Mobbing: “Cattiveria di Branco”

 

“Indubbiamente cattivo è colui che, abusando del proprio ruolo di potere e prestigio, commette ingiustizie e violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo, acconsente a che l’ingiustizia venga commessa”. Così descriveva Einstein una delle forme di “cattiveria umana” più conosciuta e radicata nel tempo: l’abuso della posizione di potere di un soggetto nei confronti di un altro.

 

IL MOBBING

 

1. Mobbing: “Cattiveria di branco”: Risol.2001/2339 Parlamento Europeo e circ. 71/2003 INAIL. - 2. Verso una definizione legislativa di Mobbing: sentenza della Corte cost. n°359/2003 e L.R. Lazio n°16/2002. - 3. Elementi costitutivi del Mobbing. - 4.Fasi di sviluppo del fenomeno quadro clinico delle patologie ricollegabili al mobbing. - 5. Corte costituzionale, sentenza 113/2004: incostituzionalità dell’art. 2751 bis. Responsabilità contrattuale del datore per danno da mobbing? - 6. Tipologie di Mobbing. Conclusioni

 

1.Mobbing: “Cattiveria di Branco”: Risoluzione 2001/2339 Parlamento Europeo e circ. 71/2003 INAIL.

“Indubbiamente cattivo è colui che, abusando del proprio ruolo di potere e prestigio, commette ingiustizie e violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo, acconsente a che l’ingiustizia venga commessa”. Così descriveva Einstein una delle forme di “cattiveria umana” più conosciuta e radicata nel tempo: l’abuso della posizione di potere di un soggetto nei confronti di un altro.

Che sia vero o meno, per alcuni autori gli uomini moderni prima ed i contemporanei dopo, hanno ereditato dagli antenati il senso della schiavitù, da un lato, e quello del servilismo dall’altro. La seconda forma degenera nella sopportazione passiva e masochistica, oltre che nell’omertà; la prima diviene abuso di potere e tra le tante forme: mobbing.

Nel regno animale alcune specie hanno sviluppano una forma di aggressione in gruppo, efficace nei confronti dell’antagonista naturalmente e fisiologicamente più forte: la sconfitta sicura derivante dal corpo a corpo è evasa attraverso l’aggressione dell’orda che, determina la soccombenza dell’aggredito.

Di tale concetto si rende idea con il vocabolo inglese “to Mob”, che, tradotto in maniera più attendibile, vuol dire assalire/aggredire in gruppo. Ad esso risale l’etimologia della parola mobbing, un fenomeno in cui un’associazione di soggetti “aggredisce in branco” un individuo al fine di destabilizzarne l’equilibrio e cagionargli un pregiudizio concreto ed effettivo.

Ricollegandosi alla citazione iniziale, esso rappresenta una “cattiveria di branco”, che, a dire il vero, non è certo un fenomeno contemporaneo e non appartiene solo ad una branca delle attività umane.

La sociologia, la filosofia e le scienze umane in generale, hanno riposto particolare attenzione ai rapporti dei consociati nell’ambito di un contesto sociale storicamente individuato e, non rare volte, si è arrivati alla conclusione che homo homini lupus: l’individuo, in buona sostanza, sarebbe portato, per sua natura, a delinquere nei confronti del suo simile, e, pertanto, il gesto delittuoso sarebbe semplicemente un “gesto umano”, ovvero, “un atto naturalmente insito nella specie umana”.

Al di là delle infinite diatribe al riguardo, il mobbing, oltre il nomen juris, è un fenomeno che da sempre si sviluppa nei più disparati contesti sociali: si pensi ad esempio al “nonnismo”, piaga dei contesti militari; si pensi ancora all’emarginazione scolastica a danno dei soggetti più diversi e così ancora ai soprusi dell’individuo debole nei contesti familiari parentali.

Sulla rilevanza del fenomeno basti considerare le cifre: nel 2000 un lavoratore su dieci e stato vittima di mobbing; nel 2001, l’8% dei lavoratori dell’Unione Europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima del fenomeno sul posto di lavoro.

Ciò detto, quindi, stupisce che il “mobbing” sia stato riconosciuto relativamente tardi dal diritto e dal diritto del lavoro in particolare.

In realtà, la quaestio è più che altro formale.

