LA MIA STORIA DI MOBBING LUNGA 20 ANNI

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A. Ciardi, Laguna (1894)

Per dirla con le parole di Gibran, io del lavoro ho sempre nutrito e maturato la seguente concezione, ispirata e finalizzata all’autorealizzazione individuale nel breve periodo di transito su questa terra:  
Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.
Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte” (Kahlin Gibran, 1833-1931, Il Profeta).
Partendo da questi convincimenti, potrete facilmente sin d’ora immaginare quanto doloroso sia stato per me  il “mobbing” che mi è stato inferto nell’azienda di credito ed ente pubblico economico Istituto Mobiliare Italiano, tramite l'inutilizzo prima ed  il confinamento nella forzata inattività poi, ad opera dei gestori aziendali ai vari livelli. Ma procediamo con ordine.
Il "mobbing" l’ho subito a 36 anni (a partire dal 1976) ad opera del management e di alcuni colleghi – quindi "mobbing verticale ed orizzontale" assieme - di  quello che nell'inserzione del Corriere della sera cui avevo risposto si qualificava un "primario Istituto di credito nazionale" ed è durato 21 anni, fino all’epoca (1997) in cui, per sottrarmi all’inattività e all’emarginazione in cui ero stato confinato, ho aderito ad un piano di "esodi incentivati" e mi sono posto in "pensione d’anzianità" (con una contrazione del reddito, rispetto a quello retributivo, di circa il 35-40% e il sostanziale divieto di cumulo, ex lege, della pensione con redditi di lavoro dipendente o autonomo).
A tale primario Istituto di credito nazionale con sede in Roma ero pervenuto – dopo la laurea con 110 e lode, l’assistentato e l'incarico universitario in diritto del lavoro e la docenza anche presso il centro Studi sindacali Cisl di Firenze (città di nascita e di studi), dopo le esperienze di responsabile nell’area della formazione e delle relazioni sindacali, prima, e di direzione del Personale, poi, rispettivamente in IBM Italia a Milano, nella Esso a Genova e a Roma, nella Federmeccanica a Roma, in Saimp-IRI-Finmeccanica a Padova ed in Liquigas a Milano – a seguito di vincita, in  una selezione fra 42 candidati, di una posizione offerta con una inserzione sul Corriere della sera, per il ruolo di "Responsabile delle relazioni sindacali" del suddetto     Istituto di credito (implementato, per dissolvere le mie perplessità di ex dirigente d'azienda-direttore del personale,  con la "formazione" del personale), che mi offrì il grado di "funzionario" e una retribuzione pari a quella già goduta in precedenza quale "Dirigente d’industria". Accettai perché ero interessato a rientrare a Roma.
L’incarico, nelle sue componenti mansionistiche, venne pattuito in pre-assunzione e doveva risultare – come da  scambio di lettere di impegno - estrinsecabile nelle seguenti attività: a) rapporti con le Rappresentanze sindacali aziendali, partecipazione alla stipula dei contratti nazionali e aziendali di lavoro, interpretazione, illustrazione ed applicazione all’interno dell’ente della normativa legale e contrattuale di lavoro; b) cura del contenzioso del lavoro e previdenziale; c) collaborazione nell’attività di relazioni interne. Ad esse si addizionava, d) la " formazione del personale", per pattuiti  impegni estensivi del ruolo offerto tramite l'iniziale inserzione, risultanti da inequivoche determinazioni della Commissione di assunzione del 15 giugno 1976 dell'IMI  e corrispondenza concludente.
Appena assunto in seno al Servizio del Personale cominciarono ad essere poste in atto contro questa matura e qualificata professionalità che aveva il neo di provenire dall’esterno – eminentemente da parte di un collega (e suoi fiancheggiatori e sottoposti) sempre vissuto all’interno dell’ente – le classiche iniziative di "mobbing" consistenti nella "scientifica disinformazione", nell’opera di screditamento con i Dirigenti interni (ai quali era più familiare) e con le stesse Rappresentanze sindacali aziendali, nella sottrazione di lavoro qualificato, nella partecipazione al mio posto alle riunioni e Commissioni costituite nelle sedi delle Associazioni bancarie di categoria (Assicredito e Abi). Nessun effetto sortirono le richieste – subito rivolte al Direttore Centrale, comune superiore, ed al Direttore generale – per una chiarificazione dei ruoli e per imporre la cessazione dei comportamenti ostruzionistici.
Con la nomina di un Capo del Personale – suo amico e coetaneo – questo pseudo collega (tal P., che vicende giudiziarie lo evidenziano ancora impegnato come mobber negli anni '98-'99 nei confronti del dirigente Apostolo al SanpaoloImi, cfr. Nota, sub (2) a Trib. Torino 21.3.'03) ottenne da lui la sottrazione ai miei danni (per l’affidamento ad un nuovo assunto ad hoc alle sue dipendenze) della "cura del contenzioso del lavoro". Poco dopo mi veniva sottratta – per c.d. esigenze organizzative – anche l’attività di "formazione del personale" (affidata al nipote di un ex Governatore della potentissima Banca d’Italia). Successivamente mi venivano prima gradualmente erose e poi completamente tolte le qualificanti incombenze di interpretazione della normativa legale e contrattuale, affidandole al neo assunto (già destinatario del sottratto "contenzioso del lavoro") mentre la residua attività di "relazioni sindacali" con le RSA interne risultava obbiettivamente difficoltizzata dalla "pratica della scientifica disinformazione" da parte di superiori e colleghi (che avevano allo scopo istruito le Segretarie anche nel compito di selezione oculata della posta da farmi visionare) su tutti i fatti gestionali ed aziendali (trasferimenti, mutamenti di mansioni, assegnazione di nuovi incarichi, promozioni, ecc.) sui quali i sindacati intendevano giustamente essere informati e confrontarsi. Ne conseguì – com’era nelle aspettative dei miei "mobber" – la loro determinazione di rifiutare gli incontri con il sottoscritto per migrare nelle stanze più informate dei Dirigenti superiori (fino al Direttore generale). I miei richiami al management di vertice e le mie rimostranze con memorie scritte (accompagnate anche da inequivoche diffide) – per essere inserito nei circuiti informativi essenziali al disimpegno della mia funzione - non ricevevano risposta e da parte dei miei detrattori continuava - nella migliore indifferenza e nella colpevole tolleranza dei gestori dell’ente - il gioco al massacro facendo, subdolamente, circolare (a fini di accreditamento) la voce di una mia "incompetenza specifica" al ruolo. Con grande sforzo, lavorando di sera, tutti i sabati e le domeniche a casa e durante le ferie, contrastai questi addebiti, per lo meno sul piano teorico, con la pubblicazione, nel corso del tempo di 5 libri su tematiche giuridiche del lavoro e con la collaborazione – in ragione di un interrotta stima da parte dei maestri giuslavoristi che mi avevano conosciuto professionalmente  e continuavano a richiedere i miei contributi – alle principali Riviste giuridiche di diritto del lavoro di cui erano titolari, sfociata nella produzione di oltre 180 fra articoli e note a sentenza. Messa a nudo l’infondatezza dell’accusa della mia "incompetenza"- su cui avevano puntato i miei "mobber" per annientarmi - la rabbia, l’invidia ed il potere che avevano fecero sì che mi venissero sottratte anche le residue incombenze di relazioni sindacali, costringendomi al ruolo segretariale di mero fissatore degli incontri sindacali – tenuti poi dal Responsabile del Personale data la conoscenza, a me nascosta, delle tematiche da trattare - mentre la mia partecipazione si risolveva in quella del mero auscultatore o verbalizzatore di opinioni. Per tal via, il mio ruolo e la mia immagine – interna ed esterna – ne uscivano intuitivamente devastati. Parallelamente e conseguenzialmente iniziavano a manifestarsi i prodromi dei pesantissimi danni alla salute, con ulcera, diverticolite, ipertensione arteriosa, depressione reattiva accompagnata da sindrome Dap (attacchi di panico), impeditiva della normale vita di relazione, con le conseguenti prolungate assenze dal lavoro per la necessaria, mai risolutiva, terapia.
