LA MIA STORIA DI MOBBING LUNGA 20 ANNI |
|
A. Ciardi, Laguna (1894)
E'indubbiamente istruttivo per i "mobbizzati" conoscere la tecnica usata dal
difensore dell'IMI, Prof. avv. Renato Scognamiglio per ribaltare sul
sottoscritto la responsabilità del demansionamento e della forzata inattività
e prospettare al Giudice una rappresentazione totalmente alterata dei fatti.
Nella memoria difensiva aziendale vengo etichettato come soggetto "riottoso",
ed, in forma oculatamente indiretta, "serpe in seno" a causa
evidentemente del "passaggio...alla sponda avversa" sindacale, "promotore
di una scoperta difesa d'ufficio ad opera dei sindacati", soggetto "recalcitrante"che
"snobbava vistosamente le mansioni assegnategli secondo il patto
d'assunzione", portatore di "un malanimo covato per anni..., di un
malcelato disprezzo delle mansioni che gli erano state offerte", giungendo
addirittura a mettere in dubbio i documentatissimi danni alla salute
(debitamente ed abbondantemente certificati) con la frase"...i malanni,
ove esistano, di cui egli si lagna". Infine per addossarmi la
responsabilità del confinamento nell'inattività, mi si addebita falsamente di
aver opposto "immediatamente al nuovo responsabile del Personale un netto e
pregiudiziale rifiuto a prestare ogni forma di collaborazione richiestagli in
linea di coerenza con i profili della posizione di lavoro...al fine di evitare
ogni forma di acquiescenza al provvedimento organizzativo contro il quale si
riservava ogni forma di contestazione", proseguendo nel definirmi "dipendente...che
non collaborava", il quale dopo il nuovo provvedimento organizzativo di
rimozione dall'incarico non cadde conseguenzialmente in depressione ma,
quasi volontariamente, secondo la precitata memoria difensiva "dapprima
si allontanò per malattia e poi si rifiutò di collaborare con il nuovo
responsabile del Servizio del personale", "si creò una nicchia di
intangibilità", "facendosi nominare membro della delegazione sindacale
Federdirigenti Cida", beneficiando della "pazienza dell'IMI...a fronte
dello sdegnoso rifiuto del lavoro", e così via sulla falsariga del
ribaltamento della verità dei fatti, giungendo a prospettare al Giudice
addirittura l'incredibile e temeraria conclusione che "il Meucci, purtroppo
per lui, ha vissuto, nel corso del rapporto di lavoro, una 'soggettiva
dimensione di declassamento', esacerbata dal difficile rapporto professionale
con il collega...", declassamento invece risultato - come in realtà lo fu
- del tutto reale e concreto nella versione dei testi escussi.
Roma 23.3.2001
1. Nella relazione peritale affidata al Prof.
Francesco Raimondo, consulente del Tribunale e, tra l’altro, dell’Inail,
depositata per l’udienza dell’aprile 2002 (rinviata poi al dicembre 2002),
il suddetto CTU Prof. Raimondo ha creduto personalmente di riscontrare
nella personalità del sottoscritto-ricorrente “taluni tratti di
rigidità e narcisismo” ove per “rigidità” il perito intende una
certa difficoltà di adattamento a vicende negative dell’esistenza e per “narcisismo”
l’avvertita esigenza di approvazione e di consenso del proprio operato
(esigenza, va sottolineato, comune a chiunque disimpegni con professionalità
e non con menefreghismo il proprio lavoro e da esso si attenda
gratificazioni, in luogo di umiliazioni!).
In questa personalità egli ha accertato ed affermato essere sorto nel 1980 ed essersi “strutturato e radicato” – cioè volgarmente, cronicizzato – un “disturbo da attacchi di panico con somatizzazioni multiple e con depressione reattiva”, implicante il riconoscimento di un grado di invalidità permanente (ai fini del risarcimento e della quantificazione del danno biologico) nella (del tutto insufficiente, n.d.r.) misura del 15% (contro il 45% del mio consulente tecnico).
