Il licenziamento illegittimo

 

Quando nei confronti del lavoratore viene adottato il provvedimento di risoluzione del rapporto – sia esso per giustificato motivo ex art. 3,l. n. 604/66, per giusta causa ex art. 2119 c.c. o per superamento del periodo di comporto contrattuale ex art. 2110 c.c. – la prima ed immediata reazione  tesa alla sua invalidazione, consiste nell’impugnativa entro 60 giorni  dalla comunicazione dell’atto ricettizio, ai sensi dell’art. 6 l. n. 604/1966 (norme sui licenziamenti individuali).

 

1.Il tentativo obbligatorio di conciliazione

 

Prima del ricorso al Giudice del lavoro, la normativa processuale (art. 410 c.p.c.) ha introdotto il TOC (tentativo obbligatorio di conciliazione), con intenti deflazionistici del contenzioso giudiziale nella speranza che nei 60 giorni  antecedenti alla predisposizione del ricorso in Tribunale la controversia abbia trovato una sua soluzione  bonaria tra le parti in contesa (azienda e lavoratore). Dispone il precitato art. 410 c.p.c.: «Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, il tentativo di conciliazione, presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all’articolo 413 c.p.c.».

La legge prevede, quindi, il tentativo obbligatorio di conciliazione, configurandolo come condizione di procedibilità dell’eventuale domanda giudiziaria. Ciò vuol dire che l’azione giudiziaria deve essere necessariamente preceduta dal tentativo di conciliazione, in quanto il mancato preventivo svolgimento, rilevabile d’ufficio dal giudice, comporta la sospensione del giudizio e l’assegnazione di un termine alle parti per il relativo espletamento.

Dispone infatti espressamente, in tema di contenzioso del lavoro, l’art. 412 c.p.c. nel senso che «l’espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda». L’art. 410 bis, 1° co., c.p.c. prevede a sua volta che: «il tentativo di conciliazione, anche se nelle forme previste dai contratti o accordi collettivi, deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta» e che  «trascorso inutilmente tale termine il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato ai fini dell’art. 412 bis cod. proc. civ.» (così il 2° co. dell’art. 412 bis c.p.c.).

Ai fini del decorso del termine di 60 giorni previsto dall’art. 410 bis c.p.c. si deve fare riferimento alla data di presentazione della richiesta alla Commissione di Conciliazione e non alla data di comunicazione della richiesta all’azienda (Cass. sez. lav., 21 gennaio 2004 n. 967). Tuttavia, secondo prevalente giurisprudenza della S. corte, la mera presentazione della richiesta alla Commissione, in assenza della sua comunicazione all’azienda non ha gli effetti interruttivi e sospensivi indicati nel secondo comma dell’art. 410 c.p.c., il quale prevede che: «la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza».

Si ritiene dalla prevalente giurisprudenza che la  mera presentazione della richiesta, in assenza della sua comunicazione all’azienda, non possa avere gli effetti interruttivi e sospensivi indicati nell’art. 410, 2° co., c.p.c., in quanto tali effetti sono giustappunto connessi alla comunicazione all’azienda, con la conseguenza che l’interruzione della prescrizione è condizionata a questo atto ricettizio.

Pertanto chi intende proporre in giudizio una domanda di invalidazione del licenziamento (o altra rivendicazione in tema di lavoro) avrà a sua disposizione due tipi di conciliazione: una  conciliazione sindacale, avvalendosi delle procedure di conciliazione eventualmente previste dai contratti o accordi collettivi (art. 411 c.p.c.); oppure non intendendo avvalersi delle procedure sopra menzionate, una conciliazione amministrativa presso Direzione provinciale del lavoro, alla quale può ricorrere anche tramite l’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Come ampiamente sperimentato le aspettative del legislatore sulla funzione deflazionistica del tentativo obbligatorio di conciliazione sono andate deluse, eminentemente in ragione del fatto che le aziende non si presentano  alle convocazioni in sede di DPL, preferendo coltivare il (lungo e defatigante) contenzioso giudiziario.

 

2. La richiesta di dichiarazione d’illegittimità del licenziamento

 

Una volta decorsi inutilmente i 60 giorni dalla richiesta  del  tentativo di conciliazione o - se esperito effettivamente - in caso di verbale di mancato accordo, il difensore del lavoratore può presentare ricorso al Giudice del lavoro.