Seppi poi che la mia assunzione era scaturita da una insistente richiesta sindacale di dialogare con un professionista della materia - reperito dall’esterno e non partecipe dei sodalizi e dei clientelismi interni - richiesta cui l’Azienda aveva "formalmente" aderito (indifferente al costo del lavoro perché seconda in capitale e utili solo alla Banca d’Italia), offrendo loro un "professionista" dal curriculum indiscutibile ma riservando loro la beffa di mantenere "vuota" questa funzione dialettica, attraverso la "disinformazione" e l’"isolamento" del loro interlocutore, strumentalizzato indegnamente allo scopo.
Intanto anche l’alternativa della docenza universitaria – coltivata a seguito dell’insostenibilità della situazione "lavorativa" aziendale - sfumava, in quanto dopo aver partecipato ad un concorso nazionale (indetto nel maggio 1984) e dopo averne invalidato (con ricorso vincente al Tar del Lazio nel 1987) la Commissione giudicatrice illegittimamente costituita, i  "protettori" (a me ben noti) dei "provvisori" vincitori  predisposero e commissionarono a disponibili  (o amicali) parlamentari del partito  socialista-craxiano la presentazione di  una leggina d’interpretazione autentica che venne approvata, in sede di Commissione, nell'abilmente prescelto periodo dell'agosto assolato del 1987 e che mi precluse la conferma del vizio (accertato dal Tar) in sede di Consiglio di Stato, con il conseguente insediamento in cattedra di soggetti prescelti al di fuori di logiche meritocratiche e la mia correlativa esclusione.
Solo con il pensionamento del vecchio direttore generale e con la successione di altro proveniente dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia – sensibile alla cultura, alle pubblicazioni giuridiche e partecipe alle vicissitudini rassegnategli – potei essere rivalutato (dopo 14 anni di inadempimenti agli impegni di assunzione, di sottrazione di compiti e di dequalificazione a livello di impiegato esecutivo), potei altresì riottenere gli incarichi pattuiti in pre-assunzione (con un settore ed un organico da coordinare), anche dietro pubblica denuncia (con affissione negli albi sindacali) al Consiglio d’amministrazione della mia vicenda intessuta di vessazioni ed emarginazioni, denuncia effettuata - del tutto autonomamente e nell’ottica di pubblicizzare la inefficiente gestione aziendale delle risorse umane - da parte dei rappresentanti sindacali di Cisl, Cgil, Uil e Sindirdirigenticredito, che ebbe indiretti ed inaspettati effetti di richiamo d’attenzione sul mio caso. La riassegnazione degli incarichi (pattuiti in pre-assunzione e mai disimpegnati) tuttavia durò lo spazio di 2 mesi e mezzo, in quanto alteratisi gli equilibri interni e prevalsi sul nuovo Direttore generale i vecchi burocrati a me ostili (supportati dal Presidente) venni di nuovo decapitato, con sottrazione – sempre per asseriti (ma inesistenti) motivi organizzativi e dietro ordine di servizio, ipoteticamente adesivo ad una infondata lagnanza della Rsa Fabi espressa in una lettera riservata alla D.G. – del ruolo (del settore e dell’organico) riconferitimi ed affidamento "strumentale" di uno pseudo incarico di studio a termine da svolgere da solo.
Decisi allora – dopo l’ennesima ricaduta in malattia per "attacchi di panico" congiunti a depressione – di rivestire in seno alla Sindirigenticredito l’incarico di Segretario della RSA. Era il 1990 e da allora fino al 1997, epoca della risoluzione del rapporto per "esodo incentivato" sono rimasto in stato di totale forzata inattività, solo impegnato in una attività sindacale serratissima ed ad alta qualificazione in ragione della mia professionalità specifica. Contemporaneamente continuavo ad essere mantenuto logisticamente in una stanza in seno all’originario "Servizio del Personale" senza affidamento di alcun lavoro, giustificato dal responsabile con l’asserzione "della comprensibile inaffidabilità di conferire ad un sindacalista lavori delicati come quelli dell’area del personale" (sic!).
Nei momenti in cui la mia azione diventò troppo "disturbante" presero corpo i tentativi di   allontanarmi anche fisicamente dall’Istituto e dalla sede di Roma – ad esempio spostandomi ad un Dipartimento Fondi Pensione Integrativi destinato ad avere la sua collocazione in una società controllata con sede a Milano – ma le garanzie di inamovibilità (ex art. 22 dello Statuto dei lavoratori) delle quali mi ero protetto con l’incarico di Dirigente della RSA di Sede Centrale, vanificarono gli obiettivi e gli intenti di ritorsione aziendale.
Nel frattempo l'intero pacchetto azionario Iccrea della Società di factoring nella quale operava a part-time come Responsabile dell'Ufficio del Personale mia moglie, venne acquisito dall'IMI e suoi dirigenti ne divennero gestori apicali e, consapevoli che il sottoscritto ne era il marito "maldigerito" dalla (oramai divenuta) Capogruppo, sottoposero anch'essa ad un feroce mobbing, con l'obbiettivo strategico di liberarsi per "dimissioni" di entrambi, dando vita ad una incredibile fattispecie di  "doppio mobbing" non già indiretto (come solitamente risultante nelle analisi degli studiosi), ma strategicamente diretto e contemporaneamente azionato su entrambi, id est sul nucleo familiare strutturale. Ma su di esso non mi dilungo, trovando la descrizione delle traversie della moglie spazio in altra pagina del sito.
Un anno prima di lasciare il lavoro decisi di adire la magistratura del lavoro ex art. 414 c.p.c. per ottenere – dal datore di lavoro responsabile ex artt. 1218, 2043, 2087 e 2103 c.c. - risarcimento di danno alla professionalità, alla carriera, all’immagine ed alla salute compromessa (c.d. danno biologico), dopo aver dimostrato con perizia medico legale il nesso di causalità tra le afflizioni di lavoro e le patologie sofferte ed oramai cronicizzatesi.
La causa – con discussione iniziata nel 1997 – è ancora in corso al momento in cui scrivo, e, com’era scontato, l’azienda ha tentato di addebitare ad una mia presunta "riottosità ed insofferenza delle regole di organizzazione" la responsabilità delle nefandezze del peggiore "mobbismo" ascrivibili invece al suo management ed ai miei "pseudo-colleghi".
Mi resta un solo rimpianto: quello di non aver denunciato penalmente – per lesioni personali colpose ex art. 590 c.p. – i miei mobber "verticali" e "orizzontali", cosa che invito a fare da parte di coloro che si trovassero nelle mie stesse condizioni, sempreché si sentano sicuri dal lato probatorio, notoriamente difficoltizzato (sino all'impossibile) dal muro di omertà eretto  dai  Capi, colleghi o pseudo colleghi di lavoro e reso granitico dal  timore di esporsi, con le deposizioni veritiere, alle ritorsioni sulla carriera da parte dell'Azienda (ragione per cui chi scrive ha potuto utilizzare come testi solo  2 sindacalisti non solo  perché moralmente corretti ma perché essenzialmente privi del timore riverenziale verso l'Azienda per l'essere già stati pregiudicati in carriera dalla scelta sindacale ed oramai prossimi all'uscita per pensionamento dall'azienda).
 