Ha lasciato al magistrato il compito di valutare
se le vicende negative o frustranti della mia vita lavorativa all’IMI
(caratterizzate da massiccio demansionamento, rimozione dal ruolo, forzata
inattività, vessazioni e frustrazioni da comportamenti oggettivi e
documentati) – considerate determinatrici del danno alla salute in presenza
dei premenzionati tratti della personalità - possano rivestire (o meno) i
requisiti dell’atto o fatto ingiusto ed antigiuridico, tali da
far risalire casualmente la responsabilità risarcitoria sull’Ente convenuto
(chiaramente ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 e 2043 cod.civ.).
Non possiamo fare a meno di notare ed
evidenziare da parte nostra – sulla base delle perizie passateci per le mani
o riferite nelle molte sentenze lette - che è pressochè una costante dei CTU
riscontrare nella personalità dei periziati tratti di “rigidità”,
”narcisismo”, “ossessività” e simili.
O meglio lo è da parte della degli psichiatri della vecchia scuola [(influenzata dalle tesi di Field (1996) e Zapf (1999)che focalizzarono l’attenzione sulla personalità “premorbosa” delle vittime)] superata dalle impostazioni della nuova scuola – rivalutante gli studi di Leymann del 1996 – facente capo a R. Gilioli (2000) e Hirigoyen (2000), la quale sottolinea come gli aspetti “premorbosi” possedevano piuttosto il comodo ruolo di “giustificazioni retroattive” di tratti della personalità non tanto preesistenti quanto indotti dal mobbing (cfr. l'articolo, con la relativa appendice degli psichiatri dell'Un. di Pisa, di Fausto Nistico, Mob. Mobber, Mobbing, nel nostro sito al link http://dirittolavoro.altervista.org/saggio_nistico.pdf), quali effetti, quindi conseguenti ad esso e non ad esso antecedenti (come aveva già precedentemente asserito lo stesso Leymann).
Ma il mio 68 enne CTU evidentemente non si è
aggiornato o ad esso faceva comodo così, per timore di sbilanciarsi a mio
favore (così ripiegando sull’applicazione del detto “un colpo al cerchio uno
alla botte” di cui la pilatesca relazione è un raro esemplare di maestria).
Ad ogni buon conto anche seguendo questa
risalente e superata impostazione, va rilevato come la magistratura si sia
sempre mostrata molto attenta nel dare il giusto peso alle valutazioni (rectius,
opinioni) soggettive dei CTU, innestandole in una considerazione più globale
del caso concreto. Addirittura in una sentenza della Pretura di Roma
risalente al 3 ottobre 1991 (est. Filabozzi, Dall’Ara c. CIT, in Riv. crit.
dir. lav. 1992, 390) – occasionata da un analogo demansionamento pluriennale
- il magistrato, correttamente ed incisivamente, così si esprimeva: «[…]
“E’ vero che il disturbo… da cui è affetto il ricorrente si è strutturato su
una personalità di tipo rigido e ossessivo come si legge nella
relazione del CTU e in quella dello specialista…; ma non è vero che tale
malattia si sarebbe sviluppata in qualsiasi altro ambiente di lavoro e con
qualunque altro datore di lavoro, giacché certamente essa non si sarebbe
manifestata ove il soggetto non fosse stato sottoposto a stress così intensi
e prolungati nel tempo, come quelli derivanti dalla dequalificazione
professionale e non si fosse quindi verificato uno ‘stimolo emozionale
cronico a elevato contenuto stressante, con azione psicodestrutturante e
influenzante il substrato biologico’…”.”[…] Quanto al rapporto di
causalità e alla prevedibilità del danno (alla salute, n.d.r.)