La domanda deve consistere nella “declaratoria giudiziale di illegittimità del licenziamento” con le conseguenze di legge (reintegra o opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, ex art. 18 l. n. 300/70, in caso di tutela reale nelle aziende macrodimensionate; risarcimento del danno ai sensi della l. n. 108/90, modificativa dell’art.8 l. n. 604/66, nelle aziende aldisotto dei 16 dipendenti).

Ci occuperemo  dell’invalidazione del licenziamento nelle aziende macrodimensionate che consentono di fruire al lavoratore della cd. tutela reale, alternativa alla cd. tutela obbligatoria tipica delle aziende minidimensionate, in cui alla reintegra si sostituisce di norma la monetizzazione (legislativamente consentita) del licenziamento ingiustificato, con conseguente perdita del posto di lavoro.

Le conseguenze della dichiarazione di illegittimità del licenziamento – cioè della sua invalidazione dietro riscontro giudiziale di ingiustificatezza dei motivi – sono due, entrambe poste sullo stesso piano nei confronti del beneficiario della scelta: il lavoratore. Consistono  nella reintegrazione, con dichiarazione della continuità giuridica del rapporto a suo tempo interrotto per licenziamento illegittimo, e nell’opzione del lavoratore per la non prosecuzione del rapporto per fruire alternativamente della indennità sostitutiva della reintegrazione, fissata forfetariamente dall’art. 18, 5 co., Statuto dei lavoratori, in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Le due alternative sussistono esclusivamente dal lato del creditore/lavoratore licenziato, in quanto il datore non può assolutamente opporsi all’ordine giudiziale di reintegra offrendo l’indennità sostitutiva, come invece avviene nelle aziende aldisotto dei 16 dipendenti (ove sono legislativamente previste indennità risarcitorie di misura inferiore, a partire da un minimo di 2,5 a 6 mensilità, maggiorabili in relazione all’anzianità e dimensioni aziendali fino a 14 mensilità).

La ragione per la quale il legislatore ha consentito al lavoratore di sottrarsi alla reintegrazione in azienda per optare per le 15 mensilità forfetarie di retribuzione globale di fatto, risiede nella giusta considerazione che il reinserimento in azienda dopo il comportamento ostile datoriale, potrebbe trovarlo esposto a difficoltà o disagi di convivenza, fino a sconfinare in atteggiamenti ritorsivi, talché lo si è facoltizzato a sottrarsi indennitariamente a questo rientro coercitivamente imposto al datore.

Nelle comparse costitutive di legali a difesa delle aziende ci si imbatte spesso in una “aggressione” nei confronti dell’opzione del lavoratore per le cd. 15 mensilità, motivata sposando l’errata teoria secondo cui l’obbligazione nascente dal licenziamento illegittimo sarebbe una obbligazione inizialmente semplice, nella quale il diritto/dovere correlato all’illegittimità del recesso consiste unicamente nella reintegrazione; solo dopo l’ordine giudiziale di reintegrazione sorgerebbe la facoltà del lavoratore di ottenere, in luogo della reintegrazione contenuta nel comando giudiziale, la prestazione alternativa della indennità pari a 15 mensilità di retribuzione. In sostanza la facoltà di chiedere la indennità in questione – secondo questa impostazione – troverebbe il suo fondamento non nella illegittimità del licenziamento, bensì nella sentenza che accerta tale illegittimità e ordina la reintegrazione, della quale la detta indennità rappresenterebbe l’equivalente pecuniario.

Si tratta, invero, di tesi errata come riscontrato dalla dottrina e giurisprudenza consolidata[1] che hanno correttamente stabilito che lo schema risarcitorio delineato nell’art. 18 Statuto dei lavoratori è correlato alla “dichiarazione di illegittimità” del licenziamento cui conseguono due obbligazioni paritarie ed alternative  – con facoltà di scelta dal lato del creditore/lavoratore – consistenti nella reintegrazione ovvero nell’opzione per le 15 mensilità, quest’ultima nient’affatto subordinata alla prima.