Roma, 15 marzo 2000
LA VERTENZA GIUDIZIARIA CON L'EX ENTE PUBBLICO I.M.I - 1 -

E'indubbiamente istruttivo per i "mobbizzati" conoscere la tecnica usata dal difensore dell'IMI,  Prof. avv. Renato Scognamiglio per ribaltare sul sottoscritto la responsabilità del demansionamento e della forzata inattività e prospettare al Giudice una rappresentazione totalmente alterata dei fatti. Nella memoria difensiva aziendale vengo etichettato come soggetto "riottoso", ed, in forma oculatamente indiretta, "serpe in seno" a causa evidentemente del  "passaggio...alla sponda avversa" sindacale, "promotore di una scoperta difesa d'ufficio ad opera dei sindacati", soggetto "recalcitrante"che "snobbava vistosamente le mansioni assegnategli secondo il patto d'assunzione", portatore di "un malanimo covato per anni..., di un malcelato disprezzo delle mansioni che gli erano state offerte", giungendo addirittura a mettere in dubbio i documentatissimi danni alla salute (debitamente ed abbondantemente certificati) con la frase"...i malanni, ove esistano, di cui egli si lagna".  Infine per addossarmi  la responsabilità del confinamento nell'inattività, mi si addebita falsamente di aver opposto "immediatamente al nuovo responsabile del Personale un netto e pregiudiziale rifiuto a prestare ogni forma di collaborazione richiestagli in linea di coerenza con i profili della posizione di lavoro...al fine di evitare ogni forma di acquiescenza al provvedimento organizzativo contro il quale si riservava ogni forma di contestazione", proseguendo nel definirmi "dipendente...che non collaborava", il quale dopo il nuovo provvedimento organizzativo di rimozione dall'incarico non cadde conseguenzialmente in depressione ma, quasi volontariamente,  secondo la precitata memoria difensiva "dapprima si allontanò per malattia e poi si rifiutò di collaborare con il nuovo responsabile del Servizio del personale", "si creò una nicchia di intangibilità", "facendosi nominare membro della delegazione sindacale Federdirigenti Cida", beneficiando della "pazienza dell'IMI...a fronte dello sdegnoso rifiuto del lavoro", e così via sulla falsariga del ribaltamento della verità dei fatti, giungendo a prospettare al Giudice addirittura l'incredibile e temeraria conclusione che "il Meucci, purtroppo per lui, ha vissuto, nel corso del rapporto di lavoro, una 'soggettiva dimensione di declassamento', esacerbata dal difficile rapporto professionale con il collega...", declassamento invece risultato - come in realtà lo fu - del tutto reale e concreto nella versione dei testi escussi. Anche sulla asserita “non collaborazione per rifiuto pregiudiziale di lavoro”, purtroppo per la fantasiosa costruzione difensiva dell’IMI, il teste Dr. Musetti, pur prodotto dall’Azienda, ha dovuto ammettere a diretta domanda del Giudice (ud. del 12.5.2000) che: “Ricordo ad esempio di averlo incaricato di volere approfondire aspetti connessi all’applicazione di una normativa negoziale ad una società del Gruppo, al momento non ne ricordo altri. Effettivamente ricordo che il Meucci assolse l’incarico da me affidatogli”. “Non ricordo che il Meucci abbia mai mancato di ottemperare a qualche singolo e concreto incarico da me affidatogli. Ricordo solo questa evidente situazione di disagio”. Ne consegue, da quanto sopra, l’automatico crollo dell’intera costruzione difensiva studiata e confezionata a tavolino, in maniera del tutto avulsa dalla realtà, dai rappresentanti e legali dell’IMI ben consapevoli – come del resto tutti i dipendenti - di come effettivamente il dr. Meucci fosse stato demansionato e “mobbizzato”! Quindi il Meucci non era affatto “non collaborativo” ma la sua inattività (non già considerata mortificante, ma “lautamente retribuita” dalla difesa dell’IMI) dipendeva  da determinazioni  dei preposti dell’IMI ai vari livelli e primariamente dal già sottolineato, illegittimo, convincimento del Dr. Musetti (ma che risaliva fino ai vertici dell’Area legale e  del personale) secondo il quale si rendeva necessario reperire per il Meucci – funzionario, ripetiamo, tenuto al “segreto d’ufficio” ex art. 2105 c.c. (quale integrato dall’art. 9 del ccnl 22.11.1990 che vieta  esplicitamente al funzionario di “comunicare notizie riservate d’ufficio”) ed in  caso di trasgressione perseguibile con i più drastici provvedimenti disciplinari, ex art. 2106 c.c. – compiti “neutri” e “compatibili con la carica sindacale da lui  stesso rivestita” (testuale affermazione del Musetti nella citata udienza del 12.5.2000). Nella singolare concezione del predetto Musetti tutti i compiti del Servizio del Personale dell’IMI sembrano essere caratterizzati da una “delicatezza” o “riservatezza” – come se in seno si facessero operazioni non improntate a trasparenza, imparzialità o correttezza – da non essere affidati ad un “funzionario” con ruolo sindacale, pur sempre tenuto al vincolo del “segreto d’ufficio”. La concezione merita davvero di essere sottolineata, giacché l’IMI non ha mai estraniato o precluso a chi disimpegnava compiti di estrema delicatezza o riservatezza, quali ad es. gli ispettori amministrativi (esperti di bilanci) e tecnici (ingegneri) ricoprenti ruoli sindacali, il conferimento di  incarichi di valutazione del merito di credito per  finanziamenti per cifre plurimiliardarie alle aziende ispezionate e valutate