Le malattie del mobbizzato
Le
malattie del mobbizzato: "Dall'ansia,
all'insonnia, a disturbi dell'apparato digestivo, a dolori ai muscoli e alle
ossa, sino alla disistima che può portare a tentativi di suicidio. Nessun
apparato si salva».
Intervista/1.
Maria Lieti/Taranto
Maria Lieti è una psichiatra, responsabile del "Centro per la Prevenzione Diagnosi e Cura per le malattie da Stress da lavoro" e primario del "Centro Salute Mentale" della Asl di Taranto.
Maria
Lieti è una psichiatra, responsabile del "Centro per la Prevenzione
Diagnosi e Cura per le malattie da Stress da lavoro" e primario del
"Centro Salute Mentale" della Asl di Taranto. Ha seguito nove casi di
giornalisti in stato di stress grave, perché mobbizzati. Nel '99 i giornali
locali di Taranto vissero un periodo di dure riconversioni editoriali che li
portarono ad essere assorbiti in alcuni casi, in altri divennero cooperativa, da
gruppi più grandi, come quello di Caltagirone (è il caso del "Quotidiano
di Lecce") con il conseguente acuirsi della conflittualità tra dipendenti
giornalisti e editori per la garanzia del posto di lavoro. Abbiamo scelto di
raccontare una sola di queste storie e in forma anonima perché ci é sembrata
la più dura e la più emblematica, in quanto appartiene al gradino più basso
della professione, quando cioè il giornalista chiede il riconoscimento del suo
stato e vive in quella terra di nessuno in cui è facile diventare vittima, sia
sul piano professionale che economico, dei datori di lavoro e della malevolenza
colleghi. Del protagonista citiamo solo le iniziali A.D.
Quale
era il problema di A.D.?
«Il
giornalista in questione collaborava con il giornale "Il Corriere del
Giorno" di Taranto da anni e scriveva anche per la prima pagina, oltre a
collaborare con un giornale locale che si chiama "Dialogo", di matrice
cattolica. Ma, dato che non era mai stato riconosciuto come giornalista,
svolgeva contemporaneamente le funzioni di portiere, con il contratto di
correttore di bozze, cioè quello dei poligrafici. Insomma faceva un po' di
tutto e, quando lo chiamavano, lasciava la portineria e faceva l'articolo
richiesto, poi tornava a fare il portiere. Dopo un certo tempo di questo correre
dalla portineria alla scrivania, ha cominciato a stare male: non dormiva e aveva
pensieri intrusivi, cioè pensava ossessivamente al lavoro e infine aveva perso
l'autostima. Più lo chiamavano per fare un lavoro giornalistico e più lui si
sentiva male, perché facendo il portiere si sentiva debole nei confronti dei
colleghi che lo trattavano con disprezzo. Il suo malessere si era così acuito
che era stato costretto a mettersi in malattia. Ma una delle ultime volte, alla
scadenza del certificato medico, si era sentito peggio - aveva timore di
affrontare il giudizio dei colleghi - e voleva rinnovarlo. Stava così male che,
pur essendo venuto da me per avere il certificato, si era dimenticato di
richiedermelo. L'azienda ne approfittò e lo licenziò. Io gli feci un
certificato con una diagnosi più lieve di quella che aveva realmente, indicando
una sindrome ansioso depressiva, solo per farlo riassumere, ma fu respinta.
Allora decisi di fargli una relazione più veritiera con tanto di cartelle
cliniche, dicendo la verità, cioè che aveva un disturbo di depressione grave,
che si chiama sindrome post traumatica da stress, e che si era, per
questo, dimenticato il certificato. Il Tribunale civile di Taranto lo fece
riassumere e fu la prima volta che un tribunale riconobbe il mobbing e il fatto
che, se la malattia la provoca un
datore di lavoro, deve pagare anche se il lavoratore sta a casa per problemi di
salute. Il Tribunale riconobbe il danno e condannò l'azienda a pagargli un
assegno mensile. A.D. aveva anche una famiglia, una moglie e tre figli da
mantenere, la sua malattia gli avrebbe provocato una crisi economica non
indifferente. L'azienda, che nel frattempo era diventata una Cooperativa di
giornalisti, tentò varie volte di avvicinarlo, proponendogli di tornare al
lavoro con il contratto vecchio, ma lui non accettò»
Aveva
bisogno di un riconoscimento morale e materiale per arginare i danni del mobbing.
Vuole descriverci perché lei ritenne che fosse stato mobbizzato?
«I
vecchi dipendenti facevano accordi tra il Comitato di Redazione e il nuovo
editore e decidevano le persone che si dovevano licenziare, ma lo facevano
trattando le questioni nei corridoi, cioè ognuno telefonava al suo santo. I più
raccomandati accettarono di lavorare con minor stipendio, ma mantenendo il posto
di lavoro, e contemporaneamente cercando di emarginare dalla trattativa alcuni.