Tanto è vero che la giurisprudenza sopracitata ha consolidatamente asserito che il lavoratore può agire in giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e richiedere (ab initio o anche nel corso del giudizio stesso modificando l’iniziale richiesta reintegratoria, senza che costituisca domanda nuova) le 15 mensilità, dispensando e sollevando così il giudice dall’emissione dell’ordine di reintegrazione. Valga per tutte Cass. 12/6/2000 n. 8015, adesiva a Cass. 10283/98, secondo cui: «Il diritto del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dal 5º comma dell’art. 18 statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970 n. 300, come modificata dalla l. 11 maggio 1990 n. 108) - che configura un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore - deriva dall’illegittimità del licenziamento e sorge contemporaneamente al diritto alla reintegrazione; non è pertanto necessario un ordine giudiziale di reintegrazione per l’esercizio di tale opzione». Dicono ancora le citate sentenze che: «la norma dell’art. 18, 5 comma, Stat. Lav., si limita a fissare il termine finale per l’esercizio della facoltà di opzione (nell’ovvia esigenza di contenere in tempi ragionevoli la situazione di incertezza conseguente ad una pronunzia di accoglimento) ma non stabilisce affatto un termine iniziale per l’attivazione di quel potere di scelta»; dal che consegue lo scollegamento dell’opzione per le 15 mensilità dall’ordine di reintegrazione, essendo tale facoltà di scelta legittimata sin dall’inizio della causa come nel corso del giudizio, sollevando così il Giudice dall’emissione dell’ordine di reintegra. Di recente conferma quanto detto, Cass. 10 novembre 2008 n. 26920 secondo cui: «il diritto del lavoratore ad optare per l'indennità integrativa deriva dalla stessa illegittimità del licenziamento e contemporaneamente dal diritto alla reintegrazione (Cass. 16 ottobre 1998 n. 10283, 8 aprile 2000 n. 4472 e 12 giugno 2000 n. 8015); quindi, il lavoratore può limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio tale indennità in sostituzione della domanda di reintegrazione (sentenze n. 10283/1998 e 8015/2000), così come può esercitare la stessa scelta nel corso del giudizio, fermo restando il diritto al risarcimento del danno ex art. 18, comma 4, (sentenza n. 4472/2000)», cioè a dire senza alcun pregiudizio per la spettanza delle mensilità maturate e perdute per effetto del licenziamento illegittimo, il cui diritto si arresta, peraltro, non già alla data dell’esercizio dell’opzione in questione né a quella della statuizione giudiziale che la recepisce ma a quella del perfezionamento di tale facoltà alternativa del lavoratore, coincidente con la data dell’effettivo pagamento da parte datoriale.

 

3. L’indennità sostitutiva della reintegrazione (cd. 15 mensilità) e l'indennità risarcitoria: il parametro di computo costituito, per entrambe,  dall'ultima "retribuzione di fatto stabile", che matura, per la quantificazione dell'indennità risarcitoria, fino alla data di effettivo pagamento delle cd. 15 mensilità

 

Né la richiesta di formalizzazione dell’opzione in corso di giudizio può essere inficiata dall’obiezione che essa costituisce “domanda nuova”, in quanto  Cass. n. 4472 dell’8/4/2000 già  a suo tempo respinse una simile osservazione, dichiarandola infondata sulla base delle seguenti argomentazioni: «La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione, l’indennità prevista dal 5º comma dell’art. 18, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 108 del 1990, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del licenziamento e riconosciuto al lavoratore dalla stessa norma di legge, secondo lo schema generale dell’obbligazione con facoltà alternativa ex parte creditoris; ne consegue che il lavoratore che in corso di causa chieda l’indennità de qua in sostituzione della reintegrazione richiesta con l’atto introduttivo non viola il principio dell’immutabilità della domanda, ma esercita una facoltà riconosciutagli dalla legge.(…) Va pertanto esclusa la violazione degli artt. 414 e 420 c.p.c., restando ferma, rispetto alla prospettazione, l’identità del tema della lite, costituito dall’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, il che, ovviamente, condiziona l’efficacia dell’opzione all’esito favorevole (per il lavoratore) di tale accertamento. Non mutano i fatti giuridici posti a fondamento della pretesa formulata con l’atto introduttivo, il “bene della vita” richiesto è sostituito, nei limiti di una modifica consentita della domanda (vedi Cass. 21/1/1981 n. 510 e 26/1984 n. 4422), con il pagamento dell’indennità, logicamente conseguente al riconoscimento giudiziale degli stessi presupposti della reintegrazione».