è sufficiente ricordare che il nesso di conseguenzialità sussiste anche
se vi sono le concause naturali e che, in particolare, in tema di
lesioni personali, il danno iscrivibile comprende anche quelle conseguenze
che il fatto lesivo ha prodotto in ragione delle preesistenti condizioni di
salute del soggetto; deve inoltre ritenersi che, nella specie, sussiste
anche la prevedibilità del danno, essendo notorio che uno stato di totale
emarginazione provoca crisi soggettive e stati depressivi e che questi, a
loro volta, possono provocare, specie se prolungati nel tempo, rilevanti
danni alla psiche del soggetto». Ed ancora, successivamente, il
Tribunale di Milano ha stabilito: «...l’aver la condotta
vessatoria insistito su una ‘preesistente struttura di personalità della
ricorrente, incapace di elaborare esperienze stressanti’, non rileva ai fini
dell’esclusione di responsabilità risarcitoria giacché ...è
proprio su soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili che
possono prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri
riuscendo a reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti
della condotta..» soggiungendo inoltre che «rientra nei limiti della
prevedibilità – ex art. 1225 – il fatto che dall'omesso intervento
societario a tutela della persona della ricorrente le potesse derivare un
danno alla salute cui consegue, pertanto, una correlativa
responsabilità contrattuale aziendale» (Trib Milano 21.4.1998, in Riv.
crit. dir. lav. 1998, 957).
Ed ancora nello stesso senso, in un altro caso
di mobbing attuato tramite demansionamento, il magistrato ha così affermato:
«[…] A ciò aggiungasi che se anche si volesse ammettere per
ipotesi che, come vittima dell’altrui condotta ingiusta, la lavoratrice ha
reagito in modo del tutto singolare ed estremo, e cioè con profondo
turbamento, così profondo da generare in lei l’insorgenza di una sindrome
depressiva reattiva, ciò però è cosa che non modifica né la realtà della
prevaricazione né la posizione nella ricorrente di persona offesa da essa.
La Carta
Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c.,
tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e
capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più deboli e
quindi destinati anzitempo a soccombere»
[Trib.
Torino, sez. lav. 1° grado, 30 dicembre 1999 - est. Ciocchetti – Stomeo c.
Ziliani S.p.A; conf. Trib. Torino - 1 grado – 16 novembre 2001 – in Lav.
prev. oggi 2000, 1, 154 ed ivi specificatamente a p. 161].
2. Nelle note depositate nel novembre 2002, la
difesa dell’IMI (curata dal Prof. Avv. R. Scognamiglio, in gioventù legale
della Cgil campana e poi patrono delle più remunerative aziende del
credito... tanto per ricambiare l'addebito a me rivolto nella memoria
difensiva di "essere passato all'altra sponda"), continua, con indubbia
coerenza e “con costanza degna di miglior causa” (uso le parole da lui
addebitate a me), nel tentativo di sollevare i miei mobbers ed i gestori
dell’Istituto di credito da qualsiasi responsabilità, ribaltandola sul
sottoscritto che egli descrive come incapace a instaurare un corretto clima
di relazioni umane con i colleghi, invero vittima, soggetto passivo e
remissivo in corso di rapporto anche in ragione della fragile posizione di
lavoratore subordinato. Per inciso mi sono convinto che la mia remissività
(senza alternative) mi abbia nociuto, in quanto ha fatto maturare la
convinzione nei miei mobbers di poter proseguire indisturbati ed impuniti
nelle loro vessazioni; forse avrei dovuto – invece di limitarmi a scrivere
lettere civili di invito ai vertici aziendali – prendere fisicamente di
petto e per lo stomaco qualcuno...ma, dietro ognuno di noi mobbizzati in
azienda, ci sta un posto di lavoro da conservare (come unica fonte di
reddito) ed una famiglia da mantenere. E su queste corpose remore ad una
più spiccia “regolazione dei conti” si basa il gioco sporco dei mobbers,
specie di quelli in posizione gerarchica sovraordinata.