Si dicevano le cose alle spalle, parlavano male di quelli che avevano deciso di
lasciare a casa, dicendo che non valevano niente. Insomma la contrattazione non
era condotta a livello corretto e reale. Eppure uno di questi mobbizzati
lavorava per l'Ansa e un altro per l'inserto regionale del
Lei
è psichiatra, i danni sul piano della salute quali sono?
«Dall'ansia,
all'insonnia, a disturbi dell'apparato digestivo, a dolori ai muscoli e alle
ossa, sino alla disistima che può portare a tentativi di suicidio. Nessun
apparato si salva».
Ma
se da un lato e fortunatamente il riconoscimento del Tribunale ha fatto
giustizia, dall'altro il giornalista non può più scrivere e, dunque, è
condannato ad essere escluso e lontano dal suo lavoro, cioè dallo scrivere, che
è poi ciò che potrebbe guarirlo. Il
mobbing condanna la sua vittima al male peggiore, a non uscire più dalla
malattia, cioè a non scrivere.
«Ho
pensato anche a questo per il caso di A. D. Come riabilitazione morale ho
chiesto che potesse continuare a scrivere anche per altri giornali. A.D. sta a
casa pagato dall'azienda, ma continua a collaborare con "Dialogo", il
giornale locale. L'azienda del suo giornale, però, ogni due mesi lo licenzia e
io lo faccio riassumere. Il risultato che abbiamo ottenuto è che ora sta molto
meglio, lontano dal lavoro. Ha chiesto di diventare giornalista e su questo ha
una causa in corso, ma non soffre più del disprezzo dei colleghi».
Un
ultimo dubbio. Il problema del mobbing, tra le altre cause diciamo legate ad
interessi aziendali, non sarà da
imputare alla lontana anche ad una debolezza originaria o familiare della
vittima?
«No, assolutamente. Solo in alcuni rari casi, ma direi in una stretta minoranza, osservando tutti i mobbizzati e non solo i giornalisti, c'è un substrato di un mancato riconoscimento da parte dei genitori. In generale non c'è questo. Sfido la persona più forte ad essere trattata come un cretino. Se uno tiene alla sua professione, prima o poi cade in depressione. Certo sarebbe meglio per la sua salute che cambiasse strada. Chi ha avuto una esperienza di questo genere non la potrà mai dimenticarla. È difficile da descrivere cosa si vive in simili situazioni, ma dobbiamo ammettere che chi é stato in un lager vedrà il mondo in un modo diverso dagli altri e per tutta la vita».
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Intevista/2.
Renato Gilioli/Milano
Renato
Gilioli è il neuropsichiatra responsabile del "Centro di Disadattamento
lavorativo della Clinica del Lavoro Luigi Devoto" di Milano, il centro nato
nel '96, il primo in Italia, che ha al suo attivo quattromila casi. I
giornalisti, che sono stati in cura presso questo centro come soggetti colpiti
da mobbing, sono una trentina.
Quali
sono le storie di mobbing che le ha conosciuto legate al mondo giornalistico?
«Il
primo caso che abbiamo avuto era quello di una giornalista con l'incarico di
caporedattore di un periodico. La storia in breve è questa: in redazione arrivò
un collega più giovane e inesperto, fecero amicizia, in senso esclusivamente
professionale, collaboravano insieme bene e con correttezza, sino a quando lui
le rivelò di essere omosessuale. Poi nel giro di un certo periodo la situazione
professionale cambiò in peggio per la donna e in meglio per lui, che fece
carriera. Per lei iniziarono una serie di problemi e, contemporaneamente, il
rapporto con il giovane collega si deteriorò. Mentre lei veniva dequalificata e
accerchiata con azioni moleste e malevole, lui avanzava. I colleghi, che noi
chiamiamo in queste situazioni il coro, presero posizione contro la donna.
Quello che era accaduto e che infine abbiamo saputo, è che c'era stata una
presa di controllo del potere da parte di un gruppo di omosessuali».
Ci
descrive i disturbi di salute dei mobbizzati?
«I
sintomi sono sempre gli stessi. In ordine di tempo prima arrivano i disturbi al
sonno, inizialmente nella qualità, il sonno è agitato e pieno di incubi che
rievocano il lavoro, poi si dorme sempre meno. Segue uno stato di allarme
psicosomatico, mal di testa, male allo stomaco, si riaccendono vecchi disturbi e
questi peggiorano, come per esempio l'asma, la pressione. Se si beve si
aumentano le dosi e così per il fumo, questi sono chiari disturbi del
comportamento. Seguono problemi dell'alimentazione, come l'iperfagia, oppure si
mangia troppo, anche di notte, o si diventa quasi bulimici. O al contrario, si
riduce l'appetito, si diventa svogliati e
si dimagrisce. Accade che si possano perdere o acquistare dieci chili in
poco tempo. L'umore si deprime e si perde la voglia di fare, si diventa apatici.