Una volta effettuata opzione da parte del lavoratore per le 15 mensilità, il rapporto si viene ad estinguere – per prevalente orientamento della S. corte – non già nel momento della comunicazione dell’opzione ma in quello in cui il datore ha assolto il suo onere di pagamento dell’indennità sostitutiva in questione. E poiché il precedente atto risolutivo viene posto nel nulla dalla dichiarazione di illegittimità del licenziamento che determina continuità giuridica del rapporto, alla sua scadenza coincidente con il pagamento delle 15 mensilità spetta al lavoratore il conguaglio del trattamento di fine rapporto, istituto che ex art. 2120 c.c. matura giustappunto alla risoluzione del rapporto. In realtà gli compete il vero TFR in ragione della reale  e unica cessazione del rapporto, dal cui importo va detratto quanto eventualmente corrisposto dall’azienda in occasione del precedente, illegittimo, licenziamento ove  il TFR erogato all’epoca deve essere considerato alla stregua di una atipica anticipazione.

L’orientamento soprariferito è condiviso dalla prevalente giurisprudenza di Cassazione (cfr. Cass. 10326/2000; Cass. 12514/2003; 2898/2007; Cass. 3380/2003) l’ultima delle quali ha affermato:«L'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro a norma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione (introdotta in sede di novellazione dell'art. 18 da parte dell'art. 1 legge n. 108 del 1990), prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione, proveniente da quest'ultimo, di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione. Ne consegue che, anche nel caso in cui già con la domanda giudiziale il lavoratore abbia chiesto il pagamento dell'indennità sostitutiva, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell'indennità sostitutiva». Più di recente in senso conforme, Cass. n. 6342/2009, Cass. n. 19244 del 4.9.2009, Cass. nn. 24199 e 24200 del 16.11.2009 (est. De Renzis) secondo l'ultima delle quali: «la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che, nel caso di scelta, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, dell'indennità sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell'art. 18, quinto comma, cit., fino all'effettivo pagamento della stessa il datore di lavoro è obbligato a pagare le retribuzioni globali di fatto. Il sistema dell'art. 18 cit.  si fonda sul principio di effettiva realizzazione dell'interesse del lavoratore a non subire, o a subire al minimo, i pregiudizi conseguenti al licenziamento illegittimo; principio "di effettività dei rimedi", che impedisce al datore di lavoro di tardare nel pagamento dell'indennità in questione assoggettandosi al solo pagamento di rivalutazione ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ. Il principio di effettività dei rimedi giurisdizionali, espressione dell'art. 24 Cost., significa che il rimedio risarcitorio, ossia del risarcimento del danno sopportato dal lavoratore per ritardato percepimento dell'indennità sostitutiva ex art. 18 cit., deve ridurre il più possibile il pregiudizio subito dal lavoratore e, in corrispondenza, distogliere il datore di lavoro dall'inadempimento o dal ritardo nell'adempiere l'obbligo indennitario». «Nell'interpretare la finalità alla base della norma dell'art. 18  - ha precisato Cass. n. 24199/2009 -  la precedente Cass. n. 6342/2009 parla proprio dell'"effettività dei rimedi" quale "ratio" della norma, tramite la quale il legislatore avrebbe inteso dissuadere l'imprenditore dal rinviare l'adempimento del pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, gravandolo della corresponsione - fino alla cessazione del rapporto coincidente con l'erogazione delle cd. 15 mensilità - delle integrali mensilità maturate fino al giorno dell'effettivo pagamento di tale indennizzo forfettario, in luogo del solo pagamento di rivalutazione ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ.». «Ciò posto - prosegue Cass. n. 24200/2009 - ...non v'è dubbio che la scelta dell'indennità sostitutiva da parte del lavoratore sia irrevocabile e che il rapporto non possa perciò essere ricostituito; tuttavia l'ammontare del risarcimento del danno dev'essere pari alle retribuzioni perdute, fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto».

Questo corretto e consolidato orientamento preclude pertanto che la richiesta giudizialmente fatta nel ricorso introduttivo o nel corso del giudizio di optare per l’indennità sostitutiva  occasioni il serio pregiudizio per il lavoratore – per effetto delle lungaggini processuali – di arrestare il computo dell’indennità risarcitoria del licenziamento illegittimo alla data della formale dichiarazione di opzione, asserendo invece  che le mensilità di retribuzione globale di fatto che debbono essere corrisposte al lavoratore licenziato sono tutte quelle che maturano (incrementate dai miglioramenti economici da rinnovi contrattuali e scatti di anzianità) dalla data del licenziamento invalido alla data di pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione. Nello stesso senso, più di recente, Cass. n. 16675/2007, secondo cui:«La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l'indennità prevista dall'art. 18 comma 5, legge n. 300 del 1970, costituisce esercizio di un diritto derivante dall'illegittimità del licenziamento [...]; pertanto, l'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro facente carico al datore di lavoro si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore, non già con la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo della reintegrazione e, conseguentemente, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per la succitata indennità, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell'indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta».