Sostanzialmente, infatti, una tutela contro le persecuzioni individuali, contro l’abuso dei poteri gerarchicamente attribuiti e contro comportamenti pregiudizievoli dell’individuo – lavoratore, non è stata certo assente: il revirement, infatti, riguarda la ricostruzione in termini giuridici di un unico fenomeno comprendente diversi comportamenti, diversi soggetti e diversi effetti, che, prima, potevano essere disciplinati in modo del tutto separato ed adesso, possono essere ricondotti alla medesima fonte causale.

Il mobbing, infatti, costituisce, innanzitutto, una causa di un evento che produce effetti giuridici.

Secondo la tradizionali bipartizione, il rapporto causa – evento sarà regolato dalle norme di cui agli artt. 40 – 41 del C.P. , ed il rapporto evento – effetti, dall’art. 2056 c.c. o dall’art. 1218 c.c. e segg. a seconda che si tratti di responsabilità ex contractu o responsabilità aquiliana.

Tanto premesso, il problema principale che si pone è innanzitutto definire in termini giuridici il mobbing in quanto il suo riconoscimento può dirsi ormai del tutto pacifico.

Innanzitutto è il caso di ricordare la risoluzione A5-0283/2001 assunta dal Parlamento Europeo in data 20/09/2001, in cui si dava atto della diffusione del fenomeno è si invitavano gli Stati membri a porvi rimedio attraverso metodi interni ritenuti opportuni.

Secondariamente è il caso di citare la circolare n. 71 del 17/12/2003 assunta dall’Inail in relazione al fenomeno del Mobbing, un documento ufficiale ed importante anche ai fini della valutazione medico legale dell’illecito di cui si tratta.

La circolare parla di “costrittività organizzative” come produttive di disturbi psichici ed individua trai comportamenti mobbizzanti: marginalizzazione dell’attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, ripetuti trasferimenti ingiustificati, esercizio esasperato di forme di controllo, esclusione reiterata rispetto ad iniziative formative, ecc...

In buona sostanza viene definito un iter diagnostico della malattia professionale da costrittività organizzativa che, a ben vedere, appare essere una prima definizione di mobbing a livello medico legale.

Rilevante al riguardo l’allegato 1 alla circ. 71/2003 che cita espressamente il mobbing ed individua i principali quadri morbosi psichici e psicosomatici.

 

2. Verso una definizione legislativa di Mobbing: sentenza della Corte cost. n°359/2003 e L.R. Lazio n°16/2002

Una definizione legislativa di mobbing, nel nostro ordinamento, ancora non esiste.

Nella XIV legislatura sono stati presentati ben 14 progetti di legge sul mobbing, (9 al Senato e 5 alla Camera), i quali, ovviamente, innanzitutto, propongono una definizione normativa del fenomeno.

Ciò premesso, in definitiva, la concreta individuazione del mobbing è di volta in volta rimessa al sindacato del Giudice che, in assenza i tipizzazione normativa, diventa un giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità laddove congruamente e logicamente motivato.

A dire il vero, può dirsi consolidata una definizione giurisprudenziale, ad opera soprattutto della Corti di merito, le quali definiscono il il c.d. mobbing come “una pluralità dì comportamenti, che si inseriscono in una precisa strategia persecutoria, posti in essere dal datore di lavoro per isolare, fisicamente e psicologicamente, il lavoratore” (Trib. Tempio Pausania, 10/07/2003).

In altre pronunce, cambiano le sfumature ma resta centrale il concetto: “si è in presenza di un comportamento qualificabile come mobbing quando le vessazioni psicologiche inflitte alla vittima nell'ambiente di lavoro siano idonee a ledere i beni della persona (quali la salute e la dignità umana) e siano attuate in modo duraturo e reiterato,(Trib. Milano, 28/02/2003).

A dire il vero, il problema si sposta dalla definizione, momento puramente formale, agli elementi costitutivi ed identificativi, momento di applicazione del diritto.

“I caratteri identificativi del fenomeno mobbing - quali concordemente individuati nei vari ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno - sono rappresentati da una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una ratio unificatrice nell'intento di isolare, di emarginare, e fors'anche di espellere, la vittima dall'ambiente di lavoro. Si tratta, quindi, di un processo, o meglio di una escalation, di azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato (Trib. Torino, 28/01/2003).

La sentenza esprime, in linea di massima, l’idea giurisprudenziale consolidata circa la verifica in concreto della sussistenza di una vicenda qualificabile come Mobbing.