nei loro (davvero) “riservatissimi” progetti industriali (in quanto non ancora ufficializzati sul mercato e fonte di irrimediabili pregiudizi se cogniti alla concorrenza), cioè non  ha mai loro sottratto la cognizione di dati estremamente riservati  relativi alle aziende mutuate,  in buona sostanza gli ha sempre consentito – come doveva e deve essere – di svolgere il loro lavoro  regolarmente e secondo professionalità, a prescindere dall’affiliazione sindacale. La “scrematura”  su base ideologica effettuata dal Musetti  per il lavoro da disimpegnare dal Dr. Meucci al Servizio del Personale,  operata tramite oculata scelta degli incarichi da affidare al suo funzionario a staff   – con l’effetto di relegarlo in condizione di assoluta inattività, atteso che  l’unico incarico “neutro” (come egli diceva) reperito per il ricorrente fu quello affidatogli e svolto nel novembre/dicembre 1991 afferente una società consociata (Consorzio studi e ricerche fiscali) - è la conferma che l’inattività del Meucci fu esclusivamente ascrivibile, dopo il 1990, ad un oggettivo comportamento  di discriminazione, riposante sulla militanza sindacale (cui era stato sospinto dal 1990 in poi, per effetto della rimozione traumatica dall'incarico, e a cui si era determinato a scopi eminentemente difensivi contro l'azione stritolante aziendale). Discriminazione di natura demansionante sconfinata nell'inattività totale, posta in essere in ragione dell’ostilità concettuale nutrita (in buona o in mala fede poco conta, stante l’esclusiva rilevanza oggettiva della condotta o discriminazione antisindacale, così, fra le molte, Cass. sez. un. 12.6.1997, n. 5295) da detto nuovo Responsabile del Personale nei confronti del diritto costituzionale di adesione sindacale, non limitabile  - anche nell’azienda IMI –  per alcun dipendente, in nessuna posizione di lavoro. Altrimenti bisogna giungere ad  ammettere che  nel predetto Servizio del Personale si operava  al di fuori delle regole generali di correttezza, imparzialità e  trasparenza degli atti e delle decisioni (che, pertanto non dovevano essere conosciute dal  funzionario militante sindacale). Tanto accertato ed affermato dal teste Musetti, va giudicato del tutto pertinente il richiamo operato nel  nostro ricorso (a pag. 45) all’art. 15, primo comma, lett. b) della legge n. 300/’70  - che l’IMI ha in fattispecie violato - disposizione che vieta la discriminazione “…nell’assegnazione delle mansioni … o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale…”. Del tutto fuori luogo è, pertanto, la sufficienza e il sarcasmo   con cui la difesa avversaria crede di poter  liquidare (a pag. 46  della comparsa costitutiva) il  nostro richiamo  sia  alla violazione di questo come di altri disposti normativi (sarcasmo  di cui è intrisa l’intera comparsa costitutiva,  costellata altresì dall’uso di aggettivazioni  inveritiere quando non addirittura offensive verso il ricorrente). Infine nella sua memoria conclusionale, depositata presso il Tribunale di Roma il 20 dicembre 2000  (in funzione della decisione di primo grado fissata  dal Giudice al 26 gennaio 2001, poi spostata al 22 marzo 2001 e poi ancora rinviata per effetto di nomina giudiziale di CTU sanitaria ai fini del riscontro del  danno biologico già documentato con perizia medico-legale addizionale alla probante certificazione medico specialistica) la difesa dell’IMI SpA ha lasciato intendere finalmente (talora con frasi allusive tal’altra esplicitamente) le reali motivazioni della mia emarginazione e rimozione dall’incarico conferitomi dalla nuova Direzione Generale.  In buona sostanza, il rispetto che la mia imparzialità e correttezza professionale aveva suscitato in “tutte indistintamente” le  6 Rappresentanze sindacali aziendali dell’IMI (ad esclusione di due interni della Rsa Fabi, ora trasmigrati al Silcea-Cisal) è stato considerato “indizio di collusione”, atteso che – secondo la prosa di tale difesa (il Prof. avv. Renato Scognamiglio ed ex colleghi legali dell'IMI) -  “il presunto responsabile delle relazioni sindacali gode della aperta predilezione degli antagonisti sindacali”…”con i quali intercorre un “idillio che non dovrebbe essere turbato” con un provvedimento di “rimozione”. Insomma si sarebbe voluto che il sottoscritto fosse un “bieco”, si addossasse (inverosimilmente) come proprie le impopolari e contestate determinazioni  del vertice aziendale e prendesse su di sé in esclusiva gli “sputi”(in senso metaforico) che i sindacati interni indirizzavano invece sul vertice aziendale. L’aver compreso – da parte di Organismi sindacali che (quando non si colorano di “giallo” cioè a dire della caratteristica di "sindacati di comodo") possiedono naturalmente la  necessaria sensibilità e rivestono il ruolo istituzionale per tutelare tutti i lavoratori indistintamente dalle angherie aziendali – e l’aver solidarizzato con le mie pubbliche vicissitudini, non è stato “digerito” dall’Azienda e si è trasformato, nella mente contorta del suo management e dei suoi difensori, in indizio concludente (quanto  abilmente celato in corso di rapporto) di collusione con le controparti sindacali. Ci auguriamo che il magistrato possieda il necessario equilibrio per giudicare secondo realtà e non secondo costruzioni fantasiose, sconfinanti nel reato di diffamazione.