Un'altro disturbo può essere che non si prova più godimento o piacere per la
vita, si diventa inerti e insensibili a tutto. Si possono avere anche dolori
alle articolazioni che vengono presi per dolori reumatici e sono, invece, osteoarticolari, dovuti alla tensione e allo stress continuo, questi
sono molto difficili da riconoscere come tali».
È
possibile che il non lavorare provochi tutto questo?
«Bisogna
comprendere bene che l'inattività del "lavativo", per usare un
termine semplicistico, è una cosa diversa. Lui sta bene così. Ma l'inattività
forzata diventa patogena. Una persona che di solito svolgeva volentieri il suo
lavoro che improvvisamente o gradualmente si trova esautorata e messa in
condizione di non lavorare, entra in depressione, perché fa questa equazione:
non mi danno da lavorare e, dunque, non valgo niente. È aggiungo che è un
sentimento che incrina l'equilibrio normale ed è difficile da evitare».
Come
si comporta una persona che soffre di queste patologia?
«Ci
sono persone che diventano rabbiose o iperattive, molto irritabili e litigiose,
poi tutto questo sfocia in una depressione».
Quando,
secondo lei, si verificano questi episodi di attacco, in che circostanze?
Casuali oppure no?
«Sovente
c'è in corso un cambio di società e serve un "repulisti", per usare
un termine brutale, perché é arrivata una nuova direzione e si necessita di
mettere da parte qualcuno. Ho curato, tra i giornalisti mobbizzati, anche un
direttore di giornale e il meccanismo è sempre lo stesso, quello di esautorare
nella speranza che una persona se ne vada».
Vuole
spiegarci come vengono catalogati i sintomi?
«In
senso psichico sono stati etichettati dentro due grosse categorie. Prima, i
disturbi da adattamento, seconda, quelli più gravi detti post traumatici da
stress. Quelli definiti dell'adattamento non si riferiscono ad una persona che
è disadattata, come potrebbe far pensare la parola. Il concetto è invece
questo: quando ad una persona si chiede di più, quella persona mette in moto
meccanismi psicofisiologici normali, cerca di lavorare di più. Ma ad un certo
punto non basta e allora la persona non ce la fa più, perché la richiesta si
rivela in realtà troppo alta e mista a uno stillicidio di comportamenti
negativi che durano mesi, alle volte anni, nasce
così una risposta di disadattamento. La persona cerca di farcela, ma poi
non ce la fa, diminuisce il rendimento e la performance. I disturbi traumatici
da stress, invece, sono stati studiati la prima volta in America nei soldati che
avevano combattuto in Vietnam e che si
erano trovati in situazioni di guerra continua, con aerei che mitragliavano,
imboscate. Questi soldati vivevano un tale stress che li portava ad avere
continui flash back, cioè rivivevano tutto, come una ossessione. Questo si
chiama pensiero intrusivo ed è incentrato sulle situazioni già vissute. È uno
stress che non si può controllare, diventa un tratto del comportamento. Si
arriva per lo stesso motivo ad evitare ogni situazione che sia legata al
disturbo, si evita persino il luogo dove il disturbo è nato, perché ogni volta
lo si associa ad uno stato di ansia. Nei giornalisti ho rilevato molti di questi
disturbi della prima serie, ma anche qualcuno del secondo. Il vissuto di essere
emarginati dal lavoro, se dura anni, diventa una perdita di status, di ruolo, che
sotto il profilo psicologico é pesante e fa, talvolta, vivere il mobber come un
carnefice».
Alle volte nello stesso ufficio i
mobber, gli attori del mobbing, sono più di uno, così anche i mobbizzati.
«Certo,
quando ci sono situazioni di modifiche societarie ed economiche, come accade
sovente nelle banche o negli ospedali, ma anche nei giornali. Le grandi
trasformazioni che abbiamo avuto nell'ultimo decennio hanno portato alla
necessità di riduzione drastica di persone. Mi è capitato di seguire dei
giornalisti mobbizzati in un giornale che stava fallendo. Il giornale in effetti
ha chiuso, ma lì dentro abbiamo registrato una situazione di mobbing
generalizzato. Che il mobbing sia un mezzo per eliminare le persone è un dato
di fatto, già riconosciuto nel corso di un grande convegno organizzato dalla
Federazione della Stampa due anni fa».
Come
si può curare un giornalista in depressione da mobbing, premesso che ne sia
consapevole?