Innanzitutto, al di là della questione centrale, è indispensabile che venga individuata almeno una figura di cd. “mobber” , ovvero il soggetto che pone in essere la condotta mobbizzante.

Sugli altri elementi, in verità è polemica aperta, e si attende un intervento legislativo.

Intervento che, ad essere sinceri, è avvenuto, ma su base regionale.

La legge regionale del Lazio n°16 del 2002, (Pubblicata nel B.U. Lazio 30 luglio 2002, n. 21, S.O. n. 3), infatti, ha introdotto disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi di lavoro.

All’art. 2 la suddetta legge ha introdotto una nozione del fenomeno, la prima in Italia: “ per "mobbing" s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”.

Lo stesso articolo ha anche tipizzato i comportamenti che possono integrare gli estremi del mobbing, ovvero: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione

La vita della L.R. 16/2002 è stata breve: la Corte costituzionale, con sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 359, (Gazz. Uff. 24 dicembre 2003, n. 51, prima serie speciale), ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in quanto “deve ritenersi precluso alle Regioni la possibilità di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, con norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali. La legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16, contenendo nell'art. 2 una definizione generale del fenomeno "mobbing" che costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, è evidentemente viziata da illegittimità costituzionale. Siffatta illegittimità si riverbera, dalla citata norma definitoria, sull'intero testo legislativo”.

Una considerazione è evidente: la materia del Mobbing rientra in quelle di potestà normativa concorrente.

Una seconda implicita: il mobbing ha l’avvallo della Corte costituzionale.

Il precedente della Regione Lazio ha, tuttavia, un valore non indifferente, perché, a ben vedere, recepisce la definizione giurisprudenziale del fenomeno, senza modificarne sostanzialmente la struttura.

Anche in dottrina i vari autori hanno auspicato definizioni descrittive più o meno attendibili: il problema essenziale è non dilatare troppo l’ambito applicativo e nel contempo non ridurlo eccessivamente.

Una interessante ricostruzione di un autore ne sottolinea il disvalore sociale e ne evidenzia la gravità degli effetti sulla persona:“il mobbing è una vessazione premeditata, continuata e finalizzata: “un linciaggio psicologico”, un’intenzionale manifestazione di ostilità. Il mobbing è una guerra combattuta soprattutto sul piano psicologico e strategico, di solito sul posto di lavoro. Il mobbing è una guerra senza quartiere, con vincitori e vinti, con danni morali e materiali”.

L’autore condivide l’accezione di mobbing come terrorismo psicologico sul posto di lavoro” e, al di là di teoremi efficaci, ne mette in rilievo la circostanza per cui si sviluppi nell’ambiente più importante dell’uomo dal punto di vista sociale: quello lavorativo, (da cui discende anche il benessere familiare).

Altri, invece, accolgono una definizione più medico – legale, preoccupandosi più del fenomeno stesso che dei suoi effetti – conseguenze: “il “mobbing” può definirsi come «un’attività persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) e mirante ad indurre il destinatario della stessa a rinunciare volontariamente ad un incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro».

Altri ancora scelgono la nozione adottata in sociologia del lavoro e quindi il mobbing diviene “la condizione di stress intenzionalmente provocata dal leader o dai suoi pretoriani, ovunque vi sia una gerarchia, naturale o imposta.. Il mobber collassa la vittima per espellerla”.

La nozione si ricollega agli studi psicologici sul fenomeno che, spesso, parlano dell’effetto conosciuto come “sviluppo paranoicale” nel soggetto mobbizzato: ama e odia il suo posto di lavoro fino a divenire instabile, improduttivo e, quindi, al limite tra licenziamento e dimissioni.

Si sottolinea, anche, come il mobbizzato tenda a “derealizzare” , come conseguenza diretta dello stato di derisione e persecuzione. Ma sono solo aspetti singolari che non coprono l’intero ventaglio di conseguenze sul soggetto: in primis, la patologia.

Ed in relazione agli effetti negativi notevoli del mobbing, un autore ne parla in termini di denuncia quando sostiene che esso “è una piaga sociale conseguenza dell’esasperata competizione tra gli individui incentivata dal sistema socio/economico e dal mito dell’autoritarismo ed efficientismo di successo”.