Roma 23.3.2001

LA VERTENZA GIUDIZIARIA CON L'EX ENTE PUBBLICO I.M.I - 2- : la C.T.U

 

1. Nella relazione peritale affidata al Prof. Francesco Raimondo, consulente del Tribunale e, tra l’altro,  dell’Inail,  depositata per l’udienza dell’aprile 2002 (rinviata poi al dicembre 2002), il suddetto CTU Prof. Raimondo ha creduto personalmente di riscontrare nella  personalità del  sottoscritto-ricorrente “taluni tratti di rigidità e narcisismo” ove per “rigidità” il perito intende  una certa difficoltà di adattamento a  vicende negative dell’esistenza e per “narcisismo” l’avvertita esigenza di approvazione e di consenso del proprio operato (esigenza, va sottolineato, comune a chiunque disimpegni con professionalità e non con menefreghismo il proprio lavoro e da esso si attenda gratificazioni, in luogo di umiliazioni!).

In questa personalità egli ha accertato ed affermato  essere sorto nel 1980 ed essersi “strutturato e radicato” – cioè volgarmente, cronicizzato – un “disturbo da attacchi di panico con somatizzazioni multiple e  con depressione reattiva”, implicante il riconoscimento di un  grado di invalidità permanente (ai fini del risarcimento e della quantificazione del danno biologico) nella (del tutto insufficiente, n.d.r.) misura del 15% (contro il 45% del mio consulente tecnico).