Va evidenziato che  l’interpretazione giurisprudenziale in ordine alla nozione di «indennità commisurata alla  retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra» (art. 18, 4 co., Statuto lavoratori) è giunta a tradurre e specificare il concetto attraverso l’aggettivo «maturata», che implica un riferimento esplicito alla retribuzione che il lavoratore avrebbe avuto diritto di percepire se avesse lavorato al pari dei colleghi. Pertanto – in caso di procedimenti che si concludono in primo grado anche in archi temporali decennali – ne discende la conseguenza di una ricostruzione dinamica della retribuzione perduta (sub specie di mensilità), che tenga conto dei benefici economici da rinnovi contrattuali intercorsi nelle more o da scatti di anzianità.

Come ha efficacemente detto Cass. n. 10307/2002 (nel momento in cui ha riconosciuto al turnista di professione – non occasionale - il computo dell’indennità di turno nella mensilità di retribuzione globale di fatto): «opinare diversamente significherebbe frustrare il risultato, coerente con la ratio della così detta "tutela reale" del posto di lavoro, di neutralizzare compiutamente gli effetti del licenziamento illegittimo, giacché, ove fosse ipotizzabile, per il lavoratore reintegrando, una retribuzione minore di quella che avrebbe ottenuto se avesse continuato a svolgere le sue consuete prestazioni, si finirebbe per addossargli le conseguenze economiche negative di un illecito altrui, in assenza di qualsiasi sopravvenuta circostanza idonea ad interrompere legittimamente il nesso causale fra questo e quelle».

Insomma l’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto che deve essere corrisposta al lavoratore ingiustificatamente licenziato è costituita da quelle componenti stabili e continuative della retribuzione che avrebbe ordinariamente percepito (esclusi compensi occasionali, indennità modali o rimborsi spese) se avesse continuato a prestare attività; retribuzione che si identifica con quella dei colleghi di pari qualifica che hanno continuato a lavorare.

Confermativamente si esprimono Cass. n. 1833/2007 e Cass. 22649/2009 secondo le quali: «L'art. 18 della L. n. 300 del 1970, nel testo risultante dalla novellazione introdotta con L. n. 108 del 1990, fa riferimento, nei commi 4 e 5, al medesimo parametro - la "retribuzione globale di fatto" - sia per il risarcimento del danno che per la determinazione dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, ancorché nel primo caso si risarcisca un danno provocato dal comportamento illegittimo del datore di lavoro, mentre nel secondo si quantifica un'indennità legata a una scelta del lavoratore. Tanto nell'uno che nell'altro caso per retribuzione globale di fatto deve intendersi quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, a eccezione di quei compensi legati non già all'effettiva presenza in servizio ma solo eventuali e dei quali non vi è prova della certa percezione, nonché quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione e aventi normalmente carattere indennitario»[2]. E nello stesso senso si è espressa Cass. n. 19956 del 2009, secondo cui: «La nozione di "retribuzione globale di fatto" – alla quale va commisurato il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato – deve essere intesa come coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purché non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro e in correlazione ai contenuti e alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, così da costituire il trattamento economico normale, che sarebbe stato effettivamente goduto se non vi fosse stata estromissione dall'azienda» (fattispecie in cui un lavoratore bancario aveva rivendicato la (accolta) riconduzione nella retribuzione globale di fatto dell’indennità concorso spese tranviarie, dell’indennità di mensa e del premio di produttività/rendimento, con diniego invece dell’indennità sostitutiva delle ferie e delle festività in quanto correlate esclusivamente alla prestazione in servizio).

Una volta accertato che la cessazione del rapporto a seguito di opzione per le 15 mensilità si attualizza con il pagamento delle stesse, ragioni di armonia interne al parametro di liquidazione impongono l’irrilevanza della mensilità dell’epoca di dichiarazione dell’opzione e di considerare quale ultima mensilità base di calcolo per la corresponsione, quella del mese in cui il datore si risolve ad effettuare il pagamento.