Ciò detto, rilevato quanto sia importante definire il fenomeno attraverso una tecnica normativa adeguata, si può ricercare quali siano gli elementi costitutivi del fenomeno, anche sulla base della giurisprudenza al riguardo ma è opportuno rilevare quale sia stata la definizione adottata dall’Inail ai fini dell’inquadramento della malattia professionale con la circolare citata, (n°71/2001): “mobbing strategico è ricollegabile a quell’insieme di azioni poste in essere nell’ambiente di lavoro con lo scopo di allontanare o emarginare il lavoratore e riconducibile a quegli elementi di costrittività organizzativa..”.

Una definizione che, a ben vedere, differisce in parte da quella giurisprudenziale data in quanto, scompare il requisito della ripetitività del comportamento e compare quello specifico del fine perseguito.

 

3.Elementi costitutivi del Mobbing

Al di là delle ricostruzioni date dai diversi autori e dalle diverse scienze intervenute, ai fini giuridici la nozione non può discostarsi da parametri certi, univoci e logici, che consentano, soprattutto, una adeguata disciplina processuale per quanto concerne gli oneri probatori: la tutela, altrimenti, diverrebbe priva del requisito costituzionale dell’effettività.

I) ATTIVITA’ PERSECUTORIA REITERATA NEL TEMPO. L’elemento oggettivo del mobbing è da ricercare in tutti quegli atti e quei comportamenti diretti a ledere la situazione giuridica soggettiva della vittima. Si tratta, pertanto, di una vera e propria attività illecita finalizzata che, tuttavia, non necessita della qualificazione in termini di fine. L’atto posto in essere, cioè, non deve essere teleologicamente orientato al fine ultimo, (l’espulsione del soggetto dal contesto lavorativo), ma è sufficiente che sia finalizzato alla persecuzione rebus sic stantibus.

L’atto singolo, cioè, deve essere, per quanto concerne la ricezione da parte della vittima, pregiudizievole, persecutorio, offensivo; per quanto concerne gli effetti nel quadro complesso, in quadrabile nella vicenda globale.

A titolo di esempio, è riconducibile al fenomeno del mobbing lo scherno provocatorio del collega in ufficio; non lo è, invece, la lite che lo stesso può avere con la vittima fuori dal lavoro per ragioni inerenti un condominio.

L’attività considerata, inoltre, deve essere reiterata nel tempo.

Secondo alcuni testi esiste mobbing se c’è almeno un “attacco” alla settimana per almeno 6 mesi. La tesi è riduttiva.

Secondo il principio cardinale di “personalizzazione del danno” vigente a livello costituzionale, (da ultimo attuato con la legge 57/2001 in materia infortunistica e riconosciuto dalla Cassazione, da ultimo con le note sentenze 8827 ed 8828 del 2003), una situazione deve essere differenziata ragionevolmente, (art.3 cost.), in ragione della persona stessa.

Dire che sono necessari almeno sei mesi per un caso di mobbing è violare questo principio: pertanto, sarà di volta in volta il Giudice a verificare, in base all’individuo vittima, il tempo sufficiente a generare nello stesso gli effetti da Mobbing.

Un minimo, ovviamente, è configurabile per esigenze oggettive: nel senso che un criterio oggettivo è applicabile ad ogni soggetto.

Convincente chi parla in termini di ore sul luogo del lavoro e mansioni prestate: cosicché sarebbe sufficiente anche un periodo lavorativo trimestrale di prova.

In linea con quanto affermato circa il requisito temporale, sembra essere la giurisprudenza che parla in generale di “ripetuti comportamenti” senza osare indicarne il limite minimo temporale: “è configurabile il "mobbing" in azienda nell'ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori, volti ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacità lavorativa e dell'integrità psichica”, (Trib. Torino, 11/12/1999).

La durata, pertanto, dipenderà anche dall’intensità del mobbing, “dalla forza dell’autore del mobbing e dal grado di resistenza della vittima”.

E’ indifferente la natura dell’attività persecutoria, (sia fisica o psicologica, verbale o gestuale).

II) STRUTTURA LAVORATIVA GERARCHICA

Inevitabilmente in tanto si può parlare i mobbing in quanto sussista una struttura gerarchicamente organizzata, in cui, quindi, è inquadrabile e può attecchire il fenomeno che, non bisogna dimenticarlo, è un fenomeno di abuso di posizioni qualificate, seppur in termini di genericità.