Ha lasciato al magistrato il compito di valutare se le vicende negative o frustranti della mia vita lavorativa all’IMI (caratterizzate da massiccio demansionamento, rimozione dal ruolo, forzata inattività, vessazioni e  frustrazioni da comportamenti oggettivi e documentati) – considerate determinatrici del danno alla salute in presenza dei premenzionati tratti della personalità -  possano rivestire (o meno) i requisiti dell’atto o fatto ingiusto ed antigiuridico, tali da far risalire casualmente la responsabilità risarcitoria sull’Ente convenuto (chiaramente ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 e 2043 cod.civ.).

Non possiamo fare a meno di notare ed evidenziare da parte nostra – sulla base delle perizie passateci per le mani o riferite nelle molte sentenze lette - che è pressochè una costante dei CTU riscontrare nella personalità dei periziati tratti di “rigidità”, ”narcisismo”, “ossessività” e simili.

O meglio lo è da parte della degli psichiatri della vecchia scuola [(influenzata dalle tesi di Field (1996) e  Zapf (1999)che focalizzarono l’attenzione sulla personalità “premorbosa” delle vittime)] superata dalle impostazioni della nuova scuola – rivalutante gli studi di Leymann del 1996 – facente capo a R. Gilioli (2000) e Hirigoyen (2000), la quale sottolinea come  gli aspetti “premorbosi” possedevano piuttosto il comodo ruolo di “giustificazioni retroattive” di tratti della personalità non tanto preesistenti quanto indotti dal mobbing (cfr. l'articolo, con la relativa appendice degli psichiatri dell'Un. di Pisa, di Fausto Nistico, Mob. Mobber, Mobbing,  nel  nostro sito al link http://dirittolavoro.altervista.org/saggio_nistico.pdf), quali effetti, quindi conseguenti ad esso e non ad esso  antecedenti (come aveva già precedentemente asserito lo stesso Leymann).

Ma il mio 68 enne CTU evidentemente non si è aggiornato o ad esso faceva comodo così, per timore di sbilanciarsi a mio favore (così ripiegando sull’applicazione del detto “un colpo al cerchio uno alla botte” di cui la pilatesca relazione è un raro esemplare di maestria).

Ad ogni buon conto anche seguendo questa risalente e superata impostazione, va rilevato come la magistratura  si sia sempre mostrata molto  attenta nel dare il giusto peso  alle valutazioni (rectius, opinioni) soggettive dei CTU, innestandole in una considerazione più globale del  caso concreto. Addirittura in una sentenza della Pretura di Roma risalente al 3 ottobre 1991 (est. Filabozzi, Dall’Ara c. CIT, in Riv. crit. dir. lav. 1992, 390) – occasionata da un analogo demansionamento pluriennale - il magistrato, correttamente ed incisivamente, così si esprimeva: «[…] “E’ vero che il disturbo… da cui è affetto il ricorrente si è strutturato su una personalità di tipo rigido e ossessivo come si legge nella relazione del CTU e in quella dello specialista…; ma non è vero che tale malattia si sarebbe sviluppata in qualsiasi altro ambiente di lavoro e con qualunque altro datore di lavoro, giacché certamente essa non si sarebbe manifestata ove il soggetto non fosse stato sottoposto a stress così intensi e prolungati nel tempo, come quelli derivanti dalla dequalificazione professionale e non si fosse quindi verificato uno ‘stimolo emozionale cronico a elevato contenuto stressante, con azione psicodestrutturante e influenzante il substrato biologico’…”.”[…] Quanto al rapporto di causalità  e alla prevedibilità del danno (alla salute, n.d.r.) è sufficiente ricordare che il nesso di conseguenzialità sussiste anche se vi sono le concause naturali e che, in particolare, in tema di lesioni personali, il danno iscrivibile comprende anche quelle conseguenze che il fatto lesivo ha prodotto in ragione delle preesistenti condizioni di salute del soggetto; deve inoltre ritenersi che, nella specie, sussiste anche la prevedibilità del danno, essendo notorio che uno stato di totale emarginazione provoca crisi soggettive e stati depressivi e che questi, a loro volta, possono provocare, specie se prolungati nel tempo, rilevanti danni alla psiche del soggetto». Ed ancora, successivamente, il Tribunale di Milano ha stabilito: «...l’aver la condotta vessatoria insistito su una ‘preesistente struttura di personalità della ricorrente, incapace di elaborare esperienze stressanti’, non rileva ai fini dell’esclusione di responsabilità risarcitoria giacché ...è proprio su soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili che possono prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri riuscendo a reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti della condotta..» soggiungendo inoltre  che «rientra nei limiti della prevedibilità – ex art. 1225 – il fatto che dall'omesso intervento societario a tutela della persona della ricorrente le potesse derivare un danno alla salute cui consegue, pertanto, una correlativa responsabilità contrattuale aziendale» (Trib Milano 21.4.1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 957).

Ed ancora nello stesso senso, in un altro caso di mobbing attuato tramite demansionamento, il magistrato ha così affermato: «[…] A ciò aggiungasi che se anche si volesse ammettere per ipotesi che, come vittima dell’altrui condotta ingiusta, la lavoratrice ha reagito in modo del tutto singolare ed estremo, e cioè con profondo turbamento, così profondo da generare in lei l’insorgenza di una sindrome depressiva reattiva, ciò però è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la posizione nella ricorrente di persona offesa da essa.