Tornando alla prosa, insistentemente ironica e
derisoria, della difesa dell’IMI (che si affida alla tecnica riassumibile
nel detto “screditate, screditate, qualcosa resterà!”), essa inizia le note
col definire “incredibile” (cioè temeraria, n.d.r.) la controversia;
prosegue nell’affermare che non avevo motivo di lamentarmi se ero ridotto
nelle riunioni con i sindacati – per le cui Relazioni ero stato assunto
come Responsabile sia per pubblica inserzione sul Corriere della Sera sia
per pattuizioni confermative intercorse con i rappresentanti dell’Azienda -
a leggere loro il “comunicato finale” delle determinazioni aziendali
e alla “verbalizzazione” della sostanza dei colloqui (si noti bene,
quale pro-memoria per uso unilaterale aziendale, non certificativo e da
consegnare alle parti!), giacché “si tratta pur sempre di un’attività
impegnativa e delicata”, che un teste ha affermato essere oggi
disimpegnata da una segretaria (tanto per lumeggiarne il livello
qualitativo!), trattandosi semplicemente di prendere appunti sommari. Nulla
conta il fatto dell’essere stato privato del ruolo di interlocuzione
dialettica (e di concorso ausiliario e per competenza specifica alla
formazione delle determinazioni da rassegnare alle RSA), giacché queste
corrette aspettative e pretese di disimpegno dei compiti e del ruolo
pattuito vengono qualificate irridentemente semplici “bramosie”.
Anche la mia (immotivata ed inspiegata, n.d.r.) rimozione dalla
riaffidata (dopo 14 anni e per solo 2 mesi e mezzo!) responsabilità del
“settore gestione del Personale e relazioni sindacali” non costituirebbe
affatto lesione della mia immagine e professionalità, giacché l’IMI mi
collocò poi a staff del responsabile del Servizio del Personale, soluzione
che doveva considerarsi “lusinghiera posizione di staff” (senza,
invero, disimpegnare compito alcuno atteso lo stato di inattività in cui
venni confinato, giustificata, incautamente - da un teste aziendale/capo del
Personale - con l’incompatibilità fra la delicatezza dei compiti che si
svolgono nel Servizio del Personale e la carica sindacale nel frattempo dal
sottoscritto assunta in seno all’Organizzazione sindacal/professionale
Sindirigenticredito - Federdirigenti - Cida).
A questo proposito osservo che se in qualsiasi settore dell’azienda come al Servizio del personale si disimpegnano compiti con imparzialità e correttezza professionale (e non su sollecitazione clientelare o similari impulsi illeciti), non v’è ragione alcuna di non renderne partecipe un funzionario/specialista come il ricorrente, tenuto peraltro al segreto d’ufficio per disposizione dell’ordinamento, riaffermata dal CCNL di settore, sanzionabile con il licenziamento in caso di trasgressione. Chiedo ancora: perché fui rimosso dopo 2 mesi e mezzo dall’incarico e poi perché fui immediatamente emarginato ed estraniato non solo dall’informazione ma dal disimpegno di lavoro (confinato nella più totale inedia di incombenze, per circa 7 anni)? E chiedo, prima di questo,: perché anteriormente l’azienda non rispettò quel principio di civiltà giuridica riassunto nel brocardo “pacta sunt servanda” relativamente al ruolo di assunzione e perché rimase per 14 anni sorda alle mie reiterate richieste scritte, indirizzate a chi aveva il dovere ed i poteri per attivarsi al fine di conferirmelo (e nulla invece fece!)?
Si afferma poi che l’IMI avrebbe fatto “diversi tentativi di recupero del personaggio” (così vengo additato al magistrato!) e qui chi scrive pubblicamente denuncia che consistettero nella risibile offerta di risoluzione del rapporto con l’Ente per un incarico in una consociata di nuova costituzione per effetto della esternalizzazione di spezzoni dei Centri elaborazione dati delle Società del Gruppo, società di dimensioni ed organico modestissimi e talmente precaria da essere posta (come avevo ben presagito) in liquidazione pochi anni dopo (con prepensionamento dei più anziani – io sarei stato uno di loro - e allocazione degli altri dipendenti più giovani in varie sedi e società di scarsa o minore affidabilità ed immagine rispetto alla Capogruppo IMI con cui intercorse, intuitu personae, il mio contratto di lavoro e per la quale lasciai la posizione di dirigente d’industria su Milano).