Sarà allora mobbing non solo quello effettuato direttamente dal datore di lavoro ma anche quello che da questi è tollerato o, addirittura, subito, (si vedranno più avanti le possibili tipologie di mobbing).

Necessario, quindi, il luogo di lavoro e la struttura, seppur non necessariamente in termini formali e rigorosi: è sufficiente che sussista l’elemento citato, di fatto ma, il criterio sfuma o si irrigidisce a seconda delle interpretazioni date al fenomeno.

Per alcuni, in verità, si potrebbe parlare di mobbing solo in un contesto lavorativo organizzato e complesso: sarebbe questo apparato, infatti, a funzionare da amplificatore degli effetti rendendoli mobbizzanti.

L’aggressione di un collega all’altro, dove sono solo due colleghi, non può mobbizzare; il richiamo verbale del datore di fronte agli altri sedici colleghi, invece, è decisamente mobbizzante.

Il criterio della ripetitività della condotta, infatti, servirebbe a sviluppare il fenomeno che, tuttavia, in tanto potrebbe svilupparsi in quanto il contesto lo consente.

Probabilmente non bisogna, sedotti dalle nuove figure giuridiche e sociali, dimenticare i precedenti istituti giuridici che, tutt’altro che insufficienti, in determinati casi sono assolutamente i più congrui.

Non tutto, quindi, è mobbing.

Un’offesa ad alta voce potrebbe essere solo un’ingiuria, sanzionata a livello penale; una lite tra colleghi, una condotta censurabile disciplinarmente.

Un caso è discutibile in tal senso: “Costituisce causa di addebito della separazione il comportamento del marito che assuma in pubblico atteggiamenti di "mobbing" nei confronti della moglie, ingiuriandola e denigrandola, offendendola sul piano estetico, svalutandola come moglie e come madre”, (App. Torino, 21/02/2000).

Il dubbio, in questa circostanza, è se la pubblica offesa sia da sola idonea a costituire mobbing o se, al contrario, sia necessario anche il requisito dell’approvazione di chi assisteva, (attiva o passiva), l’elemento finale dell’emarginazione della lavoratrice, la sua percezione al riguardo.

To mob, infatti, si ricorda, vuol dire “aggredire” ma “in branco”.

Critica, in tal senso, una pronuncia polemica: “il fatto che il "mobbing" sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi l'esistenza e ne dimostri la potenzialità lesiva”.

Nella specie il tribunale ha stabilito che l'assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all'interno di un'organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano escludesse che i comportamenti lamentati potessero essere considerati dolosi. “Solo tale carattere potrebbe rendere risarcibile un danno che - secondo esperienza comune - è davvero imprevedibile (art. 1225 c.c.) sia con riferimento all'oggettività dei fatti ritenuti lesivi, sia alla reattività del soggetto cui sono rivolti), (Trib. Milano, 20/05/2000).

III) ELEMENTO SOGGETTIVO. Ai fini del Mobbing si discute circa la tipologia di responsabilità e, quindi, l’elemento soggettivo. Come illecito extracontrattuale richiederebbe il minimo della colpa; connesso, tuttavia, ad una ricostruzione sul rischio, l’aumento dello stesso. Per altri, infine, sarebbe indifferente il dolo del datore ma rilevante solo il danno sul lavoratore, (responsabilità oggettiva o quasi).

Probabilmente la prospettiva è quella già enunciata: non è necessaria una consapevolezza del mobbing in capo ai mobbers, ma è sufficiente la intenzione e coscienza del singolo atto.

IV) NESSO EZIOLOGICO E DANNO. Secondo gli ordinari criteri, il danno prodotto dovrà essere eziologicamente riconducibile all’attività persecutoria, oltre che allegato, qualificato e non meramente enunciato.

La giurisprudenza della Suprema Corte, al riguardo, non è copiosa. In una pronuncia importante, tuttavia, si da atto della configurabilità del mobbing quale sopruso del datore sul dipendente, in termini di illecito risarcibile.

“È configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall'art. 2087 del codice civile. Tale profilo, (è) riconducibile al fenomeno del mobbing”, (Cass. civ., Sez.lav., 08/11/2002, n.15749).

