l’indirizzo e-mail è solitamente protetto per motivi di privacy da password apposta dal lavoratore e quindi non è accessibile, salvo imprudenze da esso commesse, a terzi.

A suo tempo, da parte di un ottimo giurista informatico (Lisi, L’e-mail è “forma scritta”?, in http://www.scint.it/appr_new.php?id=91, 2000; Id. Il valore del documento elettronico nell’aula di un Tribunale, in http://www.interlex.it/docdigit/provascritta.htm, 2004; Id. Essere o non essere: i moderni dubbi amletici di una e-mail anonima, in http://www.scint.it/appr_new.php?id=98, 2004) si è sostenuta l’opposta tesi della natura giuridica di atto scritto da parte della e-mail. A tal fine avvalendosi dell’art. 10, comma 2, del DPR n. 445/2000 (T.U. sulla documentazione amministrativa) il quale stabilisce che «Il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta. Sul piano probatorio il documento stesso é liberamente valutabile (dal giudice, ndr), tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza». Secondo questa tesi la firma elettronica sarebbe costituita dal nome dell'utente e dalla password immessi per accedere al server del provider di posta elettronica. Il suo sostenitore così argomentava:«La firma elettronica cd. “debole”, è (come già più volte detto) definita, in maniera volutamente generica, come “l'insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica” (art. 2, lett. a, d.lgs. 10/2002). Per la firma elettronica leggera non sono previsti dal legislatore sistemi di validazione e di certificazione (necessari, invece, per le firme elettroniche avanzate). I cd. metodi di autenticazione informatica  sono invece genericamente “tutto quell'insieme di strumenti elettronici e delle procedure per la verifica indiretta dell'identità”, secondo la definizione fornita dal D.Lgs. 196/2003 all'art. 4 comma 3 lett. c) - quali ad esempio, l'uso di password o di codici di identificazione personale, così come qualsiasi altro metodo che permetta in maniera diretta (o indiretta) un’identificazione (a prescindere da qualsiasi valutazione sulla sicurezza di quella identificazione, perché tali valutazioni riguardano il profilo probatorio e sono, quindi, affidate al prudente apprezzamento del giudice). Per una e-mail, quindi, l’inserimento “a monte” di identificativi quali ID e PW associati agli headers presenti nel messaggio associati alla stessa “firma” in calce al documento associata all’indirizzo e.mail conosciuto, certamente costituiscono una forma (sia pur leggera) di firma elettronica. L’e-mail, si ripete ancora, pur non assicurando, con sicurezza paragonabile alla firma digitale, l’immodificabilità e la provenienza del documento, comunque permette di attribuire (e, quindi, “firmare”) un documento ad un soggetto (né più né meno di un comune telefax o telex): l’autenticazione informatica non garantisce (perché la legge non lo richiede) l’immodificabilità e l’integrità del documento, né la sua sicura provenienza».

Va detto – a fronte di tali argomentazioni – che invero la definizione di “firma elettronica” desumibile dall’ art. 2, n. 1, della  direttiva europea n. 93/1999 (Relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche) – recepita poi in sede nazionale dall’art. 2, lett. a, d.lgs. 10/2002 - presuppone e richiede che essa risulti da:

- l'insieme dei dati in forma elettronica,

- allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici,

- utilizzati come metodo di autenticazione informatica.