La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c.,  tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere» [Trib. Torino, sez. lav. 1° grado,  30 dicembre 1999  - est. Ciocchetti – Stomeo c. Ziliani S.p.A; conf. Trib. Torino  - 1 grado – 16 novembre 2001 – in Lav. prev. oggi  2000, 1, 154 ed ivi specificatamente a  p. 161].  

Nel corso del 2002, Trib. Milano 6 giugno 2002 (est. Frattin, in Riv. crit.dir. lav. 3/2002, 635) ha esplicitamente asserito contro il “vezzo” dei Ctu di “schermarsi” dietro la storia premorbosa del danneggiato nello stato di salute: «Non si può condividere assolutamente, a fini di sottrazione della società dalle responsabilità dei danni alla salute della ricorrente, il tentativo dei Ctu di parte volto a pretendere di ricollegare causalmente la grave frustrazione e la conseguente psicopatologia alla storia psicologica remota della ricorrente, ai suoi problemi infantili non risolti e così via: a questa stregua - andando cioè alla caccia dei problemi psicologici prossimi o remoti di ciascuno di noi, chiamando narcisismo il giusto bisogno di ricavare soddisfazione dal lavoro - di nessuna patologia psicologica potrebbe mai affermarsi l'eziologia professionale, cadendo sempre ogni fatto professionale su un terreno che ha una storia fatta necessariamente, per la condizione umana, anche di sofferenze e problemi».

 

2. Nelle note depositate nel novembre 2002, la difesa dell’IMI (curata dal Prof. Avv. R. Scognamiglio, in gioventù legale della Cgil campana e poi patrono delle più remunerative aziende del credito... tanto per ricambiare l'addebito a me rivolto nella memoria difensiva di "essere passato all'altra sponda"), continua,  con indubbia coerenza e “con costanza degna di miglior causa” (uso le parole da lui addebitate a me), nel tentativo di sollevare i miei mobbers ed i gestori dell’Istituto di credito da qualsiasi responsabilità, ribaltandola sul sottoscritto che egli descrive come incapace a instaurare un corretto clima di relazioni  umane con i colleghi, invero vittima,  soggetto passivo e remissivo in corso di rapporto anche in ragione della fragile posizione di lavoratore subordinato. Per inciso mi sono convinto che la mia remissività (senza alternative) mi abbia nociuto, in quanto ha fatto maturare la convinzione nei miei mobbers di poter proseguire indisturbati ed impuniti nelle loro vessazioni; forse avrei dovuto – invece di limitarmi a scrivere lettere civili di invito ai vertici aziendali – prendere fisicamente di petto e per lo stomaco qualcuno...ma, dietro ognuno di noi mobbizzati in azienda, ci sta un posto di lavoro da conservare (come unica fonte di reddito) ed una  famiglia da mantenere. E su queste corpose remore ad una più spiccia “regolazione dei conti” si basa il gioco sporco dei mobbers, specie di quelli in posizione  gerarchica sovraordinata.

Tornando alla prosa, insistentemente ironica e derisoria, della difesa dell’IMI (che si affida alla tecnica riassumibile nel detto “screditate, screditate, qualcosa resterà!”), essa inizia le note col definire “incredibile” (cioè temeraria, n.d.r.) la controversia; prosegue nell’affermare che non avevo motivo di lamentarmi se ero ridotto nelle riunioni con i sindacati – per le cui Relazioni ero stato assunto come Responsabile sia per pubblica inserzione sul Corriere della Sera sia per pattuizioni confermative intercorse con i rappresentanti dell’Azienda -  a leggere loro il “comunicato finale” delle determinazioni aziendali e alla “verbalizzazione” della sostanza dei colloqui (si noti bene, quale pro-memoria per uso unilaterale aziendale, non certificativo e da consegnare alle parti!), giacché “si tratta pur sempre di un’attività impegnativa e delicata”, che un teste ha affermato essere oggi disimpegnata da una segretaria (tanto per  lumeggiarne il livello qualitativo!), trattandosi semplicemente di prendere appunti sommari. Nulla conta il fatto dell’essere stato privato del ruolo di interlocuzione dialettica (e di concorso ausiliario e per competenza specifica alla formazione delle determinazioni da rassegnare alle RSA), giacché queste corrette aspettative e pretese di disimpegno dei compiti e del ruolo pattuito vengono qualificate irridentemente semplici “bramosie”. Anche  la mia (immotivata ed inspiegata, n.d.r.) rimozione dalla riaffidata (dopo 14 anni e per solo 2 mesi e mezzo!) responsabilità del “settore gestione del Personale e relazioni sindacali”  non costituirebbe affatto lesione della mia immagine e  professionalità, giacché l’IMI mi collocò poi a staff del responsabile del Servizio del Personale, soluzione  che doveva considerarsi “lusinghiera posizione di staff” (senza, invero, disimpegnare compito alcuno  atteso  lo stato di inattività in cui venni confinato, giustificata, incautamente - da un teste aziendale/capo del Personale - con l’incompatibilità  fra la delicatezza dei compiti che si svolgono nel Servizio del Personale e la carica sindacale nel frattempo dal sottoscritto assunta in seno all’Organizzazione sindacal/professionale Sindirigenticredito - Federdirigenti - Cida).