Di certo il fenomeno è riconosciuto anche dalla Suprema Corte che con una sentenza recentissima, si è pronunciata a Sezioni Unite sul problema della giurisdizione del mobbizzato nell’ambito della P.A. , (sentenza Cass. SS.UU. 8438/2004), incidentalmente trattando della natura della responsabilità connessa, nel caso in esame, giudicata contrattuale.

 

4. Fasi di Sviluppo del fenomeno e quadro clinico delle patologie ricollegabili al mobbing

Il fenomeno del Mobbing è ricostruito e studiato come un’ipotetica struttura biologica con le sue fasi di sviluppo. Queste, ai fini pratici, consentono di verificare la effettiva sussistenza dello stesso e la qualità e quantità dei danni derivati.

Ma le fasi sono discusse.

Tradizionalmente se ne individuano quattro:

I) fase dei segni premonitori: il soggetto si trova in condizione di visibilità che attira l’antipatia e l’attenzione dei colleghi o viceversa del datore, (può essere un qualsiasi motivo: aspetto estetico, doti lavorative, religione o etnia)

2) stigmatizzazione: il lavoratore viene isolato poco alla volta e diviene alieno rispetto agli altri

3) ufficialità: il soggetto mobbizzato diventa argomento “pubblico” nel posto di lavoro così come ogni suo aspetto anche personale

4) allontanamento: il mobbizzato viene licenziato perché inadempiente ovvero si dimette in modo costretto.

Per altra dottrina, invece, le fasi sarebbero sei: prima ancora della visibilità ci sarebbe una fase di “conflitto mirato” prima dell’allontanamento la comparsa dei primi sintomi di aggravamento della salute psico – fisica.

In realtà, concretamente, le fasi non rilevano per il numero effettivo ma per identificare lo sviluppo / avanzamento del mobbing e, quindi, l’incidenza sul soggetto e la quantificazione approssimativa del danno.

Ciò detto quanto residua è pura dissertazione.

Interessante, invece, la cd. fase dell’emersione dei sintomi patologici, espressamente disciplinata dalla circ. Inail si cui si è detto. E’ utile, infatti, per il Giudice avere un quadro delle patologie riconducibili al fenomeno del Mobbing che ben potranno essere indicatore ed indizi della sua presenza o del suo essersi portato a termine.

Si tratta di:

sindrome da disadattamento

sindrome traumatica da stress

entrambe correlate allo stress subito dal lavoratore ed associabili ad una reazione depressiva con disturbo di altri aspetti emozionali, con umore depresso, ansia ed alterazione della condotta.

 

5. Corte costituzionale, sentenza 113/2004: incostituzionalità dell’art. 2751 bis. Responsabilità contrattuale del datore per danno da mobbing?

Avendo definito il mobbing, attraverso una sintetica analisi di pronunce giurisprudenziali, dottrine intervenute e diverse altre autorità, è il caso di rilevare come il fenomeno sia ufficialmente “entrato nella giurisprudenza costituzionale”, per alcuni autori”, definitivamente con la recente sentenza 113 del 2004.

Con questa pronuncia la Corte ha stabilito che è incostituzionale l'art. 2751-bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”.

In particolare, si legge che “nell'elaborazione dei giudici ordinari è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica. L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione - situazioni in cui si risolve la violazione dell'articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) - può comportare pertanto, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la violazione dell'art. 2087 cod. civ.”.

La sentenza, quindi, al di là della quaestio specifica ha un valore non indifferente in quanto sembra risolvere l querelle circa la tipologia di responsabilità civile derivante da mobbing.

Un obbligo precisare che è esclusa la responsabilità penale specifica in relazione all’abuso:”il c.d. "mobbing" non è di per sè sufficiente ad integrare gli estremi del delitto di abuso di ufficio, dovendo in ogni caso ricorrere gli elementi tipici del reato”, (Uff. indagini preliminari Trib. Palermo, 06/06/2001).

Indubbia invece la responsabilità civile, ma controversa la natura.

Per alcuni autori, il datore risponde di mobbing ad opera sua o dei suoi dipendenti per effetto della clausola generale di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. che tutelando la salute del prestatore d’opera comprende anche le lesioni derivanti dal mobbing.

Per altri, invece, si tratterebbe di responsabilità extracontrattuale, in quanto il datore o il collega del dipendente mobbizzato, rispondono per il neminem laedere al di là degli obblighi contrattuali trattandosi di condotte atipiche.