Nessun dubbio che nome utente e password costituiscano un insieme di dati in forma elettronica, ma perché si attualizzi la cd. “firma elettronica” questi dati (userid e password) devono essere «allegati oppure connessi tramite associazione logica» ad altri dati elettronici, che sono appunto quelli che devono essere validati (il testo della e-mail). L’efficacia materiale di quei dati informatici, che la direttiva 1999/93/CE definisce impropriamente "firma elettronica", deriva appunto dal fatto che c'è una connessione logica tra i dati "validanti"(userid e password) e i dati che devono essere validati (testo della e-mail). E’ stato correttamente obiettato che tale «connessione logica  avviene attraverso la procedura - logica - che calcola l'impronta dei dati da validare e la cifra con la chiave privata del firmatario. In mancanza di questa procedura, o di un'altra che abbia il medesimo effetto, non si può parlare di qualsivoglia forma di firma elettronica, perché manca l'associazione logica tra il dato validante e il dato validato. L'immissione di dati quali userid e password nella fase iniziale di accesso al server non comporta alcuna associazione logica tra questi dati e gli altri dati elettronici che costituiscono i messaggio e-mail. Sarebbe come affermare che quando si deve inserire una password per accedere a un PC, tutti i documenti contenuti in quella macchina hanno la firma elettronica» (così Cammarata-Maccarone, Un messaggio e-mail non è "prova scritta" , in http://www.interlex.it/docdigit/provascritta.htm, 2004; nello stesso senso, Giacopuzzi, E-mail e prova nel procedimento monitorio, in www.diritto.it/materiali/tecnologie/giacopuzzi13.pdf).

Si è concluso da parte di coloro che non ritengono che la e-mail costituisca atto scritto provvisto di firma ad efficacia probatoria inequivoca della fonte di provenienza (che, per tale carenza, viene definita  “firma cd. debole”, in contrapposizione a quella avanzata, certificata o digitale) che la stessa finisce per essere equiparabile alle cd. riproduzioni meccaniche (in quanto la cd. firma o sottoscrizione, quando apposta, avviene con grafia a matita, apposta meccanicamente e senza garanzie di riconoscibilità per confrontabilità con firme autografe)  di cui all’art. 2712 c.c., secondo cui: «Le riproduzioni (Cod. Proc. Civ. 261) fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fotografiche, informatiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime». Non si è mancato di obiettare da parte di chi sostiene la rilevanza di atto scritto della e-mail che: «voler considerare l’e-mail come una semplice “riproduzione meccanica” comporterebbe un evidente contrasto con la sua natura, infatti, l’e-mail ontologicamente non è la copia di qualcos’altro, ma è un originale».

Come si vede le opinioni sono contrapposte, ma anche coloro che ritengono la e-mail atto scritto e sottoscritto sono costretti ad ammettere pacificamente che: «l’autenticazione informatica non garantisce (perché la legge non lo richiede) l’immodificabilità e l’integrità del documento, né la sua sicura provenienza. Con tale normativa il legislatore mira, pertanto, a garantire un minimo di rilevanza giuridica formale a tutti questi “flussi documentali” (spesso internazionali) così diffusi nella prassi commerciale (a differenza della firma digitale che ancora stenta a decollare)». Affermazione quest’ultima del tutto corretta poiché  infatti l’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 10/2002 – modificativo dell’art. 10 del TUDA del 2000 - dispone che: «Al documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, in ogni caso non può essere negata rilevanza giuridica né  ammissibilità come mezzo di prova unicamente a causa del fatto che è sottoscritto in forma elettronica ovvero in quanto la firma non è basata su di un certificato qualificato oppure non è basata su di un certificato qualificato rilasciato da un certificatore accreditato o, infine, perché la firma non è stata apposta avvalendosi di un dispositivo per la creazione di una firma sicura». Ma solo  per la firma “avanzata” o digitale, tramite il comma 3, lo stesso art. 6 d.lgs. n. 10/2002 – che ha modificato l’art. 10 DPR n. 445/2000 -  dispone: «Il documento informatico, quando è sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma elettronica avanzata, e la firma è basata su di un certificato qualificato ed è generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, fa inoltre piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritto».