«È
un problema serio e le cure sono dei palliativi: si usano dei farmaci per la
depressione qualche colloquio
psicologico, almeno finché la situazione non si risolve, il che è l'unica
vera cura per la guarigione. Alcuni intraprendono
azioni legali e chiedono il risarcimento del danno oppure il reintegro nelle
mansioni. Il mobbing che dura anni è una malattia professionale: l'Inail lo
riconosce come tale. Mobbing significa danno alla professionalità e alla
salute. Una persona sottoposta a questo stress diventa confusa, non capisce
perché non viene invitata alle riunioni, emarginata dalle scelte operative,
tolti gli strumenti di lavoro, le informazioni di servizio alle volte in un modo
brutale per la dignità della persona. Eppure, sino a poco prima, era in
carriera. Il cambiamento è repentino e immotivato, almeno apparentemente».
Un
cammino lungo, quello del vostro Centro, dentro una sofferenza provocata da
cause non facilmente identificabili.
«All'inizio
ci dicevano che era una nostra fantasia, ma dal '96 abbiamo visto i casi di
quattromila persone».
Nella
definizione che lei ha scelto, quella della Francia, c'è il termine molestie
morali ripetute. Ci spieghi.
«Si
intendono molestie psicologiche, cioè non fisiche o sessuali. Esautorare una
persona e metterla ai margini significa incidere sul suo stato morale. Nei casi
più gravi si può arrivare al suicidio, cosa che gli svedesi sostengono con
durezza. Noi ne abbiamo avuto uno solo, per fortuna».
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Intervista/3.
Luciano Pastore/Roma
Luciano
Pastore è lo psicologo responsabile dell'"Area Interdipartimentale di
Psicosomatica e Psicologia Ospedaliera del Centro Clinico per il Mobbing e il
disagio lavorativo" della Asl di Roma.
«I
giornalisti mobbizzati che sono venuti da noi presentano caratteristiche simili
ai dirigenti d'azienda», a parlare è Luciano Pastore, lo psicologo
responsabile dell'"Area Interdipartimentale di Psicosomatica e Psicologia
Ospedaliera del Centro Clinico per il Mobbing e il disagio lavorativo",
della Asl di Roma.
Cosa
significa questa somiglianza?
«Vengono
mobbizzati nei modi tipici della marginalizzazione dal lavoro. Di solito sono
professionisti che non si adeguano alla linea redazionale, naturalmente bisogna
poi vedere caso per caso. Alle volte il malessere è imputabile allo stesso
giornalista che vive il giornale come una cosa sua; altre volte invece è una
legittima ribellione per chi non riesce più a trovare un equilibrio nel lavoro,
perché la linea del giornale è stata stravolta. Quando si tratta di
questo ultimo caso, lo si capisce dal fatto che, da un punto di vista
clinico, psicologico, si tratta di persone pacate ma decise, che non si sono
adeguate ad essere esecutori passivi, di una linea che non gli appartiene».
Chi
sono i giornalisti che avete avuto in cura?
«Giornalisti
di grandi testate, che sono venuti da noi di loro iniziativa spinti dalla
sofferenza. Dobbiamo però notare che i giornalisti di solito non sanno stare
fermi, sono irrequieti, hanno un fondo di stato depressivo e ansioso che però
fa parte del loro personaggio. Quando vengono attaccati entrano in una
depressione più chiara e subiscono un abbassamento consapevole dell'autostima e
cominciano ad avere problemi emozionali e anche fisici».
Quali
sono le patologie del mobbizzato?
«Problemi
cardiovascolari, all'apparato digerente, alla sfera sessuale, depressione,
ipertensione arteriosa fino all'infarto, e anche problemi osteomuscolari.
Sovente intervengono anche problemi relazionali, perché il mobbizzato diventa
un capro espiatorio, si trova a disagio nel gruppo, lo rimproverano senza
motivo, lo escludono dai giochi, gli danno i lavori più umili, i pezzi più
appetibili li danno agli altri».».
E
arriva la depressione.
«La
depressione è un fatto che coinvolge tutti i mobbizzati e un fatto relativo al
crollo dell'immagine sociale. Per il giornalista la firma è molto importante e
anche l'immagine. Tanto più oggi che socialmente parlando la prima domanda che
si fa a una persona è che lavoro fai e quanto guadagni. Viviamo in un'epoca che
spinge tutti a riconoscersi molto nel lavoro. Quando avviene un corto circuito,
viene meno anche l'identità e crolla l'immagine. Purtroppo ci si fa notare più
con un comportamento aggressivo e alle volte anche maleducato che normale. La
televisione in questo ha fatto scuola».
Quanti
malati avete in cura?
«Al
momento abbiamo mille cartelle cliniche aperte. Ma, per correttezza, devo
precisare che la metà di coloro che vengono da noi, una metà ha intenzioni
rivendicative e non vuole essere aiutato. Solo l'altra metà é disperata, ha
problemi psicofisici e chiede aiuto».
(fonte: www.diritto.it) - aprile 2004
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