Il problema, di fatto, è risolto dalla Corte costituzionale indirettamente, laddove, in caso di violazione di obblighi specifici o riconducibili all’art. 2087 c.c. , il mobbing determina responsabilità contrattuale.

In caso di danno prodotto dai colleghi, allora il datore risponderà ex art. 1229 c.c., ovvero per fatto degli ausiliari, (cui è speculare, in via extracontrattuale l’art. 2049 c.c.).

Probabilmente l’ipotesi di responsabilità aquiliana è da rigettare, in quanto le presunte condotte atipiche sono tutte tipizzabili attraverso l’art. 2087 c.c. che è riconosciuta quel clausola generale di sicurezza.

Sempre all’art. 2087 c.c. collegava l’illecito il precedente Cass. civ., Sez.lav., 08/11/2002, n.15749, e così anche appare quello ex Cass. civ., Sez.lav., 02/05/2000, n.5491, (ma diversamente sembrerebbe Cons. Stato, Sez.V, 06/12/2000, n.6311).

La soluzione della natura contrattuale della responsabilità sembra la più attendibile secondo un ragionamento logico che porta a ritenere difficile un’ipotesi ex art. 2043 c.c. allorché si sta svolgendo un rapporto di lavoro: non solo, procedendo verso una tipizzazione delle condotte che determinano mobbing, sembrerebbe difficili una conciliazione con l’atipicità della responsabilità aquiliana, mentre, invece, risulta pienamente compatibile l’art. 2087 c.c.

Danno risarcibile, comunque, potrà essere quello economico ex art. 2043 c.c. ed anche quello morale ed esistenziale ex art. 2059 c.c. : il primo risarcibile in presenza astratta di reato il secondo senza la preclusione di all’art. 185 c.p.

Per il danno biologico, questo dovrà essere provato, allegato e dovrà essere altresì dimostrato il nesso eziologico tra l’attività di mobbing e gli effetti, secondo il criterio di regolarità causale.

In particolare, a seguito dell’intervento della Corte di Cassazione con le celebri sentenze 8827 ed 8828 del 2003, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale 233/2003 e della recente Cass. Pen. 2050/2004, (cd. caso Barillà), il danno biologico sarà risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. e non ex art. 2043 c.c. (storico revirement giurisprudenziale).

 

6. Tipologie di mobbing. Conclusioni

Dopo aver delineato in modo sintetico il fenomeno del mobbing, in maniera altrettanto sintetica, è il caso di porre l’attenzione sulle possibili tipologie di mobbing in concreto verificabili.

Mobbing ascendente: quello predisposto dai dipendenti contro il proprio responsabile, di solito non il datore, ma il soggetto da questi predisposto;

Mobbing verticale: posto in essere dal datore verso il subordinato

Mobbing orizzontale: esercitato dai colleghi verso il soggetto individuale.

Secondo taluni potrebbe anche ravvisarsi una ipotesi di mobbing atipico, laddove le condotte mobbizzanti siano poste in essere in un contesto associativo differente da quello lavorativo, (famiglia, scuola, ecc..).

Il fenomeno, quindi, ha diverse possibili configurazioni e tutte, comunque, ascrivibili di responsabilità civile.

E’ da condividere chi sostiene che il diritto è innanzitutto scienza umana e come essa si adegua e si evolve in ragione dei mutamenti delle persone e degli assetti sociali.

Certo, nel caso in esame, non può che parlarsi di regresso, in quanto un fenomeno come il mobbing ha raggiunto valori così allarmanti da indurre il legislatore a progettare una misura ad hoc per la sua disciplina.

Alcuni, infine, invocano anche una tutela in sede penale.

Al di là della caoticità delle interpretazioni e delle teorie, il mobbing rimane un illecito nei confronti del lavoratore che, sul posto di lavoro si vede violato in una delle posizioni soggettive tutelate a livello costituzionale: il danno, inoltre, è considerevole e sofferto.

In attesa di una definizione legislativa, è dato ai giudici il compito di essere recettori delle esigenze neonate, attraverso un opportuno rigore giuridico, richiesto per evitare ingiustizie formali, ma anche una necessaria sensibilità umana laddove in gioco sono le persone e non le leggi.

Giuseppe Buffone – ricercatore/dottorando

(fonte: www.altalex.com) 21.5.2005

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