Non possiamo che far rilevare da parte nostra ed ai fini della comunicazione del licenziamento, oggetto di questo articolo,  che  la relativa comunicazione  codificata ad substantiam dal legislatore - per ragioni garantiste nei confronti del lavoratore a fronte di un atto potenzialmente privativo dell’occupazione, fonte di sostentamento personale e familiare – presuppone giustappunto la sussistenza di quei requisiti di “immodificabilità, integrità e sicura provenienza” di cui si ammette che la e-mail cd. a firma debole (cioè non digitale) è priva. Per un atto di simile rilevanza e delicatezza quale la rescissione del rapporto non è affatto sufficiente opporre la considerazione che tramite la e-mail «il legislatore mira, pertanto, a garantire un minimo di rilevanza giuridica formale a tutti questi “flussi documentali” (spesso internazionali) così diffusi nella prassi commerciale (a differenza della firma digitale che ancora stenta a decollare)», anche perché la firma digitale certificata è oramai una realtà.

E’ stato conclusivamente asserito da chi nega alla e-mail la natura di atto scritto - tipico del tradizionale documento cartaceo con firma autografa o elettronico con firma digitale sostitutiva per espresso riconoscimento legislativo (cfr. art. 23, comma 2 e 6 DPR n. 445, secondo cui rispettivamente: “L'apposizione o l'associazione della firma digitale al documento informatico equivale alla sottoscrizione prevista per gli atti e documenti in forma scritta su supporto cartaceo” nonché: “L'apposizione di firma digitale integra e sostituisce, ad ogni fine previsto dalla normativa vigente, l'apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere” - che detta  e-mail  «ai sensi dell’art. 10, comma 1, TUDA, avrà – in quanto documento informatico – l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 c.c. riguardo ai fatti e alle cose rappresentate. Un’efficacia probatoria molto debole, in quanto subordinata al comportamento processuale del soggetto contro il quale il documento è prodotto. Tale soggetto, in ogni caso, avrà comunque l’onere di disconoscere il documento se vuole impedire che lo stesso produca l’effetto di una prova piena» (così Giacopuzzi, op.cit.).

Resta il fatto che l’innovazione tecnologica avanza col passo del galoppo e non si possono assolutamente escludere modifiche normative nei confronti di una obsoleta nozione di “atto scritto” codificata nel codice del 1942. Il suggerimento che consegue  da parte di chi scrive è quello per cui - qualora si voglia precludere all’azienda la possibilità di azionare per il licenziamento le variegate modalità comunicative consentite dalle moderne tecnologie - la strada maestra è solo quella di pattuire nei ccnl che la sola idonea modalità di notifica del licenziamento è costituita dalla tradizionale raccomandata A/R a domicilio o consegnata a mano in azienda.

 

4. L’impugnativa del licenziamento tramite lettera di legale e questioni in ordine alla procura

 

Relativamente all’impugnativa del licenziamento, l’art. 6 della L. n. 604/66 conferisce tale facoltà al lavoratore direttamente o anche per il tramite di un’organizzazione sindacale fiduciariamente prescelta che faccia atto di opposizione alla comunicazione aziendale entro 60 giorni.

La legittimazione legale concerne solo questi due soggetti, ma nella concreta realtà della vita lavorativa il lavoratore è solito – di fronte ad un atto potenzialmente privativo del posto di lavoro – rivolgersi ad un legale specializzato nel diritto del lavoro, incaricandolo di predisporre lettera di impugnativa in opposizione alle determinazioni rescissorie aziendali.

Solitamente il legale predispone l’impugnativa, la firma e la fa sottoscrivere – per integrale condivisione e ratifica – dallo stesso lavoratore.

Se così avviene non si pongono questioni di mandato al legale, terzo nella vicenda.