Sostanzialmente si riproduce la tecnica giuridica  che aveva ispirato – prima della sostituzione dell’indennità di anzianità con il TFR nell’art. 2120 c.c.– la struttura del vecchio art. 2120 c.c., quale integrata per la misura dalla contrattazione collettiva, per il computo dell’indennità di anzianità degli impiegati (ultima retribuzione del mese di cessazione del rapporto per gli anni di servizio), in fattispecie moltiplicata per la forfettizzazione legale di 15 quote mensili.

Tirando le fila dei ragionamenti, il legislatore ha inteso correlare le cd. 15 mensilità – per rispetto del criterio di omogeneità che ispira il 4 e 5 comma dell’art. 18 Statuto lavoratori in ordine alla nozione di retribuzione globale di fatto – al parametro dinamico dell’ultima retribuzione stabile del mese di pagamento dell’indennità sostitutiva, non già a quello dell’ultimo mese di corresponsione dello stipendio in servizio, coincidente con il mese del  licenziamento illegittimo (solitamente risalente ad anni prima) né a quello della dichiarazione di opzione da parte del lavoratore.

Tale rispetto di omogeneità lo si percepisce ponendo mente al fatto che se per l’indennità risarcitoria la retribuzione globale di fatto perduta è quella dinamicamente ricostruibile e non congelata alla data (ormai irrilevante) del licenziamento illegittimo, parimenti le cd. 15 mensilità andranno commisurate alla retribuzione dinamica che si attualizza all’epoca del pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.

La carenza di specificazione nell’art. 18 della  legge 300/70  del parametro mensile per il calcolo dell’indennità sostitutiva della reintegrazione - limitandosi il 4 e  5 co.,  di detto articolo, a menzionare la “retribuzione globale di fatto” a differenza dell’indennizzo risarcitorio per il licenziamento ingiustificato nell’ambito della tutela obbligatoria, ove l’art. 8 della l. n. 604/66 (quale modificato dall'art. 2, l. n. 108/1990) àncora le mensilità (da 2,5 a 6) all’ultima (mensilità di) retribuzione globale di fatto – non autorizza a ritenere che si sia per tal via facoltizzato il magistrato a scegliere discrezionalmente o equitativamente una qualsiasi mensilità di retribuzione globale di fatto, solitamente quella percepita nel mese di cessazione illegittima del rapporto.

Il parametro della mensilità – sia per l’indennità sostitutiva della reintegrazione sia per il risarcimento danno nell’area della tutela obbligatoria – è ragionevolmente sempre lo stesso: l’ultima mensilità di retribuzione globale di fatto dell’epoca di cessazione del rapporto. Con la sostanzialissima differenza che mentre nell’area della tutela obbligatoria la data di cessazione del rapporto coincide con quella del licenziamento ingiustificato ed è immodificabile nel senso che non può essere invalidata nel caso che il datore opti per la monetizzazione  – e quindi non vi sono dubbi su quale sia l’ultima  mensilità di retribuzione globale di fatto che va posta a base dell’indennizzo risarcitorio -  nell’area della tutela reale ex art. 18 Statuto dei lavoratori, in cui è inibita la soluzione monetizzante datoriale, la dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento garantisce e conferisce  continuità giuridica al rapporto fino al pagamento dell’opzione per le 15 mensilità, talché sia la data del licenziamento illegittimo sia la misura della mensilità dell’epoca del licenziamento illegittimo perdono qualsiasi rilevanza nell’ambito del rapporto ricostituito senza soluzione di continuità.

Quella che invece esclusivamente rileva nel rapporto di lavoro ricostituito nella sua continuità giuridica ininterrotta, è la mensilità (cd. “ultima mensilità”) che viene accertata nel procedimento di ricostruzione contabile delle mensilità perdute dal licenziamento illegittimo alla reintegrazione sostituita dalla scelta alternativa (e dal corrispondente pagamento datoriale) dell’opzione del lavoratore per le 15 mensilità. Detta mensilità è solitamente e sostanzialmente diversa da quella dell’epoca del licenziamento illegittimo, in ragione di benefici economici da rinnovi contrattuali intercorsi medio tempore o da scatti di anzianità maturati nell’arco temporale segnato dalle lungaggini processuali.