A questo proposito osservo che  se in qualsiasi settore dell’azienda come al Servizio del personale si disimpegnano compiti con imparzialità e correttezza professionale (e non su sollecitazione clientelare o similari impulsi illeciti), non v’è ragione alcuna di non renderne partecipe un funzionario/specialista come il ricorrente, tenuto peraltro al segreto d’ufficio per disposizione dell’ordinamento, riaffermata dal CCNL di settore, sanzionabile con il licenziamento in caso di trasgressione. Chiedo ancora: perché fui rimosso dopo 2 mesi e mezzo dall’incarico e poi perché fui immediatamente emarginato ed estraniato non solo dall’informazione ma  dal disimpegno di lavoro (confinato nella più totale inedia di incombenze, per circa 7 anni)? E chiedo, prima di questo,: perché anteriormente l’azienda non rispettò quel principio di civiltà giuridica  riassunto nel brocardo “pacta sunt servanda” relativamente al ruolo di assunzione e perché rimase per 14 anni sorda alle mie reiterate richieste scritte, indirizzate a chi aveva il dovere ed i poteri per attivarsi  al fine di conferirmelo (e nulla  invece fece!)?

Si afferma poi che l’IMI avrebbe fatto “diversi tentativi di recupero del personaggio” (così vengo additato al magistrato!) e  qui chi scrive pubblicamente denuncia che consistettero nella risibile offerta di risoluzione del rapporto con l’Ente per un incarico in una consociata  di nuova costituzione per effetto della esternalizzazione di spezzoni dei Centri elaborazione dati delle Società del Gruppo, società di dimensioni ed organico modestissimi e talmente precaria da essere posta (come avevo ben presagito) in liquidazione pochi anni dopo (con prepensionamento dei più anziani – io sarei stato uno di loro - e allocazione degli altri dipendenti più giovani in varie sedi e società di scarsa o minore affidabilità ed immagine rispetto alla Capogruppo IMI con cui intercorse, intuitu personae, il mio contratto di lavoro e per la quale lasciai la posizione di dirigente d’industria su Milano).

I testimoni da me escussi (attesa la difficoltà/impossibilità di reperire colleghi di Servizio disponibili a testimoniare nel clima omertoso che impantana e difficoltizza queste vicende, come ha avuto modo di riscontrare e sottolineare Cass. sez. lav. n. 143/2000!), vengono svalutati dalla difesa dell’IMI ad “amici e sindacalisti” (nell’ottica di insinuare al magistrato la carenza di imparzialità delle loro affermazioni, quando invece la loro scelta si è imposta di necessità per la maggior conoscenza da parte loro, quali interlocutori, della mia vanificazione di ruolo), mentre si sottace che quelli aziendali erano costituiti, il primo, da uno dei miei peggiori mobber (leggilo in nota alla sentenza linkata, punto b, e nel comunicato sindacale riportato),  e che gli altri due, dirigenti, rivestivano o avevano rivestito la qualifica di Capi del personale, in successione temporale [quindi erano istituzionalmente allineati su posizioni aziendali, di cui uno (dr. Schiavone, ora in Alitalia) rivelatosi altresì uno spudorato mentitore, tramite affermazioni tanto contraddittorie quanto da me sbugiardate con produzione documentale accolta dal magistrato nell’udienza successiva].

Chi scrive si chiede se tutto ciò non rappresenti oltretutto anche un’offesa all’intelligenza dei magistrati giudicanti, ipotizzati con le “fette di prosciutto” sugli occhi.

Entrando poi nel merito della Relazione del CTU, la difesa dell’IMI brilla per strumentalizzazione di alcuni “spezzoni”  della perizia colti qua e là ed assemblati secondo convenienza e intento teso alla solita affermazione dell’estraneità totale dell’Ente da qualsiasi responsabilità nella determinazione dei disturbi riscontratimi dal CTU (e da egli debitamente sottostimati a fini della quantificazione del danno biologico!). Essi discenderebbero esclusivamente - secondo la difesa del convenuto IMI - dalla personalità del ricorrente, come proverebbe il fatto che a distanza di 5 anni dalla risoluzione del rapporto con l’IMI non hanno subito remissione (e, qui dimenticando, che anche il CTU aveva correttamente detto che si erano oramai cronicizzati!) e come proverebbe ancora la difficoltà ad  immaginare che “tale patologia discenda da  un sogno infranto…” (quello rivestire i ruoli pattuiti in assunzione, n.d.r.), coltivato da uno “smanioso collaboratore” di cui l’IMI “ha sopportato per tanti anni il malcontento e talune iniziative o comportamenti pure censurabili…”, senza  - si noti bene – adottare alcun richiamo o misura disciplinare (se realmente fossero esistiti!). Anzi a tale collaboratore (il sottoscritto!) l’IMI – lo diciamo per lumeggiare l’enormità e l’infondatezza degli addebiti della costruzione difensiva – rilasciava annualmente, per obbligo contrattuale (per lungo tempo dismesso per conservazione dei giudizi del personale interna corporis nelle casseforti dell’Ente), note o giudizi di qualifica del più elevato livello (“globalmente di rilievo: con riferimento alla capacità professionale; buone le attitudini”). 

Inoltre vorrei suggerire a tale difesa di completare l’armamentario dei propri  improperi per le vittime, inserendovi gli aggettivi che un magistrato – negatore  del mobbing ad un ricorrente (disabile, non vedente) che se ne lamentava -  gli  ha  indirizzato nella motivazione della propria decisione: essere persona “ostile, rancorosa e querulomane verso l’amministrazione “ (in ragione delle numerose lettere  ad essa rivolte e rimaste, guarda caso, senza risposta). Tradotto per il volgo: un "rompicoglioni" (secondo l'oramai famosa qualificazione dell'ex Ministro dell'interno Scajola rivolta ad un defunto giuslavorista per mano BR)!

 

3. La prossima udienza - fissata al 12 dicembre 2002 - è stata inopinatamente spostata al 13 marzo 2003.

 

Roma, 31.12.2003

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