Succede – ed è successo nella pratica – tuttavia che il legale indirizzi in nome e per conto del lavoratore atto di impugnativa all’azienda a firma singola. In questa ipotesi è sorto un discreto contenzioso in passato, fintanto che la Cassazione a sezioni unite con decisione del 2.3.1987,  n. 2180 non ha ritenuto anche il legale o difensore – figura non prevista dall’art. 6, L. n. 604/66 – titolato all’azione di impugnazione del licenziamento, tuttavia dietro mandato o procura del lavoratore. Statuirono all’epoca le SU che: «diretta conseguenza […] dell'atto di impugnativa é che se tale impugnativa é posta in essere dal terzo, anche se avvocato o procuratore legale, prima dell'instaurazione del giudizio, questi deve essere munito di specifica procura scritta, alla stregua degli artt. 1392 c.c. e 1324 c.c., rilasciata prima dell'atto da compiere e da far conoscere al destinatario, prima della decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (cfr. in tali sensi ancora: Cass., sez. un., 1987 n. 2180)». Successivamente il pensiero delle SU venne riprecisato da Cass., sez. lav., 4.3.1998 n. 2374 (est. Vidiri) osservando correttamente che l’atto di impugnativa era non già “atto negoziale dispositivo” ma atto “unilaterale di opposizione”, senza che la natura non negoziale precludesse  l’applicabilità delle norme generali sulla rappresentanza. Ne è sortita ad opera di Cass. n. 2374/1998  un’affermazione di principio che è stata mantenuta anche dalle successive decisioni n. 11178 del 7.10.1999 (est. Cuoco)  e n. 8412 del 20.6.2000. Ebbe a stabilire Cass. n.2374/98 (con adesione integrale della successiva Cass. n. 8412/2000, est. Filadoro) che: «dovendosi configurare l'impugnativa del licenziamento come atto unilaterale tra vivi e contenuto patrimoniale (cfr. al riguardo da ultimo: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262), ad essa si applicano, giusta quanto stabilito dall'art. 1324 c.c., le disposizioni che regolano i contratti e, quindi anche la norma di cui all'art. 1392 c.c., per la quale si estende alla procura la forma scritta prevista per il contratto che la rappresentante deve concludere, essendo tale norma perfettamente compatibile con gli atti unilaterali, stante la già evidenziata compatibilità della rappresentanza con gli atti unilaterali di natura non negoziale (per una analoga statuizione vedi da ultimo Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.). Quanto sinora detto non legittima, però, la tesi dell'estensibilità della retroattività della ratifica ex 1399 c.c. dell'impugnativa del licenziamento del legale del lavoratore privo di procura sì da far ritenere tempestiva detta ratifica anche allorquando essa sia stata notificata o comunicata al datore di lavoro oltre il termine di decadenza di sessanta giorni ex art. 6, L.15 luglio 1966 n. 604. Ed invero, in base all'art. 1324 c.c. le norme sui contratti e, quindi, anche quelle dettate in tema di rappresentanza senza potere, possono essere applicate agli atti unilaterali "in quanto compatibili". Orbene, con riferimento al licenziamento, per la cui impugnativa vige il suddetto termine di sessanta giorni per evidenti esigenze relative alla definizione della sorte dei rapporti lavorativi, non pare compatibile l'instaurazione di una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi ben oltre tale scadenza, con la conseguenza di lasciare al "dominus" (il lavoratore licenziato), la piena disponibilità sui tempi e modi dell'impugnativa in netto e eclatante contrasto con l'assetto della disciplina sui licenziamenti, dettata dalla legge 15 luglio 1966 n. 604 e dalla legge 20 maggio 1970 n. 300 (così come modificata dalla legge 11 maggio 1990 n. 108). Per concludere deve, quindi, essere ribadito quanto ripetutamente statuito da questa Corte secondo cui la validità dell'impugnazione del licenziamento nella sede stragiudiziale, ai sensi dell'art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, proposta da persona diversa dal lavoratore, anche se avvocato o procuratore legale, è subordinata al rilascio in forma scritta, da parte del lavoratore medesimo, di preventiva procura specifica o di successiva ratifica (cui è equiparata la proposizione del ricorso giudiziario con conferimento della procura allo stesso legale autore dell'impugnativa stragiudiziale), le quali devono essere portate a conoscenza del datore di lavoro destinatario nel medesimo termine di decadenza fissato da detto articolo (cfr. ex plurimis: Cass. 1 settembre 1997 n. 8262 cit.; Cass. 24 giugno 1997 n. 5611; Cass. 20 agosto 1996 n. 4540)». Un anno e mezzo dopo Cass. n. 11178/99 tolse al legale (e al lavoratore) l’onere dell’invio all’azienda della procura o della ratifica, ritenendo sufficiente la di lui attestazione scritta all’azienda della sussistenza e del rilascio (in data certa ed anticipata rispetto allo scadere dei 60 giorni) del mandato in questione da parte del lavoratore, in considerazione del fatto che: «questa ulteriore formalità non sarebbe peraltro coerente con gli obblighi di buona fede (ex artt. 1176, 1375 c.c.) che, imponendo al lavoratore [rectius, al suo legale, ndr] adeguato comportamento (e determinando conseguente responsabilità), esigono dal datore (tutelato dall'indicata certezza e da questa responsabilità) corrispondente comportamento (non la pretesa di onerosi formalismi). E questa esigenza è pienamente attuata attraverso la comunicazione dell'esistenza dell'atto (procura o ratifica) e della sua certa data».