I testimoni da me escussi (attesa la
difficoltà/impossibilità di reperire colleghi di Servizio disponibili a
testimoniare nel clima omertoso che impantana e difficoltizza queste
vicende, come ha avuto modo di riscontrare e sottolineare Cass. sez. lav. n.
143/2000!), vengono svalutati dalla difesa dell’IMI ad “amici e
sindacalisti” (nell’ottica di insinuare al magistrato la carenza di
imparzialità delle loro affermazioni,
quando invece la loro scelta si è imposta di necessità per la maggior
conoscenza da parte loro, quali interlocutori, della mia vanificazione di
ruolo),
mentre si sottace che quelli aziendali erano costituiti, il primo, da uno
dei miei
peggiori mobber (leggilo in nota alla sentenza linkata, punto
b, e nel comunicato sindacale riportato), e che gli altri due,
dirigenti, rivestivano o avevano rivestito la qualifica di Capi del
personale, in successione temporale [quindi erano istituzionalmente
allineati su posizioni aziendali, di cui uno (dr. Schiavone, ora in Alitalia)
rivelatosi altresì uno spudorato mentitore, tramite affermazioni tanto
contraddittorie quanto da me sbugiardate con produzione documentale accolta
dal magistrato nell’udienza successiva].
Chi scrive si chiede se tutto ciò non
rappresenti oltretutto anche un’offesa all’intelligenza dei magistrati
giudicanti, ipotizzati con le “fette di prosciutto” sugli occhi.
Entrando poi nel merito della Relazione del CTU, la difesa dell’IMI brilla per strumentalizzazione di alcuni “spezzoni” della perizia colti qua e là ed assemblati secondo convenienza e intento teso alla solita affermazione dell’estraneità totale dell’Ente da qualsiasi responsabilità nella determinazione dei disturbi riscontratimi dal CTU (e da egli debitamente sottostimati a fini della quantificazione del danno biologico!). Essi discenderebbero esclusivamente - secondo la difesa del convenuto IMI - dalla personalità del ricorrente, come proverebbe il fatto che a distanza di 5 anni dalla risoluzione del rapporto con l’IMI non hanno subito remissione (e, qui dimenticando, che anche il CTU aveva correttamente detto che si erano oramai cronicizzati!) e come proverebbe ancora la difficoltà ad immaginare che “tale patologia discenda da un sogno infranto…” (quello rivestire i ruoli pattuiti in assunzione, n.d.r.), coltivato da uno “smanioso collaboratore” di cui l’IMI “ha sopportato per tanti anni il malcontento e talune iniziative o comportamenti pure censurabili…”, senza - si noti bene – adottare alcun richiamo o misura disciplinare (se realmente fossero esistiti!). Anzi a tale collaboratore (il sottoscritto!) l’IMI – lo diciamo per lumeggiare l’enormità e l’infondatezza degli addebiti della costruzione difensiva – rilasciava annualmente, per obbligo contrattuale (per lungo tempo dismesso per conservazione dei giudizi del personale interna corporis nelle casseforti dell’Ente), note o giudizi di qualifica del più elevato livello (“globalmente di rilievo: con riferimento alla capacità professionale; buone le attitudini”).
Inoltre vorrei suggerire a tale difesa di completare l’armamentario dei propri improperi per le vittime, inserendovi gli aggettivi che un magistrato – negatore del mobbing ad un ricorrente (disabile, non vedente) che se ne lamentava - gli ha indirizzato nella motivazione della propria decisione: essere persona “ostile, rancorosa e querulomane verso l’amministrazione “ (in ragione delle numerose lettere ad essa rivolte e rimaste, guarda caso, senza risposta). Tradotto per il volgo: un "rompicoglioni" (secondo l'oramai famosa qualificazione dell'ex Ministro dell'interno Scajola rivolta ad un defunto giuslavorista per mano BR)!
3. La prossima udienza - fissata al 12 dicembre 2002 - è stata inopinatamente spostata al 13 marzo 2003.
Roma, 31.12.2003
Per chi non si è stancato, la storia prosegue qui...
(Torna alla Sezione Mobbing)