Ed è quest’ultima mensilità (comprensiva dei ratei di 13esima, 14esima ed eventuali premi di Produzione non aleatori ma di riconosciuta natura retributiva) che costituisce l’effettivo parametro per il calcolo delle cd. 15 mensilità da corrispondersi in contemporanea e cumulativamente all’indennità risarcitoria del licenziamento illegittimo, cioè cumulativamente alle mensilità di retribuzione (cd. “perdute”) che il lavoratore avrebbe percepito – al pari dei colleghi in servizio – se avesse lavorato. Tale mensilità, infine, va quantificata in adesione ai principi di Cass. 17 febbraio 2009, n. 3787, secondo cui: «In caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento del lavoratore nell'ambito della cosiddetta "tutela reale", la "retribuzione globale di fatto", cui fa riferimento l'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo novellato dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, quale parametro di computo sia del risarcimento del danno patito sia della determinazione dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, deve includere non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, quale (come nella specie) il premio di produzione, una volta riconosciutone il carattere retributivo, dovendosi invece escludere dal compenso i soli compensi aventi natura indennitaria o di rimborso spese». Principi asseriti in precedenza da Cass. 5.3.2003 n. 3259, secondo cui L'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma quarto, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come sostituito dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, deve essere commisurata alla “retribuzione globale di fatto” e quindi in essa devono essere inclusi anche i ratei delle mensilità aggiuntive annualmente corrisposte»[3]. Stante l’omogeneità del parametro usato dal legislatore nell’art. 18 Stat. lav. per il 4 e 5 comma (“retribuzione globale di fatto”), il principio asserito per il 4 comma vale naturalmente anche per il 5.

 

4. Sopraggiunta epoca di pensionamento del lavoratore licenziato

 

Succede in concreto che – stanti le lungaggini del nostro sistema giudiziario -  in corso di causa il lavoratore licenziato maturi i requisiti per la pensione di anzianità o di vecchiaia e fruisca del reddito da pensione.

Le difese aziendali – con memorie conclusionali – hanno battuto la strada della deducibilità dal risarcimento di danno da licenziamento illegittimo delle somme riscosse a titolo di pensione, chiedendo di portarle in detrazione quale aliunde perceptum. Questi tentativi sono andati incontro ad insuccesso, giacché l’impossibilità  che il raggiungimento dell’età per il pensionamento di vecchiaia ed il relativo conseguimento del diritto alla pensione, possa costituire – in mancanza di nuovo licenziamento ad iniziativa aziendale – condizione per negare al ricorrente il risarcimento di danno ex art. 18, L. n. 300/70  è stata affermata oramai del tutto consolidatamente da nutrita giurisprudenza della S. corte [4].

La maturazione del diritto a pensione - ha confermato da ultimo Cass. 14788/2008 - non costituisce di per sé causa di cessazione del rapporto, in mancanza dell’esercizio aziendale del diritto di recesso ad nutum ex art. 2118 c.c., con preavviso, consentito dal venir meno per gli ultrassessantacinquenni della legislazione vincolistica di cui alla l. n. 604/66 (nel testo modificato dalla l. n. 108/1990). La Corte ha inoltre ricordato la sua giurisprudenza secondo cui in caso di licenziamento illegittimo il danno spettante al lavoratore va commisurato alle retribuzioni perdute – cioè alle retribuzioni che avrebbe avuto diritto di percepire se avesse lavorato, dinamicamente incrementate per i miglioramenti economici da rinnovi contrattuali intercorsi o per la maturazione di istituti legati all’anzianità - e non può essere decurtato degli importi percepiti eventualmente a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende da presupposti (limiti di età e requisiti di contribuzione) stabiliti dalla legge, e prescinde del tutto dalla disponibilità e dall'impiego di energie lavorative; e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro; sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso esercitato dal datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno (nello stesso senso, in precedenza, Cass. 19.5.2000, n. 6548), non costituendo il trattamento pensionistico “aliunde perceptum” suscettibile di essere portato in detrazione tramite procedimento di compensazione.