Ne consegue che il legale che impugni a firma singola, in nome e per conto del lavoratore, la comunicazione di licenziamento dovrà trasmettere entro il termine di decadenza dei 60 giorni la procura specifica o ad litem da questo rilasciatagli in data anteriore ovvero - accedendo alla tesi più permissiva di Cass. n. 11178/99 - attestarne sotto propria responsabilità all’azienda l’avvenuto rilascio in data certa e anteriore alla scadenza del termine decadenziale.

 

Mario Meucci - Giuslavorista

Roma, 30 settembre 2008

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all.ta

Cass., sez. lav., 4 settembre 2008, n. 22287 – Pres. Mattone- Rel. Roselli – Licata (avv. Martelli) c. Cooperativa sociale “La Rosa blu” srl (avv. Cossu, Poli, Ingegneri)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con ricorso del 9 giugno 2003 al Tribunale di Torino Giuseppe Licata chiedeva dichiararsi l'illegittimità del licenziamento intimatogli il 20 giugno 2000 per superamento del periodo di comporto dalla datrice di lavoro srl cooperativa “La rosa blu”, con la conseguente condanna patrimoniale, nonché condannarsi la medesima società al risarcimento del danno anche non patrimoniale derivatogli dall'assegnazione a mansioni non adatte al suo stato di salute, ossia mansioni di autista raccoglitore di sacchi di carta invece che di addetto all'officina di riparazione di automezzi.

Costituitasi la convenuta, il Tribunale rigettava le domande con decisione del 5 gennaio 2004, confermata con sentenza del 21 aprile 2005 dalla Corte d'appello, la quale riteneva la decadenza del lavoratore dal potere d'impugnare il licenziamento, per essere stata ricevuta dalla datrice di lavoro la lettera d'impugnazione dopo la scadenza dei sessanta giorni di cui all'art. 6 1. 15 luglio 1966 n. 604.

Quanto alla domanda di risarcimento del danno da violazione dell'art. 2087 cod. civ., l'ampia istruttoria espletata non aveva dimostrato che le mansioni assegnate al Licata fossero diverse da quelle a lui appartenenti né che alla società fosse soggettivamente imputabile l'infermità da lui lamentata.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione il Licata mentre la s.r.l. cooperativa “La rosa blu” resiste con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione di "norme di diritto" (in realtà dell'art. 6 I. 15 luglio 1966 n. 604) e vizi di motivazione, per avere la Corte d'appello ritenuto la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento pur avendo il lavoratore impugnante spedito la relativa lettera quindici giorni prima della scadenza del termine di sessanta giorni stabilito dall'art. 6 cit. Ad avviso del ricorrente la non imputabilità a lui del ritardo nel recapito comporterebbe la necessità di considerare l'atto di impugnazione come non ricettizio, vale a dire di connettere l'effetto impeditivo della decadenza all'emissione della dichiarazione di volontà invece che alla sua ricezione da parte del destinatario. La diversa interpretazione, adottata dalla Corte d'appello, configgerebbe col principio di ragionevolezza di cui all'art. 3, capoverso, Cost.

Il motivo è fondato.

La questione della natura, ricettizia o no, dell'atto di impugnazione del licenziamento, assoggettato al termine di decadenza di sessanta giorni dall'art. 6 cit., venne risolta in tempo non recente dalle Sezioni unite di questa Corte, in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza 18 ottobre 1982 n. 5395. Si trattava, più precisamente, di stabilire se l'impugnazione giudiziale impedisse la decadenza attraverso il deposito in cancelleria del ricorso o se questo dovesse anche essere notificato alla controparte entro i sessanta giorni.

Le Sezioni unite si espressero nel secondo senso onde "salvaguardare fondamentali esigenze di certezza" e per "evitare l'insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti con le intuitive difficoltà che ne conseguono in materia di prova per l'una e per l'altra parte". A queste rationes decidendi si poteva già allora obiettare che le esigenze di certezza erano salvaguardate piuttosto dalla brevità del termine che dal carattere ricettizio dell'atto e che nel rito del lavoro la controversia, e quindi la necessità di raccogliere le prove, sorge già nel momento del deposito dell'atto introduttivo. Nel caso di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, poi, la lite giudiziaria poteva, e può, essere iniziata entro il più lungo termine di prescrizione (così la stessa sent. n. 5395 del 1982).

Non è, in definitiva, il più o meno breve spazio intercorrente fra emissione e ricezione della dichiarazione di volontà a pregiudicare la raccolta delle prove. La sentenza delle Sezioni unite venne seguita dalle conformi Cass. 2 marzo 1987 n. 2179, 17 marzo 1990 n. 2257, 6 aprile 1993 n. 4127, 29 gennaio 1994 n. 899, 21 settembre 2000 n. 12507, 13 dicembre 2000 n. 15696, 13 luglio 2001 n. 9554,21 giugno 2001 n. 8765,21 aprile 2004 n. 7625, 15 maggio 2006 n. 11116.

E' però sopravvenuta una dottrina che, nella materia della decadenza, segnala l'opportunità di attribuire rilevanza agli ostacoli non imputabili al soggetto onerato e propone rimedi, non soltanto de iure condendo, per le ipotesi in cui egli non abbia potuto, senza colpa, esercitare un potere nell'imminenza della scadenza del termine.

Questa dottrina ha verosimilmente influito sulla giurisprudenza costituzionale la quale, in materia di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, ha espresso il principio generale, fondato sulla ragionevolezza e sul diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario oppure all'agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97).

Questo principio di rilievo costituzionale può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto sostanziale e conduce a rimeditare la sopra riportata soluzione, a suo tempo adottata dalle Sezioni unite. Anzi tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un mezzo che può privare il lavoratore dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.).

Per queste ragioni l'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. - secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza - è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell'istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).

Questa decisione può essere generalizzata e può così enunciarsi la massima secondo cui l'impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all'art. 6 1. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all'ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine.

L'accoglimento del motivo di ricorso porta alla cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla corte d’appello di Genova che si pronuncerà uniformandosi al principio

di diritto testé enunciato.

Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d'appello non abbia accertato il danno ingiusto da lui sopportato e cagionato dal comportamento della datrice di lavoro, la quale lo assegnò dapprima alla manutenzione di autoveicoli e solo dopo il rientro da un grave infortunio gli assegnò le mansioni di raccoglitore di carta, più faticose e nocive alla salute. Il motivo non è ammissibile. Il ricorrente non indica alcuna norma di diritto su cui fondare la censura, così mancando di osservare l'art. 366 n. 4 cod. proc. civ. Egli inoltre si riferisce ad una molteplicità di fatti e di circostanze ma senza indicare una precisa lacuna oppure una contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata bensì piuttosto "errata interpretazione delle risultanze istruttorie" (così a pag. 3 del ricorso) e sollecitandocela sostanza, da questa Corte una nuova, impossibile valutazione delle medesime risultanze.

Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.

 

PQM

 

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'appello di anche per le spese.

Cosi deciso in Roma il 4 luglio 2008

Depositata in cancelleria il 4 settembre 2008

 

 

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