Come ha precisato – anche recentemente – Cass. n. 9992/2009: «le Sezioni Unite, con sentenza n. 12194/2002, - risolvendo il contrasto di giurisprudenza insorto sulla questione concernente la possibilità di una riduzione nel senso summenzionato - hanno, infatti, affermato il principio per cui, in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest'ultimo a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento e fino alla riammissione in servizio, non debba essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall'interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della "compensatio lucri cum damno". Tale "compensatio", d'altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l'ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, nè allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l'interessato all'azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. Il cennato principio è stato successivamente condiviso da Cass. nn. 2529/2003 e 14505/2003 e merita di essere anche qui confermato: sicché deve escludersi che, nella specie, possa operare la compensatio tra le somme dovute dal datore di lavoro e le somme percepite dall'ente previdenziale a titolo di pensione così come erroneamente disposto nella sentenza impugnata (salvo, ovviamente, azione che può essere esperita (ove ne ricorrano i presupposti in diverso giudizio) dall'ente previdenziale per il recupero di quanto dovutogli per effetto dell'applicazione della normativa sulla cumulabilità parziale della retribuzione del lavoratore dipendente con la pensione di vecchiaia)».

Spetterà quindi all’Ente erogatore della pensione INPS la richiesta di ripetizione – quale indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., con azione soggetta a prescrizione ordinaria decennale -  del trattamento pensionistico fruito nelle more della sospensione del rapporto per licenziamento illegittimo, comunque entro i limiti del variegato divieto legislativo di cumulo pensione-retribuzione e per quanto non ancora prescritto, essendo il datore di lavoro assolutamente carente di legittimazione attiva al riguardo.

 

Mario Meucci - Giuslavorista

Roma 5 settembre 2009 (integrato, per la giurisprudenza, il 5.12.2009)


[1] Cfr. Corte Cost. sent. n. 81 del 1992 ed ord. 291 del 1996, nonché, in motivazione, Cass. 5/12/1997 n. 12366; Cass. 16/10/1998; n. 10283, Cass. 8/4/2000 n. 4472; Cass.12/6/2000  n. 8015; Cass. 10/11/2008 n. 26920. In dottrina: M. Dell'Olio, Reintegrazione, ecc., in Giur. cost. 1992, 3153 e ss; M. Meucci, Risarcimento di danno, reintegra ed opzione per l’alternativa economica, in caso di licenziamento invalido, in D&L, Riv. crit. dir. lav., 1999, 757.

[2] Così Cass. 29/1/2007 n. 1833 (est. Celentano), in Lav. giur. 2007, 1029. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, con riferimento a dipendente postale, in controversia cui non era applicabile, ratione temporis, il Ccnl 11 gennaio 2001, aveva incluso, nell'indennità sostitutiva della reintegrazione, sia il premio di produzione, corrisposto non solo al personale presente in servizio ma anche a quello assente per ferie o per altri motivi tutelati dalla legge, sia l'indennità di funzione, erogata con carattere di continuità e predeterminatezza, in quanto correlata alla natura stessa delle mansioni svolte dal dipendente. Conf., successivamente, Cass. n. 2898/2007,  Cass. n. 3787/2009, Cass.

[3] Cass. n. 3259/2003 così motiva: «Il riferimento alla retribuzione "globale" di fatto contenuta nell'art. 18 citato, nella modifica di cui alla legge 11 maggio 1990 n. 108, è sufficiente per far ritenere che nell'indennità risarcitoria ivi prevista (al quarto comma) debbano essere inclusi anche i ratei delle mensilità aggiuntive annualmente corrisposte. Ciò in difetto di una esplicita e riduttiva previsione nel senso preteso da parte ricorrente ed inoltre perché tanto risultava univocamente dalla formulazione originaria della norma, facente esplicito riferimento all'art. 2121 cod. civ. (cfr. Cass. 26 gennaio 1989 n. 473), quando, rispetto a questa, la modifica legislativa del 1990, pur eliminando il richiamo all'art. 2121, non ha introdotto, come pure affermato da autorevole dottrina, significative innovazioni riproducendo una disciplina sostanzialmente corrispondente a quella precedente, e restando dunque la base di calcolo dell'indennità in questione tendenzialmente corrispondente alla retribuzione dovuta in virtù del rapporto secondo la formulazione dell'art. 18 quale in origine dettato dalla legge n. 300 del 1970».

[4] Cass. 20.3.1995 n. 3754, Cass. 23.2.1998 n. 1908, Cass. 15.3.2006 n. 5637, Cass. 9.2.2007 n. 2898, Cass. 4.6. 2008 n. 14778.

 

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